Mobbing: dallo stress alla malattia
 
“Una persona può essere uccisa una volta sola, ma quando la si umilia la si uccide ripetutamente.”
Talmud
 
Negli ultimi anni, in tutte le società avanzate si è andato diffondendo un fenomeno allarmante: il “Mobbing”. Il termine Mobbing deriva dal verbo inglese “to mob” che significa assalire, aggredire, affollarsi attorno a qualcuno, accerchiare. Il sostantivo mob dal latino “mobile vulgus”, significa invece folla tumultuante, spesso nell’accezione dispregiativa di gentaglia, banda di delinquenti. Il termine Mobbing discende dalla tradizione etologica e solo in un secondo momento è stato introdotto in psicologia. Nell’ottocento, Mobbing era un termine coniato dai biologi inglesi per descrivere il comportamento degli uccelli, che difendevano il loro nido con manovre di volo minacciose contro gli aggressori. Nel novecento, l’etologo Konrad Lorenz lo ha impiegato per indicare un comportamento di minaccia aggressiva (mobbing behaviour) da parte di un gruppo di animali, generalmente di taglia inferiore, nei confronti di un animale estraneo generalmente di taglia superiore e giudicato come potenzialmente nemico. Il Mobbing è comunemente definito come una forma di molestia o violenza psicologica sul posto di lavoro esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo iterativo con modalità polimorfe; l’azione persecutoria viene esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori gerarchici, per un periodo determinato arbitrariamente stabilito in almeno sei mesi sulla base dei primi rilievi nord-europei, ma con ampia variabilità dipendente dalla modalità di attuazione e dai tratti della personalità dei soggetti, con la finalità o la conseguenza dell’estromissione del soggetto dal luogo di lavoro. Le prime ricerche e teorizzazioni sul Mobbing si devono ad Heinz Leymann, psicologo tedesco, emigrato in Svezia, riconosciuto come il “padre” del Mobbing. L’anno di boom fu il 1996, quando uscì il famoso numero della rivista europea di psicologia del lavoro EAWOP interamente dedicata al Mobbing. In quello stesso anno, iniziava ufficialmente la ricerca anche in Italia con l’uscita del primo libro in lingua italiana, ad opera di Harald Ege psicologo tedesco, discepolo del Prof. Leymann, attualmente considerato uno dei più autorevoli studiosi in Italia. Piuttosto curiosamente, tuttavia non fu Leymann il primo a mutuare il termine mobbing dall’etologia per applicarlo al campo delle relazioni umane, bensì fu lo svedese Heinemann che nel 1972 lo utilizzò per definire quei comportamenti violenti tra adolescenti a scuola, che oggi si preferisce ricondurre al termine “Bullismo”. Il Mobbing, del resto, era un fenomeno ben noto anche prima che Leymann lo nomenclasse come tale. Nel 1976, infatti, la ricercatrice americana Brodsky parlava a tutti gli effetti di Mobbing nel suo libro “The harassed worker” (Il lavoratore molestato), dove con il termine “harassement” definiva un comportamento consistente in ripetuti e persistenti tentativi, messi in atto da un individuo al fine di infastidire, esasperare, frustrare o indurre a una reazione un’altra persona. Erede di questa tradizione è un’autrice francese Hirigoyen che nel suo libro parla di molestie morali nella famiglia e nel lavoro (harcèlement morale). Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna è molto diffuso un altro termine che di Mobbing è praticamente sinonimo, anzi i due termini sono usati spesso in modo intercambiabile: Bullying. Questo termine si deve ad uno studioso britannico Field, e significa fare il prepotente, comandare, tiranneggiare. Il Bullying indica un atteggiamento di prepotenza e di prevaricazione, descrive un comportamento aggressivo che nasce dall’intenzione deliberata di causare fastidio fisico o psicologico agli altri, a volte si tratta di veri e propri atti di violenza fisica, quali vandalismi e danni materiali e delinea un fenomeno generale, non limitato esclusivamente al posto di lavoro e che può insorgere anche occasionalmente. Di solito quando è usato come sinonimo di Mobbing appare quasi sempre insieme alla fondamentale specificazione del contesto lavorativo: si troverà quindi “workplace bullying” o “bullying at work”. La più classica, celebre e altrettanto citata definizione di Mobbing è comunque quella che Leymann diede nel 1996 e che così recita: “Il terrore psicologico sul posto di lavoro o Mobbing consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da uno o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa, e qui costretto a restare da continue attività ostili. Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza (definizione statistica: almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (definizione statistica: per almeno sei mesi). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il comportamento ostile dà luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali”. Secondo una recente definizione, Ege invece si esprime così: “Il Mobbing è una guerra sul lavoro in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la professionalità della vittima. Le conseguenze psicofisiche di un tale comportamento aggressivo risultano inevitabili per il mobbizzato”. Gli elementi identificativi del Mobbing sono dunque:
La presenza di almeno due soggetti, il mobber cioè colui che esercita le azioni mobbizzanti e il mobbizzato che è la vittima del Mobbing, che entrano in contrasto tra di loro;
• L’attività vessatoria continua e duratura (almeno un episodio alla settimana per almeno sei mesi);
• Lo scopo di isolare la vittima sul posto di lavoro e/o di allontanarla definitivamente perché diventata “scomoda” o comunque di impedirle di esercitare un ruolo attivo sul lavoro.
