- Mobbing e danno
esistenziale (*)
-
- Sommario: 1.
Premessa. — 2.
Una nuova categoria di danno. — 3.
Danno morale, danno psichico e danno esistenziale. — 4.
La tutela da inadempimento si distacca dalla tutela aquiliana. — 5.
Verso la tutela del danno non patrimoniale da inadempimento. — 6.
La prova del danno non patrimoniale da inadempimento.
-
- 1.
Premessa.
— L’elenco dei danni che i comportamenti di mobbing possono causare si
ricava dalla stessa definizione che del fenomeno ha dato la migliore
dottrina: «situazione lavorativa di conflittualità sistematica,
persistente ed in costante progresso in cui il lavoratore è fatto oggetto
di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori
in posizione superiore, inferiore o di parità. Il mobbizzato si trova
nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo
andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono
portare anche ad invalidità psicofisiche permanenti di vario genere» (1).
- I comportamenti mobbizzanti si
concretizzano nel privare il lavoratore della possibilità di esprimersi in
azienda isolandolo dai colleghi e dagli altri contatti sociali, nello
screditarlo ridicolizzandolo o calunniandolo, nel pregiudicare la sua
situazione professionale, ad esempio demansionandolo o non assegnandogli
lavoro, nel compromettere la sua salute con incarichi usuranti, orari
intollerabili, ecc. (2).
- Da tali comportamenti possono
derivare danni patrimoniali, danni all’integrità psicofisica e, assai di
frequente, danni alla personalità del lavoratore. La progressiva perdita di
autostima ed il progressivo isolamento sono, infatti, idonei a condizionare
pesantemente la vita, non solo lavorativa, ma anche personale e familiare
della vittima (c.d. doppio mobbing).
-
- 2.
Una nuova categoria di danno.
— La dottrina e la giurisprudenza hanno, dunque, constatato
l’inadeguatezza delle tradizionali categorie del danno patrimoniale,
morale e biologico rispetto all’esigenza di assicurare l’integrale
risarcimento alla persona del lavoratore mobbizzato. In particolare, si è
rilevato come in molti casi il danno subito dal lavoratore mobbizzato non
fosse inquadrabile nella categoria del danno patrimoniale, in difetto di
decremento reddituale, né nella categoria del danno biologico, quante volte
non fosse riscontrabile una lesione dell’integrità psicofisica del
lavoratore medicalmente accertabile. È così che il settore dei rapporti di
lavoro ha rappresentato un terreno fertile per l’emersione di una nuova
voce di danno non patrimoniale, sganciata tanto dalla lesione psicofisica
quanto dal reato e consistente nel pregiudizio arrecato dall’illecito
datoriale alla possibilità del lavoratore di realizzarsi come persona
nell’ambiente di lavoro e, conseguentemente, nella vita sociale e
familiare. Si può, infatti, parlare di una forte valenza esistenziale del
contratto di lavoro, con ciò intendendosi come allo scambio delle
prestazioni si accompagni il diretto coinvolgimento del lavoratore come
persona e l’esposizione del dipendente a rischi che possono riguardarne
l’incolumità fisica e la personalità morale. Il danno esistenziale
nasce, dunque, sulla base della constatazione che il lavoratore può subire
pregiudizi di natura non economica anche in assenza di lesioni
all’integrità psicofisica. Per danno esistenziale intendiamo, infatti,
ogni conseguenza lesiva che l’illecito datoriale abbia provocato sul fare
areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti
relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e
privandolo di occasioni per esprimere e realizzare la sua personalità nel
mondo esterno. Il danno esistenziale (3) si sostanzia, in altre parole:
- a) nel non poter più fare o poter
fare in modo limitato le attività che si svolgevano prima, specie le
attività extraeconomiche: pellegrinaggi, jogging, visite ai musei,
frequentazione di palestre, volontariato, tornei di bridge, partecipazione
al coro parrocchiale, viaggi, giardinaggio, raduni patriottici, raccolte di
funghi nei boschi, bocce, mercatini dell’usato, esercizi spirituali,
discoteche, collezionismo, erboristeria, shopping, e così via (4);
l’individuo danneggiato non è più quello di prima: ha attacchi di
collera in famiglia e con gli amici, prova un senso di malessere che gli
impone di ripensare i propri spazi e di modificare le proprie abitudini,
perde la fantasia, accantona gli hobbies;
- b) nel doversi dedicare ad attività
gravose come cure mediche, ricerca di un nuovo lavoro, terapie, ecc.;
- c) nel procurare un peggioramento
della qualità di vita ai propri familiari; la vita familiare viene
sconvolta.
