Mobbing della dipendente comunale: risarcibilità danno biologico, morale, professionale  e all'immagine

 

Trib. Milano - Sezione Lavoro - 30 settembre 2006 n. 2949 - Giudice unico: Vitali - (A) c. Comune di (B)

 

Impiego pubblico - Mobbing - Mobbing cosiddetto verticale - Ripetitività degli atti vessatori a danno della vittima - Necessità.

 

L'analisi della fattispecie concreta dedotta dalla lavoratrice e accertata in giudizio conduce a ravvisare nel comportamento del datore di lavoro una ipotesi di mobbing, alla luce della ricostruzione generale del fenomeno quale è stata operata in precedenza. Ciò che distingue il mobbing dal conflitto puro e semplice nei rapporti interpersonali è il continuo ripetersi in un arco di tempo di una certa durata dei trattamento vessatorio inflitto alla vittima. Questo trattamento può attuarsi sia attraverso atti di contenuto tipico, inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, sia attraverso iniziative giudiziarie condotte nei confronti del dipendente.

La ripetitività degli atti vessatori e la loro permanenza per un apprezzabile lasso di tempo emerge con chiarezza così da esplicitare l'aspetto finalistico del comportamento del datore di lavoro né rileva, alla luce delle modalità di attuazione del mobbing, che la signora (A) sia stata assente dal lavoro in malattia per lunghi periodi.

Sotto il profilo clinico patologico, e dunque del danno alla salute o biologico in senso stretto, la consulenza tecnica d'ufficio ha concluso nel senso che la sindrome psicopatologica riscontrata nella signora (A), presentandosi con caratteristiche di intensità maggiore e di acuzie per almeno sei mesi nel 2001, ha determinato una invalidità temporanea, valutabile nella misura del 75% per due mesi e del 50% per gli altri quattro mesi, ed un danno all'integrità psicofisica, inteso come pregiudizio incidente sulla salute complessiva, da valutarsi come permanente, nell'ordine dell'11%.

Quale metodo di calcolo per la liquidazione equitativa di tale voce di danno, si ritiene di seguire le tabelle per la liquidazione del danno biologico da invalidità temporanea e permanente elaborate dalle sezioni civili del Tribunale di Milano. Perciò, nel caso di specie, la determinazione del danno da invalidità permanente è quantificabile in euro 14.722, da invalidità temporanea è quantificabile in euro 6.982,50. prevedendosi una liquidazione per tale titolo di euro 66,50 al giorno e risultando 60 giorni di inabilità temporanea al 75% e 120 di inabilità temporanea al 50%, mentre gli ulteriori periodi di malattia che sono stati dedotti nelle note conclusive di parte ricorrente esulano dall'oggetto del presente giudizio. A tali importi si deve aggiungere il danno morale soggettivo, il c.d. pretium doloris, quantificato in via equitativa nella misura di euro 7.361, pari alla metà del danno biologico da invalidità permanente. Complessivamente, per tali voci di danno il Comune convenuto deve essere condannato al pagamento di euro 29.065,50, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.

Sotto il diverso profilo del danno esistenziale, inteso, come detto, in termini di alterazione della qualità della vita in relazione alle attività attraverso cui si realizza la personalità, ritiene questo giudicante che la domanda svolta dalla ricorrente debba essere respinta, mancando in ricorso deduzioni specifiche in ordine a quali aspetti della vita della signora (A) avrebbero subito una modificazione peggiorativa.

Al contrario, è fondata e deve essere accolta la domanda di risarcimento del danno all'immagine in quanto strettamente correlata all'accertato demansionamento professionale della ricorrente: in proposito, va ricordato come nell'ipotesi di demansionamento, la giurisprudenza consideri non solo la violazione del diritto allo svolgimento delle mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi di cui all'art. 56 D.Lgs. nr. 29/93, ora art. 52 D.Lgs. nr. 165/2001 bensì anche quella del diritto fondamentale costituzionalmente garantito alla libera esplicazione della personalità sul luogo di lavoro con conseguente obbligo risarcitorio, da un lato, del danno patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal dipendente e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, e dall'altro, del danno non patrimoniale conseguente alla lesione dell'immagine professionale, intesa come perdita di autostima ovvero di eterostima e lesione al prestigio goduto all'interno e all'esterno dell'ambiente lavorativo in ragione delle funzioni esercitate (cfr. tra le molte Cass. 10 giugno 2004 nr. 11045; Cass. 17 febbraio 2004 nr. 3082; Cass. 22 febbraio 2003 nr. 2763).

Nella fattispecie in esame i risultati dell'attività istruttoria sopra descritta, cui vanno aggiunti quelli emergenti dalla consulenza tecnica d'ufficio, consentono di affermare l'assolvimento dell'onere probatorio gravante sulla ricorrente relativamente ad entrambi gli aspetti appena delineati: il teste (P) ha riferito come della vicenda della rimozione della signora (A) dalle sue funzioni di responsabile dei servizi sociali parlò tutto il paese e in qualche modo ne parla ancora, perché la ricorrente era molto conosciuta mentre sono stati prodotti gli articoli dei giornali locali che hanno dato ampio risalto alla vicenda, anche con riferimento alle iniziative penali del Comune di (B) (doc. da 102 a 108 di parte ricorrente).