Naturalmente, non tutti i problemi sul lavoro costituiscono davvero molestia morale, una dinamica ben diversa dai normali scontri e dai litigi tra colleghi che si verificano episodicamente in ogni ambiente, ossia ciò che viene comunemente definito come conflitto quotidiano. Quest’ultimo è, infatti, spesso legato a fattori soggettivi del tutto estemporanei che hanno influenza sull’umore e sul comportamento di ogni essere umano (un litigio in famiglia un evento sfortunato, una scadenza improrogabile). Una certa dose di conflittualità interpersonale in ufficio o in fabbrica è fisiologica e generalizzata e può derivare da una condizione costante di superlavoro o di cattiva organizzazione delle mansioni, oppure da cambiamenti sostanziali della struttura, come ristrutturazioni o privatizzazioni. La molestia morale è invece una vera patologia sociale che si caratterizza per alcuni aspetti peculiari, come la continuità delle aggressioni nel tempo, lo stillicidio di eventi persecutori, l’intensificazione progressiva di attacchi che portano la vittima all’isolamento, all’emarginazione, al disagio e alla malattia. Il Mobbing si manifesta in moltissimi modi, ma il problema più grande è forse dovuto al fatto che si presenta dietro una facciata normale: al principio sembra tutto innocuo, si presenta come una catena di segnali e di eventi, apparentemente scollegati tra loro, che nascondono una precisa, progressiva strategia. L’attacco prima è surrettizio e subdolo, fatto di allusioni, sguardi, battute; in questa fase è ancora difficile da afferrare, da capire, da identificare; poi diventa sempre più palese e violento determinando nel soggetto mobbizzato una insostenibilità psicologica che conduce a un crollo psico-fisico, portando alla formazione di quadri patologici psichiatrici e psicosomatici, in alcuni casi molto gravi, che talvolta possono sconfinare nel tentativo di suicidio o, più raramente, nell’aggressività verso altre persone. Leymann, nel tentativo di analizzare in modo sistematico l’insieme delle azioni “mobbizanti” osservate nella sua esperienza di lavoro, ha identificato una serie di 45 comportamenti riconducibili all’interno di cinque categorie di condotta degli aggressori verso le vittime e che sono entrati a far parte del LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terrorism), questionario da lui ideato per l’individuazione e la quantificazione del Mobbing nelle vittime e tuttora ampiamente utilizzato nei paesi nord-europei:
• LIPT
1) Attacchi alla comunicazione;
- Il capo limita le possibilità di esprimersi della vittima
- Viene sempre interrotto quando parla
- I colleghi limitano le possibilità di esprimersi
- Si urla o si rimprovera violentemente con lui
- Si fanno critiche continue sul suo lavoro
- Si fanno critiche continue sulla sua vita privata
- E’ vittima di telefonate mute o di minaccia
- E’ vittima di minacce verbali
- E’ vittima di minacce scritte
- Gli si rifiuta il contatto con gesti o sguardi scostanti
- Gli si rifiuta il contatto con allusioni indirette
2) Attacchi alle relazioni sociali;
- Non gli si parla più
- Non gli si rivolge più la parola
- Viene trasferito in un ufficio lontano dai colleghi
- Si proibisce ai colleghi di parlare con lui
- Ci si comporta come se lui non esistesse
3) Attacchi all’immagine sociale;
- Si sparla alle sue spalle
- Si spargono voci infondate su di lui
- Lo si ridicolizza
- Lo si sospetta di essere malato di mente
- Si cerca di convincerlo a sottoporsi a visita psichiatrica
- Si prende in giro un suo handicap fisico
- Si imita il suo modo di camminare o di parlare per prenderlo in giro
- Si attaccano le sue opinioni politiche o religiose
- Si prende in giro la sua vita privata
- Si prende in giro la sua nazionalità
- Lo si costringe a fare lavori umilianti
- Si giudica il suo lavoro in maniera sbagliata e offensiva
- Si mettono in dubbio le sue decisioni
- Gli si dicono parolacce o altre espressioni umilianti
- Gli si fanno offerte sessuali, verbali e non
4) Attacchi alla qualità della situazione professionale e privata;
- Non gli si danno più compiti da svolgere
- Gli si toglie ogni tipo di attività lavorativa, in modo che non possa più nemmeno inventarsi il lavoro
- Gli si danno lavori senza senso
- Gli si danno lavori molto al di sotto della sua qualificazione professionale
- Gli si danno sempre nuovi compiti lavorativi
- Gli si danno lavori umilianti
- Gli si danno compiti molto al di sopra delle sue capacità per screditarlo
5) Attacchi alla salute;
- Lo si costringe a fare lavori che nuocciono alla sua salute
- Lo si minaccia di violenza fisica
- Gli si fa violenza leggera (esempio uno schiaffo) per dargli una lezione
- Gli si fa violenza fisica più pesante
- Gli si causano danni per porlo in svantaggio
- Gli si creano danni fisici nella sua casa o sul suo posto di lavoro
- Gli si mettono le mani addosso a scopo sessuale
Il criterio posto da Leymann per distinguere il fenomeno mobbing dagli attacchi che si verificano nei normali conflitti quotidiani è basato, come abbiamo detto, sui parametri temporali di durata e frequenza: una durata di almeno sei mesi e una frequenza di almeno una volta alla settimana (Leymann ha voluto precisare dei criteri statistici per cui non è possibile parlare di mobbing nel caso di conflitti sporadici o di una singola azione mobbizzante) sono indicativi di un fenomeno di violenza psicologica sul luogo di lavoro.
Alcuni studiosi hanno ampliato la lista dei 45 comportamenti descritti da Leymann, in quanto ritengono che le azioni in causa possano essere molte di più. In sintesi fare un lista completa ed esaustiva di tutte le strategie e azioni mobbizzanti risulta impossibile, comunque risultano indicativi tutti quei comportamenti che colpiscono l’individuo nella sua dignità personale, morale e professionale, oltreché quelli che minano il suo equilibrio psichico per indurlo in errore e renderlo inerme. Il mobbing è un fenomeno in continua evoluzione, che si sviluppa secondo delle tappe ben precise, in una continua escalation fino al punto finale che si conclude con l’estromissione della vittima dal mondo del lavoro. Si possono identificare due modelli principali, che hanno cercato di delineare il processo, identificando le varie fasi che vi occorrono: il “Modello a 4 fasi di Leymann”, ideato per diagnosticare e descrivere il fenomeno nei paesi scandinavi ed il ”Modello a 6 fasi di Ege”, che riprendendo il modello di Leymann lo ha adattato alla realtà italiana che presenta delle caratteristiche diverse rispetto a quella europea. Leymann ha teorizzato il fenomeno distinguendo quattro fasi successive attraverso cui si sviluppano le condotte di mobbing:
• Prima fase: conflitto quotidiano
Nell’ambito dell’ambiente di lavoro si evidenzia un conflitto che si manifesta attraverso una serie di attacchi, scherzi e meschinerie di vario genere diretti verso la vittima e che le causano un certo malessere. Se il conflitto, che a questo livello è molto difficile da rilevare, non viene risolto, può dar luogo all’inizio del processo del mobbing.
• Seconda fase: inizio del mobbing e del terrore psicologico
Questa fase è anche definita “maturazione del conflitto” in quanto le aggressioni diventano continuative e sistematiche, la vittima viene sempre più isolata e viene creato a suo carico il “mito negativo”. Qualsiasi forma di difesa della vittima risulta inutile, cosicché sperimenta la propria incapacità, ritrovandosi sempre più in uno stato cronico di ansietà in cui si evidenziano patologie a carico del sistema psicosomatico. Qui la maggior parte delle vittime è costretta a ricorrere ad un sostegno farmacologico ed a protratte assenze dal lavoro per prevenire gravi ricadute.