- In caso di licenziamento ingiurioso,
la lesione della dignità del lavoratore e la perdita della fonte di
guadagno non possono essere ristorate esclusivamente mediante il recupero
della retribuzione: non verrebbe, in tal caso, ristorato il pregiudizio
derivante dall’aver dovuto rinunciare alle vacanze, all’acquisto di una
nuova automobile, a visitare una mostra, ad uscire con gli amici. Il fatto
che l’attività compromessa sia quella lavorativa, che è fonte di
reddito, infatti, non toglie che alla perdita patrimoniale si accompagnino
ulteriori profili pregiudizievoli di carattere extraeconomico come, ad
esempio, la lesione dell’onore e della dignità del lavoratore, oppure la
semplice impossibilità di realizzarsi nel lavoro, oppure l’impossibilità
di affrontare in modo adeguato la vita di tutti i giorni.
- L’illecito è destinato a far
soffrire, per un verso, a far spendere denaro, per l’altro, ma soprattutto
è tale da imporre al danneggiato nuove realtà di fondo, differenti modalità
organizzative. Notti in bianco, sacrifici, rinunce, abnegazioni diffuse,
claustralità, weekend perduti, appiattimenti, restringersi di orizzonti, esìli
più o meno definitivi (5). Sul piano probatorio, il danno esistenziale si
differenzia nettamente dal danno biologico: mentre quest’ultimo non può
prescindere dall’accertamento medicolegale, il primo invece può essere
accertato mediante la prova testimoniale, documentale e presuntiva, che
introduca nel processo la dimostrazione dei concreti cambiamenti che
l’illecito ha comportato, in senso peggiorativo ovviamente, nella qualità
di vita del danneggiato.
- Per tale motivo va anche aggiunto che
danno biologico e danno esistenziale possono coesistere quali distinte
conseguenze pregiudizievoli del medesimo illecito. Nella nuova categoria del
danno esistenziale, peraltro, confluiscono componenti per così dire «spurie»
di danno a volte ricondotte nel concetto di danno biologico in senso
dinamico ma che nulla hanno a che fare con la lesione dell’integrità
psicofisica: da qui nasce spesso l’equivoco che vuole inglobare nel danno
biologico i pregiudizi di natura esistenziale. Tale sostanziale differenza
è più evidente nei casi in cui il danneggiato non sia stato offeso nel
diritto alla salute, eppure abbia subito ingiustificate restrizioni in
ambiti di attività non reddituali in cui si esplica la sua personalità:
molte ipotesi di mobbing non determinano, ad esempio, lesioni all’integrità
psicofisica del lavoratore medicalmente accertabile.
- Ne consegue, in ogni caso, la
necessità di evitare una sovrapposizione, a livello concettuale, del danno
alla salute e del danno esistenziale. Se, d’altro canto, si affermasse che
in presenza di una lesione dell’integrità psicofisica i noti criteri
tabellari di liquidazione del danno biologico tengono già conto del
peggioramento della qualità di vita del leso, in tutte le sue possibili
variabili, dovrebbe trarsi la conclusione che non vi è spazio, in queste
ipotesi, per il risarcimento del danno esistenziale, che risulterebbe la
pretesa duplicazione di un ristoro già riconosciuto con la liquidazione del
danno alla salute.
- Ma, se si condivide l’assunto per
cui con la «scoperta» del danno esistenziale si sono messe in luce zone
grigie del danno alla persona, non riconducibili nelle note categorie del
danno patrimoniale, morale e biologico, se ne deve anche ribadire
l’autonomia concettuale rispetto a dette categorie, individuando il
criterio qualitativo che distingue una categoria rispetto all’altra. Chi
afferma che può configurarsi danno esistenziale senza danno biologico, dà
per scontato che danno esistenziale e danno biologico possano coesistere
quali conseguenze del medesimo illecito. Ma per coesistere senza annullarsi
l’una nell’altra, tali nozioni devono differenziarsi tra loro.
