Mansioni, demansionamenti, trasferimenti e mobbing
 
CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Nona Commissione - Tirocinio e Formazione Professionale
Incontro di studi sul tema:

Controversie di lavoro ed onere della prova
Roma, 25-27 giugno 2007

MARIA CASOLA

     Mansioni, demansionamenti, trasferimenti e mobbing

   Sommario

 
Premessa
 
1. La necessaria ricerca di regole generali
1.1 Essenza comune: l’inadempimento (esclusivamente) contrattuale del datore – 1.2 Conseguenze della natura contrattuale della responsabilità – 1.3 L’importanza degli atti introduttivi – 1.4 Insufficienza assertiva: conseguenze
 
2. Il demansionamento
2.1 Il lavoro privato - 2.2 Demansionamenti leciti - 2.3 Il ruolo della contrattazione collettiva - 2.4 Il pubblico impiego - 2.5 Gli oneri probatori - 2.6 La tutela in forma specifica
 
3. La promozione automatica
3.1 Il lavoro privato - 3.2 Oneri della prova - 3.3 Il pubblico impiego - 3.4 Oneri della prova
 
4. Trasferimenti
4.1 Elementi della fattispecie - 4.2 Oneri della prova
 
5. Il mobbing
5.1 Assenza di riconoscimento giuridico - 5.2 Inutilità della nozione: sussunzione negli art. 2087 e/o 1375 c.c. - 5.3 Conseguenze della riconduzione del mobbing alla disciplina dell’art. 2087 c.c. - 5.4 Oneri della prova - 5.5 Possibile sussunzione del mobbing in figure affini: il motivo illecito determinante, le discriminazioni, le molestie
 
6. Il risarcimento del danno
6.1 Regole generali - 6.2 Il principio di effettività del danno - 6.3 Molteplicità delle voci di danno: oneri di allegazione del lavoratore - 6.4 Schematizzazione delle voci di danno e relativi oneri assertivi/probatori.
 
Premessa
Il tema dell’onere della prova nelle materie oggetto della presente relazione, cioè “Mansioni e demansionamenti, trasferimenti e mobbing”, va, preferibilmente, affrontato non in maniera atomizzata e ripartita per ogni istituto, ma in base a canoni interpretativi il più possibile generali. Questa basilare premessa dovrebbe, in realtà, essere tenuta sempre in considerazione nell’attività interpretativa, proprio allo scopo di rinvenire la matrice comune dei diversi istituti, soggetta all’applicazione tendenziale di regole generali, pur nel rinvenimento di eventuali specifiche deroghe.
Occorre dunque avere chiara consapevolezza della consistenza della regola generale e del suo rapporto con eventuali ipotesi eccezionali.
L’approccio metodologico in esame deve anche essere confrontato con il postulato dell’appartenenza del diritto del lavoro al diritto civile comune, con la conseguente tendenziale applicabilità, salvo specifiche discipline di settore, di schemi e forme proprie del diritto delle obbligazioni [1].
Mette conto, ancora, segnalare che lo studio dell’onere della prova deriva sostanzialmente dall’esame della struttura e della funzione delle norme sostanziali, esame appunto da svilupparsi alla luce di coordinate logico- sistematiche.
Ciò vale a giustificare la scelta euristica e redazionale di trattare, prima, il sostrato comune degli istituti assegnati, per poi delinearne, singolarmente, i rispettivi tratti caratterizzanti, sotto il profilo sostanziale. A quest’ultimo scopo, anche per assicurare un’utile funzione di aggiornamento, si è preferito dedicare attenzione alla più recenti pronunce giurisprudenziali[2] su ciascun istituto, piuttosto che indulgere in approfondimenti scientifici teorici di tipo dogmatico. Alla luce degli elementi connotanti le fattispecie sostanziali, come sopra analizzate, si è quindi esaminato, naturalmente in chiave ragionata, lo specifico atteggiarsi della distribuzione dei pesi probatori nelle diverse evenienze.

1. La necessaria ricerca di regole generali

1.1 Essenza comune: l’inadempimento (esclusivamente) contrattuale del datore
Proprio nel rispetto del criterio metodologico proposto, muovendo in medias res, si evidenzia come, in linea di massima, tutti gli istituti qui esaminati presentino un elemento comune: l’essenza inadempitiva.
Infatti, in via di prima approssimazione, ben si intende come i demansionamenti, i trasferimenti, il mobbing siano figure accomunate dal concretizzare altrettante ipotesi di violazione di obblighi da parte del datore di lavoro.
Questa prima, quasi banale conclusione, importa, invece, nella materia dell’onere della prova, significative e peculiari ricadute.
Prima però di esaminare tale ultimo profilo, è capitale sgombrare il campo dai possibili dubbi inerenti la natura della responsabilità datoriale. Infatti, la qualificazione, come contrattuale od extracontrattuale, del titolo di responsabilità incide, evidentemente, anche sulla tematica dell’onere della prova.
Ora, non è qui la sede per approfondire l’argomento ora indicato, di proporzioni enormi, sembra però molto importante dare conto degli approdi interpretativi della più recente giurisprudenza.
In sintesi, si ricorda che, il tema della responsabilità datoriale, soprattutto ai sensi dell’art. 2087 c.c.. è stato tradizionalmente risolto con la tesi del duplice titolo di responsabilità, sostenendosi, con argomenti spesso tralatiziamente riportati, che la condotta datoriale violativa degli obblighi di sicurezza è tale da integrare, contestualmente, la violazione di specifici obblighi contrattuali ed anche dei precetti generali del neminem laedere. In questa direzione, almeno sino a pochissimo tempo fa, il concorso delle due azioni costituiva ius receptum[3], lasciandosi, quindi, al creditore danneggiato la scelta tra due sistemi regolativi alternativi[4].
Il sistema ora delineato è stato, dagli inizi degli anni 2000, posto in discussione da ampia giurisprudenza e da una parte della dottrina.
Si è infatti rilevato: “nessun dubbio può sussistere sulla prospettata qualificazione giuridica della stessa responsabilità - di natura contrattuale, appunto - ove si consideri, da un lato, che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato - per legge (ai sensi dell'articolo 1374 c.c.) … e, dall'altro, che la responsabilità contrattuale é configurabile tutte le volte che risulti fondata sull'inadempimento di un'obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiante nei confronti del danneggiato”[5].
Il fondamentale arresto delle Sezioni unite della Cassazione n. 6572/2006 (su cui v. infra) ha definitivamente suggellato la ricostruzione da ultimo illustrata: “stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato.. si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale… giacché l'illecito consiste nella violazione dell'obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall’art. 1218 cod. civ.”.
Il principio di diritto ora riportato è stato confermato da tutte le sentenze pronunciate nel periodo successivo[6].
Il primo risultato interpretativo su cui occorre confrontarsi è, dunque, il seguente: tendenzialmente, i casi di violazione di diritti del lavoratore ingenerano solo la responsabilità contrattuale del datore di lavoro[7].
 
1.2 Conseguenze della natura contrattuale della responsabilità
Procedendo nell’analisi e, in aderenza agli scopi specifici dell’indagine, si vanno ora a valutare i corollari, in tema di ripartizione degli oneri probatori, della ritenuta natura solo contrattuale della responsabilità datoriale.
Sul punto, deve aversi come punto di riferimento l’importante sentenza delle Sezioni unite 30 ottobre 2001, n. 13533, con cui è stato composto il contrasto interpretativo esistente circa le incombenze probatorie gravanti sul creditore e sul debitore, nel caso di inadempimento nei contratti a prestazioni corrispettive[8].
Prima dell’intervento delle S.U., secondo l’orientamento considerato maggioritario, il regime probatorio sarebbe diverso secondo che il creditore richieda l’adempimento ovvero la risoluzione. In particolare, nel caso in cui si chieda l’esecuzione del contratto e l’adempimento delle relative obbligazioni, l’attore sarebbe chiamato a provare unicamente il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioè l’esistenza del contratto, e, quindi, dell’obbligo che si assume inadempiuto; nell’ipotesi, invece, in cui si domandi la risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’obbligazione, l’attore sarebbe tenuto a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l’inadempimento e le circostanze inerenti, in funzione delle quali esso assume giuridica rilevanza, spettando al debitore l’incombenza probatoria di essere immune da colpa, solo quando l’attore abbia provato il fatto costitutivo dell’inadempimento.
Il contrapposto indirizzo - definito minoritario in giurisprudenza ma favorito della dottrina - ha viceversa sempre optato per ricondurre ad unità il regime probatorio utile per tutte le azioni previste dall’art. 1453 c.c. (e cioè, per le azioni di adempimento, di risoluzione e di risarcimento del danno da inadempimento), avendo esse in comune il titolo ed il vincolo contrattuale che si assume violato: spetterebbe al creditore, insomma, di provare i fatti costitutivi della pretesa (fonte del credito e, ove previsto, termine di scadenza) ed allegare solo l’inadempimento ed al debitore di eccepire e dimostrare il fatto estintivo dell’adempimento.
In estrema sintesi, gli argomenti posti dalle Sezioni unite a fondamento della soluzione ora rassegnata consistono nel principio, ricavato dall’art. 2697 c.c, della presunzione di persistenza del diritto: una volta provata dal creditore l’esistenza di un diritto destinato ad essere soddisfatto entro un certo termine, grava comunque sul debitore l’onere di dimostrare l’esistenza del fatto estintivo, costituito dall’adempimento.
Inoltre, si rileva che la domanda di adempimento, la domanda di risoluzione e la domanda autonoma di risarcimento del danno servono tutte a far statuire che il debitore non ha adempiuto: le ulteriori pronunce sono consequenziali a questa statuizione, che rimane perciò eguale a se stessa quali che siano i corollari che ne trae l’attore.
A queste si aggiungono considerazioni di indole pratico: si prospetta la difficoltà per il creditore di fornire la prova del fatto negativo di non aver ricevuto la prestazione, sia pure adducendo fatti positivi contrari; laddove, la prova dell’adempimento, se effettivamente avvenuto, sembra estremamente agevole per il debitore, che di regola è in possesso di una quietanza o di altro documento relativo al mezzo di pagamento utilizzato. Ciò costituisce applicazione del principio di riferibilità o disponibilità o vicinanza della prova, ponendosi in ogni caso l’onere probatorio a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento.
Va ancora considerato che la Corte ha esteso anche all’ipotesi dell’inesatto adempimento il principio della sufficienza dell’allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), rimettendo al debitore di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento.
La sentenza menzionata riconosce una sola eccezione al principio sancito: l’inadempimento di obbligazioni negative; dedotta, cioè, la violazione di una obbligazione di non fare, la prova dell’inadempimento rimane sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento. In virtù dell’art. 1222 c.c., infatti, ogni fatto compiuto in violazione di obbligazioni di non fare costituisce di per sé inadempimento; sicché l’inadempimento delle obbligazioni negative integra sempre un fatto positivo.
Nella cornice ora delineata, va poi tenuto presente che - in deroga ai principi generali di cui all'articolo 2697 c.c., applicabili ad ogni altro tipo di responsabilità, opera la presunzione legale di colpa[9], a carico del (debitore inadempiente) responsabile del danno da risarcire, ai sensi dell’art. 1218 c.c.[10]
La regola è fondata sulla massima di esperienza per cui la violazione del rapporto obbligatorio deriva normalmente dalla negligenza del debitore e solo eccezionalmente da impedimenti insuperabili con la normale diligenza. La colpa è dunque “normalmente implicita nell’inadempimento”[11]. Di conseguenza, risulta dispensato - dall'onere probatorio relativo -proprio il creditore danneggiato.
Conclusivamente e schematicamente, il risultato interpretativo scaturente dall’intervento delle S.U. e successivamente sempre ribadito[12] è che
in caso d’inadempimento contrattuale, qualsivoglia azione si intraprenda:
                                        •     il creditore deve: 1) allegare e provare il fatto costitutivo del diritto azionato 2) allegare l’inadempimento del debitore
                                        •     il debitore deve: 1) allegare e provare i fatti estintivi, impeditivi, modificativi 2) allegare e provare la non imputabilità
 
    eccezione per le obbligazioni negative: il creditore deve provare l’inadempimento
1.3 L’importanza degli atti introduttivi
Riassunto sopra il significato del principio di diritto affermato dalle S.U., deve operarsi qualche precisazione esplicativa, riferita alla materia lavoristica specifica[13]. Le puntualizzazioni che si vanno esponendo sono funzionali ad affrontare quel punto nevralgico nella conduzione di un processo che è lo studio iniziale degli atti introduttivi della causa. Infatti, l’esperienza giurisprudenziale evidenzia che l’attento esame dei soli atti introduttivi del giudizio molto spesso denuncia, in sé, l’inammissibilità o l’irrilevanza dei mezzi di prova e la decidibilità immediata della causa.
La sequenza ordinata dei passaggi successivi del vaglio preliminare è, schematicamente, la seguente.
 
1.       individuazione del diritto azionato e verifica dei relativi fatti costitutivi
In prima battuta, il ricorrente ha l’onere di allegare i fatti storici che, secondo l’assunto sostenuto, sarebbero costitutivi del diritto fatto valere. Ciò significa che, dalla lettura del ricorso, deve essere possibile individuare con chiarezza il diritto azionato e le circostanze storiche, sufficientemente definite nella loro consistenza fattuale, che secondo le ragioni giuridiche fatte valere, sarebbero generatrici della situazione giuridica soggettiva azionata. Dunque, va controllata anche la astratta correlazione tra diritto azionato e fatti generatori addotti.
Il diritto azionato deve dunque profilarsi ben definito nel suo oggetto ed astrattamente esistente in base ai fatti costitutivi asseriti.
 
2.       apprezzamento dell’ipotetico inadempimento
In secondo luogo, il ricorrente deve almeno allegare l’inadempimento della controparte. Infatti, anche ai fini di radicare l’interesse ad agire, in ricorso ci deve essere l’allegazione di fatti storici concretizzanti la lamentata violazione del diritto: almeno in astratto, va apprezzata la sussistenza e consistenza di una reale e precisa violazione del diritto.
 
3.       valutazione del danno lamentato e del nesso causale
Ancora in limine litis, il giudice deve valutare l’accoglibilità dell’eventuale domanda risarcitoria. Come si approfondirà, il ricorrente ha, al riguardo, l’onere di specificare le precise voce di danno patito ed allegare elementi concretizzanti il preteso nesso causale rispetto alla condotta inadempitiva lamentata.
 
4.       fatti impeditivi, estintivi o modificativi
Solo ove le allegazioni del creditore sui punti sopra indicati siano sufficientemente determinate si radica, in capo al resistente, l’onere di contestare la fondatezza della pretesa e, aggiuntivamente, di allegare e provare l’eventuale esistenza di fatti storici diversi, concretizzanti vicende impeditive (cioè che hanno ostato ab initio all’insorgere del diritto azionato), estintive (cioè che hanno fatto venir meno il diritto, in origine esistente) o modificative.
1.4 Insufficienza assertiva: conseguenze
Si pongono due ipotesi.
La prima è che gli oneri assertivi, come sopra delineati, in particolare dal ricorrente, non vengano gravemente assolti provocandosi la radicale nullità del ricorso, ex art. 414 c.p.c. Siffatta evenienza, è bene chiarire, ricorre solo quando l’atto sia inidoneo al suo scopo, in applicazione della norma generale di cui all'art.156, comma 2, c.p.c., cioè quando risulti impossibile, dalla lettura dell’atto, intendere uno degli elementi identificativi dell’azione, petitum o causa petendi [14]. Diverse sono, invece, le conseguenze nel caso in cui l’atto introduttivo sia valido, contenendo elementi assertivi, in fatto ed in diritto, sufficienti per la comprensione dell’oggetto e della ragione giuridica della domanda, ma le circostanze storiche rilevanti ed abbisognevoli di prova risultino solo genericamente allegate.
In questa seconda evenienza, infatti, superata l’eccezione di nullità del ricorso, dovrebbe dichiararsi l’inammissibilità dei mezzi di prova vertenti su fatti storici solo genericamente individuati. Ricorrendo tale ipotesi, respinte le richieste istruttorie a cagione della genericità fattuale di circostanze storiche decisive, su cui la prova dovrebbe vertere (in quanto fatti costitutivi del diritto azionato), la domanda dovrebbe essere rigettata nel merito.

2. Il demansionamento

2.1 Il lavoro privato
Ai sensi dell’art. 2103 c.c. “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito…ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”. Come previsto dall’art. 96 att. C.c., il datore di lavoro è tenuto, all’atto dell’assunzione, a definire non solo l’inquadramento formale del dipendente ma anche il contenuto specifico dei compiti al medesimo affidati (cd. contrattualità delle mansioni).
Il termine di riferimento dell'equivalenza, contemplata dall'art. 2103 cod. civ. (nel testo risultante dall'art. 13 della legge n. 300 del 1970), e' costituito dal contenuto professionale delle mansioni stesse; sicché devono considerarsi inferiori mansioni che, rispetto alle precedenti, comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore. La materia è stata di recente oggetto di profonda revisione da parte della Cassazione.
L’analisi della tradizionale giurisprudenza in materia, consentiva di ritenere assodati i seguenti criteri interpretativi:
a) l’equivalenza non significa “identità”, ma omogeneità[15];
b) l’equivalenza va valutata in concreto rispetto ai seguenti elementi:
- contenuto materiale intrinseco dei compiti assegnati
- competenza richiesta
- livello professionale raggiunto
- possibilità di utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal
dipendente nella pregressa fase del rapporto
- grado di autonomia e discrezionalità - consistenza quantitativa dell’impegno[16],
- posizione del dipendente nel contesto dell'organizzazione aziendale del lavoro[17];
c) non sussiste l’equivalenza quando il lavoratore venga lasciato inattivo[18],
d) non costituisce invece demansionamento l’affidamento di mansioni inferiori ove queste siano meramente marginali ed accessorie ed il lavoratore sia adibito in maniera prevalente e assorbente a mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza[19].
L’attuale giurisprudenza, invece, afferma “una nozione "dinamica" di equivalenza professionale, basata sulla conservazione dei tratti essenziali fra le competenze richieste al lavoratore prima e dopo il mutamento di mansioni. Costituisce, invero, principio ormai acquisito che possano legittimamente assegnarsi al dipendente, a parità d'inquadramento, mansioni anche del tutto nuove e diverse, purché affini alle precedenti dal punto di vista del contenuto professionale. L'esistenza, per così dire, di un "minimo comune denominatore" di conoscenze teoriche e capacità pratiche è condizione necessaria e sufficiente a consentire che il dipendente sia in grado di svolgere le nuove mansioni con la preparazione posseduta. Anzi, il fatto di mutare ramo di attività, operando in settori diversi della medesima area professionale, permette finanche al lavoratore d'incrementare ed arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del rapporto.
In quest'ottica, senz'alcun dubbio quella che meglio risponde alle attuali caratteristiche ed esigenze del mondo del lavoro, la professionalità non rileva, dunque, come un'entità statica ed assoluta, sganciata dalla realtà aziendale, bensì come patrimonio di conoscenze potenzialmente polivalente, capacità di far fruttare nel nuovo posto di lavoro l'esperienza e le cognizioni sino a quel momento acquisite. Muovendo da una concezione siffatta di professionalità, e quindi d'equivalenza professionale, questa Corte ha affermato che se è vero che le nuove mansioni affidate al dipendente debbono essere coerenti con la specifica competenza da lui maturata, ciò non significa che il lavoratore che abbia acquisito una esperienza nell'ambito di un determinato settore dell'azienda non possa mai essere trasferito ad altro settore nell'ambito del quale egli venga chiamato ad affrontare problemi diversi o a dover soggiacere ad una organizzazione del lavoro concepita con modalità diverse rispetto a quelle afferenti la precedente mansione: ciò che importa, nel rispetto della tutela delineata dall'art. 2103 c.c., è che, attraverso l'affidamento di compiti nuovi, del tutto estranei rispetto all'attività precedentemente svolta ed alle cognizioni tecniche già acquisite, non venga del tutto disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato dal dipendente, compromettendo altresì irrimediabilmente le sue prospettive di carriera all'interno dell'impresa cui appartiene. In sostanza, il rispetto della professionalità del lavoratore subordinato - cui tende l'art. 2103 c.c. nel porre limiti allo ius variandi del datore di lavoro - non si traduce necessariamente nella continuazione delle medesime operazioni lavorative effettuate in precedenza, potendosi esso esprimere anche in tutti i casi in cui, pur nel contesto di una diversa attività lavorativa, l'esperienza professionale ivi maturata possa ritenersi utile alfine del miglior espletamento della prestazione richiesta. In tale ipotesi, infatti, il quadro complessivo delle attitudini professionali del lavoratore non viene ristretto, ma al contrario viene ampliato, potendo il lavoratore, già forte dell'esperienza acquisita, arricchire il proprio bagaglio professionale attraverso l'effettuazione di una esperienza nuova a lui affidata proprio in considerazione della consapevolezza dei problemi che egli ha già affrontato nel corso della pregressa attività"[20].
Dunque, oggi l’equivalenza va apprezzata rispetto a:
- solo un minimo comune denominatore
- potenzialità di arricchimento professionale
- le definizioni dei c.c.n.l. (v. infra).
2.2 Demansionamenti leciti
L’art. 2103 co. 2° c.c. stabilisce la nullità di qualsiasi patto contrario. Non è dunque disponibile, in via convenzionale, il diritto alla professionalità acquisita[21].
In alcune specifiche norme di legge, si ammettono ipotesi di deroga all’art. 2103 ove si tratti di salvaguardare beni ritenuti dal legislatore di rango superiore (es. l’art. 4, comma 11° legge 23 luglio 1991, n. 223[22]; l’art. 1, comma 7° e dall’art. 4, comma 4° legge 12 marzo 1999, n. 68[23]; l’art. 7, 5° co. L. 151/2001[24], già art. 30/33 della legge n. 1204/1971).
Proprio sulla falsariga delle norme derogatorie citate, la giurisprudenza ha aderito ad una lettura flessibile della norma, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata, volta al bilanciamento delle esigenze contrapposte e soprattutto alla tutela di interessi superiori. In questa direzione, per esempio, quando la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore a svolgere le mansioni per le quali lo stesso è stato assunto non comporti però la totale impossibilità di svolgere qualsiasi tipo di prestazione lavorativa, la giurisprudenza legittima l’utilizzo del lavoratore, previa accettazione di quest’ultimo, in mansioni anche dequalificanti ma, comunque, in grado di permettere l’utilizzo della sua residua capacità lavorativa[25]. Ancora, si è legittimata l’assegnazione unilaterale a mansioni non equivalenti per un limitato periodo di tempo al fine dell’apprendimento di nuove tecniche[26].
Analogamente è a dirsi per il patto di demansionamento.
In particolare, si è ammessa la modifica consensuale in peius ove il demansionamento sia l’unica misura atta a scongiurare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo[27]. Anche di recente la Cassazione[28] ha affermato “costituisce principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l’art. 2103 c.c… non opera allorché il patto peggiorativo corrisponde all’interesse del lavoratore medesimo. Ed in effetti il diritto alla tutela della posizione economica e professionale del lavoratore deve trovare contemperamento con la tutela di altri interessi prioritari del lavoratore quale quello alla conservazione del posto di lavoro; per cui deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva della disposizione anche alla luce delle maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro”.
I requisiti legittimanti sono: il consenso del lavoratore + condizioni che avrebbero legittimato licenziamento.
La sentenza ora citata, chiarisce che “l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni di fatto che avrebbero giustificato il licenziamento incombe sul datore di lavoro, in osservanza dell’art. 5 della legge n. 604/1961 e del divieto posto dall’art. 2103”.
 