• Terza fase: errori ed abusi anche non legali dell’Amministrazione del personale
A questo punto il caso è diventato di interesse dell’amministrazione del personale che preoccupata dalle continue assenze del lavoratore, del suo calo qualitativo e quantitativo nelle prestazioni e ascoltate le voci negative che circolano sul suo conto (ormai stiamo parlando di una persona che ha perso le sue energie creative e si vede costretta ad usare la poca forza che le resta per resistere e cercare di non soccombere del tutto) preferisce porsi dalla parte dei persecutori non dando alcun credito alle lamentele della vittima. La vittima non viene ascoltata, il più delle volte subisce ulteriori denigrazioni e le calunnie circolanti sul suo conto continuano ad espandersi: in questa fase la vittima è sola ed è stata ormai etichettata: “la colpa del suo malessere è solo sua, è lei la pazza!”. Ormai l’ambiente è nelle mani dei mobber e l’esame con la vittima non potrà che dare dei risultati negativi verso di essa.
• Quarta fase: esclusione dal mondo del lavoro
E’ la fase conclusiva di questo processo che vede l’estromissione della vittima dal mondo del lavoro. Le dimissioni volontarie o coatte del lavoratore non rappresentano purtroppo la soluzione definitiva dei suoi mali, nel senso che il più delle volte le conseguenze di questa devastante aggressione psicologica subita si protrarranno ancora a lungo e lasceranno nella vittima dei residui molto spiacevoli.
Vi sono una serie di fenomeni che si riscontrano solitamente a questo stadio nella vittima:
- trasferimento ad altra sede o continui spostamenti
- demansionamento ad attività di minore importanza
- prepensionamento
- messa in invalidità
- periodo di lunga malattia o ricovero in clinica psichiatrica
- sviluppo di manie ossessive e presenza persistente di pensieri intrusivi
- sviluppo di comportamenti criminali a seguito di una forte carica aggressiva
- suicidio
- uccisione dell’aggressore
Harald Ege, invece nel modello a sei fasi, delinea la peculiarità del mobbing italiano, che presenta delle caratteristiche diverse rispetto a quello dei Paesi scandinavi: oltre alle sei fasi, individua una pre-fase che definisce “Condizione Zero” ed il fenomeno del “Doppio Mobbing.
• La “Condizione Zero”
Si tratta di una situazione che è normalmente presente nella realtà italiana e del tutto sconosciuta nella cultura nordeuropea: il conflitto fisiologico, normalmente presente ed accettato nelle nostre aziende e che non è ancora mobbing, però costituisce un terreno fertile al suo sviluppo. E’ un conflitto generalizzato che vede tutti contro tutti, c’è una lotta spietata per la sopravvivenza, una competitività sempre maggiore, anche se non c’è ancora una vittima cristallizzata. Non è ancora definita una chiara volontà di distruggere, ma solo il desiderio di elevarsi sugli altri. Tale conflitto non è del tutto latente e si manifesta con una serie di accuse, piccole ripicche, diverbi e discussioni che ogni tanto emergono all’interno degli ambienti di lavoro. I rapporti personali tra colleghi sono normalmente inesistenti o improntati su una gelida cortesia formale.
• La prima fase: il conflitto mirato
In questa prima fase del mobbing si è individuata una vittima e la conflittualità si dirige ora verso di essa. Non si tratta più di una conflittualità fisiologica stagnante, ma si mettono in moto una serie di azioni distruttrici dirette verso l’avversario con l’obiettivo di “fargli le scarpe”. Il conflitto si sposta dal piano oggettivo verso quello emotivo-personale, non più limitato al campo del lavoro, ma investendo anche la vita privata della vittima.
• La seconda fase: l’inizio del mobbing
In questa fase vediamo come gli attacchi del mobber non causano ancora delle vere e proprie malattie sulla vittima, ma le procurano un senso di disagio e fastidio. La vittima percepisce un clima lavorativo fatto di tensioni e silenzi e comincia ad interrogarsi su tale mutamento. “Che cosa sta accadendo?” è l’interrogativo che si pone la vittima, ma purtroppo il più delle volte non è ancora consapevole di essere stata scelta come bersaglio da “far fuori a tutti i costi”.
• La terza fase: primi sintomi psicosomatici
La vittima comincia ad accusare problemi di salute perlopiù sotto forma di malattie psicosomatiche con problemi alla sfera digestiva, disturbi nella concentrazione e nella memoria, emicranie, disturbi del sonno, senso di ansia generalizzato e persistente, tensioni varie, sentimento di insicurezza e labilità emotiva.
• La quarta fase: errori ed abusi dell’amministrazione del personale
A questo punto il caso di mobbing è diventato pubblico e spesso viene altresì favorito dagli errori di valutazione dell’amministrazione del personale che, insospettita dalle frequenti assenze per malattia della vittima, trova più comodo richiamare la persona con contestazioni e provvedimenti disciplinari che andare a scovare il vero motivo di queste assenze ripetute.
• La quinta fase: serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima
In questa fase il mobbizzato è in preda alla disperazione, solitamente è sotto terapia farmacologica per poter in qualche modo far fronte ai suoi malesseri, compie errori sempre più frequenti e si convince sempre più di essere una nullità e che tutto ciò che sta accadendo è colpa sua: questa errata convinzione di “auto-attribuzione di colpa” non fa altro che condurlo sempre più verso il baratro favorendo il gioco degli aggressori.
• La sesta fase: esclusione dal mondo del lavoro
Questa fase rappresenta l’epilogo della storia di mobbing, che generalmente vede l’uscita della vittima dal mondo del lavoro, o tramite dimissioni volontarie, licenziamento o ricorso al prepensionamento o anche attraverso esiti più traumatici come lo sviluppo di manie ossessive, suicidio, omicidio o la vendetta sul mobber. Anche questa fase è preparata dalla precedente in quanto la depressione in cui è incorsa la vittima la porta spesso ad atti estremi; il mobbizzato non ha più le forze per combattere, gli risulta molto difficile continuare a rimanere quotidianamente a contatto con gli aggressori ed ha sviluppato delle vere e proprie manie che non si alleviano neppure al riparo tra le mura domestiche. E’ la fine. Alla vittima non resta ora che uscire dal campo di battaglia e quello che la aspetta il più delle volte sarà una lunga convalescenza, mentre nei casi di disperazione più seri arriva purtroppo a compiere atti estremi (suicidio).