- Ebbene, dall’osservazione dei casi
pratici nei quali è stato riconosciuto il risarcimento del danno
esistenziale (case non abitabili, compromissione dei rapporti familiari,
danno ambientale, danno al nascituro, demansionamento, estromissione da un
concorso, impossibilità a procreare, mancata somministrazione dei mezzi di
sussistenza, mancata videoripresa nuziale, mobbing, molestie, nascita
indesiderata, rapporti di vicinato, trasfusioni di sangue, vacanza rovinata,
violenza sessuale), emergono due dati comuni alla maggior parte delle
fattispecie esaminate, ossia:
- a) il danno concerne la delusione di
un progetto, parziale o totale, ben determinato e proprio del singolo
danneggiato; b) il danno concerne attività che, per loro natura, si
sarebbero svolte tendenzialmente in un periodo limitato nel tempo.
- Tali dati sono, invero, estranei alla
categoria del danno alla salute che, pur tendendo a ristorare la menomata
capacità dell’individuo di svolgere le svariate attività
dell’esistenza nel loro aspetto non reddituale, si riporta ad un modello
astratto di esistenza, per così dire, valido per chiunque in quanto comune
a tutti gli individui. Trattandosi, peraltro, di danno che, nella componente
«invalidità», viene ad incidere in modo permanente sulla vita del leso,
concerne logicamente ed astrattamente le attività che il leso avrebbe
potuto compiere per tutto l’arco della vita (ad esempio: camminare,
leggere, ascoltare, ecc.).
- Vi è, dunque, la necessità di
accertare, a fronte della domanda congiunta di risarcimento del danno alla
salute e del danno esistenziale, se il leso abbia fornito la prova che una
determinata lesione della propria integrità psicofisica gli abbia precluso
in concreto la possibilità di svolgere, in un determinato momento della sua
vita, una particolare attività areddituale, da considerare distintiva della
sua qualità di vita rispetto a quella della generalità degli individui.
Nella perdita di tale possibilità sarà, quindi, individuabile il danno
esistenziale quale voce autonoma ed ulteriore rispetto al danno alla salute.
-
- 3.
Danno morale, danno psichico e danno esistenziale. — Il comportamento mobbizzante rappresenta per il
danneggiato un evento traumatico e doloroso. Da tale evento possono derivare
sofferenze morali, danni psichici e danni esistenziali. La differenza tra
danno morale e danno esistenziale si sostanzia nel fatto che, mentre il
danno morale è sofferenza, malinconia, lamenti notturni, cuscini bagnati di
lacrime, il danno esistenziale è come una sequenza di dinamismi alterati,
un diverso fare e dover fare (o non poter più fare), un altro modo di
rapportarsi al mondo esterno — città e dintorni, quartiere, condominio,
trasporti, servizi, luoghi del tempo libero (6). Il semplice disagio
psicologico, non connotato da patologia, rientra nel danno morale.
- Nella teorica del danno esistenziale
si sostiene che si ha danno esistenziale quante volte l’illecito abbia
provocato, quale degenerazione della sofferenza, conseguenze pregiudizievoli
sulle attività realizzatrici della persona senza tradursi in una patologia
accertabile medicalmente. Sia il danno psichico che il danno esistenziale
verrebbero, quindi, ricondotti nell’ambito della tutela da responsabilità
civile ma solo il primo sarebbe suscettibile di accertamento medico-legale.
- Tale impostazione sembra affermare
l’alternatività tra danno esistenziale e danno psichico, come se
l’accertamento del danno psichico escludesse la configurabilità del danno
esistenziale.
- A mio avviso simile asserzione è
esatta solo in parte. Condivido l’idea che il progetto di vita di un
individuo, pur sano di mente, possa essere sconvolto da un evento traumatico
e che, dunque, possa verificarsi un danno esistenziale ancorché non sia
subentrata alcuna malattia psichica.