2.3 Il ruolo della contrattazione collettiva
Le considerazioni ora svolte offrono il destro per evidenziare un aspetto cruciale, di attuale rilevanza, costituito dal ruolo della contrattazione collettiva nella definizione del concetto di equivalenza.
Invero, la sanzione di nullità di ogni patto contrario sancita dall’art. 2103 c.c., si estende evidentemente anche alle clausole contrattuali collettive. In questo senso, è massima tralatizia che la valutazione che il giudice di merito è tenuto ad effettuare, in ordine all’equivalenza delle mansioni, deve essere effettuata in concreto, e non è vincolata alla classificazione delle mansioni nella contrattazione collettiva[29].
Tuttavia, ciò che è decisivo rimarcare è che se il ccnl non può vincolare il giudice nella definizione astratta dell’equivalenza, può e deve significativamente orientarlo nella definizione della quaestio facti.
Il ragionamento prende le mosse, intanto, dal rimarcare che nel giudizio di equivalenza di cui all’art. 2103, il giudice deve senza dubbio effettuare un confronto di tipo fattuale ed empirico tra i diversi tipi di mansioni, ma, come sostenuto pure dalla Cassazione citata in nota, il medesimo deve riferirsi, in via parametrica anche a quanto disposto dalla contrattazione collettiva[30]. Le considerazioni che si vanno sviluppando assumono poi particolare rilievo euristico quando si tratti di applicare norme a contenuto generico, cioè moduli normativi indeterminati, clausole generali, concetti elastici, tra i quali rientra anche il concetto di equivalenza. In casi di tal fatta, è noto che, definendo un importante revirement, la Suprema corte ha statuito che l’operazione di integrazione del contenuto di tali norme deve essere compiuta dall’interprete non con la creazione di propri canoni valutativi, di genesi personale e soggettiva, ma con la ricerca, all’interno del complessivo sistema, di criteri e principi integrativi. Tali ultime regole oggetto appunto di ricognizione, secondo la Cassazione, acquisiscono per vis abtractiva, una natura comunque giuridica, la cui individuazione ed applicazione definendo una quaestio iuris, rimane sindacabile in via diretta in sede di legittimità[31].
Ebbene, nel novero di questi criteri che l’interprete e quindi anche il giudice deve ricercare per colmare la norma indeterminata senz’altro primeggiano, nel microcosmo lavoristico, come riconosciuto nelle predette occasioni anche dalla Corte, le disposizioni della contrattazione collettiva. Infatti, per le ragioni già enucleate, la produzione regolativa delle formazioni rappresentative delle contrapposte parti contrattuali, rilevanti anche ai sensi dell’art. 2 Cost., assume portata persuasiva di assoluto rilievo. Si pensi del resto, in temi quali l’individuazione del minimo salariale ex art. 36 Cost. o l’accertamento della giusta causa di licenziamento, ex artt. 2119 e 2106 c.c., quale ampio ruolo la giurisprudenza consolidata assegni alle disposizioni pattizie[32]. Anzi, proseguendo su questa ultima falsariga, deve rammentarsi che anche le recenti innovazioni ordinamentali che hanno investito la materia del pubblico impiego hanno, già a livello normativo (v. art. 52 T.U.), segnato il recepimento proprio dell’indirizzo interpretativo che, anche nel settore privato, va vieppiù sviluppandosi (v. infra).
Peraltro, tornando al settore privato, è il caso di rammentare che, giusta pacifico insegnamento della Suprema Corte, le norme contrattuali, cui la legge affidi compiti classificatori, sono insindacabili da
parte del giudice[33].
Il punto in esame ha, nell’applicazione giurisprudenziale, presentato controversi momenti di emersione per la Poste Italiane s.p.a.: poiché il caso risulta paradigmatico, ne risulta opportuna una breve analisi.
Dopo l’introduzione della nuova classificazione del personale di cui agli artt. 40 e ss. del CCNL del 26.11.1994, tutto il personale della società Poste Italiane, in precedenza suddiviso in nove categorie, è stato accorpato in quattro Aree funzionali.
L’art. 4 dell’allegato 1 prevede poi che nell’ambito dell’Area operativa, nella quale “il contenuto di specializzazione funzionale non costituisce elemento ostativo, deve essere garantita in presenza di necessità di servizio, l’intercambiabilità del personale”; il successivo art. 5, lett. b) prevede poi la possibilità della società di attuare nell’ambito di progetti di riorganizzazione aziendale, al fine di salvaguardare i livelli occupazionali, la fungibilità all’interno di ogni area. Dunque, avendo la società proceduto allo spostamento orizzontale dei dipendenti in mansioni comprese nella stessa Area, si è posto il problema della compatibilità dei principio di fungibilità ed interscambiabilità interna all’area rispetto all’art. 2103.
La questione è stata di recente definita dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione nella importante sent. n. 25033/06, statuendosi che la contrattazione può introdurre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra mansioni nella stessa area per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica, senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del comma secondo della citata disposizione dell’articolo 2103 c.c..
In particolare i giudici di legittimità hanno evidenziato come le parti sociali possano legittimamente introdurre nella contrattazione collettiva clausole di fungibilità compatibili con l’articolo 2103 c.c., collocando plurime e diverse mansioni nella stessa qualifica, sicché il lavoratore inquadrato in quella qualifica è idoneo, e sa di poter essere chiamato a svolgere, mansioni diverse, in ipotesi anche di livello diverso. Secondo le Sezioni unite, la dimensione individuale della garanzia dell’articolo 2103 c.c. crea degli “steccati” (sic) che certamente valgono a protezione del lavoratore nei confronti di un indiscriminato jus variandi del datore di lavoro; ma possono rappresentare anche un attrito di resistenza alla progressione professionale della collettività dei lavoratori inquadrati in quella stessa qualifica. Ed allora, se come deve ritenersi in materia , rileva non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può legittimamente farsi carico di ciò, prevedendo e disciplinando meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione che non violano la garanzia dell’articolo 2103 c.c., ma che con quest’ultima sono compatibili.
E’ ancora da segnalare che nella successiva e recentissima sentenza n. 8596/2007 la Cassazione ha voluto, consapevolmente, portare “ad ulteriori sviluppi la giurisprudenza sulle mansioni promiscue e vicarie. Più specificamente la contrattazione collettiva può prevedere che le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza siano costituite dallo svolgimento (promiscuo, appunto) di plurime attività diverse, talune anche con carattere di prevalenza rispetto ad altre (Cassazione, Sezione lavoro, 1987/04; 16461/03), ovvero che le mansioni assegnate comprendano eventualmente anche attività vicarie di diverso livello (Cassazione, Sezione lavoro, 9141/04; 14738/99) analogamente la stessa contrattazione collettiva può introdurre clausole di fungibilità che, verificandosi specifici presupposti di fatto, consentano una mobilità orizzontale tra le mansioni svolte e quelle, pur diverse, rispetto alle quali sussiste un’originaria idoneità del prestatore a svolgerle secondo un criterio di professionalità potenziale per ciò che il lavoratore sa fare, anche se attualmente non fa”. In sintesi, ed in conclusione, ne risulta affermato, “come principio di diritto, che … le convenzioni delle parti sociali pongono, dunque, legittimi e razionali meccanismi di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra mansioni diverse ma con un nucleo di omogeneità ed affinità al fine di sopperire, come detto, a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere in alcuna sanzione di nullità… Le considerazioni ora fatte inducono a ribadire che una interpretazione dell’articolo 2103 c.c. abbandonando l’ottica di una cristallizzata tutela del “singolo lavoratore” a fronte dello jus variandi dell’imprenditore - debba privilegiare un ponderato esame del dato normativo che tenga pure conto dei complessi problemi di riconversione e di ristruttuazìone delle imprese (che impongono una attenuazione di una rigidità della regolamentazione del rapporto di lavoro capace di ostacolare detti processi) e che, in tale direzione, venga a configurarsi come naturale evoluzione di un indirizzo giurisprudenziale volto ad assegnare alla contrattazione collettiva incisivo rilievo nella gestione dei rapporti lavorativi delle imprese anche nelle sue articolazioni locali, in ragione delle specifiche situazioni che si possono verificare nelle varie realtà aziendali e territoriali, e che possono richiedere un adeguamento degli organici con una accentuata flessibilità proprio per soddisfare le diverse esigenze sopravvenute in dette realtà[34].
Si è, dunque, di fronte alla presa d’atto della Cassazione dell’intervenuta globale rivisitazione dei precedenti orientamenti giurisprudenziali sull’articolo 2103 c.c., con il riconoscere, nella materia in esame alla contrattazione collettiva la possibilità di una identificazione di mansioni fungibili (e tra di esse legittimamente interscambiabili), condizionando la legittimità di detta flessibilità alla circostanza che tra le suddette mansioni si riscontri quantomeno un nucleo di omogeneità ed affinità[35].
Per le ricadute sui carichi probatori, v. infra, par. 2.5.
 
2.4 Il pubblico impiego
L’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 definisce, in maniera esaustiva ed ex novo, la “disciplina delle mansioni” nel lavoro pubblico e dunque la medesima deve collocarsi tra “le diverse disposizioni” (ex art. 2, co. 2) contenute nel decreto di riforma di deroga alla normativa civilistica. Conseguenza ne è che, nel lavoro pubblico è, almeno in parte qua, radicalmente esclusa l’applicabilità dell’art. 2103 c.c.
Il testo della disposizione risultante dalla cd. seconda privatizzazione segna un apprezzabile passo nella direzione dell’allineamento con regole e principi giusprivatistici.
Intanto, va valorizzato il dato letterale nel suo riferirsi al concetto di “mansioni”. Si assiste cioè al passaggio dalla precedente prospettiva, ancorata alla “qualifica di appartenenza”, cioè ad un dato puramente formale, ad un criterio concreto ed empirico, cioè quello strettamente mansionistico.
La norma sancisce quindi il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni “per le quali è stato assunto”. Si rileva dunque, anche in questo ambito, la contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, con riferimento precipuo alla stretta negozialità delle mansioni, principio già sancito dall’art. 2103 c.c.
L’art. 52 dispone, poi, che il dipendente può essere adibito anche “alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”.
Tra i settori pubblico e privato sussiste una fondamentale differenza di diritto positivo: l’art. 2103 parla di mansioni equivalenti “alle ultime effettivamente svolte”; l’art. 52, viceversa, tratta di mansioni “considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”.
L’art. 2103 attribuisce rilievo, come termine di paragone, alle mansioni di fatto e da ultimo espletate, dunque rende rilevante tutta la crescita professionale che, a livello diacronico, il dipendente si trovi ad aver sviluppato, secondo la realtà aziendale contingente singolarmente vissuta. Di contro, l’art. 52[36] si riferisce solo alle mansioni pattuite al momento dell’assunzione o (salvo avanzamento) a tutte quelle astrattamente qualificate equivalenti nella disciplina pattizia. Si pone dunque l’interrogativo relativo al ruolo rivestito dalle norme contrattualcollettive nel contesto del giudizio di equivalenza. Sul punto risultano oggi formulate, in giurisprudenza ed in dottrina, due diverse tesi.
1) Secondo il primo orientamento, inderogabilmente, alla contrattazione collettiva sarebbe assegnata la definizione del concetto di equivalenza.
Il giudizio di equivalenza sarebbe dunque, in questa sede, non un’indagine di fatto, ma un giudizio d’interpretazione di norme contrattuali. Infatti, sarebbe la stessa legge che ha volutamente rimesso all’autonomia collettiva la valutazione del “merito” della professionalità, secondo un concetto di equivalenza non in concreto ma in astratto[37].
Il rinvio operato dall’art. 52 al contratto collettivo sarebbe quindi di tipo costitutivo[38] “di un vero e proprio potere regolativo: spetterebbe in modo esclusivo alla contrattazione precisare la portata dell’equivalenza[39]”. L’intervento del giudice sarebbe, perciò, consentito solo a fronte di clausole collettive irrazionali o incoerenti, violative degli obblighi di buona fede[40].
2) Secondo altro indirizzo, invece, il giudizio di equivalenza dovrebbe essere sempre condotto in concreto, come avviene nell’impiego privato, ma i contratti collettivi non fornirebbero all’interprete un mero indice ermeneutico, ma lo vincolerebbero ad operare il giudizio entro l’ambito da esse stabilito.
Ora, valutando il “significato proprio delle parole secondo la loro connessione”, in armonia con la ratio legis, considerato anche il modo con cui gli operatori negoziali hanno recepito la delega[41], ben si ricava che il c.c.n.l. vincola l’interprete nella determinazione del confine classificatorio entro o oltre il quale deve essere affermata/esclusa l’equivalenza. La norma, infatti, non parla di mansioni definite equivalenti dalla contrattazione collettiva, ma di “mansioni considerate equivalenti nell’ambito della qualificazione professionale prevista nei contratti collettivi”. La “considerazione” dell’equivalenza, cioè l’apprezzamento in concreto della stessa, deve essere sviluppata all’interno della qualificazione professionale prevista nei contratti collettivi.
Dunque, il c.c.n.l. ha signoria definitoria solo nella costituzione del limite oltre il quale sicuramente non può esservi equivalenza (es. area) o dei parametri delimitativi del giudizio in concreto. Dovrebbe perciò escludersi l’ipotesi della immediata rimessione al prudente e libero apprezzamento del giudice della valutazione sull’equivalenza, con indagine direttamente condotta ad personam sulla specifica professionalità interessata, a prescindere dalle norma pattizie[42]. Peraltro, molti c.c.n.l. hanno recepito la delega proprio ribadendo la necessità che, nell’ambito stabilito, l’equivalenza sia poi verificata in concreto[43].
Si segnala che la Cassazione sembra avere sposato (pur senza particolari approfondimenti) la tesi dell’affidamento alla contrattazione collettiva della definizione dell’equivalenza, almeno come limite vincolante di valutazione.
Così nella recente sent. n. 55/2007, si sostiene che il “principio fissato ora dal D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 52, postula una condizione di equivalenza fissata all'interno dei singoli contratti collettivi. Ancora, pur se in obiter dictum nella sent. n. 13372/2003 si legge “È costantemente riconosciuto nella giurisprudenza di questa Corte che ai fini dell'applicazione dell'art. 2103 cod. civ., spetta all'autonomia collettiva fissare la gerarchia delle mansioni e delle relative qualifiche allo scopo di stabilire la "categoria superiore" e le "mansioni superiori". Ma, occorre che tale potere (espressione di una specifica idoneità in materia dello strumento negoziale collettivo, che ha ricevuto recenti conferme in sede legislativa, ad es. nella materia dei rapporti di lavoro pubblici contrattualizzati, dove al contratto collettivo è affidata anche la individuazione dell'equivalenza delle mansioni: v. ora art. 52 del d.lgs 30 marzo 2001, n. 165”.
Nella sent. N. 17774/2006, poi, in un caso del comparto Ministeri, la Corte, implicitamente attenendosi alla definizione di equivalenza della norma pattizia[44], chiarisce il significato ampio e flessibile della “esigibilità” delle mansioni[45], peraltro riconoscendo l’onere del lavoratore di allegare e dimostrare la “sostanziale estraneità professionale” delle mansioni richieste rispetto alla propria professionalità essenziale.
Questa lettura è del resto in linea con la recente lettura flessibile dello stesso art. 2103 c.c. affermata dalle Sezioni unite citate; dunque, andrebbero rispettate le clausole contrattuali affermative di criteri di fungibilità tendenziale entro ambiti predefiniti e ciò per due ragioni correlate: la rivisitazione del concetto di professionalità (e quindi di equivalenza) e la rilevanza in materia delle pattuizioni collettive[46].
Sul consenso al demansionamento nel pubblico impiego, risulta di dubbia soluzione la questione inerente la validità di un patto tra il dipendente e l’amministrazione datrice circa l’assenso all’adibizione a mansioni inferiori.
Nel lavoro privato, l’art. 2103 cpv. espressamente sanziona con la nullità qualsiasi patto contrario al suo precetto. Nulla invece è previsto nell’impiego pubblico. La prima giurisprudenza di merito pronunciatasi, ha esteso l’art. 2103 cpv. sulla base del rinvio generale alle norme codicistiche[47]. La soluzione però non convince, attesa la voluta omissione nel pubblico impiego, di una norma uguale al 2103. Dunque deroghe convenzionali, individuali e collettive, paiono doversi ammettere. Ciò anche in base al trend interpretativo ormai sempre più condiviso, per cui sarebbe ammessa la deroga all’art. 2103 ogni volta che si tratti di salvaguardare beni di rango superiore (v. supra).
2.5 Gli oneri probatori
Poiché l’art. 2103 c.c. non contiene alcuna specifica disciplina, in ipotesi singolare o eccezionale, in materia di ripartizione dell’onere della prova, secondo il sistema interpretativo individuato all’inizio della relazione, dovrà farsi riferimento ai principi generali regolatori della materia dell’inadempimento contrattuale[48].
La questione che si pone è, tuttavia quella della controversa configurabilità del precetto dell’art. 2103 come obbligazione datoriale di non fare (art. 1222 c.c.): obbligo di non adibire il prestatore a mansioni non equivalenti. Aderendo, infatti, a tale ultima ricostruzione, il riparto degli oneri probatori dovrebbe essere definito secondo l’ipotesi eccezionale tipizzata dalle Sezioni unite nella citata sentenza n. 13533; dunque, trattandosi di obblighi negativi, il lavoratore dovrebbe allegare e provare (oltre l’esistenza del diritto) anche l’inadempimento (in via successiva, allegare e provare le voci di danno ed il nesso causale).
Se, invece, si ritiene, come sembra preferibile, che l’equivalenza comporti un obbligo di fare, cioè di assegnare mansioni equivalenti, l’onere della allegazione dell’inadempimento graverà sempre sul lavoratore, ma la prova dell’adempimento, quale fatto estintivo, incomberà sul datore di lavoro. Quest’ultima è senz’altro, la posizione prescelta dalla Cassazione. “Allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell’obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 c.c., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”[49].
In sintesi:
        ·       il diritto che viene azionato è il diritto allo svolgimento di mansioni equivalenti. Il fatto costitutivo del diritto consiste, quindi, nella individuazione del contenuto delle mansioni di assunzione o delle ultime effettivamente svolte.
        ·       Il fatto inadempitivo, della cui allegazione il lavoratore è comunque onerato, consiste nella assegnazione a mansioni che si assumono deteriori. Questo punto è molto importante, perché dalle asserzioni storico-giuridiche contenute in ricorso il giudice deve essere già posto in condizione di apprezzare in astratto (rispetto all’attuale concetto di equivalenza) la modificatio in peius, sulla base di elementi fattuali circostanziati e specifici[50].
Dunque, nel ricorso deve essere contenuta una comparazione analitica del contenuto delle mansioni di provenienza e di destinazione, con adeguate argomentazioni circa la lamentata disomogeneità[51]. In questa direzione, la violazione dell’art. 2103 deve essere supportata da oneri assertivi precisi, senza che possa rimettersi il dedotto demansionamento al fatto notorio, alla sensibilità comune, al mero confronto tra qualifiche o a formule vaghe e generalizzanti.
        ·       Solo ove gli oneri assertivi che precedono siano stati sufficientemente assolti si radica l’onere del convenuto di contestazione e di allegazione di fatti impeditivi, estintivi o modificativi.
 