1.1 IL MOBBIZZATO E LE SUE REAZIONI

Fin dall’inizio dei suoi studi, Leymann affermò categoricamente che, in base ai risultati, non ci sono tipi di personalità inclini ad essere mobbizzati e che il Mobbing può accadere a chiunque e può colpire in qualsiasi momento. Nel Mobbing tutti possono essere colpiti, indipendentemente dal loro carattere, dal loro tipo di lavoro, dal sesso e dalla loro posizione gerarchica. Tuttavia, esiste secondo il neuropsichiatra Gilioli, una “soglia individuale di resistenza alla violenza psicologica”, capace di indurre una condizione di Mobbing, che è possibile esprimere come funzione d’intensità della violenza, tempo di esposizione, tratti della personalità. Ci sono delle caratteristiche individuali o situazionali che possono favorire l’insorgenza o la diffusione del Mobbing. Ma al contrario di quanto si pensi, la vittima di molestie morali sul lavoro non è necessariamente una persona dal carattere debole, un “perdente nato”. Anzi le vittime designate possono essere le più svariate, per esempio negli ambienti di lavoro piatti, dove c’è una sorta di complicità fra mediocri finalizzata a non creare competizione, a volte ad essere colpito è il lavoratore più brillante, capace e creativo, quello che in qualche modo si diversifica dal gruppo a cui appartiene. Il gruppo infatti, tollera difficilmente comportamenti diversificati rispetto ai valori medi ed in particolare le persone che vogliono fare di più, fare meglio, proporre; oppure al contrario le persone che hanno capacità lavorative ridotte e che quindi si attestano sui rendimenti inferiori alla media. Spesso, la vittima è soltanto l’ultimo arrivato, colpevole di avere rotto una precedente dinamica di clan molto chiusa; talvolta è una persona originale, che non accetta gli standard del gruppo, che veste in modo eccentrico, che ha idee politiche o convinzioni religiose particolari. Proseguendo ad essere colpito, è il lavoratore onesto, quello che non accetta regole clientelari e paramafiose che vigono nel gruppo, e di conseguenza chi non collabora o si estranea, è facilmente sottoposto a trattamenti di emarginazione, di esclusione, di dequalificazione, di eliminazione dal gruppo con la tecnica del Mobbing. In alcune occasioni, la vittima designata invece è quella che ha inclinazioni sessuali diverse (per esempio il gay in un ufficio di maschi); in altre è il disabile con handicap fisici, psichici o sensoriali, si tratta di soggetti deboli e quindi più facilmente colpiti da trattamenti di esclusione, di esclusione, di ghettizzazione. L’analisi condotta da Gilioli, dimostra che nella maggior parte dei casi, il bersaglio è un lavoratore con un forte investimento psicologico sul suo lavoro, che ama la sua professione e proprio per questo vive con dolore una condizione di discriminazione e di emarginazione. Sarebbe quindi, un grave errore credere che la vittima sia per natura un sottomesso. Infine è importante sottolineare, che la condizione di preesistenza di disturbi neuro-comportamentali nel mobbizzato non esclude l’esistenza di un nesso eziologico tra l’ambiente lavorativo e la patologia psichiatrica derivata. Al contrario, occorre verificare da un punto di vista medico-legale che esista un nesso di causalità tra l’ambiente lavorativo e il peggioramento del quadro clinico del soggetto, evidenziando eventuali ulteriori concause significative, o fattori eziopatogenici. Il lavoratore, vittima di Mobbing, viene continuamente umiliato, offeso, isolato, e ridicolizzato anche per quanto riguarda la vita privata. Il suo lavoro viene deprezzato, continuamente criticato, o addirittura sabotato, svuotato di contenuti; il soggetto viene privato degli strumenti necessari a svolgere l’attività (sindrome della scrivania vuota) o viceversa sovraccaricato di lavoro e di compiti impossibili da portare materialmente a termine o inutili; ma tali da provocare o acuire i sentimenti di frustrazione o impotenza (sindrome della scrivania piena). Il suo ruolo viene declassato, le sue capacità personali e professionali messe fortemente in discussione. Nel mobbizzato sono state evidenziate tre costanti che lo caratterizzano:
• L’autocolpevolizzazione iniziale;
• La solitudine con cui è vissuta la situazione;
• La svalutazione personale.
La prima reazione che scatta nella mente di chi subisce il terrorismo psicologico è l’autocolpevolizzazione: la vittima si chiede in che cosa, quando e dove ha sbagliato nell’attività professionale o nei rapporti con i colleghi; tende ad attribuire a se stesso la responsabilità delle sue difficoltà di adattamento all’ambiente lavorativo e inizia così il senso di colpa per non riuscire ad essere migliore e quindi inattaccabile. Un altro sentimento, che affiora subito dopo è quello della solitudine: la vittima pensa quasi sempre di essere l’unica persona al mondo a subire questo tipo di aggressione e non riesce neppure ad immaginare quanto il fenomeno possa essere diffuso, e non sa, che altri milioni di persone, in tutto il mondo, si trovano nella stessa spirale. Infine, si arriva ad una specie di depersonalizzazione, cioè una fase in cui la persona non riconosce più se stessa (“io non sono più io”), ad un senso di inadeguatezza per il proprio ruolo lavorativo, ad una perdita dell’autostima, del valore della propria persona e della propria immagine sociale; la vittima diventa incapace di reagire, rimane immobile di fronte alle vessazioni crescenti. Dal punto di vista delle relazioni sociali, il soggetto vive una condizione di isolamento che gli causa gravi difficoltà anche nei rapporti con la famiglia, con il partner, con gli amici. Harald Ege ha stilato un elenco di 18 tipologie di vittime: i tratti delineati in questa lista vogliono semplicemente fornire un aiuto alla lettura di alcune caratteristiche riscontrate nei mobbizzati, ma non hanno assolutamente la pretesa di etichettare il mobbizzato tipo:
1. il distratto: è colui che non si accorge che la situazione è cambiata attorno a sé e non riesce a fare una valutazione critica del nuovo contesto;
2. il prigioniero: è colui che seppur riconosciuto il fenomeno non riesce a tirarsene fuori e si lascia trascinare dagli eventi (è incapace di trovarsi un altro lavoro rimanendo così incatenato in quello attuale);
3. il paranoico: è colui che vede mostri dappertutto, non si fida di nessuno, tanto da creare un clima di tensione perenne al lavoro, che può culminare con delle azioni mobbizzanti dei colleghi nei suoi confronti;
4. il severo: è colui che ha delle regole molto rigide, il suo stile è autoritario tanto da creare problemi nei rapporti coi colleghi che possono finire per mobbizzarlo per “dargli in qualche modo una lezione”;