- Non è, però, vero il contrario,
ossia che una volta accertato il danno psichico, quindi il danno biologico
da lesione dell’integrità psichica, ogni alterazione della qualità della
vita del leso venga in esso riassorbita. Se un comportamento illecito ha
provocato nel leso un disturbo posttraumatico da stress e tale disturbo si
protrae oltre un anno dopo l’evento, si ritiene che il dolore, degenerato
per incapacità di elaborazione del fatto, si sia trasformato in disturbo
patologico o permanente.
- Tale disturbo patologico si sostanzia
in un’alterazione della psiche medicalmente accertabile, cioè
verificabile a livello medico-legale da uno specialista psichiatra o
neurologo. Il giudice, a fronte di una consulenza tecnica di parte che
denunci la presenza di un danno psichico, ovvero a seguito di una prova
testimoniale che abbia dimostrato un’alterazione comportamentale della
vittima (diverso modo di rapportarsi nelle relazioni umane, rituali
ossessivi, paure, ecc.), dovrà rivolgersi al consulente tecnico
d’ufficio, psichiatra o neurologo, per verificare se ci si trovi o meno in
presenza di una vera e propria patologia psichica. I disturbi psichici, se
ritenuti sintomi di una patologia psichiatrica, costituiscono la prova della
sussistenza di un danno biologico permanente o temporaneo.
- L’impedimento a svolgere le attività
della vita quotidiana è considerata la caratteristica saliente della
malattia psichica che, per tale sua caratteristica, si distingue facilmente
dal danno morale ma si confonde con il danno esistenziale. Dal danno morale
si distingue perché questo è afflizione che può disturbare la vita
quotidiana senza tuttavia impedirla, mentre con il danno esistenziale si
confonde perché in entrambi i casi si constata l’incidenza dell’evento
lesivo sul comportamento, sull’agire, del danneggiato.
- Il giudizio di causalità medica va,
però, tenuto distinto dal rapporto di causalità giuridica, pur sempre
legato al disposto dell’art. 1223 c.c. («Il risarcimento del danno
causato dall’illecito deve comprendere così la perdita subita come il
mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta»).
Occorre, quindi, abbandonare il cammino delle relazioni causa-effetto che
lega l’evento traumatico al dolore, quindi il dolore al danno psichico,
quindi il danno psichico all’impedimento a svolgere le attività
quotidiane, e stabilire se vi sia un diretto rapporto di causalità tra
evento dannoso e danno esistenziale. Il danneggiato dovrà, ad esempio,
dimostrare in concreto quale attività meritevole di tutela la condotta
mobbizzante gli impedisca in concreto, oggi, di svolgere, il che è cosa
diversa dal presumere che un danno psichico possa incidere sul vivere
quotidiano del soggetto. Non potrebbe riconoscersi il diritto al
risarcimento del danno esistenziale ove si accertasse che lo sconvolgimento
della serenità familiare sia conseguenza della patologia psichica riportata
dal lavoratore, dunque conseguenza indiretta dell’illecito, piuttosto che
effetto immediato delle condotte vessatorie del datore di lavoro. La
differenza che corre tra danno biologico da menomazione dell’integrità
psichica e danno esistenziale passa, dunque, a mio avviso, per il generico
riferimento alle attività del vivere quotidiano comuni a tutti, proprio del
danno biologico, e la specifica delusione di un’aspettativa, la
frustrazione dell’interesse a svolgere una o più determinate attività
connotanti il progetto di vita di quel soggetto rispetto alla generalità
degli individui in quanto espressione della sua personalità unica ed
irripetibile, che sono invece caratteristica del danno esistenziale.
-
- 4.
La tutela da inadempimento si distacca dalla tutela aquiliana.
— L’espressa previsione normativa dell’obbligazione del datore di
lavoro di preservare la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.)
ha agevolato notevolmente l’opera degli interpreti, che in questo settore
non hanno avvertito come in altri settori della responsabilità contrattuale
l’esigenza di ricorrere alla costruzione giurisprudenziale del concorso
tra azione da inadempimento ed azione aquiliana al fine di riconoscere
l’integrale risarcimento del danno subito dal lavoratore.
- La norma del codice civile trova,
poi, un preciso riscontro costituzionale tanto nell’art. 2, essendo
l’ambiente di lavoro una delle formazioni in cui l’individuo svolge la
sua personalità, quanto nell’art. 35, che assicura una forte tutela dei
diritti del lavoratore.