2.6 La tutela in forma specifica
In passato la giurisprudenza aveva dubitato circa la legittimità, in caso di dequalificazione del lavoratore dipendente, di una sentenza di condanna del datore di lavoro ad adibire il lavoratore alle mansioni in precedenza assegnate, soprattutto in considerazione del carattere eccezionale del provvedimento di reintegrazione, consentito nei soli casi previsti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Le pronunce emanate in epoca successiva hanno osservato che, anche a voler ritenere che il c.d. ordine di reintegrazione nelle specifiche mansioni esercitate prima della illegittima destinazione ad altro incarico non sia suscettibile di esecuzione forzata, è tuttavia consentita l’emanazione dell’ordine in questione da parte del giudice, restando inteso che il datore di lavoro può ottemperarvi anche assegnando il dipendente a mansioni diverse e caratterizzate soltanto dal requisito della equivalenza alle precedenti.
Con la sentenza n. 425/2006 la Corte è intervenuta a razionalizzare la materia.
Se si riconosce che la violazione della norma imperativa di cui all’art. 2103 cit. implica la nullità del provvedimento datoriale – ha osservato la Corte – si deve parimenti ammettere la possibilità che al lavoratore sia accordata una tutela piena, mediante l’automatico ripristino della precedente situazione, fatto salvo, ovviamente, il c.d. jus variandi del datore di lavoro; tale situazione non ha nulla a che vedere con quella prevista dall’art. 18 della L. 300/70, il cui richiamo costituisce un falso problema. L’ordinamento vigente – ha affermato la Corte – privilegia la tutela satisfattoria dell’interesse leso (cfr. Cass. S.U. n. 141/2006); alla sua realizzazione è preordinata la pronuncia di condanna del datore all’adempimento in forma specifica; tutela che è anch’essa “reale”, al pari di quella prevista dall’art. 18 cit., in quanto comporta la persistenza del rapporto illegittimamente modificato del datore, ma appartiene alla sfera del diritto comune, non essendo assimilabile al regime “speciale” previsto per il licenziamento ritenuto illegittimo.
Quanto al pubblico impiego, il 2° comma dell’art. 68 sancisce il potere-dovere del giudice ordinario di adottare nei confronti della P.A. tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati.
E’ giusto il caso di constatare che, stricto iure, la norma è priva di contenuto precettivo innovativo, posto che essendo, gli atti di gestione del rapporto lavorativo di natura privatistica, in ogni caso non avrebbe trovato applicazione l’art. 4, 2° comma, della l. n. 2248 del 1865, all. E.
Comunque, l’art. 68 vale proprio a ribadire l’obiettivo della pienezza e della effettività della tutela da assicurarsi al dipendente pubblico .
 

3. La promozione automatica

3.1 Il lavoro privato
La giurisprudenza in materia di promozione automatica del lavoratore adibito temporaneamente all’esercizio di mansioni superiori risulta ormai assestata. Se ne riportano qui gli approdi interpretativi più rilevanti[52].
        ·       sulla durata minima del periodo
In primis, circa la durata minima dell’espletamento delle mansioni superiori necessaria per l’acquisto del diritto alla qualifica superiore, l’art. 2103 c.c. la quantifica in tre mesi; la contrattazione collettiva può tuttavia introdurre condizioni di miglior favore. La derogabilità in peius del termine trimestrale indicato è invece consentita solo per i dirigenti ed i quadri, ex art. 6 legge 13 maggio 1985, n. 170.
Secondo l’ormai prevalente orientamento giurisprudenziale dovrebbe, ai fini del computo del periodo in questione, attribuirsi rilievo alle sole giornate di lavoro effettivo e non anche a quelle di sospensione del rapporto[53].
Gli eventi sospensivi hanno comunque effetto non interruttivo, ma appunto sospensivo, dovendo quindi ricongiungersi il periodo di applicazione precedente a quello successivo alle ferie o alla
malattia[54].
A seguito di importanti pronunce della Corte di legittimità, è acclarato che il diritto alla promozione automatica non richiede la rigorosa continuità del periodo, essendo sufficienti anche molteplici brevi assegnazioni a mansioni superiori per un periodo complessivamente maggiore di un trimestre[55].
Permane tuttavia contrasto esegetico circa la necessità o meno, in casi quali quelli ora esposti, della prova dell’intento fraudolento del datore di lavoro.
Per un primo filone giurisprudenziale, infatti, non sarebbe necessario dimostrare un tale tipo d’intento datoriale, essendo al riguardo sufficiente una programmazione iniziale degli incarichi e una predeterminazione utilitaristica di un comportamento inteso ad ovviare, con una pratica elevata a sistema, esigenze necessariamente ricorrenti o comunque suscettibili di riproporsi con carattere di regolarità e quindi con prevedibile periodicità[56].
Secondo altra corrente invece, ai fini dell’insorgenza del diritto, dovrebbe risultare l’intento fraudolento del datore di lavoro diretto ad impedire la maturazione del diritto alla promozione. Tale intento sarebbe desumibile proprio dalla frequenza e sistematicità delle reiterate assegnazioni a mansioni superiori tali da palesare la predeterminazione da parte datoriale di tale contegno per sottrarsi all’applicazione della norma in esame; viceversa la volontà elusiva dovrebbe escludersi ogniqualvolta le suddette reiterate assegnazioni risultino giustificate dalla particolare natura dell’attività espletata[57]. Quello da ultimo citato è proprio il caso dei cd. sostituti programmati, cioè di quei dipendenti che espletano istituzionalmente mansioni di vicari di colleghi assenti con diritto alla conservazione del posto[58].
Uno dei punti fermi sulla questione è stato posto dalle Sezioni unite della Cassazione per la specifica fattispecie di sussistenza di obblighi contrattuali del datore di lavoro di coprire il posto vacante mediante concorso. La sentenza 28 gennaio 1995, n. 1023 ha infatti statuito che, ove il contratto collettivo preveda che la copertura di una posizione di lavoro nell'organico aziendale debba avvenire mediante procedura concorsuale, il datore di lavoro - nelle more dello svolgimento del concorso - può coprire tale posto adibendovi a rotazione dipendenti di qualifica inferiore per distinti periodi che, singolarmente considerati, non siano superiori a quello previsto per l'acquisizione della qualifica superiore ex art. 2103 c.c., senza che sia possibile cumularli. In tal caso infatti – argomenta la Corte - la alternanza delle assegnazioni di mansioni superiori non è significativa di alcun intento del datore di lavoro di eludere il rispetto della legge e di avvantaggiarsi di prestazioni lavorative di più elevato livello senza il riconoscimento della corrispondente qualifica, ma risponde (salvo prova contraria) all'esigenza organizzativa di coprire temporaneamente il posto al quale, successivamente ed in via definitiva, dovrà essere assegnato il vincitore del concorso[59].
Si è precisato comunque che la parte datrice potrebbe adibire a rotazione dipendenti di qualifica inferiore ad un posto da coprire mediante concorso, senza maturazione del diritto a qualifica superiore, solo per il tempo strettamente necessario per l’indizione e lo svolgimento del concorso previsto dal regolamento o dal contratto collettivo[60]. Naturalmente, anche in subiecta materia, vi è ampio utilizzo dei principi di correttezza e buona fede[61].
       ·           svolgimento delle mansioni superiori
Il carattere vicario delle mansioni svolte preclude il diritto del sostituto all’inquadramento nella qualifica superiore. Dunque, se tra le mansioni tipiche della qualifica di appartenenza sono compresi compiti di sostituzione del dipendente di grado più elevato, la sostituzione non crea il diritto alla promozione[62].
Di recente, si è precisato che questo limite opera solo se la sostituzione è occasionale, “non nel caso in cui la funzione vicaria sia travalicata in ragione del carattere permanente della sostituzione e della persistenza solo formale della titolarità in capo al superiore delle mansioni proprie della relativa qualifica, per effetto di una stabile scelta organizzativa del datore”[63]. L’assegnazione deve, inoltre, essere piena, nel senso che deve implicare l’assunzione del livello di responsabilità e di autonomia tipica delle mansioni superiori[64].
       ·       sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto
Secondo l’indirizzo interpretativo ormai consolidato, la fattispecie “assenza con diritto alla conservazione del posto” si estende anche a situazioni ulteriori e diverse rispetto alle ipotesi di sospensione del rapporto legalmente tipizzate (sciopero, adempimento di funzioni pubbliche elettive, infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, chiamata alle armi). In tal senso si ritiene che il sindacato sul provvedimento datoriale debba esplicarsi non solo alla luce delle disposizioni legislative, ma anche alla stregua di quelle previste nella contrattazione collettiva; queste ultime infatti ben potrebbero tipizzare fattispecie di temporanea assenza del dipendente comportante la necessità di sostituzione temporanea.
Rimarrebbe del resto impregiudicato il sindacato sui poteri organizzativi del datore di lavoro ove risulti in concreto l’uso fraudolento da parte di quest’ultimo di espedienti per eludere il precetto stabilito dall’art. 2103 cit. a favore del sostituto[65].
In applicazione del principio interpretativo enunciato si è escluso il presupposto dell’effettiva vacanza del posto nel caso di ferie del dipendente da sostituirsi[66]; nell’ipotesi di collega sospeso dal lavoro perché posto in cassa integrazione guadagni[67]; nella situazione dell’assente per l'espletamento di attività sindacale, in forza di permessi retribuiti previsti dalla contrattazione collettiva[68].
Secondo la Cassazione[69], nell'ipotesi in cui un lavoratore subentri ad altro nello svolgimento delle mansioni superiori di un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto non è ravvisabile un fenomeno di sostituzione mediante scorrimento (o «a catena» o «a cascata») e lo svolgimento delle mansioni superiori non è utile, ai fini dell'acquisizione della corrispondente qualifica ai sensi dell'art. 2103 c.c., neppure al lavoratore subentrante all'originario sostituto, con detto subentro attuandosi, in definitiva, la sostituzione del lavoratore assente (anziché del suo
sostituto)[70].
In talune ipotesi è stata aperta una breccia alla regola della portata ostativa alla promozione del carattere solo vicario delle mansioni superiori svolte, allorché l’esigenza della sostituzione sia derivata da un’obiettiva insufficienza o da carenza dell’organico dell’impresa, fatti che è il dipendente a dover provare o almeno dedurre. In tali evenienze invero il riferimento alla sostituzione di lavoratori assenti sarebbe solo diretto a giustificare l’affidamento di mansioni superiori, reso invece necessario da carenze strutturali di organico, si ché il sostituto andrebbe a ricoprire un vero e proprio posto nell’organigramma effettivo dell’impresa[71].
Naturalmente, cessata la causa della sostituzione (per esempio, per dimissioni del sostituito) l'eventuale proseguimento dello svolgimento delle suddette mansioni diviene utile ai fini del superiore inquadramento solo quando superi i tre mesi, senza possibilità di cumulo col periodo anteriore [72].
Il carattere vicario delle mansioni espletate preclude non solo il diritto alla promozione, ma anche quello alla maggiore retribuzione per il periodo della sostituzione, allorché l’assegnazione stessa non sia stata piena. Tale ultima condizione si verifica sia quando la sostituzione non abbia riguardato mansioni proprie della qualifica rivendicata, né comportato l’assunzione dell’autonomia e della responsabilità tipiche della qualifica stessa[73] sia ancora quando le mansioni proprie della qualifica del sostituto comprendano compiti di sostituzione di dipendenti di grado più elevato[74], sia, infine, quando l’attività sostitutiva abbia concorso con mansioni prevalenti dell’inferiore qualifica di appartenenza[75].
E’ utile far presente che alcuni c.c.n.l., in ipotesi di sostituzione di dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, pongono a carico del datore di lavoro l’obbligo di comunicare per iscritto al sostituto i motivi dell’adibizione alle mansioni superiori ed il nominativo del dipendente sostituito[76].
       ·       assegnazione a mansioni superiori
Il presupposto del diritto al superiore inquadramento non è costituito solo dalla circostanza che il lavoratore svolga mansioni superiori, ma che egli vi sia «assegnato»; pertanto, deve escludersi che il diritto al superiore inquadramento possa acquisirsi per effetto del mero svolgimento di un compito superiore e della mera inerzia del datore di lavoro, ove questa, per le precise circostanze in cui si esplichi, non esprima univocamente ed inequivocabilmente un consenso; infatti l'assegnazione delle mansioni è un atto in cui si esplica il potere organizzativo del datore di lavoro (qualora le mansioni non siano dedotte nel contratto di lavoro) e non costituisce, invece, «terreno di iniziativa» del lavoratore[77].. Tuttavia, l’assenza di investitura formale è irrilevante ai fini de quibus[78].
La prova del consenso del datore di lavoro costituisce oggetto di accertamento necessario soltanto qualora il datore di lavoro contesti (fatto impeditivo) la pretesa del dipendente provando che le mansioni superiori sono state svolte contro la sua espressa volontà[79].
In tema di rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto, deve rammentarsi che la sussistenza dell’ordine scritto del direttore dell’azienda costituisce elemento costitutivo della domanda di promozione al grado superiore per lo svolgimento delle relative mansioni. La esistenza di tale requisito deve dunque essere provata dal lavoratore che rivendichi la promozione e, pertanto, nel caso in cui l’ordine sia stato impartito dal vice-direttore, incombe sul prestatore l’onere di allegare e provare che questi abbia agito su delega o disposizione del direttore, posto che la delega, costituisce, in tal caso, un elemento integratore della fattispecie[80].
·            Non risultano concordi le opinioni, giurisprudenziali e dottrinali, sulla necessità o meno del consenso, anche implicito, del lavoratore, per la promozione automatica.
Per la rinunciabilità, da parte del dipendente, al diritto all’assegnazione a mansioni superiori, si argomenta che il potere di assegnazione provvisoria a mansioni superiori è da ritenersi implicitamente ricompreso nello ius variandi unilaterale che l'art. 2103 c.c. riconosce al datore di lavoro, in quanto soddisfa l'esigenza di tutela della professionalità della mano d'opera che la norma persegue; il consenso del dipendente è invece necessario per l'operatività della c.d. promozione automatica che dalla suddetta assegnazione possa eventualmente derivare[81]. In senso contrario, ha chiarito che l'art. 13, l. n. 300 del 1970 non contiene un assoluto divieto, per il datore di lavoro, di assegnare il lavoratore a mansioni superiori senza il suo consenso: è pertanto consentito alla contrattazione collettiva disciplinare le modalità secondo le quali, nei limiti derivanti dall'esigenza di tutela della professionalità del lavoratore, può e deve esercitarsi l'anzidetto ius variandi in melius[82].
·              E’ importante anche chiarire che nel lavoro privato l’argomento speso sovente dalla parte datrice, circa l’insussistenza della qualifica pretesa nell’organico aziendale è giuridicamente inconcludente. Infatti, nell’ambito del lavoro privato domina un principio di effettività, per il quale risulta tendenzialmente predominante il dato materiale riscontrabile. In questo senso, il meccanismo di promozione automatica di cui all’art. 2103 c.c., persegue essenzialmente lo scopo di adeguare il modello organizzativo a mutate esigenze operative. Di contro, nel contesto pubblico, è l’organizzazione, che è regola giuridica astratta, a determinare la gestione. Dunque è la realtà ad essere dominata dall’atto amministrativo, cioè dalla forma. In questa prospettiva la rigidità della dotazione organica, come norma di diritto obiettivo e, più in generale, la signoria dello stato di diritto sullo stato di fatto, corollari del principio di legalità dell’azione amministrativa, costituiscono la ratio portante della diversa disciplina menzionata.
La prospettiva che si va illustrando risulta spesso posta dalla Cassazione a base di varie decisioni. La Corte, infatti, proprio constatando l’adibizione continuativa di un dipendente ad una certa mansione risale alla conclusione della relativa carenza di organico, con la conseguente necessità di suo adeguamento (cfr. per esempio, Cass. n. 13940/2000).
Dunque, la mancata previsione aprioristica della qualifica ambita nell’organico formale non ha alcuna rilevanza, potendosi, semmai, dimostrare, ex post, proprio il dato deficitario dell’organizzazione del soggetto datore di lavoro, oggetto di necessario adattamento.
·            Anche nella materia delle promozioni automatiche la giurisprudenza conferma la tesi interpretativa ormai ampiamente diffusa nel settore lavoristico inerente l’insussistenza di un principio di parità di trattamento tra i dipendenti. In particolare si è ritenuto che nel nostro ordinamento non è possibile individuare un principio che imponga la parità di trattamento tra lavoratori che svolgano identiche mansioni; infatti, l'art. 36 Cost. si limita a garantire la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione alla qualità e alla quantità del lavoro prestato, mentre il canone della ragionevolezza, che rappresenta un utile criterio di valutazione del rispetto da parte del legislatore del principio di uguaglianza posto dall'art. 3 Cost., non può essere applicato con la stessa efficacia nella valutazione dei regolamenti privati di interessi, che siano frutto dell'autonomia contrattuale; ne consegue che, a fronte di una contrattazione collettiva che introduca posizioni e trattamenti diversificati, è precluso al giudice l'esame della razionalità del regolamento contrattuale, a meno che risultino violate specifiche norme di diritto positivo[83]. Ai fini che interessano, non può dunque assumere alcuna utile efficacia euristica la comparazione soggettiva delle diverse posizioni lavorative in seno all’organizzazione aziendale.
Sulla stessa falsariga si esclude possa essere in sé considerato atto discriminatorio vietato l’attribuzione da parte dell’imprenditore di una qualifica superiore ad un dipendente e non ad altro impiegato in identiche mansioni. A quest’ultimo pertanto, salva l’applicazione dell’art. 15 dello statuto dei lavoratori, potrà essere riconosciuta la qualifica superiore solo ove si riscontrino singulatim verificate le condizioni a tale fine richieste dalla normativa collettiva e dall’art. 2103 c.c.[84]. Nella medesima prospettiva va letto l’orientamento giurisprudenziale per così dire simmetrico, secondo cui è legittima l'attribuzione al lavoratore, quale trattamento di favore, di una qualifica superiore a quella corrispondente alle mansioni svolte, essendo in tal caso irrilevante chiedere di provare, ad inficiare la validità del conferimento, la non corrispondenza in concreto della qualifica formale alle mansioni effettive[85].
·              Va rammentato, anche per quanto qui interessa, che la disciplina prevista dall’art. 2103 c.c. ha carattere inderogabile, comportando la nullità di ogni disposizione contrattuale contraria[86]. Ancora, si è opinato che in sede di applicazione dell'art. 2103 sono irrilevanti i titoli d'investitura o di studio posseduti dal lavoratore che rivendica la qualifica superiore, giacché, eccettuato il caso in cui esclusivamente a titoli del genere sia ancorata la attribuzione della qualifica e salvo ogni giudizio sulla validità di limitazioni simili poste dalla disciplina collettiva, quel che occorre valutare è se il lavoratore abbia esercitato mansioni superiori a quelle corrispondenti alla qualifica assegnatagli, in quanto è tale esercizio, come fatto, che da solo si sostituisce ai requisiti formali[87].
 
E’ utile ancora ricordare che diritto del lavoratore al riconoscimento di una qualifica superiore - e cioè ad una diversa collocazione nell'impresa attraverso l'attuazione degli strumenti classificatori all'uopo predisposti - soggiace alla prescrizione ordinaria decennale di cui all'art. 2946 c.c. Viceversa va osservato che qualora il lavoratore deduca l'espletamento di mansioni superiori, rispetto a quelle corrispondenti alla qualifica riconosciutagli, non per conseguire un diverso inquadramento, ma, in via strumentale, per ottenere un adeguamento del trattamento retributivo, anche ai fini della maggiorazione della indennità di fine rapporto, il diritto vantato è soggetto non alla prescrizione decennale - propria appunto del diritto alla qualifica - ma a quella quinquennale ex art. 2948 c.c.[88]. Detto termine breve decorre anche quando il diritto a tali differenze venga fatto valere contemporaneamente al diritto all'attribuzione alla qualifica superiore, soggetto alla prescrizione ordinaria[89].
·                E’ utile precisare, in materia di giudicato formatosi su domanda di riconoscimento di qualifica superiore ai sensi dell’art. 2103 c.c., che il medesimo ricomprende ogni possibile profilo inerente il fatto costitutivo dedotto, estendendosi ad ogni possibile ragione di fatto che l’attore avrebbe potuto dedurre a sostegno della pretesa[90].
3.2 Oneri della prova
E’ pacifica l’affermazione per cui grava sul dipendente che rivendichi la superiore qualifica l’onere di dimostrare il contenuto delle mansioni effettivamente svolte e la loro corrispondenza a quelle delineate dal contratto collettivo di categoria per il livello preteso. Incombe sul lavoratore, che rivendica nei confronti del datore di lavoro una superiore qualifica professionale in relazione alle mansioni svolte, dimostrare:
- la natura e il periodo di tempo durante il quale le mansioni sono state svolte;
- il contenuto delle disposizioni individuali, collettive o legali in forza delle quali la qualifica superiore viene rivendicata;
- la coincidenza delle mansioni svolte con quelle descritte dalla norma individuale, collettiva o legale di riferimento”[91].
Di recente la Suprema corte ha peraltro ribadito che, al fine dell’adempimento agli oneri imposti dall’art. 414 nn. 3 e 4 il lavoratore interessato deve specificare, con sufficiente analiticità, le mansioni effettivamente svolte e la normativa collettiva applicabile[92].
E’ d’uopo ancora ricordare che la giurisprudenza costante di legittimità afferma che, nella domanda del dipendente rivolta ad ottenere l’inquadramento in una più elevata qualifica, deve ritenersi implicitamente inclusa la rivendicazione di una qualifica inferiore, ma pur sempre superiore a quella di fatti riconosciuta[93] .
Circa poi l’iter logico che il giudicante deve seguire per pervenire ad un corretto accertamento del diritto del lavoratore ad un inquadramento professionale superiore, in conseguenza delle mansioni concretamente svolte, il medesimo, dopo avere considerato dette mansioni, le loro modalità di espletamento e la configurazione dell’unità produttiva, deve richiamare le declaratorie contrattuali ed operare il necessario raffronto[94]. Detta valutazione del giudice del merito costituisce un giudizio di fatto, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei criteri di ermeneutica nell’interpretazione della disciplina collettiva in tema di qualifiche o per vizi di motivazione[95]. Poiché l’appartenenza delle mansioni superiori ad altro lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto (così come il dissenso alla prestazione) è generalmente configurata come l’eccezione alla regola di cui all’art. 2103 c.c., si tratterebbe di un fatto impeditivo del diritto azionato. Il relativo onere allegatorio e probatorio spetta dunque al datore di lavoro[96]. Ma si registra, anche l’opinione (minoritaria) contraria, di chi configura la circostanza de qua come fatto costitutivo del diritto[97].
 