Per la determinazione in via equitativa di tale voce di danno, si ritiene equo utilizzare le tabelle per la liquidazione del danno biologico da invalidità permanente elaborate dalle sezioni civili del Tribunale di Milano, calcolato nella misura del 25% e dunque euro 3.680,50, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.

Parimenti fondata è la domanda di risarcimento del danno alla professionalità. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione di cui alla sentenza 24 marzo 2006 nr. 6572 nel risolvere il contrasto giurisprudenziale, hanno affermato che grava sul lavoratore l'onere di allegare e provare gli elementi in cui si sostanzia il danno alla professionalità: ora, nel caso della signora (A) la sostanziale inattività cui la stessa è stata posta ha determinato un impoverimento delle sue capacità professionali. La quantificazione del danno alla professionalità della ricorrente non può che avvenire in via equitativa ex art. 1226 c.c., utilizzando come parametro la retribuzione base lorda annua, pari a circa euro 25.000, nella misura del 20%, per il periodo di dequalificazione accertato, con esclusione dei periodi di assenza per malattia, per la complessiva somma di euro 6.400 in moneta attuale, con interessi legali dalla domanda giudiziale al saldo.

Il comune convenuto deve, quindi, essere condannato al pagamento della complessiva somma di euro 39.146 con interessi legali dalla domanda giudiziale al saldo nonché alla rifusione delle spese di lite della ricorrente e della C.T.U. liquidate come in dispositivo.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ritualmente notificato, (A) conveniva in giudizio il Comune di (B), esponendo di esserne dipendente dall'1 settembre 1969, con l'incarico di responsabile del Settore Servizi alla persona dall'1 gennaio 1990 al 31 gennaio 2001; di essere stata inquadrata dopo la riforma del pubblico impiego come impiegata D3, provenendo dalla VIII qualifica funzionale; di aver visto modificarsi in peggio la sua situazione lavorativa dal dicembre 2000, quando venne giudicata non idonea a seguito di una selezione per la riorganizzazione degli uffici comunali svoltasi nel novembre 2000, che prevedeva la riduzione delle aree di organizzazione a quattro, facendo venir meno le funzioni di coordinamento di alcuni responsabili; di aver criticato pubblicamente tale riorganizzazione già precedentemente in data 29 settembre 2000 insieme ad altri funzionari comunali, lamentando che la riorganizzazione avrebbe di fatto dequalificato quelli tra loro non nominati in posizione organizzativa, con la conseguenza che tre su cinque firmatari furono giudicati non idonei; di aver contestato per iscritto il giudizio di inidoneità espresso nei suoi confronti; di essere stata sollevata da quel momento da ogni incarico, mentre il suo superiore (C) iniziò a diffidare nel corso di alcune riunioni interne i colleghi a rapportarsi con lei, utilizzando nei suoi confronti espressioni ingiuriose quali «sistemiamo la vecchia» ovvero «la faccio fuori io nonna papera»; di aver ricevuto nel febbraio 2001 telefonate anonime con cui le veniva riferito che il vice sindaco e assessore ai servizi sociali (D) aveva affermato in alcune riunioni presso i centri anziani di (B) e (X) che i nuovi referenti al suo posto sarebbero stati il dr. (C) e l'assistente sociale (E); di essere stata nominata in data 3 aprile 2001 responsabile dei servizi amministrativi dei servizi sociali; di aver chiesto per iscritto il successivo 4 maggio quale fosse il contenuto di tale incarico, senza ricevere alcuna risposta: di aver ricevuto in data 12 aprile 2001 lettera con cui le erano chiesti chiarimenti sulla richiesta del signor (F) di versare al comune l'eccedenza del contributo provinciale che la famiglia (F) riceveva per il pagamento insegnanti di sostegno in favore del figlio minore quale rimborso al comune convenuto per il costo di una seconda insegnante di sostegno; di aver ricevuto in data 11 giugno 2001 la sanzione disciplinare della sospensione per dieci giorni per presunte irregolarità per un pagamento di euro 206,58 effettuato dal signor (F) quale contributo al costo che il comune convenuto sosteneva per l'insegnante di sostegno del figlio minore; di aver poi appreso da un giornale locale del 15 giugno 2001 che su tale episodio il comune convenuto aveva presentato un esposto alla Procura della Repubblica, senza che alcun addebito di natura penale le fosse stato rivolto; di aver poi ricevuto nel gennaio 2002 un avviso della chiusura delle indagini per il reato di abuso d'ufficio; di essersi difesa in sede penale chiedendo l'archiviazione della vicenda; di aver avuto a quel punto un crollo psicofisico che la costrinse ad assentarsi dal lavoro; di aver ricevuto in data 3 gennaio 2002 una richiesta di chiarimenti in ordine ad una vicenda di contributi deliberati dalla Giunta Comunale in data 5 luglio 2000 ad una famiglia sfrattata, in quanto il dr. (C), responsabile dell'area servizi ai cittadini, lamentava la presunta mancanza di atti formali che avrebbero giustificato l'erogazione alla famiglia (G) del contributo; di essere stata indicata a terzi, e cioè al legale della proprietà dell'immobile occupato dalla signora (G), come una persona priva di poteri, in quanto il dr. (C), a fronte della richiesta dei canoni arretrati avanzata al comune dalla proprietà, aveva negato che il comune convenuto avesse adottato provvedimenti in favore della signora (G) malgrado l'esistenza della delibera di giunta; di aver ricevuto sempre in data 3 gennaio 2002 e con il medesimo numero di protocollo della precedente altra lettera del dr. (C) con cui veniva invitata a realizzare una bozza di concessione per la realizzazione nel territorio comunale di una residenza sanitaria assistenziale con allegata copia di una convenzione con la Fondazione Cardinal Ferrari già revocata in data 28 novembre 2001 ed oggetto di un procedimento penale; di essere affetta da una sindrome depressiva anergico-ansiosa che ha comportato un danno permanente all'integrità psicofisica del 20%; di aver proposto istanza per il tentativo obbligatorio di conciliazione nel luglio 2001, senza esito alcuno, in quanto il comune convenuto non ha presentato alcuna deduzione scritta. Ciò premesso, concludeva chiedendo che fosse accertato e dichiarato l'illegittimo comportamento del comune convenuto e dei suoi dipendenti e conseguentemente il Comune di (B) fosse condannato a rimetterla nei compiti e nelle funzioni svolte sino al dicembre 2000; fosse accertato e dichiarato che da tale comportamento illegittimo le è derivato un danno alla salute fisica e psichica e conseguentemente il comune convenuto fosse condannato al pagamento della somma di euro 172.998,45 ovvero di quell'altra somma maggiore o minore ritenuta di giustizia; fosse accertata e dichiarata l'illegittimità della sanzione della sospensione e ne fosse disposta la revoca.