- Perché, dunque, la tutela aquiliana
dovrebbe considerarsi il passaggio indispensabile per assicurare al
lavoratore insoddisfatto il risarcimento del danno non patrimoniale? Il
raffronto con le esperienze di altri paesi ci dice che i danni non
patrimoniali sono risarcibili alle stesse condizioni di quelli patrimoniali.
Nel nostro ordinamento si è, invece, fatto ricorso all’art. 2059 c.c.,
sebbene la norma non sia direttamente applicabile in caso d’inadempimento,
integrando la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale da
inadempimento con i limiti previsti in ambito extracontrattuale. Ma oggi,
che la nuova interpretazione dell’art. 2059 c.c. (7) ha di fatto abbattuto
ogni ragionevole ostacolo alla risarcibilità del danno non patrimoniale
inteso in senso lato, s’impone una rimeditazione di tale orientamento,
anche per risolvere il problema della qualificazione della domanda e della
direzione dell’istruttoria da parte del giudice. Con la precisazione che
il danno non patrimoniale non discende necessariamente dalla lesione di un
interesse non patrimoniale, ben potendo l’inadempimento ledere un
interesse patrimoniale che abbia come conseguenza una perdita insuscettibile
di valutazione economica nel patrimonio personale del creditore. È ben
possibile che reclamino il risarcimento del danno non patrimoniale coloro
che hanno perduto la casa di abitazione per l’inesatta esecuzione di un
contratto di appalto, o coloro che hanno ricevuto in locazione un
appartamento che non viene mantenuto in buono stato locativo, coloro che
hanno riportato il contagio da epatite o da HIV in seguito ad emotrasfusione
infetta, per non parlare delle numerose richieste risarcitorie del danno
esistenziale avanzate dai lavoratori mobbizzati od illegittimamente
licenziati. L’attuale sistema del codice civile prevede una distinta
regolamentazione dell’illecito contrattuale ed extracontrattuale, anche se
l’art. 2056 c.c. rende comuni ai due tipi d’illecito una serie di
disposizioni. La disciplina diverge nel rilievo attribuito all’elemento
soggettivo, in quanto solo nella responsabilità contrattuale la distinzione
tra dolo e colpa rileva ai fini del risarcimento. In caso di colpa sarà,
infatti, risarcibile il solo danno prevedibile al momento dell’accordo.
Tale divergenza perde, tuttavia, consistenza se si evidenzia come anche per
l’illecito extracontrattuale il danno imprevedibile, inteso come evento
dannoso, può non essere causalmente collegato alla condotta ovvero può
rimanere estraneo alla colpa di chi ha causato il danno.
- Divergente è anche il regime
dell’onere probatorio, di cui dirò in seguito. La visione prettamente
patrimonialistica che ha connotato sin dalle origini il sistema
contrattuale, rispetto al sistema della responsabilità aquiliana, ha quindi
fatto sì che, ove più pressante si rivelasse l’esigenza di tutela di
valori della persona, venisse a configurarsi come necessario il concorso tra
l’azione risarcitoria da inadempimento e l’azione aquiliana, con
inevitabili sovrapposizioni e contaminazioni sul piano procedurale. Ma,
confrontando la disciplina dell’illecito aquiliano e quella
dell’inadempimento contrattuale, l’assenza in questo secondo settore di
una norma come l’art. 2059 c.c. non può a mio avviso considerarsi un
indice dell’intento del legislatore di negare al creditore insoddisfatto
il risarcimento del danno non patrimoniale. Va, infatti, ricordato che,
prima delle pronunce della Cassazione del maggio 2003 e della Corte
costituzionale del luglio 2003, la norma dell’art. 2059 c.c. non poteva
che considerarsi un limite, presente nella disciplina dell’illecito
aquiliano ma assente in quella dell’illecito contrattuale, alla
risarcibilità del danno non patrimoniale. La norma, restringendo il diritto
al risarcimento del danno non patrimoniale alle fattispecie di reato ed agli
altri casi previsti dalla legge, interpretata per tale motivo in chiave
sanzionatoria degli illeciti più gravi, doveva considerarsi nient’altro
che un freno, non presente nel settore dell’illecito contrattuale, alla
risarcibilità del danno non patrimoniale. Le citate pronunce della
Cassazione consentono, oggi, di leggere l’art. 2043 c.c. come clausola
generale che definisce l’illecito extracontrattuale.