3.3         3.3 Il pubblico impiego.
- SITUAZIONE ANTE PRIVATIZZAZIONE
In questo specifico ambito, la giurisprudenza amministrativa si è sempre dimostrata granitica nel ritenere che, salvo che una legge non disponga diversamente, le mansioni svolte da un dipendente, che siano superiori rispetto a quelle dovute sulla base del provvedimento di nomina o di inquadramento, sono del tutto irrilevanti, sia ai fini economici che a quelli della progressione in carriera, ovvero della emanazione di un provvedimento di preposizione ad un ufficio. Si afferma, infatti, che è inapplicabile in materia di pubblico impiego il principio privatistico di effettività sancito dall'art. 2103 c.c., a ciò ostando le norme che disciplinano l'assunzione a mezzo di concorso, la progressione in carriera, i requisiti e gli organici[98], in sintonia con i valori di imparzialità e di buon andamento enunciati dall'art. 97 Cost.[99].
Per esigenze di completezza va precisato che la questione è rimasta parzialmente incisa, pur se non in maniera risolutiva, da alcune pronunce della Corte Costituzionale, nelle quali si è affermata l’applicazione diretta anche al personale della P.A. delle norme degli artt. 36 Cost. e 2126 c.c.[100].Sulla base di tali interventi si sono avute alcune decisioni del Consiglio di Stato in adunanza plenaria, che hanno riconosciuto al dipendente pubblico il diritto al trattamento economico corrispondente all'attività svolta[101].
Una parte della giurisprudenza amministrativa si è uniformata all’orientamento inaugurato dall’Adunanza plenaria nelle decisioni sopra citate[102].
La giurisprudenza amministrativa prevalente, invece, a fronte di sentenze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale, come tali non vincolanti, ha confermato l’indirizzo più restrittivo, escludendo così che l’orientamento più favorevole ai lavoratori, ora menzionato, avesse un effettivo seguito. In particolare si è ritenuta, in casi di tal fatta, l’inapplicabilità l'art. 2126, c.c., norma che riguarderebbe solo lo svolgimento del lavoro da parte di chi non è dipendente pubblico o di chi è stato assunto in base ad un titolo nullo o annullato e che, comunque, non legittima la deroga o la disapplicazione degli atti di nomina o d'inquadramento di tali dipendenti[103]. Secondo altra opzione interpretativa, pur largamente condivisa, il diritto al superiore trattamento economico insorgerebbe solo in presenza di prova documentale dell’affidamento di mansioni superiori, quando l’espletamento di queste risulti prevalente e quando il posto coperto risulti vacante[104].
Le decisioni dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 22 del 1999, 10 del 2000 e poi, da ultimo, 3 del 2006 hanno riaffermato, con ampie motivazioni, l’originaria tesi della irrilevanza assoluta, giuridica ed economica, dello svolgimento di fatto di mansioni superiori nell’ambito del pubblico impiego, anche sulla base dell’efficacia non retroattiva dell’art. 15 d.lgs. n. 387/1998.
 
- L’ART. 52 del D.LGS. n. 165/2001
Nel contesto normativo e giurisprudenziale sin qui illustrato si inserisce la nuova disciplina delle mansioni del dipendente pubblico introdotta dall’art. 56 del d.lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993, modificato dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998 e dall’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998, ora art. 52 del d.lgs. n. 165/2001[105].
La disposizione richiamata, nel suo primo comma, espressamente sancisce che “l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore”.
Al quarto comma poi la norma riconosce, in caso di adibizione a mansioni di qualifica superiore, il diritto al relativo “trattamento”.
Dunque, anche a seguito della nota riforma di privatizzazione del pubblico impiego, si è voluto attribuire portata decisiva non al dato fattuale delle mansioni, ma a quello formale risultante della qualifica[106].
Specifica menzione va quindi effettuata al sesto comma del medesimo art. 56, il quale attribuisce ai contratti collettivi la facoltà di “regolare diversamente gli effetti di cui ai commi 2°, 3° e 4°”. Taluni autori hanno esaltato tale norma come novità “eclatante”. Si è infatti sostenuto che il legislatore, con tale disposizione, consentendo alle parti sociali di derogare alle disposizioni di legge, lascerebbe aperta la possibilità di prevedere, in sede di contrattazione collettiva, meccanismi di avanzamento automatico di carriera, sulla base dell’attività lavorativa effettivamente espletata[107]. La conclusione interpretativa esposta non appare tuttavia così incontrovertibile. Va soprattutto evidenziato, rimanendo ancorati ad un’interpretazione fedele al senso delle parole, che il citato comma sesto riconosce alle parti sociali autonomia di regolamentazione solo nella materia di cui ai commi 2°, 3 ° e 4°.
Ebbene, poiché l’affermazione sopra riportata, di irrilevanza, ai fini della promozione automatica, dell’esercizio di fatto di date mansioni, è viceversa contenuta nel primo comma della disposizione, non sembra che la medesima possa essere validamente derogata da eventuali difformi previsioni contrattuali.
I commi 2, 3 e 4 dell’art. 52 tipizzano le ipotesi nelle quali il dipendente può essere legittimamente assegnato allo svolgimento di mansioni superiori. E’ questo l’unico punto di relativa flessibilità di un sistema classificatorio basato sul ruolo organico, formale e rigida individuazione delle prevedibili necessità di forza lavoro.
In tutti i casi è necessaria la sussistenza di “obiettive esigenze di servizio”, cioè di ragioni verificabili e sindacabili inerenti l’organizzazione del lavoro, tali da rendere necessitato il mutamento in melius delle mansioni del lavoratore; le stesse andranno evidentemente esternate nell’atto di adibizione.
La norma consente detta assegnazione solo con riguardo alla “qualifica immediatamente superiore” a quella rivestita dall’interessato.
Si rende dunque necessario chiarire il concetto di “qualifica” utilizzato dal legislatore in relazione al nuovo sistema di classificazione del personale, cui si è già fatto cenno. Sorge, infatti, l’interrogativo se la norma si applichi solo nel caso di mansioni proprie di altra area/categoria (usando la terminologia usata nei ccnl) o anche nelle ipotesi di spostamento interno all’area, per esempio in mansioni corrispondenti ad un livello economico superiore.
Pare doversi accedere a tale seconda opzione interpretativa, atteso che, nel nuovo sistema classificatorio, sovente nella stessa area/categoria sono raggruppati più profili tra loro eterogenei sia per il contenuto professionale che per l’aspetto retributivo, profili interconnessi solo per procedure selettive interne ascendenti. L’autonomia delle singole posizioni interne all’area impone, dunque, di ritenere qualifica superiore, ai sensi della norma in esame, anche il superiore profilo nell’ambito dello stessa area di appartenenza[108] , salvo norme espresse in senso diverso[109].
La norma tipizza due ipotesi che legittimano il mutamento di mansioni: a) la vacanza del posto in organico[110] e b) la sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto (esclusa l’assenza per ferie).
Intanto, è il caso di sottolineare che, in ambedue le evenienze, il conferimento delle mansioni superiori deve avvenire “di diritto”, cioè sulla base di un atto formale di assegnazione proveniente dal dirigente dell’unità organizzativa interessata[111]. Il Consiglio di Stato ha spiegato che tale requisito mira ad impedire che il singolo dipendente, di propria iniziativa o col consenso compiacente di altri organi incompetenti, possa assumere incarichi di livello superiore, aggirando le procedure selettive[112]. In questo senso, si è ritenuto che il difetto di tale atto formale non sia sanabile attraverso un atto ricognitivo dell’organo competente che attesti, ex post, l’effettivo svolgimento delle mansioni .
Andando a valutare le singole ipotesi, nella prima evenienza l’horror vacui giustifica lo spostamento in questione, tuttavia la lettera a) del comma 2, dell’art. 52 delimita lo spazio temporale in cui è possibile tale copertura straordinaria in sei mesi, prorogabili fino a dodici in caso di attivazione delle ordinarie procedure di copertura. Infatti il successivo quarto comma impone all’Amministrazione di procedere entro novanta giorni dall’assegnazione provvisoria all’avvio delle procedure necessarie per la provvista di personale. Il superamento del termine semestrale, senza avvio dei concorsi, comporta l’improrogabilità dell’assegnazione a mansioni superiori. Lo sforamento del termine di novanta giorni non sembra invece accompagnato da alcun precipuo effetto per l’amministrazione.
Quanto alla seconda ipotesi, con espressione mutuata dall’art. 2103 cit., la necessità di sostituzione di un collega assente con diritto alla conservazione del posto giustifica l’ius variandi ; è esclusa l’ipotesi delle ferie, durante le quali dunque non si può legittimamente provvedere alla sostituzione con lavoratore di grado inferiore .
Va peraltro precisato che, a mente del comma 3° dell’art. 52, costituisce esercizio di mansioni superiori solo l’attribuzione in “modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti” propri di dette mansioni . Dunque, anche in difetto della prevalenza per uno solo dei predetti aspetti, non vi sarà titolo per le differenze retributive[113].
Quanto agli effetti della fattispecie tipizzata e sin qui illustrata, il comma 4° dell’art. 52 riconosce al lavoratore interessato il diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore per il periodo di effettiva prestazione . Nel concetto di “trattamento” deve farsi rientrare non solo una certa posizione retributiva, ma anche tutta la congerie di situazioni giuridiche correlate ad una certa posizione di servizio (es. valutabilità come titolo; indennità accessorie[114] ).
Ove poi ci si interrogasse sull’ipotesi d’inosservanza dei requisiti previsti dalla disposizione (per esempio insussistenza di obiettive esigenze di servizio; copertura del posto vacante per più di un anno), il 5° comma dell’art. 52 sancisce la nullità dell’assegnazione a mansioni di qualifica superiore, ma al lavoratore si riconosce la differenza di trattamento economico rispetto alla qualifica superiore.
Dunque è da escludere che lo scorretto esercizio del ius variandi crei l’effetto di stabilizzazione di cui all’art. 2103 c.c., proprio per quel principio generale, insuperabile, di cui al comma 1°, dell’insensibilità dell’inquadramento formale rispetto alla realtà fattuale. L’assegnazione fuori dei limiti consentiti è nulla, cioè è improduttiva di effetti, giuridici e contrattuali (per esempio non è valutabile come titolo); genera invece il solo diritto del lavoratore alla “differenza di trattamento economico” (da ritenersi di ampiezza inferiore rispetto all’ipotesi di svolgimento di diritto delle mansioni). Trattandosi di obbligazione ad oggetto contra legem il prestatore potrebbe comunque legittimamente rifiutarsi di adempiere. Peraltro, con disposizione che riecheggia altre norme del nuovo sistema del lavoro pubblico, se la forma non può seguire il fatto, rimane comunque la responsabilità del dirigente che ha disposto l’assegnazione invalida per dolo o colpa grave (cfr. art. 3 D.L. 23.10.1996 n. 543). Trattasi, in effetti, di azione di rivalsa della P.A. nei confronti del dipendente responsabile per il danno erariale dal medesimo cagionato. È da ritenersi che in tale evenienza debba fornirsi la prova di un danno effettivo subito dalla P.A., allorché, ad esempio, le medesime esigenze obiettive di servizio avrebbero ben potuto essere soddisfatte con altri strumenti economicamente più convenienti (es. mobilità orizzontale; correzione dell’orario di lavoro; passaggi da amministrazioni diverse del comparto). Non appare convincente, viceversa, la tesi di una responsabilità formale, cioè con danno presunto, proprio perché con la corresponsione della retribuzione al dipendente interessato e con lo svolgimento da parte sua, anche solo di fatto di una prestazione, è in effetti implicita l’idea di una utilitas comunque ricevuta dall’Amministrazione. L’ultimo comma dell’art. 52, ai fini dell’entrata in vigore della nuova disciplina, adotta il criterio certo della decorrenza stabilita dai contratti collettivi, potendo lo stesso art. 52 trovare applicazione solo in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali. Fino a tale data il legislatore ribadisce che “in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto ad avanzamenti automatici”. Si trova poi definita l’attribuzione ai contratti collettivi del potere di regolare diversamente “gli effetti di cui ai commi 2°, 3° e 4°”.
Risulta chiara ed apprezzabile la scelta legislativa di imperniare comunque tutto il sistema mansionistico sulle scelte delle parti sociali. Nella significativa scelta di delegificare anche questa materia si ha, del resto, un’ulteriore conferma della fiducia riposta dal legislatore, sulla falsariga dell’esperienza privata, nella capacità delle organizzazioni rappresentative di meglio comporre i conflitti e realizzare gli interessi contrapposti.
Peraltro i primi contratti di comparto hanno per lo più confermato la disciplina dell’art. 52 (v. art. 3 Regioni), rinviando, semmai, per un’eventuale integrazione ad una futura contrattazione. Se i nuovi criteri contrattuali d’inquadramento del personale costituiscono la spina dorsale del sistema legale di regolamentazione delle mansioni, va da sé che quest’ultimo non possa essere operativo senza la compiuta definizione della disciplina pattizia. E’ così spiegato l’ultimo comma dell’art. 52 che prevede appunto il differimento del vigore della norma.
Il temporaneo congelamento degli effetti dell’art. 52 è tuttavia limitato al solo profilo qualificatorio: il comma 6 della norma, che estendeva l’inapplicabilità della stessa anche ai profili retributivi, è stato modificato dal decreto n. 80, così da rendere immediatamente vigente il precetto attributivo di diritti patrimoniali .
Nonostante lo spazio lasciato alle organizzazioni rappresentative, va, comunque, evidenziato quanto, nell’economia dell’art. 52, pesi ancora il retaggio di un’amministrazione burocratica e formalista. Infatti il legislatore ha rimesso alle parti sociali la regolamentazione del fenomeno mansionistico, riservandosi, tuttavia, una zona franca di spiccato rilievo.
In particolare merita di essere osservato che l’ultimo comma dell’art. 52 concede autonomia alle parti sociali solo nella regolamentazione degli “effetti di cui ai commi 2°, 3° e 4°”, ciò vuol dire che le fattispecie tipizzate dovrebbero rimanere ferme così come le ha imposte il legislatore[115]. In questo senso lo spazio per la deroga ai predetti commi risulta in effetti circoscritto al solo svolgimento di mansioni superiori “di diritto” (cioè nelle fattispecie tipizzate) non anche di mero fatto (il primo comma dell’art. 52 rimane infatti inderogabile) .
Seguendo tale ragionamento si ricava che, per esempio circa la promozione automatica per svolgimento di mansioni superiori prevista dagli organismi rappresentativi, comunque rimarrebbe fermo l’importante ed ingombrante presupposto della “vacanza di posto in organico”. Infine è giusto il caso di ricordare che, secondo quanto disposto dall’art. 19, 1° comma, del decreto legislativo n. 29 citato, per i dirigenti pubblici è espressamente e radicalmente esclusa l’applicabilità dell’art. 2103 c.c.
 
3.4 Oneri della prova
Il diritto al (solo) trattamento economico della qualifica immediatamente superiore sorge se il ricorrente ALLEGA E PROVA i seguenti fatti costitutivi del diritto:
·        sussistono obiettive esigenze di servizio +
·        vacanza posto in organico (per non più di 6/12 mesi) oppure
·        sostituzione di dipendente assente con conservazione del posto (escluso ferie) +
·        le mansioni superiori devono essere prevalenti
 
Se non ricorrono tali condizioni, l’assegnazione è nulla, ma rimane il diritto alla differenza di trattamento economico.
I ccnl non possono derogare al divieto di promozione automatica[116].
 

4. Trasferimenti

4.1 Elementi della fattispecie
Il primo comma, ultimo periodo, dell'art. 2103 c.c. (come sostituito dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300) dispone che il lavoratore "non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive". Dette ragioni costituiscono i presupposti sostanziali tipizzati dal legislatore per il legittimo esercizio del potere di trasferimento. Sul punto si ritiene che, anche alla luce dell’art.41, 1° co., Cost., il controllo giudiziale sulla correttezza sostanziale del provvedimento datoriale, non possa estendersi all’opportunità e/o all’adeguatezza della scelta datoriale, ma si riduce ad un sindacato sulla esistenza delle condizioni richieste dalla legge e del nesso di causalità tra queste ed il trasferimento. Pertanto resta insindacabile, ad esempio, la scelta tra più soluzioni organizzative, tutte ugualmente ragionevoli.
La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, aveva tradizionalmente interpretato tale norma in senso strettamente letterale, ritenendo che lo garanzie ivi previste competessero al lavoratore spostato dall'una ad altra unità produttiva, senza riguardo alla zona nella quale fosse ubicata l'unità
di destinazione[117].
Di recente, si è invece statuito che la tutela predisposta dall'articolo 2103 del C.c. ha una portata non limitata al trasferimento da un'unità produttiva a un'altra; essa, infatti, va al di là della considerazione dei soli interessi familiari e sociali legati a un determinato territorio e ha come scopo principale quello di tutelare la dignità del lavoratore e di proteggere il complesso di relazioni interpersonali e affettive che lo legano a un determinato complesso produttivo. Detta tutela, pertanto, troverebbe applicazione non solo nel passaggio da un'unità produttiva a un'altra (anche nell'ambito dello stesso comune), ma anche quando sia disposto uno spostamento territoriale delle prestazioni lavorative del dipendente da una ad altra zona, a prescindere dall'unità produttiva dell'impresa alla quale dette prestazioni risultino imputate, quando comporti disagi personali e familiari dovuti al cambio del luogo di lavoro ed eventualmente di residenza[118].
Poiché la legge pone solo un onere di giustificazione sostanziale, sono assoggettate al principio generale della liberta' di forma sia la comunicazione del trasferimento del lavoratore - cui non e' applicabile la disposizione di cui al primo comma dell'art. 2 della legge 15 luglio 1966 n. 604 - sia la richiesta dei motivi e la relativa risposta, che non postulano per legge alcun requisito formale[119]. Insorge l’obbligo formale di motivazione, in applicazione analogica dell'art. 2, l. n. 604 del 1966, solo ove il lavoratore ne faccia tempestiva richiesta nel termine di otto giorni dalla comunicazione del trasferimento; tale richiesta e la sua evasione da parte del datore di lavoro non postulano peraltro alcun requisito formale, sicché la tardività della comunicazione scritta dei motivi del provvedimento (dopo oltre cinque giorni dalla suddetta richiesta) non incide sull'efficacia del trasferimento ove i motivi stessi risultino tempestivamente comunicati al dipendente in forma orale nel corso di un colloquio[120].
Quanto, poi, al pubblico impiego, l’art. 2 d.lgs. 165/01 stabilisce che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto”.
Tra le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile è contenuto l’art. 2103 c.c citato che, per la mancata previsione di norme nel D.Lgs. 165/01 ovvero nella contrattazione collettiva incompatibili con la disciplina del trasferimento delineato nel codice civile, appare applicabile anche nel caso di specie[121].
Circa il pubblico impiego, può giusto ritornare utile sapere che il trasferimento del dipendente dovuto ad incompatibilità ambientale, trovando la sua causa nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell'unità produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive (previste dall'art. 2103 c.c.), piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari[122]; con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento, appunto, prescinde dalla colpa (in senso lato) del lavoratore trasferito, come dall'osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale, che sia stabilita per le sanzioni disciplinari.
4.2 Oneri della prova
L'art. 2103 c.c. subordinando la legittimità del trasferimento del lavoratore alla sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, postula non solo l'effettiva esistenza di queste ultime, ma anche la loro controllabilità da parte del lavoratore destinatario del provvedimento (sia pur non richiedendosi la loro contestuale comunicazione) e l'onere per il datore di lavoro di offrire la prova in caso di controversia[123].
Invero, quando il “legittimo esercizio del potere del datore di lavoro è condizionato.. ad una giustificazione, l’onere della prova di quest’ultima, a prescindere da eventuali disposizioni espresse confermative, grava sempre sul datore di lavoro. Si tratta, infatti, di una fattispecie complessa in cui l’obbligo di non fare riguarda l’atto, la cui esistenza deve quindi essere provata dal lavoratore creditore, ma con una eccezione legittimante (la giustificazione)”[124].
Secondo i principi già sopra delineati, naturalmente il lavoratore ha il previo onere di contestare la legittimità del trasferimento, deducendo specifici motivi di illegittimità dello stesso ed offrendosi di provarli.
In tal caso, il datore di lavoro non potrebbe limitarsi a negare la sussistenza dei motivi allegati da controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che hanno determinato il provvedimento[125].
Diversamente, costante principio giurisprudenziale, affermato in tema di licenziamento, ed egualmente valido in materia di trasferimento, secondo cui l'onere della prova del carattere ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia il quale intento - é opportuno ricordarlo, derivandone una particolare gravità degli oneri probatori per il lavoratore che ne e' gravato - deve avere avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un provvedimento legittimo[126]. Tutto ciò si riflette, sul piano processuale, nella necessità per il lavoratore che in ricorso indichi elementi idonei a individuare la sussistenza di un rapporto di causalità fra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di rappresaglia[127].
 