5. il presuntuoso: è il classico tipo che si sopravvaluta, così spesso i colleghi possono arrivare a mobbizzarlo per dimostrargli che invece non è il migliore di tutti;
6. il passivo e dipendente: colui che è molto servile e non dice di no a nessuno, tanto che può costituire un piacevole divertimento mobbizzarlo;
7. il buontempone: è una persona sempre allegra che fa divertire i colleghi, alla stregua del passivo; per questo suo modo di porsi rischia di diventare il buffone del gruppo;
8. l’ipocondriaco: è quello che tende sempre a lamentarsi, niente gli va mai bene ed esprime agli altri il peso della sua sofferenza, tanto da creare fastidio ai colleghi che possono isolarlo mobbizzandolo;
9. il vero collega: è la persona onesta, efficiente che tutti vorrebbero come amico, però questo suo modo troppo sincero di porsi può creargli dei problemi, specialmente se denuncia apertamente qualche azione scorretta di qualche collega: così facendo si scava la fossa!
10. l’ambizioso: è colui che è costantemente impegnato nella scalata al successo e cerca di conquistarsi una posizione attraverso le sue prestazioni (esempio colui che si porta il lavoro a casa). Tale atteggiamento scatena l’invidia dei colleghi, specialmente del carrierista, colui che brama tanto il potere e si sente minacciato dalla personalità dell’ambizioso che dimostra di avere tante doti;
11. il sicuro di sé: è colui che crede nelle sue capacità e si muove con determinazione, tanto da scatenare l’invidia di molti colleghi;
12. il camerata: è colui che va d’accordo con tutti, è loquace, ama organizzare feste e riunire le persone: questa “sua socievolezza” può facilmente scatenare l’invidia dei colleghi meno dotati o più insicuri;
13. il servile: è colui che cerca sempre di fare contento il capo e per far ciò non esita ad accusare gli altri: in questo modo diventa una buona preda di mobbing;
14. il sofferente: è colui che tende alla depressione ed all’insoddisfazione, tanto da finire con l’essere una facile vittima come il paranoico, perché tutti si stancano di lui;
15. il capro espiatorio: è la valvola di sfogo di ogni gruppo e solitamente è rappresentato dalla persona più debole;
16. il pauroso: è colui che ha timore di tutto e di tutti e non riesce a percepire concretamente la realtà, tanto da infondere un clima di ansia attorno (come avviene per il paranoico anch’esso viene isolato, perché stare al suo fianco è molto difficile);
17. il permaloso: è una persona ipersensibile con la quale bisogna stare attenti a qualsiasi parola, perché può prendersela: alla fine si finisce per isolarlo;
18. l’introverso: è una persona con difficoltà nei rapporti interpersonali, tanto che il suo atteggiamento può venire travisato dai colleghi che pensano stia esprimendo un segno di ostilità nei loro confronti.
Da questa lista si nota come le persone più a rischio di mobbing abbiano cristallizzato alcune caratteristiche di personalità che possono dare fastidio ai colleghi di lavoro che, in gruppo o da soli, possono decidere di mettere in atto delle strategie persecutorie nei loro confronti. Anche la psicoanalisi si è addentrata nella descrizione della personalità del mobbizzato, cercando di delineare quelle caratteristiche che l’hanno fatta diventare tale: la vittima è tale in quanto è stata designata dal mobber, si può dire che si è trovata nel momento sbagliato ad incrociare la vita dell’aggressore. Spesso la vittima non appare del tutto innocente, tanto che alcuni psichiatri definiscono la sua condizione “meritata”, in quanto ritengono che certi suoi tratti di personalità, come la timidezza, la passività ed il servilismo, possano aver attirato gli attacchi del mobber. Purtroppo una vittima che è stata scelta o designata ha ben poche vie di scampo, in quanto, dal momento che è stata avvistata comincia la sua lunga battaglia. Due sono i possibili comportamenti del mobbizzato, uno improntato alla sottomissione passiva, l’altro alla reazione attiva. La vittima che reagisce passivamente in una prima fase, ancora non vuole accettare di essere in una situazione di Mobbing, e tenta di continuare normalmente la sua vita lavorativa quotidiana in ufficio. Tuttavia, anche quando col passare del tempo, si accorge che qualcosa è cambiato nel rapporto con una certa persona o con un certo gruppo di persone, la vittima continua a giustificare il comportamento dell’aggressore, pensando che abbia subito terribili traumi in tenera età. La manipolazione sulle vittime ingenue riesce ancora meglio, se si tratta di un aggressore, cui la vittima aveva precedentemente concesso fiducia e contratto con lui uno stretto legame. La reazione del mobbizzato, di fronte ad accuse ingiustificate non è il contrattacco, ma il dubbio sulla bontà del proprio operato, e la conseguenza è un aumento degli sforzi per soddisfare il persecutore. Le vittime rimangono paralizzate all’interno di queste relazioni, incapaci di fuggire dal loro aggressore, pur soffrendo terribilmente e manifestando disturbi sempre più gravi. Alla base di questo incatenamento psicologico c’è il meccanismo del condizionamento, infatti, in questi individui esistono dei residui infantili che cercano la dipendenza risultando più vulnerabili di altri, e per la paura di essere abbandonati rimangono dove sono, senza riuscire a reagire, aspettando che la giustizi prima o poi trionfi. La vittima così, invece di difendersi si pone in uno stato di isolamento comunicativo con il mondo esterno, e si chiude sempre di più in se stessa, per paura di sbagliare qualsiasi iniziativa o decisione. Anche agli occhi dei familiari, nel mobbizzato si sviluppa la paura di diventare un “fallito”. La vittima che reagisce invece attivamente, prova a difendersi all’inizio con mezzi limitati, in seguito disperatamente, con tutti i mezzi disponibili. Egli indirizza prima l’attenzione dei colleghi, verso le azioni del mobber, in modo da avere degli alleati o dei testimoni per una eventuale accusa, ma spesso questa azione può volgersi a svantaggio della vittima stessa; i colleghi potrebbero mettersi, infatti, dalla parte del mobber, e fare il suo gioco che tende alla stigmatizzazione della vittima, che viene accusata di essere elemento di disturbo per l’armonia del gruppo. Purtroppo le regole del Mobbing sono dettate dal mobber, e non dal mobbizzato , che potrebbe quindi aggravare la sua posizione con qualsiasi cosa decida di fare. La vittima attiva è costretta a rassegnarsi al fatto che da sola non uscirà mai dalla situazione di Mobbing, e si rende conto della necessità di ricorrere ad un aiuto al di fuori del posto di lavoro. La vittima passiva invece, al contrario, non solo, non capisce che ha bisogno d’aiuto esterno, ma addirittura tende a rifiutarlo.