- Analogamente, in materia
d’inadempimento, la clausola generale dell’art. 1453 c.c., laddove
riconosce al contraente non inadempiente, in aggiunta all’azione di
adempimento e di risoluzione del contratto, il diritto al risarcimento del
danno subito quale conseguenza dell’altrui inadempimento, non specifica
che si debba trattare di danno patrimoniale, consentendo, con riferimento a
quei contratti nei quali la lesione dell’interesse del creditore provochi
danni nella sua sfera non patrimoniale, di riconoscere il diritto al
risarcimento del danno non patrimoniale se ed in quanto al mancato
appagamento dell’interesse alla prestazione si siano sovrapposti: il
peggioramento della sua condizione esistenziale, ovvero la sofferenza
morale, ovvero la lesione dell’integrità psicofisica e, più in generale,
il deterioramento della sfera areddituale del medesimo rispetto alla
situazione prefigurabile al momento della conclusione del contratto. Si
tratta, in sostanza, della lesione d’interessi di natura esistenziale che
hanno spinto il contraente all’accordo negoziale ma che, al contempo,
trascendono e si affiancano alla causa tipica del contratto. Una lettura
costituzionalmente orientata dell’art. 1453 c.c. consente, in altre
parole, di aprire la strada al risarcimento del danno morale del lavoratore,
dell’acquirente, del paziente indipendentemente dal fatto che tali
soggetti siano stati vittime di reato. Più in generale, potrebbe dirsi che
il percorso intrapreso dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Consulta
consentirà di sostenere che il contraente danneggiato dall’inadempimento
possa rinvenire nella disciplina dettata dall’art. 1453 c.c. la fonte
della tutela risarcitoria per ogni genere di danno che abbia subito,
indipendentemente dal fatto che si tratti di danno patrimoniale o non
patrimoniale, e purché di tale danno venga fornita la prova.
-
- 5.
Verso la tutela del danno non patrimoniale da inadempimento. — La maggiore attenzione volta dalla più recente
giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 22 luglio 1999, n. 500) e dalla dottrina
all’evento dannoso in relazione all’offesa dell’interesse sostanziale
tutelato dall’ordinamento giuridico; l’orientamento giurisprudenziale
della Suprema Corte, che già nel 2001 affermava che «La lettura conforme
alla Costituzione delle norme che disciplinano la responsabilità civile
impone di interpretarle nel senso che, in caso di lesione di un diritto
fondamentale della persona, il rimedio del risarcimento del danno non possa
essere negato per il fatto che il pregiudizio sofferto non sia di natura
patrimoniale, e ciò in via generale e non alla stregua della circoscritta
previsione dell’art. 2059 c.c.». (Cass. 3 luglio 2001, n. 9009); la
sottolineatura, infine, della non necessaria patrimonialità
dell’interesse leso dall’inadempimento (art. 1174 c.c.), suggeriscono
oggi di dare maggiore corpo all’idea che la tutela risarcitoria per i
danni non patrimoniali derivanti dall’inadempimento possa rinvenire la
propria integrale disciplina nella materia contrattuale. Si tratta, dunque,
di una disciplina in sé compiuta, che non può ammettere deroghe al
principio di integrale ristoro della perdita subita dal danneggiato.
- Tale interpretazione trova conforto
anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea (Corte di
Giustizia Ue sezione VI 12 marzo 2002, n. c168/00), che ha riconosciuto al
consumatore il diritto al risarcimento del danno morale derivante
dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in
occasione di un viaggio «tutto compreso», facendo leva sul tenore
dell’art. 5 della direttiva comunitaria n. 90/314/Ce, riguardante le
vacanze ed i circuiti «tutto compreso», che riconosce il diritto del
viaggiatore al risarcimento del danno tout court, senza ulteriori
specificazioni.