5. Il mobbing

5.1 Assenza di riconoscimento giuridico
Ad oggi, non esiste una definizione normativa del mobbing, ciò vuol dire che con questo nome non può essere individuata alcuna categoria giuridica, che sia, in quanto tale, riconosciuta da norme di diritto positivo[128].
Il mobbing costituisce perciò solo un fenomeno enucleato dalla psicologia e dalla sociologia, ma senza una propria autonoma dignità giuridica.
Con questo importante limite, per finalità meramente descrittive, il fenomeno ben può essere descritto utilizzando le parole usate dalla Corte di cassazione, in una delle più significative sentenze in tema[129]: “una fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore”. In termini sostanzialmente analoghi si è espressa la Corte Costituzionale[130]. Dunque, i tratti caratterizzanti la figura sono:
       ·       la reiterazione e la sistematicità di condotte ostili, ancorché non necessariamente illegittime o illecite[131];
       ·       l'intenzionalità della strategia persecutoria[132].
 
5.2 Inutilità della nozione: sussunzione negli art. 2087 e/o 1375 c.c.
In realtà, quel che interessa evidenziare è che il mobbing, non solo non è categoria riconosciuta come tale dal diritto positivo, ma non risulta nemmeno un concetto scientificamente necessario o
anche solo utile[133].
Infatti, sia che si consideri la fattispecie per l’aspetto della condotta sanzionata, sia che la si esamini per il profilo dei danni risarcibili, se ne conferma l’inutilità rispetto alle figure ed agli strumenti già - la condotta. Secondo alcuni commentatori la nozione di mobbing varrebbe a colpire quegli atti datoriali che considerati partitamene ed isolatamente sembrerebbero leciti, e che, solo collocati in una sequenza ripetitiva protratta e connotati dall’intento persecutorio, cioè riqualificati come atti mobbizzanti, potrebbero essere sanzionati.
L’assunto non convince.
Infatti, intanto, molte condotte datoriali sono già colpite da singole disposizioni specifiche (es. sulle mansioni, trasferimenti, sanzioni, discriminazioni, v. infra).
Inoltre, come chiaramente affermato dalla Cassazione la “condotta sistematica e protratta nel tempo, .. concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’articolo 2087 c.c.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato”[134].
L’art. 2087 c.c., ha dunque una portata precettiva tale da ricomprendere, come norma primaria costituiva di obblighi, qualsiasi atto o comportamento comunque lesivo della persona del lavoratore, in ragione delle sua caratteristiche vessatorie. E’ invero una norma di chiusura, atta ad imporre la “massima sicurezza fattibile”[135]: “l’art. 2087 ha il pregio di qualificare la condotta non in base al suo contenuto, ma in considerazione del bene protetto.. evitando così ogni rischio d’incompletezza”[136].
Importa, peraltro, rimarcare che l’art. 2087 sancisce la tutela dell’integrità fisica (in cui rientra certamente l’integrità psichica, essendo la psicopatia una patologia fisica) e, insieme, della “personalità morale”, dovendosi ricomprendere in tale espressione (v. infra) l’insieme delle condizioni esistenziali di vita del lavoratore[137].
Si aggiunga che la giurisprudenza di merito attraverso l’elaborazione della figura del mobbing, caratterizzata dal richiesto requisito dell’intenzionalità della condotta, cioè del dolo, arriva in sede applicativa a ridimensionare se non azzerare le istanze di protezione del dipendente. E’ noto, infatti, che l’onere probatorio consistente nella dimostrazione di un’intenzionalità, cioè dell’animus nocendi, risulta alla fine una probatio diabolica.
Si aggiunga ancora che le norme degli artt. 1175 e 1375 c.c., integrative del contenuto del contratto di lavoro subordinato, ex art. 1374 c.c., impongono, in maniera atipica, cioè con potenzialità espansiva massima, che i contraenti tengano comportamenti corretti e di buona fede. Ed è evidente come da tali norme siano già ampiamente sanzionati comportamenti o atti mobbizzanti[138]. Non può, in materia, essere trascurato che in effetti la questione degli atti leciti mobbizzanti rientra nella più ampia tematica dell’abuso dei poteri privati.
Ora, non è qui la sede per riproporre una problematica così sterminata; giova solo richiamare all’attenzione l’esito interpretativo di un’ampia elaborazione, ormai assestata, riportando l’illuminante pensiero di Cassazione.
La Corte “ritiene di condividere l'indirizzo secondo cui l'intenzionalità del comportamento del datore di lavoro, mentre é irrilevante nel caso di condotta contrastante con norma imperativa, può assumere rilievo quando la condotta del medesimo, pur se lecita nella sua obiettività, presenti i caratteri dell'abuso del diritto (sent. 5922-87). In questo caso, infatti, l'esercizio del diritto da parte del titolare si esplicita attraverso l'uso abnorme delle relative facoltà ed é indirizzato a fine diverso da quello dalla norma tutelato e, in coerenza alla norma dettata in tema di proprietà (art. 833 c.c.), assume, nel campo delle obbligazioni e del rapporto di lavoro in particolare, carattere di illiceità per contrasto con i principi di correttezza e buona fede, i quali assurgono a norma integrativa del contratto di lavoro in relazione all'obbligo di solidarietà  imposto alle parti contraenti dalla comunione di scopo che entrambe, sia pure in diversa e talora opposta posizione, perseguono”[139].
Dunque, i fatti o atti concretizzanti le fattispecie di mobbing sono già colpiti, pur nella loro astratta liceità, da altre norme del sistema.
 
- Il danno. Parimenti va negata la necessità di utilizzare il mobbing per garantire il risarcimento di voci di danno, altrimenti non risarcibili.
Infatti, come si approfondirà, i più recenti orientamenti giurisprudenziali garantiscono il risarcimento di ogni forma di danno, anche non patrimoniale, ai sensi degli artt. 2087, 2059 c.c.
 
5.3 Conseguenze della riconduzione del mobbing alla disciplina dell’art. 2087 c.c.
Conclusivamente, il fenomeno in esame rimane quasi interamente assorbito e disciplinato dalla norma dell’art. 2087 c.c.: trattasi di responsabilità di natura contrattuale[140], essendo fondata sull’inadempimento di un’obbligazione giuridica preesistente[141].
Dalla prospettata natura contrattuale della responsabilità, la stessa giurisprudenza ricava, per quel che qui interessa, significative implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri probatori relativi.[142].
Come è già stato anticipato, infatti, la presunzione legale di colpa - stabilita (dall'articolo 1218 c.c., cit.) a carico del datore di lavoro inadempiente all'obbligo di sicurezza (di cui all'articolo 2087, cit.) - deroga, parzialmente, il principio generale (articolo 2697 c.c.), che impone - a "chi vuol fare valere un diritto in giudizio" - l'onere di provare "i fatti che ne costituiscono il fondamento". Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità oggettiva (ma per colpa[143]), né la dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore danneggiato.
“Questi, infatti, resta gravato - in forza del ricordato principio generale (articolo 2697 c.c., cit.) - dell'onere di provare il "fatto" costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre esula dall'onere probatorio a carico del lavoratore - in deroga, appunto, allo stesso principio generale - la prova della colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento (come ad ogni altro rimedio contro il medesimo inadempimento). È lo stesso datore di lavoro, infatti, ad essere gravato (ai sensi dell'articolo 1218 c.c.) - quale "debitore", in relazione all'obbligo di sicurezza, appunto - dell'onere di provare la non imputabilità dell'inadempimento”[144].
Diverso risulta, tuttavia, (anche) il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza - asseritamente omesse - siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte parimenti vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal D.Lgs 626/94 e successive integrazioni e modifiche, come dal precedente Dpr 547/55), oppure debbano essere ricavate dalla stessa disposizione (articolo 2087 c.c., cit.) che impone l'obbligo di sicurezza.
Nel primo caso - di misure di sicurezza (o prevenzione), pero cosi dire, nominate - il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa - cioè il rischio specifico, che s'intende prevenire o contenere - nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria a carico del datore di lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore: negazione, cioè, dell'obbligo o, comunque, dell'inadempimento - in relazione a quella stessa misura di sicurezza (o di prevenzione) - nonché del nesso di causalità tra inadempimento e danno[145].
Nel secondo caso - di misure di sicurezza (o prevenzione), per cosi dire, innominate - fermo restando l'onere probatorio a carico del lavoratore, la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta invece variamente definita in relazione alla quantificazione della diligenza (ritenuta) esigibile - nella predisposizione di quelle misure di sicurezza - e perciò registra, anche in giurisprudenza, significative oscillazioni.
Di recente, si stima tendenzialmente dovuta soltanto l'adozione di comportamenti specifici suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche standard di sicurezza adottati normalmente o da altre fonti analoghe. In particolare la Corte costituzionale (sent. n. 312/1996[146]), ha affermato il criterio delle “misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti”, di modo che rimane censurabile solo “la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto ed al momento, delle diverse attività produttive”.
 
In ogni caso, sembra importante sottolineare che l’onere della prova liberatoria a carico datoriale si radica, cioè insorge, solo ove l’attore abbia sufficientemente dedotto e provato l’omissione nel predisporre le misure di sicurezza necessarie ad evitare il danno (misure violate + nesso causale tra la violazione ed il danno) e “non può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione, a pena di far scadere una responsabilità per colpa in responsabilità oggettiva”[147]. Al datore di lavoro non può essere negato il diritto, per potersi difendere, di conoscere l’inadempimento che gli viene imputato[148].
Dunque, è insufficiente un ricorso fondato su una allegazione generica di “violazione dell’obbligo di sicurezza”.
Il datore di lavoro, poi, é responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente, non solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso (anche) da parte dello stesso dipendente, con la conseguenza che - secondo la giurisprudenza della Corte[149] - si può configurare un esonero totale di responsabilità, per il datore di lavoro appunto, solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità e dell'assoluta imprevedibilità[150].
Deve, ancora, ricordarsi che il datore di lavoro, nel mobbing discendente viola un obbligo di non fare, cioè un divieto. Ma, anche se la condotta offensiva venga posta in essere a livello orizzontale o ascendente da altri colleghi, il medesimo datore dovrebbe essere tenuto a rispondere, comunque, per fatto proprio. Infatti, in quest’ultima evenienza sussiste la violazione di un obbligo di fare consistente nella protezione del lavoratore nei confronti delle molestie o persecuzioni, conosciute o conoscibili, dei colleghi o sottoposti ( a loro volta responsabili contrattualmente e disciplinarmente verso il datore ed extracontrattualmente verso la vittima).
In questa direzione, non servirebbe il richiamo alle norme degli artt. 1228 e 2049 c.c. per risalire alla responsabilità datoriale[151].
 
5.4 Oneri della prova
Dovendosi dunque ricondurre il fenomeno del mobbing all’art. 2087 c.c., concretizzante un’ipotesi di responsabilità contrattuale del datore di lavoro[152]:
il lavoratore ha l’onere di                        - allegare e dimostrare l’esistenza del diritto
                                                              -allegare il fatto costituente inadempimento (= violazione di norme di sicurezza specifiche o generiche)
                                                               -allegare e provare il danno ed il nesso causale rispetto all’omissione lamentata
 
solo se detto onere assertivo è assolto:
 
                                                           il datore di lavoro ha l'onere di     -allegare e provare l’adempimento/la non imputabilità del fatto (= avere adottato quelle idonee misure protettive/preventive e di avere vigilato sulla loro concreta applicazione).
 
il datore di lavoro ha l’onere di                                                                
Poiché nel solo mobbing discendente in realtà vi sarebbe la violazione di un divieto, cioè di un obbligo di non fare, solo in questo caso (come nelle discriminazioni o negli atti a motivo illecito):
-il lavoratore avrebbe l’onere di               -allegare e provare l’inadempimento
                                                             invece nel mobbing ascendente o orizzontale:
-il lavoratore avrebbe l’onere di               -allegare e provare la persecuzione da parte di colleghi o sottoposti
  -la conoscenza o conoscibilità da parte datoriale, col conseguente obbligo d’intervento protettivo
 
  5.5 Possibile sussunzione del mobbing in figure affini: il motivo illecito determinante, le discriminazioni, le molestie
Per completezza, va tenuto conto che, in base al principio di specialità, spesso le condotte mobbizzanti risultano sussumibili sotto altre fattispecie legali specifiche, già tipizzate[153].
Intanto, va ricordata la possibile rilevanza del motivo illecito sotteso ad atti apparentemente validi e leciti.
Il motivo illecito potrebbe essere quello persecutorio o di ritorsione, reazione o ripicca al legittimo esercizio di diritti riconosciuti. Trattasi di una nullità sanzionabile alla stregua degli artt. 1418, 1345, 1324 cod. civ.[154].
Ai fini della nullità, il profilo delineato dalla norma deve assurgere a motivo unico determinante; cioè la ragione vendicativa e ritorsiva deve risultare di portata eziologica esclusiva. Viceversa, sovrapponendosi altri motivi autonomi, realmente giustificativi del recesso, la verifica d’illiceità del motivo perde rilevanza.
A livello processuale è il ricorrente, in casi di tal fatta, a trovarsi gravato dell’onere di allegare e provare l’illustrato motivo ed il nesso causale. Certamente non si tratterà di una prova agevole, avendo ad oggetto un processo mentale interno ad un soggetto. Acquisirà importanza a fini probatori, ovviamente la dimostrazione dell’inconsistenza della giustificazione sostanziale addotta formalmente.
Verosimilmente, poi, al fine di ricostruire il processo formativo della volontà, troverà largo spazio l’utilizzo di presunzioni semplici.
Quanto ai motivi formalmente addotti, come dianzi rilevato, grava sulla parte datrice, sub specie di fatti impeditivi, sollevare ope exceptionis e quindi provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo. Allorché tale ultima dimostrazione sia perfezionata, rimane irrilevante l’accertamento sul (magari concorrente) motivo ritorsivo e l’atto non può comunque ritenersi affetto da nullità[155].
Si coglie il destro per rilevare che non convince la diffusa tendenza ad annullare i confini tra atto discriminatorio ed atto viziato da motivo illecito.
Il punto merita approfondimento e non, si badi, per un mero interesse catalogatorio, ma per i risvolti pratici implicati.
La definizione autentica del concetto di discriminazione, evidenzia in maniera indiscutibile la portata oggettiva della medesima, imperniata come è sul solo risultato finale dell’atto o della condotta.
Ad esempio, l’art. 4, L. 10 aprile 1991 n. 125, Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna sul lavoro, come sostituito dall’art. 25 del dlgs. 11 aprile 2006, n. 198 , definisce il concetto di discriminazione diretta come “qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”. La tecnica definitoria scelta conduce, di necessità, all’irrilevanza dell’intento dell’autore, rimanendo affatto estraneo alla valutazione giuridica del comportamento indagato il movente soggettivo, l’animus nocendi. La prospettiva è dunque quella della vittima e non quella dell’autore.
E’ chiaro, d’altra parte, che la concezione funzionale della discriminazione prescelta dal legislatore garantisce la vittima dalle difficoltà probatorie che s’incontrano quando si ha da dimostrare un’intenzione, peraltro con definizioni tipizzanti sostanzialmente aperte, cioè atipiche rispetto alle concrete condotte sanzionate[156]. Diversamente è a dirsi per la nullità che colpisce l’atto per motivo illecito determinante. Qui, difatti, il factum probandum consiste proprio nella dimostrazione di un intento, di un movente .
Inoltre, quello di discriminazione è quoad essentiam un concetto sistemico, cioè fondato sull’appartenenza della vittima ad un genus. In tal senso questo tipo di tutela ha un imprescindibile sostrato superindividuale, rivolgendosi al lavoratore, non nell’episodicità della sua situazione, ma nella sua identità collettiva in quanto appartenente ad un gruppo. La normativa protettiva specifica opera dunque solo quando sia allegata l’esistenza del cd. fattore discriminante (razza, religione, sesso, etc.).
All’opposto la nullità per motivo illecito è improntata ad una considerazione atomistica della singola vicenda contrattuale, scena nella quale rilevano giuridicamente i comportamenti dei contraenti uti singuli.
Peraltro, l’agevolazione probatoria legata all’essenza oggettiva della discriminazione è rincarata dallo speciale regime probatorio previsto. Infatti, l’art. 40, sostitutivo del 6° co. dell’art. 4 della l. n. 125 cit. recita: “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione”. Grava perciò sul dipendente il peso di fornire (almeno due) circostanze fattuali, omogenee e specifiche, sintomi di discriminazione. L’onere probatorio datoriale è solo eventuale, essendo subordinato all’assolvimento dell’onere gravante sulla controparte, ciò, si noti, contro il principio processuale dell’unicità del mezzo di prova.
Trattasi, quanto alla posizione datoriale, sostanzialmente di un onere di giustificazione, da assolvere in finale attraverso la prova di un fatto positivo, cioè l’esistenza di cause di giustificazione della disparità di trattamento.
Nel contesto in discorso risulta di peculiare pregnanza probatoria l’uso di criteri statistici, tali da individuare nella complessiva prassi aziendale, secondo una regola di proporzionalità ovvero secondo un criterio empirico-probabilistico, eventuali disparità di trattamento a carico delle lavoratrici.
La norma non pare riconducibile nell’ambito delle ipotesi d’inversione legale dell’onere probatorio. Infatti, difetta, di tale categoria il totale sollevamento della parte altrimenti onerata del peso istruttorio: in questo caso, il lavoratore non è, come per esempio, per la giusta causa o il giustificato motivo, del tutto esonerato dagli oneri dimostrativi, ma deve comunque allegare e dimostrare elementi per fondare una presunzione di discriminazione. Inoltre la parte datrice deve dimostrare lo stesso fatto che avrebbe dovuto provare secondo la regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.[157]
A parere di altri interpreti si tratterrebbe di una presunzione legale relativa. Contro tale assunto vi è però da osservare che, mentre il meccanismo presuntivo legale non ha valore istruttorio, nel caso dell’art. 4 si sviluppa un’attività probatoria, cioè conoscitiva della realtà. Infine, altra esegesi ha portato a riconoscere nella fattispecie de qua senz’altro una presunzione semplice. Di contro, è da rilevare che la norma non richiede, a differenza del disposto dell’art. 2729 cod. civ., l’attributo della gravità degli indizi.
L’interpretazione più convincente riconosce l’autonomia e specialità della fattispecie tipizzata dall’art. 4 cit., certo ricalcata su quella propria della presunzioni semplici ma con un grado di attendibilità della prova inferiore a quello necessario per raggiungere il convincimento pieno. Si è dunque di fronte non all’esenzione, ma all’alleggerimento del peso probatorio dei fatti costitutivi del diritto. Peraltro, a differenza della presunzione legale, in questa caso è affidato all’interprete il prudente apprezzamento dei nessi logici inferenziali.
Emerge perciò il carattere ibrido della figura, indirizzata a garantire concorrenti esigenze: come le presunzioni semplici funge da strumento conoscitivo effettivo della fattispecie, pur nel limite della verosimiglianza; come le presunzioni legali, vale a programmare anticipatamente una certa ripartizione degli oneri della prova.
Si è di fronte ad un diritto processuale diseguale, cioè un regime agevolato per la presunta vittima in conformità con l’assunto della disparità delle posizioni di partenza[158].
 
Meritano altresì menzione i decreti legislativi n. 215 (riferito alla razza e all’origine etnica) e n. 216 del 9 luglio 2003 per la parità di trattamento tra le persone sul posto di lavoro, rispettivamente di attuazione delle Direttive del Consiglio europeo n.43 e n.78 del 2000.
La logica di questi decreti è sempre quella della discriminazione, come si desume chiaramente dagli articoli iniziali di ciascun corpus regolativo. In particolare, negli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 216, che ha portata piu’ generale, si individua la finalità del “principio di p/arità di trattamento” intesa come “l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale”.
Dunque, vanno ribadite tutte le argomentazioni testè esposte, circa i connotati specifici caratterizzanti la categoria giuridica della discriminazione.
Di questi testi normativi, è qui il caso di ricordare la definizione autentica delle molestie ovvero “quei comportamenti indesiderati”, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, “aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo” (art. 2, 3° co., d.lgs. n. 216 cit.).
La scelta per una concezione oggettiva (“o l’effetto”) agevola molto gli oneri probatori, anche evidenziato che viene riconosciuto in favore del ricorrente un regime di onere della prova di favore, di tipo presuntivo, basato su “dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti” (art. 4 co. 3°).
Circa il riconoscimento del risarcimento di un “danno non patrimoniale” pur in assenza di una fattispecie penale, la novità della norma è sminuita dal coevo avvio di un nuovo corso giurisprudenziale, inaugurato dalle citate sentenze della Cassazione n.8827 e 8828 del 2003 (art. 4 co. 4°).
Inoltre, si segnala che viene introdotto il dovere del giudice di tenere conto, nella liquidazione del danno, anche del carattere ritorsivo della condotta discriminatoria (art. 4 co. 5°) e viene riconosciuta la possibilità che il giudice ordini la cessazione del comportamento e la rimozione degli effetti.
Analoga considerazione merita il d.lgs. n. 145/2005 (di attuazione della direttiva 2002/73/CE in materia di parità di trattamento tra gli uomini e le donne, che va ad integrare la l. n. 125/1991 (v.s.).
 

6. Il risarcimento del danno

6.1 Regole generali
La tematica del risarcimento del danno ha una propria autonomia, correlandosi alle diverse fattispecie inadempitive sopra menzionate.
Come principi generali, va giusto ricordato che, vertendosi in ogni caso (v. amplius paragrafi precedenti) in tema d’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’art. 1223 c.c., il risarcimento deve essere comprensivo della “perdita subita” e del “mancato guadagno”, purché ne costituiscano “conseguenza immediata e diretta”.
Parimenti da ricordare è che, ai sensi dell’art. 1225 c.c., salvo il dolo del debitore, è risarcibile il solo danno che era prevedibile quando l’obbligazione era sorta.
La materia risarcitoria è stata di recente oggetto di fondamentali interventi di sistemazione: in particolare occorre muovere dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 6572/2006.
 