1.2 I LUOGHI DEL MOBBING

In Italia il Mobbing affligge maggiormente il settore pubblico rispetto a quelle privato in questo ordine: Università, Industria, Enti parastatali, Pubblica Amministrazione, Scuola, Sanità, Assicurazioni, Banche, Forze Armate, Regioni, Comuni, Province, Enti privati. L’Università risulta luogo principe del Mobbing in quanto la rigida gerarchia tradizionale, legata alla modalità di gestione di una cattedra universitaria, legata all’assoluto potere del cattedratico su tutti i dipendenti, facilita l’insorgenza del Mobbing, qualora il “malcapitato” non si adegui a pensare conformemente al capo o semplicemente arriva il favorito di turno. Tale sistema sicuramente va contro l’idea di chi vede l’università come luogo di scienza, di cultura e di diffusione del sapere. Ma, dal momento che quello che dice il capo è legge e tutti sono costretti ad obbedire, chi non si adegua al regime, viene perseguito, attraverso azioni mobbizzanti. L’industria si è adeguata agli eventi socio-economici attuali, divenendo luogo di scelte strategiche ed economiche che non coincidono più con il rispetto del singolo lavoratore e con l’esaltazione delle sue capacità e potenzialità e, possono essere alla base dell’insorgenza di fenomeni di Mobbing. Gli Enti parastatali, le cui leggi e amministrazioni sono dettate tanto dal privato quanto dal pubblico, creano delle condizioni contorte, rendendo difficile la progressione delle carriere basate sui meriti, favorendo così fenomeni di emarginazione che spesso configurano il Mobbing. Nella Pubblica Amministrazione, un eccesso di burocrazia fondata su una gerarchia conservatrice, costringe a prestazioni lavorative monotone e ripetitive, spingendo i lavoratori a subire un Mobbing verticale spesso motivato dal risparmio del denaro pubblico. Nella scuola, le continue riforme e i continui cambiamenti nell’organizzazione e nei programmi, le diversità di idee tra colleghi di lavoro favoriscono, anche in questo luogo, la possibilità che ci sia il capro espiatorio di turno. Anche nella sanità, le continue riforme del sistema sanitario, l’introduzione del Direttore Manager nelle ASL e Ospedali che preferendo la produttività alla qualità, può licenziare i sottoposti in nome di una diversa gestione, facilitano l’istaurarsi del Mobbing. Nelle Assicurazioni e Banche, ai dipendenti si richiedono prestazioni per cui occorrono tratti di carattere opposti che vanno dall’ossessiva precisione, all’aspetto più superficiale per vendere i loro prodotti. Tutto ciò può predisporre a fenomeni di emarginazione e di conflittualità estrema. Nelle Forze Armate, dove vige la rigidità di struttura del sistema e una gerarchia verticistica, possono portare a strategie di espulsione dal sistema o all’impedimento nell’avanzamento di carriera. Le Regioni, Comuni e Province pretendono di governare tramite leggi ormai obsolete, lavoratori oziosi; e se qualcuno vuole svolgere il proprio lavoro bene, può essere soggetto a persecuzioni e molestie lavorative. Infine, negli Enti privati, dove la competitività è elevatissima ed eccessiva, dove l’obbedienza al capo deve essere assoluta, anche in assenza di regole chiare e prospettive di carriera, l’ambiente lavorativo può costituire terreno fertile per lo sviluppo di azioni mobbizzanti.