La Corte
ha, in proposito, osservato che, nell’ambito dei viaggi turistici, il
risarcimento del danno per il mancato godimento della vacanza ha per i
consumatori un’importanza particolare per cui, essendo prevista la facoltà
per gli Stati membri di regolare i criteri ai quali i contraenti si dovranno
attenere nella disciplina del risarcimento dei danni diversi da quelli
corporali, la direttiva riconosce implicitamente l’esistenza di un diritto
al risarcimento dei danni diversi da quelli corporali, tra cui il danno
morale. L’inadempimento può, come già detto, incidere negativamente su
talune attività realizzatrici della persona del creditore in aggiunta alla
frustrazione del diritto ad ottenere le utilità patrimoniali connesse alla
prestazione promessa.
- Un settore nel quale si rinvengono
interessanti spunti a sostegno di quanto ho sinora detto è, appunto, quello
dei rapporti di lavoro. E non è un caso.
-
La Suprema Corte
, con la sentenza 4
maggio 2004, n.
8438, ha
riconosciuto al lavoratore mobbizzato il diritto al risarcimento del danno
per «violazione — da parte del datore di lavoro — di specifici obblighi
contrattuali derivanti dal rapporto d’impiego [...] Si tratta di atti di
gestione del rapporto di lavoro che trovano un diretto referente normativo
nella disciplina della regolamentazione del rapporto e ricevono da questa la
loro sanzione di illiceità. La fattispecie di responsabilità va così
ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali
norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede
il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla
salute) che trovano la loro tutela specifica nell’ambito del rapporto
obbligatorio». Dicevo che non è un caso che la tutela del danno non
patrimoniale da inadempimento venga con tanta chiarezza affermata
nell’ambito dei rapporti di lavoro. Oltre a trattarsi, come si è detto,
di contratti a forte valenza esistenziale, nel codice civile vi è l’art.
2087, che prevede la responsabilità contrattuale del datore di lavoro anche
in relazione alla lesione della personalità morale del lavoratore.
- Tale norma, data l’ampiezza della
locuzione, è una chiara valvola di accesso alla tutela di tutti i danni non
patrimoniali, siano essi danni da lesione dell’integrità psichica, danni
morali soggettivi e danni da compromissione della personalità del
lavoratore. Il giudice non è, in altre parole, tenuto a verificare se
l’interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in
quanto protetto a livello costituzionale perché la tutela è già
chiaramente accordata da una norma del codice civile. Ma, a mio avviso, nella
materia dei contratti la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale non
passa per la necessaria valutazione del rilievo costituzionale
dell’interesse leso: in ambito contrattuale, è la stessa esigenza di
tutela della libertà di espressione dell’autonomia privata, ossia la mera
circostanza che l’interesse leso sia stato la causa giustificatrice del
sorgere di un valido rapporto obbligatorio, a giustificare l’integrale
tutela del danneggiato. L’ingiustizia del danno, intesa quale lesione
di un interesse sostanziale che legittima la tutela risarcitoria, troverebbe
in sostanza immediato riscontro nella lesione dell’interesse del creditore
già filtrato dalla tipicità contrattuale ovvero dal giudizio di
meritevolezza ex art. 1322, co. 2, c.c.
- Tale idea trova il suo fondamento
nella preesistenza al danno dell’impegno pattiziamente assunto dal
responsabile nei confronti del danneggiato e negli obblighi accessori
finalizzati alla corretta e compiuta esecuzione del contratto. L’emergere
di questa nuova prospettiva, volta ad attribuire rilevanza alla lesione di
interessi relazionali del contraente in aggiunta all’interesse prettamente
patrimoniale sotteso al contratto, mi induce dunque a suggerire di ravvisare
detto criterio selettivo dell’interesse rilevante per l’ordinamento nei
medesimi strumenti dei quali l’interprete si avvale per formulare il
giudizio sulla validità o nullità del contratto in relazione
all’elemento essenziale della causa negoziale.
-
- 6.
La prova del danno non patrimoniale da inadempimento. — La peculiare disciplina del risarcimento del
danno da inadempimento contrattuale impone al danneggiato un ben preciso
assetto tattico sul piano probatorio.