6.2 Il principio di effettività del danno
Le sezioni unite, dopo avere espressamente affermato la natura necessariamente contrattuale della responsabilità datoriale (v.s.), ribadiscono il principio generale regolatore della materia, che è quello dell’effettività del danno.
“Dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'alto illegittimo. L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma. Non può infatti non valere" anche in questo caso, la distinzione tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano "conseguenza immediata e diretta" dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte Costituzionale n. 372 del 1994). D'altra parte - mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta - ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile. In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l'attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento”.
 
La chiave di lettura delle azioni risarcitorie risiede, dunque, nel principio ora esposto: la funzione loro propria è solo la riparazione di un danno reale e concreto, come empiricamente verificatosi[159].
 
6.3 Molteplicità delle voci di danno: oneri di allegazione del lavoratore
La Cassazione, evidenzia, quindi, la molteplice varietà delle voci di danno risarcibili, connotate, ciascuna, da una diversa matrice ed un diverso oggetto, tali da radicare oneri di precisa e necessaria allegazione da parte del lavoratore[160].
“Non è quindi sufficiente… chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cass. sez. un. 3 febbraio 1998 n. 1099)”. Nella sentenza delle Sezioni unite si procede quindi al riassetto della tematica risarcitoria, attraverso la individuazione delle varie voci di danno in ipotesi risarcibili.
6.4 Schematizzazione delle voci di danno e relativi oneri assertivi/probatori.
1. DANNO PATRIMONIALE
E’ questo il pregiudizio a valori o beni economicamente apprezzabili dell’interessato.
Anche in questo ambito il danno effettivo va concretamente detto nella sua singolarità e verificazione concreta, altrimenti “fermo l'inadempimento - l'interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell'impegno assunto di svolgere l'attività che gli viene richiesta dal datore”.
 
E’ tale, in primis, il danno professionale, che può consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (danno emergente), ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno (lucro cessante).
Oneri di adeguata allegazione in concreto, ad esempio tramite la circostanziata allegazione dell'esercizio di una attività soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.
Nei giudizi per demansionamento, nella quantificazione, è tendenzialmente usato il parametro retributivo, adeguato indicatore anche della professionalità, modulato secondo parametri individualizzanti, quali l’entità del demansionamento, la sua durata, l’età e l’anzianità[161]. Similmente, per la perdita di chance, intesa “come probabilità effettiva e congrua di conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni”[162], va data allegazione e poi prova in concreto, dovendosi indicare, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività[163].
2. DANNO NON PATRIMONIALE
E’ questo il danno inerente a beni, interessi o valori non direttamente oggetto di valutazione economica ed indipendenti dalla capacità reddituale della vittima.
In argomento, va giusto ricordato che un gruppo di importanti sentenze della Cassazione[164] è valsa ad affermare, come diritto vivente, il principio interpretativo per cui nel vigente assetto ordinamentale il danno non patrimoniale, di cui all’art. 2059 c.c., non può più essere identificato, secondo la tradizionale restrittiva lettura, soltanto col danno morale soggettivo, ex art. 185 c.p., scaturente da reato.
Diversamente, secondo il recente pensiero di Cassazione, il danno non patrimoniale è una categoria ampia, comprensiva di tutte le ipotesi di lesione di un valore inerente la persona, costituzionalmente garantito, dalla quale conseguono pregiudizi non suscettivi di valutazione economica. Per completezza, si deve notare che le Sezioni unite, circa le ipotesi violative dell’art. 2087, in quanto protettivo anche della “personalità morale”, hanno ritenuto sufficiente detta norma per garantire il risarcimento dei danni non patrimoniali.
 
All’interno della categoria del danno non patrimoniale rientrano dunque le tre seguenti voci.
2.1 DANNO BIOLOGICO
E’ la lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile, secondo la definizione legislativa di cui alla L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 3, sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003). Gli oneri di allegazione qui si sostanziano nella precisa indicazione in ricorso della patologia riportata e del suo preteso collegamento eziologico rispetto alla condotta inadempitiva[165] (quindi è importante anche la precisazione sulla data di manifestazione della patologia). I mezzi di prova in argomento risiedono, soprattutto nella CTU medico legale; tuttavia, occorre insistere che la CTU non può avere valore esplorativo/creativo, ma deve essere sempre riferita alle sole e precise patologie dedotte in ricorso.
 
2.2. DANNO MORALE SOGGETTIVO CONTINGENTE
E’ la sofferenza contingente ed il turbamento dell’animo determinati da fatto illecito integrante reato: il pretium doloris. Ha natura meramente emotiva ed interiore, non è oggettivamente accertabile. E’ risarcibile ex art. 185 c.p.
Nella liquidazione equitativa del danno non patrimoniale derivante da fatto illecito, deve tenersi conto della gravità dell'illecito penale e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso specifico. Ne consegue che, per esempio, il ricorso da parte del giudice di merito al criterio della determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno morale in una frazione dell'importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico, non è di per sé illegittimo, a condizione che si tenga conto delle peculiarità del caso concreto, effettuando la necessaria personalizzazione del criterio alla specifica situazione, ed apportando, se del caso, i necessari correttivi, senza che la liquidazione del danno sia rimessa ad un puro automatismo[166].
2.3 DANNO ESISTENZIALE
Poiché in tema sono frequenti gli equivoci, è bene riportare la definizione usata dalle Sezioni unite. E’ tale “il danno non patrimoniale all'identità professionale sul luogo di lavoro, all'immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 Cost…per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.
Detto danno è oggettivamente accertabile, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso.
Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l'interessato sull'oggetto e sul modo di operare dell'asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell'atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all'immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza... Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare - al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell'indennità psicofisica - necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita.
Transitando dal piano assertivo a quello probatorio, il danno esistenziale può essere provato mediante prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo "i concreti" cambiamenti che l'illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato, secondo le precise allegazioni già in ricorso.
Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall'ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 cod. civ. venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cass. n. 13819 del 18 settembre 2003), complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ. a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Importante è tener conto che secondo la sentenza in commento “in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell'arbitrio, necessita di parametri a cui ancorarsi”.
Maria Casola
Giudice presso la sezione lavoro
del Tribunale di Napoli
(fonte: http://appinter.csm.it/incontri/relaz/14644.pdf )
 
 

 

[1]“Già in sede di fondazione del diritto del lavoro quale disciplina distinta dal diritto civile, or è circa un secolo, venne l’appello a non isolare i relativi problemi dai principi generali del diritto delle obbligazioni, cedendo al cieco empirismo, mentre il richiamo all’unità dell’ordinamento quale postulato non logico ma di giustizia percorre il diritto non solo italiano nell’età delle specializzazioni” (Cass. S.U. n. 141/2006).

[2] Nel corpo della relazione si sono riportati spesso i passi testuali salienti di sentenze rilevanti, per consentire il personale, diretto esame delle stesse. I passi sono in corsivo virgolettato, ma il sottolineato è della redattrice.

[3] Ex multis Cass. n. 9877/02 ; S.U. n. 99/01.

[4] Le differenze regolative essenziali sono le seguenti: 1) la responsabilità contrattuale non presuppone la capacità di intendere e di volere, presupposta, invece, dall’art. 2047, c.c.: l’adempimento è, del resto, atto dovuto (sempre, ovviamente, che non si tratti di adempimento di obbligazione naturale); 2) in relazione ai danni imprevedibili, poiché l’art. 2056, c.c. non richiama l’art. 1225, c.c., si ritiene che, in caso di resp. contrattuale, tali pregiudizi siano risarcibili solo se se vi è dolo, mentre in quella extracontrattuale lo sarebbero sempre; 3) nella responsabilità extracontrattuale deve fornirsi la prova della colpa dell’autore del danno; 4) il diritto ad agire ex art. 2043, c.c. si prescrive in 5 anni (art. 2947, 1° comma, c.c.), quello ex art. 1218, c.c. in quello ordinario decennale (dalla relazione Onere della prova e responsabilità civile, Roma, Consiglio Superiore della Magistratura, Incontro di studio del 12.6.2006).

[5] Cass. n. 12445/2006.

[6] V. Cass. n. 13053/2006.

[7] Per ragioni di completezza, deve avvisarsi che l’unico ambito in cui, senza specifici approfondimenti, viene riportata la massima tralatizia inerente il doppio titolo di responsabilità è quello del pubblico impiego, ai soli fini del riparto di giurisdizione. Infatti “ai fini del riparto della giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni per la lesione della propria integrità fisica proposta da un pubblico dipendente nei confronti dell'Amministrazione, non soggetto alla disciplina del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, assume valore determinante l'accertamento della natura giuridica dell'azione di responsabilità in concreto proposta e, precisamente, se essa sia contrattuale o extracontrattuale, dovendosi ritenere proposta la seconda tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore dell'azione contrattuale, e quindi allorché, per esempio, il danneggiato invochi la responsabilità aquiliana ovvero chieda genericamente il risarcimento del danno senza dedurre una specifica obbligazione contrattuale, e dovendosi, invece, ritenere proposta l'azione di responsabilità contrattuale - con la conseguente devoluzione della controversia al giudice amministrativo - solo quando la domanda di risarcimento sia espressamente fondata sull'inosservanza, da parte del datore di lavoro, di una precisa obbligazione” (Cass. ord. n. 22101/2006; così anche sez. un. 11 luglio 2001 n. 9385; 25 luglio 2002 n. 10956; 5 agosto 2002 n. 11756; 2 luglio 2004 n. 12137).

[8] Per l’approfondimento, v. Scarpa, Onere della prova e responsabilità contrattuale, Consiglio Superiore della Magistratura, Roma, Incontro di studio del 12 – 16 giugno 2006.

[9] Per la complessa e risalente questione della natura, oggettiva o per colpa, della responsabilità contrattuale, si rinvia alla sintesi di Bianca, La responsabilità, Diritto civile, vol. V, 1994, 11 ss. E’ solo da ricordare che l’assetto giurisprudenziale è oggi assestato nel senso del fondamento colposo della responsabilità, ove la colpa è intesa in senso oggettivo (cioè alla stregua della normale diligenza). V. Cass. n. 6404/1986; 3450/1984.

[10] Vedi, per tutte, Cassazione 16250, 2357/03, 15133/02, 3162/002, 602/00, 9247, 7792/98, 4078/95.

[11] Bianca, op. cit., 73.

[12] In ambito lavoristico, per l’espressa condivisione del principio indicato, v. Cass. S.U. n. 141/2006; 613/1999; 7227/2002.

[13] Per una profonda analisi complessiva della materia, v. Vallebona, L’inversione dell’onere della prova nel diritto del lavoro, Riv. Trim. dir. e proc. Civ., 1992, 809.

[14] E’ noto il consolidato orientamento della Cassazione che subordina la nullità dell'atto introduttivo del giudizio di lavoro all'omissione, ovvero all'assoluta incertezza, sulla base dell'esame complessivo dell'atto, del petitum, sotto il profilo sostanziale e procedurale, nonchè delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della pretesa (tra le tante: Cass. 5794/04; 30.12.94 n. 11318; Cass. 30.8.93 n. 9167; Cass. 11. 6. 88 n. 4018; Cass. 18.11.87 n. 8436; Cass. 30.7.87, n. 6619; Cass. 5.6.86, n. 3777). Si ricordi, poi, la soluzione di sanatoria affermata da Cass. S.U. n. 11353/2004.

[15] L'art. 2103 cit. non ha affatto soppresso l’ius variandi del datore di lavoro, che trova la sua giustificazione in insopprimibili esigenze organizzative ed aziendali, ed è dunque libero si esplicarsi in modo non soggetto a controlli di merito. Viceversa la norma codicistica si limita a regolare l'esercizio di tale potere, solo imponendo il rispetto dell'equivalenza delle nuove mansioni (principi pacifici, ribaditi, ex multis, da Cass., 07-07-1997, 6124). E’ bene dunque rimarcare che l'equivalenza delle nuove mansioni alle ultime effettivamente svolte, non va assolutamente intesa come identità delle nuove alle precedenti mansioni, in ciò dovendosi escludere che il lavoratore possa vantare un diritto alla conservazione dell’incarico, ipotesi assurda che in sostanza paralizzerebbe i poteri organizzativi dell’imprenditore (v. Cass. 10333/1997; 5921/1984).

[16] L’art. 2103 è violato quando venga operata una importante riduzione quantitativa dei compiti del lavoratore tale da comportare una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un consequenziale impoverimento della sua professionalità. “Non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansioni tale - per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore sulla sua collocazione nell'ambito aziendale - da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un consequenziale impoverimento della sua professionalità" (Cass. 4 agosto 2000 n. 10284; Cass., 20 marzo 2004, n. 5651; Cass., 11 luglio 2005, n. 14496).

[17] Cass., 12 gennaio 2006, n. 425; Cass., 11 febbraio 2004, n. 2649, Cass. 7789/93, ex plurimis.

[18] Posto che il lavoro costituisce non solo un mezzo di guadagno, ma anche un modo di estrinsecazione della personalità del lavoratore (Cass., 2 gennaio 2002, n. 10; 22 febbraio 2003 n. 2763; 13 febbraio 2006, n. 3046; 8 marzo 2006, n. 4975) ed anzi l’inattività, secondo Corte Cost. 6 aprile 2004 n. 113, costituisce la forma più grave di demansionamento.

[19] Cass., 2 maggio 2003, n. 6714; 8 giugno 2001, n. 7821; 10 giugno 2004, n.11045.

[20] Sono le incisive e innovative parole di Cass. n. 10091/2006; v. anche 2003, n. 2328.

[21] Rimane controverso in giurisprudenza il diritto del lavoratore di rifiutarsi di effettuare la propria prestazione in caso di violazione dell’art. 2103, ai sensi dell’art. 1460 c.c. Per la tesi affermativa, v. Cass. n. 12001/2003; n. 7599/2003. In senso diverso, per la necessità di un previo “avallo giudiziario”, cfr. Cass. n. 19689/2003; n. 10187/2002. Da ultimo, Cass. n. 10547/2007, ha ritenuto che “ove pur sussista una situazione di dequalificazione di mansioni, non può il lavoratore sospendere in tutto od in parte la propria attività lavorativa, se il datore di lavoro assolva a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, garanzia del posto di lavoro), potendo una parte rendersi inadempiente soltanto se è totalmente inadempiente l'altra parte, non quando vi sia contestazione e controversia solo su una delle obbligazioni a carico di una delle parti, obbligazione peraltro non incidente sulle immediate esigenze vitali del lavoratore (cfr. Cass. n. 1307/1998)”.

[22] Questa norma, disciplinando le procedure di licenziamento per riduzione di personale, dispone che gli accordi sindacali stipulati nel corso di tali procedure possano prevedere il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, e possono stabilire, anche in deroga al secondo comma dell’art. 2103 c.c., la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. Anzi si è precisato che non pone alcuna preclusione nell'assegnazione delle mansioni inferiori, anche attribuendo all'impiegato quelle proprie dell'operaio; e ciò si spiega considerando che trattasi per un verso di un rimedio per evitare il licenziamento e per altro verso di una deroga che non vincola i lavoratori, i quali ben potrebbero rifiutare la dequalificazione, andando però incontro al rischio del licenziamento (Cass., 7 settembre 2000, n. 11806).

[23] Riguardanti la sopravvenuta inabilità dei lavoratori allo svolgimento delle loro mansioni.

[24] Riguardante le lavoratrici madri, che durante il periodo di gestazione e sino a sette mesi dopo il parto - se il tipo di attività o le condizioni ambientali ‘sono pregiudizievoli alla loro salute - devono essere spostate ad altre mansioni anche inferiori a quelle abituali, conservando la retribuzione precedente.

[25] Cass., Sez. Un., 7 agosto 1998, n. 7755; Cass. sez. lav. 2 agosto 2001, n.10574; 10 ottobre 2005, n. 19686; 7 marzo 2005, n. 4827; 19 agosto 2004, n. 16305. “Nel caso di sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni lavorative, il cosiddetto patto di dequalificazione, quale unico mezzo per conservare il rapporto di lavoro, costituisce non già una deroga all'art. 2103 cod. civ., norma diretta alla regolamentazione dello "jus variandi" del datore di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l'espresso disposto del secondo comma delle stesso articolo, bensì un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso e dall'interesse del lavoratore; pertanto, il datore di lavoro è tenuto a giustificare oggettivamente il recesso, anche con l'impossibilità di assegnare mansioni non equivalenti, nel solo caso in cui il lavoratore abbia - sia pure senza forme rituali - manifestato la sua disponibilità ad accettarle” (Cass., 5 agosto 2000, n. 10339; n. 19686/2005).

[26] Cfr. Cassazione 2948/01 che, infatti, ha reputato non configurare inadempimento - ovvero adempimento in contrasto con il requisito della buona fede - l’adibizione temporanea del lavoratore a diverse mansioni, seppure non strettamente equivalenti a quelle di appartenenza, al fine dell’acquisizione di una più ampia professionalità.

[27] Cass., n. 2375/2005; n. 2354/2004; n. 11727/1999; n. 9715/1995.

[28] Cass. n. 18269/2006.

[29] Cass. 92/8114 ; 91/3661; di recente, Cass.,n. 12043/2003; n. 12821/2002; n. 13000/2003.

[30] In altri termini, pur ribadendosi la netta differenza categoriale tra qualifica e mansione, attenendo la prima ad un dato puramente formale ed astratto, e quindi relativo e convenzionale, e la seconda ad un aspetto concreto, oggettivo, deve però tenersi a mente che le definizioni contrattuali-collettive in punto di fungibilità ed equivalenza, pur rimanendo inidonee a derogare al precetto imperativo di cui all’art. 2103, possono svolgere un rilevante ruolo, parametrico ed orientativo, per il giudicante. Non è questa la sede per sviluppare ulteriormente il cruciale argomento della tendenza ordinamentale alla delegificazione e all’assegnazione alle parti sociali di spazi sempre più ampi di poteri regolativi, nella direttiva di un diritto del lavoro sempre più largamente dispositivo (cd. soft law), ma deve almeno darsi atto ed anzi rimarcarsi che la disciplina pattizia può oggi legittimamente entrare, nei limiti legali, nel ragionamento giuridico pure giudiziale, anche se solo a livello indicativo. Infatti, le parti sociali, nell’ambito dei diversi settori produttivi, meglio conoscono realtà, sistemi organizzativi e di lavoro, così che le loro espressioni negoziali definiscono un indicatore spesso privilegiato della bontà di tante scelte imprenditoriali.

[31] Sentenze n. 10514 del 1998, n. 3645 e n. 434 del 1999; n. 8254 del 2004.

[32] Allo scopo, in via esemplificativa, di recente la pronuncia n. 4932/2003 sostiene testualmente: “la specifica previsione contrattuale di un illecito disciplinare, con la corrispondente sanzione, impedisce al giudice di sostituire le proprie valutazioni a quelle dell’autonomia privata, individuale e collettiva, salvo il controllo sulla nullità”, quindi, aggiunge: “quando la clausola generale di licenziamento venga definita, ossia specificata, attraverso la volontà negoziale, il giudice è tenuto ad uniformarsi alla definizione contrattuale, salva l’ipotesi che questa permetta il licenziamento arbitrario e discriminatorio” . Dunque, la Cassazione sancisce qui la signoria, praticamente assoluta, del contratto collettivo rispetto all’intervento giudiziale 33 “Deve escludersi un sindacato giudiziale relativamente alla ragionevolezza dei criteri secondo cui i contratti collettivi operino distinzioni tra i vari tipi di mansione ai fini dell’inquadramento contrattuale dei lavoratori e della loro progressione in carriera sulla base dello svolgimento di determinate mansioni, dato che è proprio la contrattazione collettiva ad essere ritenuta lo strumento idoneo ad interpretare le esigenze dei vari settori produttivi ai fini in esame”.

[33] Cass. 11.1.1999 n. 13601.

[34] Per alcune ricadute della contrattazione collettiva nell’assetto delle relazioni industriali, Cass., SU, 4588/06.

[35] Nella stessa sentenza: “A seguito dell’indicato approdo giurisprudenziale sull’articolo 2103 c.c. diviene, dunque, doveroso – per ragioni di nomofilachia cui è tenuta anche questa Sezione lavoro - una interpretazione ben più elastica rispetto al passato della norma codicistica, già patrocinata da autorevole dottrina, e che trova fondamento in una nuova nozione di «capacità professionale» e dí «equivalenza di mansioni», scaturente dalla presa d’atto della necessità di una tutela dinamica delle doti lavorative, da accrescere anche attraverso costanti corsi professionali ormai indispensabili in ragione, proprio, delle continue innovazioni di carattere tecnologico e organizzativo. Così, la recente decisione delle Sezioni Unite si pone come intervento volto ad autorevolmente confortare quell’indirizzo giurisprudenziale, che in una logica di bilanciamento dei contrapposti interessi, ha cercato un equilibrio tra il diritto dell’imprenditore ad una gestione razionale ed efficiente delle proprie risorse ed il diritto, anche esso costituzionalmente tutelato, al posto di lavoro, individuando numerose fattispecie di legittima assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori”.

[36] Sottolinea la specificità della norma, rispetto al lavoro privato, G. Del Medico, Le mansioni del lavoratore tra esigibilità ed equivalenza, in Riv. personale ente locale, 2000, 605.