1.3 EFFETTI E CONSEGUENZE DEL “MOBBING” SULLA SALUTE

Il Mobbing è una pratica dannosa e realmente criminale, le sue intenzioni sono dettate da sentimenti profondamente distruttivi verso gli altri e i suoi esiti sono di portata sconvolgente. Le conseguenze del Mobbing si ripercuotono essenzialmente sulla vittima, che subisce i danni maggiori con problemi legati alla sua salute, al ruolo sociale ed all’identità personale, subendo perdite relazionali ed economiche. La forte pressione psicologica che caratterizza le azioni mobbizzanti, porta alla comparsa di una serie di alterazioni del benessere complessivo che interessano l’equilibrio socioemotivo, l’equilibrio psicofisiologico e il comportamento manifesto, con maggior o minor intensità e localizzazione a seconda delle caratteristiche individuali. Il mobbizzato, nel tempo arriva a sviluppare diverse patologie soprattutto d’interesse psichiatrico; in alcuni casi presenta una lunga serie di disturbi, somatizzazioni e vere e proprie malattie che possono protrarsi per un lungo periodo o divenire croniche ed irreversibili, raggiungendo anche quadri clinici di severa gravità, che non cessano neppure con il venir meno della condotta persecutoria. Gli effetti del Mobbing sulla salute si manifestano dopo un intervallo di tempo variabile, con sintomi sia di natura prevalentemente fisica o psicosomatica, sia di natura psichica.
I principali disturbi a livello fisico o psicosomatico:
• a livello degli occhi possiamo avere annebbiamento temporaneo della vista, congiuntiviti;
• a livello dermatologico si possono riscontrare eruzioni cutanee varie come dermatosi, psoriasi, eritemi, allergie;
• nella zona cervicale si manifestano cefalea muscolo-tensiva, cervicalgie, vertigini, lipotimie;
• agli arti si può soffrire di tremori, dolori muscolari e osteoarticolari, astenia;
• a livello dell’apparato digerente si verificano gastrite, pirosi, ulcera, colon irritabile;
• a livello dell’apparato cardiovascolare si può constatare tachicardia, cardiopalmo, sincope, ipertensione e nei casi più gravi si può avere infarto del miocardio;
• a livello dell’apparato respiratorio si possono avere dispnea, senso di oppressione, tosse, crisi asmatiche;
• a livello dell’apparato endocrino si rivelano disturbi tiroidei;
• a livello del sistema immunitario si può verificare un abbassamento delle difese dell’organismo e quindi una maggiore vulnerabilità a tutte le malattie;
I principali disturbi a livello psichico sono:
• disturbi d’ansia tra cui attacchi di panico, ansia libera, fobie;
• disturbi dell’umore che spaziano da reazioni aggressive esagerate con marcata irritabilità a manifestazioni depressive;
• disturbi dell’attenzione e della concentrazione con riduzione della memoria;
• disturbi del pensiero con fissazione del pensiero sul proprio problema lavorativo, ossessività ideativa che ripercorre gli aspetti salienti di quanto accade quotidianamente;
• disturbi della sfera del sonno con risvegli multipli durante la notte, insonnia, alterazioni del ritmo sonno-veglia;
• modificazioni dell’alimentazione con anoressia e bulimia;
• disturbi della sfera sessuale;
• modificazioni del comportamento relazionale con il partner, la famiglia, sul lavoro e in società, nelle persone predisposte si verificano o si accentuano problemi legati all’abuso di alcol, droghe e farmaci;
• alterazioni della personalità con quadri di depersonalizzazione fino alla configurazione di atti estremi come il suicidio ed eventuali tentati omicidi sui mobbizzati resistenti o per vendetta sui mobber;
Se gli stimoli stressanti induttori di patologia permangono o si intensificano, i sintomi fin qui descritti possono organizzarsi in vere e proprie sindromi sviluppando le più diverse patologie organiche, dalle malattie autoimmuni fino alla insorgenza di tumori e di disturbi psichiatrici inquadrabili allo stato attuale con il DSM IV (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Tra i disturbi psichiatrici che possono derivare da una condizione di Mobbing possiamo includere i seguenti: Disturbo dell’adattamento (DA), Disturbo acuto da stress (DAS), Disturbo post-traumatico da stress (DPTS), Disturbi dell’umore orientati prevalentemente verso un quadro di Disturbo depressivo maggiore, Disturbi di personalità, Disturbi somatoformi, Disturbi del comportamento alimentare, Disturbi correlati a sostanze, Disturbi d’ansia comprendenti il Disturbo di panico (DAP) con e senza agorafobie e il Disturbo d’ansia generalizzato (DAG). La diagnosi differenziale deve essere posta con i Disturbi fittizi che raggruppano persone che mostrano i più svariati sintomi perché hanno bisogno di sentirsi malate, e con i Disturbi da simulazione che invece raggruppano persone che in determinate circostanze esterne per ottenere un vantaggio fingono i più diversi sintomi e/o malattie. Secondo uno studio clinico condotto nel 1999, dalla Clinica del Lavoro di Milano diretto dal Prof. Gilioli, in circa 1/5 delle vittime del Mobbing, la diagnosi posta è quella di Disturbo post-traumatico da stress, dove viene individuato l’evento traumatico con caratteristiche di minaccia di morte o minaccia all’integrità fisica propria o di altri e con sentimenti di paura intensa, di impotenza da parte del soggetto; nel contempo si osserva il pensiero ossessivo sull’evento, la riduzione dell’affettività e dell’interesse con depressione e infine il riscontro di uno stato tensione perpetua e di iperallerta. Negli altri casi, oltre i 2/3 la diagnosi posta è stata quella di Disturbo dell’adattamento, dove ritroviamo gli elementi dell’evento quale fattore stressante, del notevole disagio o della compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo, cioè la diagnosi appare essere quella di una forma meno intensa e senza conseguenze croniche. Per concludere, circa 1/3 della casistica totale esaminata è costituito da casi di patologia psichiatrica comune o di patologia fittizia. Per comprendere meglio, è opportuno analizzare più approfonditamente secondo i criteri diagnostici del DSM IV, le principali sindromi che rappresentano le risposte psichiatriche a condizionamenti o situazioni esogene in questo caso indotte da una condizione di Mobbing: Disturbo dell’adattamento (DA), Disturbo acuto da stress (DAS), Disturbo post-traumatico da stress (DPTS). Il Disturbo dell’adattamento è una reazione disadattativa di breve durata in risposta ad un evento stressante. I fattori stressanti possono essere singoli come la perdita di un lavoro, un divorzio o multipli come la morte di una persona cara che avviene contemporaneamente all’insorgenza di una malattia. Specifici stadi dello sviluppo di un individuo, come l’inizio della scuola, il matrimonio, la nascita di un figlio, l’insuccesso nel raggiungere mete lavorative, il trasferimento in un nuovo ambiente, il pensionamento sono spesso associati a un Disturbo dell’adattamento.

Criteri diagnostici per il disturbo dell’adattamento

A. Sviluppo di sintomi emozionali e comportamentali in risposta a uno o più fattori stressanti che si manifestano entro tre mesi dall’inizio del fattore, o dei fattori stressanti.
B. Questi sintomi o comportamenti sono clinicamente significativi come evidenziato da uno o l’altro de seguenti:
1. grave disagio che va al di là di quanto prevedibile in base all’esposizione al fattore stressante
2. compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo
C. Una volta che il fattore stressante (o le sue conseguenze) sono superati, i sintomi non persistono per più di altri sei mesi

Specificare se:
Acuto: se l’alterazione dura per meno di sei mesi
Cronico: se l’alterazione dura per sei mesi o più

I disturbi dell’adattamento sono codificati in base al sottotipo, che è scelto secondo i sintomi predominanti.
Con ansia
Con ansia e Con umore depresso
umore depresso misti
Con alterazione della condotta
Con alterazione mista dell’emotività e della condotta
Non specificato
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Il Disturbo acuto da stress e il Disturbo post-traumatico da stress rientrano nella categoria dei Disturbi d’ansia. I pazienti per essere classificati come affetti da un Disturbo post-traumatico da stress devono avere vissuto eventi estremamente traumatizzanti come esperienze di combattimento, catastrofi naturali, violenze, stupri e gravi incidenti; la differenza con il Disturbo acuto da stress è nella durata dei sintomi che per il DPTS deve essere superiore ad un mese, mentre per il DAS deve essere meno di un mese.
 
Criteri diagnostici per il disturbo post-traumatico da stress

A. La persona è stata esposta ad un evento traumatico in cui erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti:
1. la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o eventi che hanno comportato la morte o una minaccia per la vita, oppure una grave lesione, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri
2. la risposta della persona comprendeva intensa paura, sentimenti di impotenza, o di orrore.

B. L’evento traumatico persistentemente rivissuto in uno (o più) dei modi seguenti:
1 .ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini, pensieri o percezioni.
2. ricorrenti sogni spiacevoli dell’evento.
3. agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando ( ciò comprende un senso di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni ed episodi dissociativi di flashback, compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione)
4. intenso disagio psicologico all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a un aspetto dell’evento traumatico
5. reattività fisiologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano, o assomigliano a, un aspetto dell’evento traumatico.