- In primo luogo, l’onere probatorio
inerente alla responsabilità del debitore si sposta, rispetto
all’illecito extracontrattuale, dalla vittima all’autore del danno, che
dovrà dimostrare l’assenza di propria colpa. Ciò significa che il datore
di lavoro sarà tenuto a dimostrare di aver rispettato le norme cautelari
che regolano la sua posizione di garanzia e gli obblighi di diligenza.
Spetterà, invece, al lavoratore fornire la prova del danno non patrimoniale
quale conseguenza concreta della lesione, proiettatasi sulla quotidianità
del danneggiato.
- Se per ottenere l’adempimento o la
risoluzione del contratto è sufficiente che il creditore fornisca la prova
dell’accordo negoziale ed alleghi l’inadempimento, tanto non basta perché
quello stesso creditore ottenga il risarcimento del danno. Una cosa è il
mancato perseguimento delle utilità, anche esistenziali, alle quali il
contratto tendeva, un’altra cosa è la diminuzione o la privazione,
causate dall’inadempimento, di utilità esistenziali collegate
all’esecuzione del contratto.
- Ricordando che il danno è perdita,
nel primo caso si parlerà semplicemente d’inadempimento, nel secondo di
danno risarcibile.
- Ecco che allora la tutela risolutoria
e restitutoria potranno accordarsi sulla base della prova del contratto e
della deduzione dell’inadempimento, mentre la tutela risarcitoria
necessiterà di un’ulteriore prova.
- Per esemplificare, il lavoratore
subordinato illegittimamente trasferito dalla sede di lavoro dovrà provare
che l’illecito datoriale ha seriamente sconvolto la sua organizzazione di
vita.
- Il lavoratore che ha subito un
demansionamento, oltre a non poter svolgere la prestazione lavorativa nei
termini contrattualmente stabiliti, dovrà provare come sia stato frustrato
l’interesse non patrimoniale alla realizzazione della sua personalità
nell’ambiente di lavoro. È anche frequente che la prova del danno non
patrimoniale possa essere raggiunta per presunzioni ed, anzi, ritengo che
per i danni non patrimoniali l’attenzione del creditore danneggiato dovrà
prevalentemente rivolgersi a dimostrare i fatti e le circostanze che diano
conto della gravità del danno ai fini della liquidazione equitativa del
risarcimento. Va, però, rimarcato che il limite della prevedibilità
del danno risarcibile previsto in materia contrattuale dall’art. 1225 c.c.
costituisce, specie con riguardo ai danni non patrimoniali, un pesante freno
al riconoscimento della tutela risarcitoria da inadempimento contrattuale ed
il relativo onere probatorio non potrà che gravare sul creditore
insoddisfatto. Nel settore del mobbing tale limite sarà, peraltro verso,
difficilmente applicabile, data la matrice dolosa dell’illecito. Il
danneggiato sul quale incombe tale onere probatorio sarà, inoltre,
agevolato dal fatto che una ripercussione esistenziale dell’inadempimento
che si consideri prevedibile è al contempo evento dannoso suscettibile di
prova presuntiva senza ulteriore necessità d’istruttoria.
-
- Eugenia Serrao (magistrato)
- (pubblicata
in MGL 1-2/2005, p.14 e ss.)
-
- (*) Relazione tenuta al Convegno di
studio ed alta formazione organizzato dall’Università di Roma «
La Sapienza
», Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica dal titolo,
Progetto antimobbing: monitoraggio, trattamento, risarcimento, prevenzione,
svoltosi a Roma il 7 e 8 ottobre 2004.
-
- (1) H. EGE, La valutazione peritale
del danno da mobbing, Milano 2002, 39.
- (2) S. BANCHETTI, Il mobbing, in
Trattato breve dei nuovi danni, P. Cendon (a cura di), Padova 2001, 2080.
- (3) P. CENDON, Esistere o non
esistere, in Persona e danno, Milano 2004, 1707.
- (4) P. CENDON, P. Ziviz, Il danno
esistenziale. Una nuova categoria della responsabilità civile, Milano 2000,
10.
- (5) P. CENDON, P. ZIVIZ, op. cit.,
12.
- (6) P. CENDON, P. ZIVIZ, op. cit.,
10.
- (7) Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e
n.
8828, in
«Danno e responsabilità» 2003, 816; Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233,
ibidem 2003, 939.