[37] In questo senso v. Campanella, Mansioni e qualifiche, ius variandi nell’impiego pubblico e privato, Riv. Giur. Lav. e prev. Soc., 1999, 464; Borzaga, Il concetto di equivalenza delle mansioni, Riv. It. Dir. Lav., 1999, 283; F. Panariello, in G. Santoro Passarelli, Diritto del lavoro e della previdenza sociale, Milano, 1998, p. 1619.; L. Fiorillo, in Le nuove leggi civili commentate, 1999, p. 1392. In giurisprudenza, cfr Trib. Napoli, 16 gennaio 2004, in Foro it., 2005, I, 1366.Trib. Taranto, ord. 11 maggio 2001, Lavoro nelle p.a., 2002, 630; Trib. Ravenna, 9 aprile 2002, in www.aranagenzia.it; Trib Trieste, 8 febbraio 2002, Lavoro nella giur., 2003, 465; Trib. Pistoia, ord. 24 gennaio 2001, id., 2002, 290; Trib.Milano, 5 maggio 2000, Riv. Crit. Dir. Lav., 2000, 758.

[38] Così D. Carlomagno, Lavoro pubblico: l’equivalenza delle mansioni nel contratto collettivo, Il lavoro nella giurispr., 2003, 468.

[39] B. Caponetti, Le mansioni nel pubblico impiego, Normativa vigente, ruolo della contrattazione e profili giurisprudenziali, Lavoro e previdenza oggi, 2006, 451.

[40] Così Trib. Modena 9 gennaio 2004, Il lavoro nelle p.a., 2004, 932.

[41] V. in argomento, Curzio, Pubblico impiego: sospensioni, congedi aspettative, mutamenti di mansioni, promozioni, Riv. Crit. Dir. Lav., 2002, I, 264.

[42] Per l’approfondimento della tematica, si può leggere M. Casola, La disciplina delle mansioni nel pubblico impiego, relazione C.S.M., Incontro di studi, 2-27 maggio 2006.

[43] Ad esempio l’art. 3, secondo comma, del c.c.n.l. del comparto regioni ed autonomie locali, si esprime in questi termini: “Ai sensi dell’art. 56 del d. lgs. n. 29 del 1993 (ora art. 52 del t.u.), tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili. L’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto”.

Esula dalla presente relazione l’esame del nuovo sistema d’inquadramento del personale . In questa sede sia solo consentito osservare che, nella materia de qua, il dato differenziale rispetto al previgente sistema è costituito dal superamento della rigida ed analitica ripartizione del personale nelle nove qualifiche funzionali e dalla costituzione di “aree” o “categorie”, comprensive di più profili e più livelli retributivi. In realtà l’accorpamento delle nove qualifiche in tre o massimo quattro aree o categorie è preordinato soprattutto a garantire una maggiore flessibilità nell’impiego del personale. Ebbene, è proprio tale flessibilità a generare il problema della fungibilità delle varie posizioni professionali e quindi della mobilità orizzontale del personale all’interno dell’area, con eventuali profili di demansionamento .

[44] L'articolo 13, comma 4, del contratto collettivo nazionale di lavoro Comparto ministeri dispone che il dipendente sia tenuto a svolgere tutte le mansioni considerale equivalenti nel livello economico di appartenenza nonché le attività strumentali e complementari a quelle inerenti lo specifico profilo”

[45]  Nella sentenza, alla questione dell’equivalenza si giustappone quindi quella della esigibilità. Sul punto la Corte ricorda che l'attività prevalente ed assorbente svolta dal lavoratore deve rientrare tra quelle previste dalla categoria di appartenenza, e che tuttavia, per ragioni di efficienza e di economia del lavoro o di sicurezza, possono essere richieste al lavoratore, incidentalmente e marginalmente, attività corrispondenti a mansioni inferiori, ed il lavoratore è tenuto ad espletarle (Cass. 25 febbraio 1998, n. 2045, che nel rifiuto di eseguire tali mansioni ritiene configurabile anche un comportamento suscettibile di valutazione in sede disciplinare; Cass. 8 giugno 2001, n. 7821, che fa riferimento a motivate esigenze aziendali; Cass. 2 maggio 2003, n. 6714; Cass. 16 giugno 2004, n. 11045, che richiama esigenze di tutela, sicurezza e salubrità dell'ambiente di lavoro).

[46] Si rinvia a tutto quanto approfondito nel paragrafo che precede.

[47] Trib. Parma, ord. 28 marzo 2001, n. 125, Giust. amm., 2001, 626.

[48] E’ appena il caso di richiamare la complessa questione inerente la qualificazione giuridica della violazione dell’art. 2103 come inadempimento/illiceità e/o nullità/invalidità, con le conseguenze in tema risarcitorio. Rima utile segnalare che la più recente giurisprudenza tende, pur senza specifici approfondimenti, ad esprimersi in termini di inadempimento contrattuale: così la Corte cost. nella sent. n. 113/2004 (che ha esteso il privilegio generale sui mobili per il credito risarcitorio da demansionamento) e così le Sezioni unite nella sent. N. 6572/2006 (su cui v. infra).

In dottrina, cfr. Di Majo, Tutela risarcitoria, restitutoria, sanzionatoria, in Enc. Giur. Treccani, XXXI, 1994, 16; di recente anche C. Pisani, I problemi rimasti aperti in tema di dequalificazione dopo le sezioni Unite 6572/06, in Mass. Giur. Lav., 2006, 489.

[49] Cass., 6 marzo 2006, n. 4766. Secondo la Corte, infatti, “come affermato da questa Corte con la sentenza 3 giugno 1995, n. 6265, il lavoratore … ha altresì il diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni mansione, cioè il diritto all'esecuzione della prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro (tradizionalmente creditore esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di applicarlo, restandogli consentita la possibilità di trasferirlo solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. La violazione di tale diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l'inattività del lavoratore sia riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., o dall'esercizio dei poteri disciplinari”. Similmente, v. Cass. n. 10547/2007.

[50] Insiste di recente sulla necessità che in ricorso ci sia una puntuale allegazione sull’inadempimento, Cass. n. 20523/2005.

[51] Espressamente, in tal senso Cass. n. 24036/2006.

[52] Sia anche permesso rinviare a M. Casola, Adibizione a mansioni superiori e promozione automatica del lavoratore: orientamenti giurisprudenziali, Foro it., 2000, I, 2875.

[53] Cass. 14154/1999, secondo cui nel computo del lasso temporale di espletamento di mansioni superiori, non può tenersi conto né del periodo di ferie, né di quello di malattia (né peraltro rileva di quest’ultima la natura e l’origine, almeno in assenza di apposita norma regolatrice).

[54] Al riguardo cfr. Cass., sez. un., 18 dicembre 1998, n. 12699; 29 luglio 1996, n. 6839 in Dir. lav., 1997, II, 301, nota di Giammaria; 29 luglio 1996, n. 6839; 11 giugno 1990, n. 5655. Va comunque segnalato che la giurisprudenza della Cassazione risulta pacifica nel ritenere l'interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune, compiuta dal giudice del merito nella materia di che trattasi, censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione (ad esempio, la Suprema corte ha confermato sentenze di merito che avevano ritenuto che, ai fini del compimento dei diciotto mesi necessari, ai sensi dell'art. 10 del regolamento organico del 1 gennaio 1981, per l'acquisizione della qualifica superiore da parte di un primo ufficiale di macchina, dipendente da società di navigazione, «in funzionamento» nel grado di direttore di macchina, dovesse tenersi conto anche dei periodi di riposo e di ferie: Cass. 16 febbraio 1993, n. 1898; 15 febbraio 1992, n. 1845.

[55] Da ultimo, v. Cass. n. 2642/2004; 12785/2003.

[56] Cass. 10 novembre 1997, n. 11098; nella giurisprudenza di merito, cfr. Pret. Milano 5 dicembre 1996, in Riv. critica dir. lav., 1997, 341.

[57] Cass. 13 gennaio 1997, n. 271, in Riv. giur. lav., 1997, II, 169, con nota di Di Croce.

[58] Per il personale delle Ferrovie dello Stato ha ribadito il principio testé riportato Cass. 24 maggio 1999, n. 5040. Di segno decisamente favorevole alla parte datoriale è poi quell’opzione interpretativa, condivisa in verità solo da una parte della giurisprudenza di merito, secondo cui, atteso il carattere eccezionale della promozione automatica, sarebbe giustificata la condotta dell’imprenditore inteso ad evitarne l’operatività mediante rotazione del personale (così Pret. Fermo 13 novembre 1996, in Dir. lav. Marche, 1997, 86).

[59] Cass., sez. un., 28 gennaio 1995, n. 1023, in Foro it., 1995, I, 494, con nota di AMOROSO; Giust. civ., 1995, I, 1201, annotata da NANNIPIERI. In senso conforme alle Sezioni unite v. anche nella giurisprudenza di merito Pret. Firenze 4 ottobre 1995, in Toscana giur., 1996, 743.

[60] Pret. Firenze 7 dicembre 1995, in Toscana giur., 1996, 743.

[61] V. di recente Trib. Reggio Emilia 2 giugno 1998, in Orient. giur. lav., 1998, I, 29; Pret. Catania 2 agosto 1995, in Foro it., 1996, I, 766, con nota di richiami.

[62] Di recente, M. Somvilla, Mansioni vicarie e promozione automatica, in Mass. Giur. Lav., 2007, 41 ss

[63] Cass. n. 21021/2006; 2637/2000; n. 15968/2004.

[64] Cass. n. 4642/2006; 20660/2005; 11125/2001.

[65] Per questa tesi v. Cass. 22 agosto 1997, n. 7874; 13 agosto 1996, n. 7541, in Lavoro giur., 1997, 32 con nota di Mannaccio ed in Dir. lav., 1997, II, 342, con nota di Riganò; 21 novembre 1990, n. 11217, pubblicata in Foro it., 1991, I, 467, con nota di Amoroso, anche in Riv. giur. lav., 1991, II, 248, con nota di Prasca.

[66] Cass. 6 maggio 1999, n. 4550; 13 agosto 1996, n. 7541.

[67] Cass. 5 dicembre 1990, n. 11663, Foro it., 1991, I, 467, nota AMOROSO ed in Riv. dir. lav., 1991, II, 601, con nota di Gragnoli.

[68] Cass. 10 aprile 1999, n. 3529. Interessa peraltro precisare che, anche in materia, l’interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune compiuta dal giudice del merito è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione e violazione delle regole di ermeneutica contrattuale (ad esempio la Suprema corte ha confermato la sentenza di merito che, ritenendo tassativa la disposizione del contratto collettivo per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato, relativa all’ipotesi di assenza dei dipendenti con diritto alla conservazione del posto, aveva escluso che tra le suddette ipotesi potesse farsi rientrare la partecipazione a corsi professionali, attesa proprio la mancanza di espressa previsione: Cass. 2 novembre 1998, n. 10954).

[69] Cass. n. 10346/2002; 20 maggio 1992, n. 6028.

[70] La tesi per cui «lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto», sarebbe anche il lavoratore presente in azienda ma temporaneamente non utilizzato, per ragioni di salute, nel suo normale posto di lavoro (cui è addetto un sostituto) è sostenuta da Cass. 19 marzo 1983, n. 1964, in Giur. it., 1983, I, 1, 1953.

[71] Cfr. Cass. 25 marzo 1997, n. 2631, in Lavoro giur., 1997, 1009, con nota di Focareta; 20 maggio 1997, n. 4496, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 96, con nota di Palla.

[72] Cass. 24 gennaio 1992, n. 766, in Riv. it. dir. lav., 1993, II, 278, n. Focareta; 24 gennaio 1992, n. 766. Viceversa sulla possibilità di successiva sostituzione di più lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, v. Cass. 27 luglio 1984, n. 4479, in Foro it., 1986, I, 143.

[73] Cass. 11 aprile 1996, n. 3363; 23 febbraio 1996, n. 1433.

[74] Cass. 10 novembre 1998, n. 11331; 28 febbraio 1996, n. 1546; 19 gennaio 1985, n. 183, in Foro it., 1985, I, 2970.

[75] Cass. 17 febbraio 1997, n. 1438.

[76] Cfr. l’art. 41 del ccnl 5 febbraio 1988, per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato. Sull’argomento la Cassazione ha chiarito che, in effetti, in materia di sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto con altro lavoratore di qualifica inferiore, l'art. 2103 c.c. non prescrive che, perché sia escluso il diritto del sostituto alla definitiva assegnazione alle mansioni superiori, il datore di lavoro debba comunicare a quest'ultimo, in occasione dell'assegnazione suddetta, il nominativo del sostituito e i motivi della sostituzione; tuttavia la contrattazione collettiva può ben prevedere tale regime più rigoroso per tutelare più efficacemente la professionalità del lavoratore contro possibili abusi del datore di lavoro (Cass. 23 gennaio 1999, n. 646). In tal senso si è ritenuto che la comunicazione deve essere, se non preventiva, almeno contestuale all’adibizione alle nuove mansioni (Cass. 7 aprile 1998, n. 3586; 22 agosto 1997, n. 7874, in Foro it., 1998, I, 1237, con nota di richiami; in senso opposto v. invece Cass. 14 novembre 1997, n. 11280). La Cassazione ha peraltro considerato conforme ai criteri di ragionevolezza e rispettosa dell’art. 1362 c.c. l’interpretazione del giudice del merito che, sulla base della nominata disposizione contrattuale, ha ritenuto la configurabilità a carico dell’ente dell’onere di provare, in caso di contestazione, l’effettiva sussistenza della causa della sostituzione e la ricorrenza di un’ipotesi di diritto alla conservazione del posto (Cass. 5 febbraio 1998, n. 1192).

[77] Pret. Sassari-Alghero 4 agosto 1993, in Notiziario giurisprudenza lav., 1993, 816; nel medesimo senso v. Trib. Milano 16 febbraio 1994, in Orient. giur. lav., 1994, 233).

[78] Similmente irrilevante è che l'assegnazione provvisoria delle mansioni predette non sia stata disposta dall'organo, dell'ente datore di lavoro, cui, a norma dello statuto, spetta di deliberare in ordine alle promozioni del personale: Cass. n. 24/2005; 6981/1994.

[79] Cass. 14 febbraio 1983, n. 1122, in Giust. civ., 1983, I, 3361, con nota di GHINOY.

[80] Cass. 21 marzo 1997, n. 2507.

[81] v. Cass. 6 giugno 1985, n. 3372 in Foro it., 1986, I, 142, con nota di Mazzotta. In senso conforme v. anche Pret. Catania 2 agosto 1995, in Foro it., 1996, I, 766, pubblicata anche in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 820, nota Vallebona.

La Suprema corte ha peraltro chiarito che il rifiuto del lavoratore, adibito a mansioni superiori a quelle di assunzione per un periodo superiore a tre mesi, di proseguire lo svolgimento delle mansioni stesse in difetto dell'attribuzione del superiore corrispondente inquadramento e del relativo trattamento economico, non costituisce rinunzia al diritto alla promozione automatica, nascente dall'art. 2103 c.c. bensì un comportamento inteso a far valere l'exceptio inadimpleti contractus ex art. 1460 c.c., non preclusivo della possibilità di far valere tale diritto (Cass. 10 gennaio 1984, n. 186).

[82] Cass. 29 agosto 1987, n. 7142. In dottrina, v. sul tema VERDOLIVA, Spunti in tema di consenso alla qualifica superiore (nota a Cass. 16 giugno 1989, n. 2907, in Lavoro e prev. oggi, 1990, 2194).

[83] Da ultimo v. Cass. 4 dicembre 1999, n. 13601; 7 gennaio 1999, n. 62.

[84] Cass. 2 dicembre 1996, n. 1027. In applicazione del medesimo parametro ermeneutico si è ancora affermato che, con riguardo a domanda diretta al riconoscimento della qualifica di dirigente e del corrispondente trattamento retributivo, in relazione alle mansioni di fatto svolte dal lavoratore, la circostanza che compiti identici siano stati svolti precedentemente da altri dipendenti con qualifica dirigenziale non rileva ai fini del diritto al superiore inquadramento. E ciò neppure sotto il profilo della disparità di trattamento, non essendo la circostanza illustrata di per sé sufficiente per integrare la lesione della dignità umana considerata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 103 del 1989, e potendo eventualmente derivare da una ingiustificata attribuzione di qualifiche superiori a dipendenti con identici incarichi, ed in generale dalla violazione delle regole di correttezza, conseguenze risarcitorie ma non il riconoscimento di diritti ingiustamente attribuiti ad altri. Sotto questo aspetto, si argomenta, differenziazioni retributive dissociate dal contenuto delle mansioni non costituiscono di per sé una violazione dei suddetti principi, tale violazione può infatti presumersi solo in totale assenza di ragioni addotte dall'imprenditore per giustificare l'esercizio dei suoi poteri discrezionali (Cass. 17 febbraio 1994, n. 1530).

[85] Cass. 5 febbraio 1997, n. 1068; 20 aprile 1995, n. 4437. Sempre in punto di parità di trattamento è opportuno citare la sentenza della Suprema corte 4 dicembre 1999, n. 13601, nella quale si è in radice esclusa la possibilità di procedere ad un sindacato giudiziale relativamente alla ragionevolezza dei criteri secondo cui i contratti collettivi operino distinzioni tra i vari tipi di mansioni ai fini dell’inquadramento contrattuale dei lavoratori e della loro progressione in carriera, proprio essendo la contrattazione collettiva ad essere ritenuta dalla legge lo strumento idoneo ad interpretare le esigenze dei vari settori produttivi ai fini in discorso. A questi fini la Corte ha appunto ribadito l’inesistenza di un principio costituzionale di uguaglianza tra i lavoratori, col limite del compimento da parte dell’imprenditore di atti di discriminazione positivamente presi in considerazione nel sistema e, come tali, vietati.

[86] E’ stata di conseguenza ritenuta nulla la norma convenzionale costitutiva di un obbligo per il datore di lavoro di bandire un concorso per la copertura di posti vacanti ovvero un obbligo per il prestatore di sottoporsi ad accertamento professionale (Cass. 25 marzo 1997, cit.; 10 novembre 1995, n. 11710) o, ancora, il limite del superamento di un giudizio d’idoneità demandato ad apposita commissione (Cass. 29 luglio 1996, n. 6839; 10 gennaio 1994).

[87] Cass. 5 aprile 1986, n. 2389.

[88] Cass. 19 gennaio 1993, n. 612.

[89] Sul punto v. da ultimo Cass. 23 agosto 1997, n. 7911; 26 luglio 1996, n. 6750. Sul tema v. in dottrina MARESCA, L'inesistente diritto alla qualifica superiore e la sua conclamata prescrittibilità - Un ripensamento della cassazione? nota a Cass. 1° settembre 1987, n. 7151, in Foro it., 1989, I, 518. E’ stato peraltro chiarito che il decorso del decennio dal momento dell'insorgenza del diritto non preclude definitivamente l'accesso al superiore inquadramento allorché continui l'attività potenzialmente idonea a determinarlo; infatti, se permane la situazione a cui la norma collega il diritto, la prescrizione decorre autonomamente da ogni giorno successivo a quello nel quale si è per la prima volta concretata tale situazione, fino alla cessazione della medesima (nella specie, la Suprema corte ha confermato la sentenza con cui il giudice di merito aveva accertato la maturazione del diritto dell'interessato alla definitiva assegnazione alle mansioni superiori con decorrenza da dieci anni prima dell'atto interruttivo della prescrizione, dopo aver verificato che all'epoca egli non aveva ancora cessato lo svolgimento delle stesse: Cass. 18 maggio 1995, n. 5486).

[90] Cass. 1 dicembre 1994, n. 10279.

[91] Cass. n. 1012/2003; 2000 n. 14981; 2000, n. 431.

[92] Cass. 21 aprile 2000, n. 5203.

[93]  V. da ultimo Cass. 19 gennaio 1999, n. 476, Foro it., 1999, I, 850, con nota di richiami.

[94] Così Cass. 21 luglio 1998, n. 7170.

[95] Cass. 4 febbraio 1997, n. 1027.

[96] Cass. n. 8172/2006; 1192/1998; 11663/1990.

[97] Cass. n. 3529/1999; 4740/1989.

[98] C. Stato, commiss. spec., 20 novembre 1995, n. 345, in Ragiusan, 1996, 207; Tar Calabria, 14 ottobre 1997, n. 603, in Foro amm., 1998, 1590.

[99] D’altra parte si è temuto che la regola della promozione automatica, ove accolta, avrebbe potuto determinare effetti assolutamente incompatibili con gli interessi della p.a., primo tra essi quello della stabilità della pianta organica, della certezza organizzativo-burocratica e finanziaria; in questo senso v. ancora Cons. Stato, sez. V, 19 gennaio 1998, n. 81, in Cons. Stato, 1998, I, 56; Tar Sicilia, sez. I, 3 settembre 1992, n. 602, in Giur. amm. sic., 1992, 801.

[100] V. Corte cost. 27 maggio 1992, n. 236; giugno 1990, n. 296; 23 febbraio 1989, n. 57.

[101] V. in particolare Cons. Stato, ad. plen., 16 maggio 1991, n. 2, in Foro it., 1991, III, 473; C. Stato, ad. plen., 9 settembre 1992, n. 10, in Cons. Stato, 1992, I, 1033.

[102] V. Cons. Stato, sez. VI, 4 marzo 1998, n. 242, in Cons. Stato, 1998, I, 423; Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 26 febbraio 1998, n. 84, in Giust. amm. sic., 1998, 63; Tar Marche, 22 febbraio 1991, n. 69, in Foro amm., 1991, 3041.