C. Esitamento persistente degli stimoli associati al trauma e attenuazione della reattività generale (non presenti prima del trauma) come indicato da tre (o più) dei seguenti:
1. sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate al trauma
2. sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma
3. incapacità di ricordare un importante aspetto del trauma
4. riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative
5. sensazioni di distacco o estraniamento dagli altri
6. affettività ridotta ( ad esempio incapacità di provare sentimenti d’amore)
7. senso di diminuzione delle prospettive future

D. Sintomi persistenti di aumentata vigilanza (non presenti prima del trauma) come indicato da due o più dei seguenti:
1. difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno
2. irritabilità o scoppi di collera
3. difficoltà a concentrarsi
4. ipervigilanza
5. esagerate risposte di allarme

E. La durata del disturbo è superiore ad un mese
F. Il disturbo causa un disagio clinicamente significativo o un alterazione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti

Specificare se:
Acuto: se i sintomi durano meno di tre mesi
Cronico: se i sintomi durano più di tre mesi

Specificare se:
a esordio ritardato: se l’esordio dei sintomi avviene almeno sei mesi dopo l’evento stressante.
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Criteri diagnostici per il disturbo acuto da stress

A. La persona è stata esposta ad un evento traumatico in cui erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti:
1. la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o eventi che hanno comportato la morte o una minaccia per la vita, oppure una grave lesione, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri
2. la risposta della persona comprendeva intensa paura, sentimenti di impotenza, o di orrore.

B. Durante o dopo l’esperienza dell’evento stressante, il soggetto presenta tre ( o più) dei seguenti sintomi dissociativi:
1. sensazione soggettiva di insensibilità, distacco, o assenza reattività emozionale
2. riduzione nella consapevolezza dell’ambiente circostante
3. derealizzazione
4. depersonalizzazione
5. amnesia dissociativa

C. L’evento traumatico viene persistentemente rivissuto in almeno uno dei seguenti modi ricorrenti immagini, pensieri, sogni, illusioni, flashback o sensazioni di rivivere l’esperienza, oppure disagio all’esposizione a ciò che ricorda l’evento traumatico

D. Marcato esitamento degli stimoli che evocano ricordi del trauma

E. Sintomi marcati di ansia o di aumentata vigilanza

F. Il disturbo causa un disagio clinicamente significativo o un’ alterazione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti, compromette la capacità del soggetto di perseguire compiti necessari, come ottenere l’assistenza necessaria o mobilitare le risorse personali riferendo ai familiari l’evento traumatico

G. Il disturbo dura da un minimo di due giorni a un massimo di quattro settimane e si manifesta entro quattro settimane dall’evento traumatico
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Molto spesso al Mobbing si accompagna la parola stress. Leymann definì infatti il Mobbing come un potente stressor sociale, ossia come fonte di stress sociale. Il rapporto tra Mobbing e stress è stato confermato da una ricerca effettuata nel 1996, dall’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (un organismo dell’Unione Europea), secondo la quale il 47% dei lavoratori che subiscono violenza morale viene colpito da stress. Interessante è un’altra ricerca effettuata su 200 dirigenti d’azienda italiani e pubblicata nel 1999 dall’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Palermo, che rivela che lo stress da lavoro può creare “un anomalo deposito di grassi nel fegato” proprio come se il soggetto abusasse di cibi grassi e di alcol, pur attuando una alimentazione corretta. Ma cosa si intende per stress? Nel significato originario stress è l’azione della forza che deforma un corpo. L’introduzione del termine in medicina fa seguito agli studi del Bernard, del Cannon e del Selye, che hanno dimostrato il ruolo delle componenti corticale e midollare del surrene nelle reazioni di adattamento dell’organismo a stimoli di diverso tipo. Più recentemente lo stress è stato definito “come la risposta dell’organismo ad ogni richiesta di modificazione effettuata su di esso”. La risposta in questione si manifesta sia a livello fisiologico sia a livello comportamentale ed è mediata da un’attivazione emozionale indotta da una valutazione cognitiva del significato dello stimolo. Lo stress pur rappresentando una reazione fisiologica, adattativa, caratteristica della vita, può assumere tuttavia un significato patogenetico quando è prodotto sotto forma di microstimoli quotidiani e ripetuti per lunghi periodi di tempo, provocando la rottura degli equilibri e della capacità di adattamento dell’individuo, e portando allo sviluppo di una patologia psico-somatica o di un disturbo comportamentale. Ed è proprio questo, ciò che accade in situazioni di Mobbing; la vittima infatti, a causa dei conflitti esasperati nell’ambiente di lavoro, sarà sottoposta ad una permanente condizione stressante, cioè ad una prolungata attivazione al di sopra dello stress fisiologico che ne aumenterà notevolmente il rischio di conseguenze sulla sua salute. Una situazione stressante protratta nel tempo tende a logorare i meccanismi di coping della vittima, vale a dire che quelle strategie di compenso che il nostro organismo normalmente mette in atto per fronteggiare un singolo evento, divengono inconsistenti; ad elevate soglie di attivazione, a causa dell’ansia che inevitabilmente si accompagna, l’efficienza dell’individuo, cioè la qualità delle sue prestazioni, scade sensibilmente. Questo, chiaramente, accade perché l’ansia non permette all’individuo di mantenere quell’attenzione o quella concentrazione necessarie per eseguire qualsiasi tipo di attività, soprattutto di tipo lavorativo con una diminuzione della capacità produttiva anche del 60%-70%. In altre parole, il quadro che si prospetta in una situazione conflittuale che va avanti da diverso tempo è quella di un individuo che anche nel suo tempo libero, avrà la mente comunque impegnata a pensare quali tipi di angherie dovrà sopportare la volta successiva che si recherà al lavoro; il malessere lavorativo sarà diventato talmente pervasivo da non lasciare spazio ad altro. All’isolamento lavorativo si aggiungerà quello relazionale nel rapporto con la famiglia, gli amici con l’intera società da cui rifugge perché si sente estraneo, inserito in un mondo che non lo comprende. L’individuo attivo, professionalmente capace, inserito in suo ambiente lavorativo e sociale, acquisisce una nuova identità, l’identità dell’invalido con le conseguenze umane, sociali ed economiche facilmente prevedibili. Nel deserto del Mobbing, l’individuo perde il riconoscimento che sostiene il rispetto di sé, la solidarietà che garantisce l’autostima e, infine, anche l’esperienza dell’amore che nutre la fiducia.
 
Serena De Nitto
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