[103] Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 1998, n. 354, in Foro amm., 1998, 723; nello stesso senso Cons. Stato, sez. V, 18 settembre 1998, n. 1308, in Cons. Stato, 1998, I, 1295,; Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 19 febbraio 1998, n. 49, in Ragiusan, 1998, 273; Tar Toscana, sez. III, 28 aprile 1998, n. 79, in Trib. amm. reg., 1998, I, 2595.

[104] Cons. Stato, sez. VI, 9 settembre 1997, n. 1293, in Cons. Stato, 1997, I, 1232; Cons. Stato, sez. VI, 30 maggio 1997, n. 821, in Foro amm., 1997, 1434; 4 luglio 1996, n. 817, in Cons. Stato, 1996, I, 1095.

[105] In dottrina, cfr. M. D’Aponte, Progressioni di carriera e assegnazione di mansioni superiori nel pubblico impiego: la permanenza di una disciplina speciale tra esigenze di tutela ed abusi della P.A., Il Lavoro nelle P.A., 2005, 833 ss.

[106] E’ opportuno avvertire che la recente citata decisione del Consiglio di Stato n. 10/2000 ha affermato tra l’altro la tesi dell’efficacia non retroattiva dell’ultima modificazione legislativa introdotta dal d.lgs. n. 387 cit. e relativa appunto al diritto al trattamento economico previsto per le superiori mansioni svolte.

[107] Panariello, Qualifiche e mansioni, in Diritto del lavoro e della previdenza sociale, a cura di G. Santoro Passarelli, 1988, 1621; della stessa idea è Fiorillo, in AA.VV., La riforma dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in Le nuovi leggi civ., 1999, 1394.

[108] Così espressamente dispone l’art. 24, 2° co., del c.c.n.l. comparto Ministeri, prevedendo un’unica eccezione: “Nell'ambito del nuovo sistema di classificazione del personale previsto dal presente contratto, si considerano "mansioni immediatamente superiori" le mansioni svolte dal dipendente all'interno della stessa area in profilo appartenente alla posizione di livello economico immediatamente superiore a quella in cui egli è inquadrato, secondo la declaratoria riportata nell'allegato A del presente contratto. Le posizioni economiche "super" non sono prese in considerazione a tal fine. Sono, altresì, considerate "mansioni superiori", per i dipendenti che rivestono l'ultima posizione economica dell'area di appartenenza, le mansioni corrispondenti alla posizione economica iniziale dell'area immediatamente superiore”.

[109] Come è a dirsi per il c.c.n.l. comparto regioni ed autonomie locali, il cui art. 3, 3° comma, recita : “L'assegnazione temporanea di mansioni proprie della categoria immediatamente superiore costituisce il solo atto lecito di esercizio del potere modificativo”. Dunque si parla di scatto immediatamente superiore come riferito alla “categoria”.

[110] A questi fini è d’uopo ricordare che il ruolo organico è sostanzialmente una tabella, nella quale è determinato, distinto per categorie e posizioni giuridiche ed economiche, il numero dei posti di cui l’amministrazione dispone. La dotazione organica può viceversa essere definita come il numero complessivo dei posti ricompresi nei ruoli organici di un’amministrazione.

[111] Tale requisito, almeno in linea di massima, potrebbe rendere, nei giudizi fondati sui commi 2,3 e 4 dell’art. 56, irrilevante la prova testimoniale sullo svolgimento delle mansioni superiori, salvo ovviamente sussistano contestazioni in fatto sull'effettivo adempimento dell'incarico.

[112] Sezione V, 22.9.1999, n. 1075.

[113] Deve dunque escludersi, per la radicale alternativa posta dalla norma, l’applicabilità di quel criterio ermeneutico cd. promiscuo affermato di recente dalla Cassazione, per cui in caso non si pervenga alla unificazione delle mansioni sotto un unico livello, in base al principio di prevalenza, il giudice può e deve comunque valutare la retribuzione adeguata al complessivo lavoro svolto, per quantità e qualità (Cass. 17.5.2000, n. 6419).

[114] Per un caso specifico v. Trib. Roma, ord. 11.10.1999, in Foro it., 2000, I, 282.

[115] Cfr. P. Curzio, Pubblico impiego: sospensioni, congedi, aspettative, mutamenti di mansioni, promozioni, Riv. Critica dir. Lav., 2002, 270; Nisticò, Appunti in tema di mansioni superiori del lavoratore pubblico, Riv. Critica dir. Lav., 2000, 601.

[116] Per l’approfondimento dei singoli elementi costitutivi della fattispecie, si rinvia all’analisi precedente sul lavoro privato.

[117] Ove per "unità produttiva" si intende una "articolazione autonoma dell'azienda avente, sotto il profilo funzionale o finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività dell'impresa, della quale costituisca una componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa si possa concludere una frazione dell'attività produttiva aziendale": vedi Cass. n. 6413 del 1993, Cass. n. 5892 del 1999, Cass. n. 9636 del 2000.

[118] La giurisprudenza della Corte, invero, non dubita che la nozione di "trasferimento" implichi il mutamento definitivo del luogo geografico di esecuzione della prestazione, ancorché abbia anche utilizzato la nozione di unità produttiva di cui all'art. 35, cit., per escludere in qualche caso che, pur in presenza di mutamento del luogo di esecuzione, fosse configurabile "trasferimento", ove attuato nell'ambito della medesima unità produttiva, con riguardo ad articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell'impresa, sia rispetto ad una frazione dell'attività produttiva della stessa”, così Cass. N. 11103/2006. V. anche Cass. 5892/1999; 5153/1999; 29/07/2003, n.11660; 15761 del 2002.

[119] Cass. 14 giugno 1999, n. 5892.

[120] Cass.,03-03-1994, 2095/1994. Per la legittimità del rifiuto di prendere servizio in una nuova sede di lavoro, in località molto lontana, Cass. n. 5444/2002.

[121] Così da ultimo Cass. n. 11103/2006.

[122] Cass. n. 5320/2006; 17786 del 2002, 3525 del 2001, 3207 del 1998, 3889 del 1989, 5339 del 1987, 832 del 1975.

[123] Cass., 11400/1998; 4 aprile 1990 n. 2772; Cass. 26.1.1995 n. 909; Cass. 25.5.1996 n. 4823; cfr. anche, sull'onere della prova a carico del datore di lavoro, Cass. nn.9276/87 e 6400/87.

[124] Vallebona, Gli oneri di allegazione e di prova nelle azioni fondate sull’inadempimento del datore di lavoro, in Diritto del lavoro, 2002, I, 257.

[125] Con la ulteriore conseguenza che il giudice del merito, investito della questione della dedotta illegittimità del trasferimento, deve comunque estendere la propria indagine a tutte le ragioni addotte dal datore di lavoro e non limitarsi ad esaminare i soli motivi di illegittimità dedotti dal lavoratore, al fine di accertare la legittimità del provvedimento ai sensi dell'art. 2103 c.c. e di eventuali norme contrattuali collettive che integrano la disciplina della fattispecie.

[126] Cass. 26 maggio 2001, n. 7188; 1 febbraio 1988, n. 868; 8 luglio 1988, n. 4445; 18 novembre 1997, n. 11464.

[127] Cass. 23 agosto 1996, n. 7768.

[128] Vi sono al più richiami al fenomeno contenuti in alcune disposizioni, ma non una definizione o una disciplina autonoma che arrivino a conferire autonomia categoriale.

[129] Cass. n. 4774/2006.

[130] Corte Cost., 19 dicembre 2003, n. 359, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la legge della regione Lazio 11 luglio 2002 n. 16, che aveva dato una definizione giuridica del mobbing violando il principio per cui spetta allo Stato fornire la nozione giuridica di un fenomeno, come quello del mobbing, inquadrabile nell’ambito dell’ordinamento civile. Diversamente, hanno superato il vaglio della Consulta la legge della regione Abruzzo n. 26/2004 (sent. n. 22/06) e quella della regione Friuli Venezia Giulia n. 7/2005 (sent. n. 239/2006), in quanto non dettano una definizione, esemplificazioni ed una disciplina del mobbing, ma si limitano ad articolare iniziative d’informazione, di prevenzione e di sostegno.

E’ utile ricordare che la circolare Inail n. 71 del 2003 che aveva inserito, senza il dovuto procedimento, tra le malattie tabellate anche quelle psichiche da mobbing è stata annullata da Tar Lazio, sez. III ter, n. 5454/2005, in Giur. Lav., 2005, n. 30, 28.

[131] Cd. lesività per accumulo. Secondo la psicologia del lavoro per aversi mobbing occorre il protrarsi della condotta per almeno sei mesi e la presenza di qualche azione ostile ogni mese, laddove quando una singola azione ostile produca conseguenze durature e a lungo termine si parla invece di straining. Si rinvia al noto scritto di H. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002. Tra gli autori italiani, sul tema cfr. L. Battista, Persona, lavoro e mobbing, Roma, 2005; S. Mazzamuto, Il mobbing, Milano, 2004, M. Miscione, Mobbing, norma giurisprudenziale (la responsabilità da persecuzione nei luoghi di lavoro), Lav. Giur., 2003, 305; Carinci, M.T. Il mobbing: alla ricerca della fattispecie, in Mobbing, organizzazione, malattia professionale (Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali), Torino, 2005.

[132] Per la decisività qualificatoria dell’elemento finalistico, secondo la cd concezione soggettiva, v. Corte cost. n. 359/2003. A fini definitori risulta, in realtà, dubbio valorizzare l’elemento soggettivo, che è di difficilissima dimostrazione (v. infra). Per lo sviluppo di tali argomenti, v. Vallebona, Mobbing, cit., 9.

[133] In senso opposto, ma senza adeguati argomenti, A. Occhipinti, Sull’utilità giuridica del concetto di mobbing, Riv. Crit. Dir. Lav. , 2004. 7.

[134] Cass., 6 marzo 2006 n. 4774, che prosegue: “La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato”.

[135] Cass. n. 9601/2001.

[136] Vallebona, op. cit.

[137] Interessi tutelati anche dalla Costituzione, agli artt. 41, 2, 32.

[138] Sulla qualificazione degli atti datoriali contrari a buona fede come “illegittimi”, v. di recente Cass. n. 6326/2005.

[139] Cass. n. 9501/1995; 2500/1986.

[140] Per l’assodata natura contrattuale della responsabilità ex art. 2087, v. Cass. N. 8438/2004.

[141] Si tenga presente che gli attuali approdi esegetici, riconoscono nell’obbligo di sicurezza non una mera obbligazione accessoria, cioè secondaria, ma di rilievo primario nel programma obbligatorio, al pari dell’obbligo retributivo. La rilevanza della ricostruzione si coglie, ad esempio, per l’eccezione d’inadempimento. La Cassazione ha di recente statuito che la violazione dell’obbligo di sicurezza, se grave sotto l’aspetto qualitativo, cioè rispetto alla funzione economico-sociale del contratto, giustifica il rifiuto della prestazione lavorativa, Cass. n. 21479/2005, in Mass. Giur. Lav., 2006, 329, con nota di Lanotte, Violazione datoriale dell’obbligo di sicurezza e rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa: l’operatività dell’exceptio inadimpleti contractus.

[142] In dottrina, v. Vallebona, Mobbing: qualificazione, oneri probatori e rimedi, Mass. Giur. Lav., 2006, 8; M. Di Marzio, Mobbing, a chi spetta l’onere probatorio. Adesso è il datore che deve discolparsi, in Diritto e giust., 2006, 31 ss.; M. Salvagni, Il mobbing e l’onere della prova: fattispecie a formazione complessa.

[143] Cass. n. 12467/2003.

[144] Sono le parole di Cass. 12445 cit.

[145] È da escludersi, invece, che possa risultare parimenti liberatoria la prova della "impossibilità sopravvenuta" della prestazione di sicurezza - che sia stata omessa - risolvendosi la prestazione stessa, almeno di regola, nella messa a disposizione di beni generici, per i quali non é configurabile, appunto, l'istituto dell'impossibilità sopravvenuta.

[146] Ma v. anche Cassazione 16250/03, 3740/95.

[147] Cassazione n. 11523/2006.

[148] Vallebona, Allegazioni e prove nel processo del lavoro, Padova, 2006, 60.

[149] V. sentenze 16250, 2357/03, 15133/02, cit., 9304, 9016, 5024, 326/02, 7052/01, 13690/00, 6000/98, 4227/92.

[150] Cassazione 13053/2006; 13690/00, 326/02.

[151] Così Vallebona, op. cit. 11; contra Mazzamuto, op. cit., 57 ss.

[152] Tale ricostruzione dei pesi probatori è ben chiarita nella recente sent. Cass. n. 12445/06.

[153] Cumani, E., Mobbing, molestie sessuali e altre forme di discriminazione, in M.Pedrazzoli (a cura di), I danni alla persona del lavoratore nella giurisprudenza, Cedam, Padova, 2004.

[154] Secondo l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, la previsione di nullità per il licenziamento discriminatorio, di cui all’art. 4 della legge n. 604 /1966, all’art. 15 della legge n. 300/1970 ed all’art. 3 della legge n. 108/1990, deve essere estesa a tutte le fattispecie di licenziamento che, “pur non direttamente corrispondenti alle singole ipotesi espressamente menzionate nelle suddette norme, siano determinati in maniera esclusiva da motivo illecito” (v. da ultimo, Cass. N. 4543/1999; n. 3837/1997). Questo principio di diritto ha potenzialità espansiva anche verso atti negoziali diversi.

[155] Avvalendosi delle parole di Cass. n. 7603/1990: la domanda di accertamento della nullità del licenziamento, per illiceità del motivo, non implica la denuncia della insussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, ma ne configura, invece, la sussistenza come fatto impeditivo, che può essere fatto valere ope exceptionis. V. anche Cass. 25 novembre 1980, n. 6259 ; 2 aprile 1990, n. 2642.

[156] L’art. 26 dispone: “Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

2. Sono, altresì, considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

[157] Per questa riflessione, v. Pret. Roma, 245 novembre 1992, Riv. It. Dir. Lav., 1993, II, 262, con nota di D. Manassero, Una prima pronuncia in tema di “prova statistica” della discriminazione.

[158] In questo senso cfr. Vallebona, L’onere della prova degli atti discriminatori, Lav. Dir., 1989, 342.

[159] A differenza per esempio della clausola penale, ex art. 1382 c.c. o delle penali contrattuali o legali (es. tutela obbligatoria o le 5 mensilità della tutela reale).

[160] E così tali da scongiurare duplicazioni risarcitorie ed esiti di overcompensation.

[161] Cass. n. 15955/2004; 9129/2004; 16792/2003.

[162] Cass. S.U. n. 500/1999.

[163] Affermatasi la tesi secondo cui i concetti di "perdita" e di "guadagno" di cui all'art. 1223 c.c. non si relazionano esclusivamente ad entità di natura direttamente pecuniaria ma includono qualsivoglia utilità suscettibile di valutazione economica, si è riconosciuto che è tale anche una situazione fattuale fonte non di reddito certo ma solo probabile: il valore economico di tale utilità dipende dalla duplice variabile della misura del reddito che detta situazione è idonea a produrre e dal grado di probabilità esistente che tale reddito sia da essa effettivamente prodotto, sicché il danno risarcibile si identifica nella perdita della possibilità di conseguire un risultato utile e non come perdita di quel risultato (da ultimo, Cass. n. 4400 del 2004). La giurisprudenza, al fine di delimitare l'area di risarcibilità del danno da perdita di una chance, richiede che si provi in concreto la realizzazione almeno di alcuno dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (in fattispecie di danno derivante da mutamento delle mansioni e consistente nel mancato conseguimento di un vantaggio di carriera connesso ad una valutazione comparativa di candidati, v. Cass. n. 10748 del 1996); alla mancanza di una tal prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 cc, atteso che l'applicazione di tale norma è diretta a sopperire all'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno ma non l'esistenza dello stesso (Cass. n. 781 del 1992).

[164] V. in particolare, Cass. n. 8827 e 8828/2003.

[165] Così da ultimo, Cass. n. 19965/2006.

[166] Cass. n. 10035/2004. Nella specie, relativa al risarcimento del danno per la morte del coniuge e padre degli attori in un sinistro ferroviario, la S.C ha cassato la sentenza di merito che aveva applicato automaticamente le tabelle in uso presso il tribunale locale, senza dar atto di aver tenuto conto del danno da sconvolgimento delle abitudini di vita del nucleo familiare e della procurata assenza della figura paterna in relazione all'età dei figli (rispettivamente 4 anni e nascituro) al momento del sinistro.

 

Nostre considerazioni
 
L’interessantissima tematica  esaminata dalla Relazione sopra riportata è stata anche da noi “vivisezionata” in plurimi articoli (cfr. ex multis, Alcuni punti fermi sugli oneri probatori del  demansionamento e del mobbing, in Lav. prev. oggi 6/2006,697) nonché nei testi Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, Roma, 2006, 86 e  Il rapporto di lavoro in azienda, Ediesse, Roma, 2008, 93. In questi scritti  abbiamo sottoposto a critica la tesi di Vallebona (ordinario giuslavorista ed attuale direttore scientifico della rivista lavoristica Mass. giur. lav. della Confindustria, nella quale anche noi abbiamo  a suo tempo pubblicato) – implicante fattualmente l’accrescimento dei già pesanti oneri probatori per il lavoratore ricorrente -  secondo cui le prescrizioni legali impositive degli obblighi in capo al datore di garantire al prestatore l’effettivo disimpegno delle mansioni pattuite (ex art. 2103 c.c.) nonché di assicurargli il rispetto e la tutela (anche) della personalità morale sul lavoro (ex art. 2087 c.c.), costituirebbero “obbligazioni negative” (cioè, di non fare o divieti) e non inequivoche “obbligazioni positive” (di fare). Con l’effetto obiettivo di far beneficiare  il convenuto-datore dell’esenzione  dagli oneri probatori in tema di dequalificazione e mobbing  secondo la regola – correttamente sancita da Cass. SU n. 13533/01 – per cui, mentre il debitore (datore) è onerato della prova dell’esatto adempimento delle obbligazioni di fare (o positive) su di lui gravanti, è esentato – in via di eccezione – dagli oneri probatori per quelle cd. “negative” (di non fare o divieti), gravanti invece sul creditore/lavoratore.
Cosicché il suddetto A. - trasformando le “obbligazioni positive”, tramite la presentazione del loro immanente rovescio, in “obbligazioni negative” (è pacifico che ad ogni dovere di fare corrisponde un divieto, di non fare!), e cioè l’obbligo di garantire lo svolgimento delle mansioni contrattuali in “divieto di demansionamento”, nonché l’obbligo di salvaguardia e rispetto della personalità morale del lavoratore in azienda in “divieto di vessare e perseguitare” direttamente o tramite i preposti - giunge ad accollare indebitamente ai lavoratori-ricorrenti oneri ad essi non pertinenti, in quanto gravanti sul datore-convenuto, tenuto ad obblighi di fare, di assicurare o di attivarsi ad impedire.
La Cassazione – cfr. n. 4766/2006 (est. Nobile) e, recentissimamente, n. 13821/2008 (est. Bandini) – ha evidenziato l’erroneità di tale teorica (aderendo alla nostra posizione), con l’affermare: «secondo il condiviso orientamento di questa Corte, allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall'art. 1218 c.c., da un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (cfr., Cass., n. 4766/2006)».
Purtuttavia la stessa redattrice della Relazione mostra spesso e volentieri di essere influenzata o condizionata dalla "deferenza" per la teorica dell’accademico, non prendendo le necessarie distanze (ad es., a proposito del mobbing discendente e relativi oneri probatori) da quelle che noi consideriamo le sue stesse improprietà, talora prestandovi adesione.
Nella lettura ci ha sorpreso poi la totale omissione, in nota come d'uso, della menzione di qualche lavoro di chi scrive, quale sostenitore – prima isolatamente e poi con il conforto della Cassazione – dell’opposto orientamento.
Va ancora sottolineato quello che noi - che non militiamo a favore dell'abusata esigenza della "flessibilità", risoltasi obiettivamente in dannoso "precariato"- giudichiamo un eccesso di condivisione dell'innovativa nozione di professionalità "dinamica", prospettata da Cass. n. 10091/2006 (est. Stile) in maniera platealmente sbilanciata  a favore delle (pseudo) esigenze tecniche dell'impresa rispetto alla prudentissima Cass. SU n. 25033/2006 (est. Amoroso), in quanto mentre l'una legittima in astratto "l'affidamento al lavoratore di compiti nuovi, del tutto estranei rispetto all'attività precedentemente svolta ed alle cognizioni tecniche già acquisite, purché non venga del tutto (sic!, n.d.r.) disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato..." onde pretendere da esso nel corso del rapporto prestazioni professionali di carattere "polivalente" (tipiche del lavoratore "jolly" o tuttofare), le SU invece legittimano il ricorso e lo spiegamento della professionalità "potenziale" solo se la fungibilità del lavoratore tra diverse  mansioni sia conseguente a pattuizioni collettive raggiunte "per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica" mediante rotazione dei lavoratori medesimi.
Quanto sopra rilevato è uno dei principali “nei”  da noi riscontrati in questa, peraltro pregevole, Relazione, dalle apprezzate caratteristiche riepilogative, funzionali ad un compito informativo/formativo (in una tematica tutt’altro che agevole), dei recenti orientamenti giurisprudenziali.
Superando alcune difficoltà di piana comprensione – a causa dell’uso di termini come “euristico” e “diacronico”, non proprio alla portata di tutti, neppure degli stessi colleghi magistrati – i lettori/navigatori troveranno in essa informazioni preziose, che avranno poi l’accortezza di raffrontare con quanto da noi abbondantemente già riportato nel sito.
 

Mario Meucci - Giuslavorista

Roma, 15 luglio 2008

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