Si costituiva ritualmente il Comune di (B), eccependo l'incompetenza territoriale del Tribunale di Milano per essere competente il Tribunale di Rho e chiedendo la chiamata in causa della compagnia assicuratrice (H); concludendo per l'inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso e per il rigetto nel merito delle domande in quanto infondate.

All'udienza del 5 giugno 2002 la difesa della ricorrente eccepiva la mancanza di sottoscrizione del procuratore del comune convenuto in autentica alla procura conferita a margine dello stesso atto con conseguente nullità della procura stessa, insistendo per la declaratoria di contumacia del comune convenuto. All'udienza del 17 luglio 2002 il giudice dava atto che tale irregolarità era stata sanata all'udienza precedente del 10 luglio 2002 con l'apposizione della firma del procuratore ed autorizzava la chiamata in causa della società (H) che si costituiva ritualmente, chiedendo il rigetto di ogni domanda nei suoi confronti.

Esperito con esito negativo il tentativo di conciliazione, interrogate le parti, assunte le prove testimoniali ammesse, rilevata all'udienza del 6 luglio 2004 la decadenza del comune dall'assunzione dei testi ammessi e non citati per l'udienza del 15 aprile 2004, prodotte dal difensore della ricorrente copie del decreto di archiviazione 11 dicembre 2002 relativo alla vicenda (F) e 11 febbraio 2004 relativo alla vicenda (G), disposta consulenza medico-legale, autorizzato il deposito di note, all'udienza del 13 giugno 2006 la causa è stata discussa e decisa come da separato dispositivo letto in udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente devono essere esaminate le eccezioni proposte dalle parti: in primo luogo, la questione di incompetenza territoriale del Tribunale di Milano avanzata dalla difesa del comune convenuto e peraltro non riproposta nelle note conclusive è infondata dal momento che non riguarda una questione di competenza territoriale, bensì la ripartizione interna degli affari che tabellarmente sono stati attribuiti alla sezione lavoro del Tribunale di Milano anche per la sezione distaccata di Rho. In secondo luogo, la difesa della ricorrente ha riproposto in sede di discussione orale della causa il vizio di nullità o, comunque, di tardività della costituzione del comune convenuto, già respinto nel corso del giudizio con ordinanza 17 luglio 2002: in proposito basti ricordare la giurisprudenza già citata nell'ordinanza, secondo la quale la mancata certificazione da parte del difensore dell'autografia della sottoscrizione della parte apposta alla procura speciale in calce o a margine dell'atto, costituisce una mera irregolarità che non comporta la nullità della procura ad litem, in quanto tale nullità non è comminata dalla legge, né la formalità della certificazione dell'autografia della firma incide sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell'atto, individuabile nella formazione del rapporto processuale attraverso la costituzione in giudizio del procuratore nominato, salvo che vi sia connotazione con valide e specifiche ragioni e prove della autografia della firma non autenticata (Cass. 27 dicembre 2004 nr. 2394; Cass. 8 luglio 2003 nr. 10732; Cass. 26 maggio 2000 nr. 6959). Per le medesime argomentazioni, poi, non può condividersi la tesi della ricorrente della tardività della costituzione del convenuto con decadenza dalla possibilità di articolazione della prova rilevato che non vi è stata alcuna contestazione sull'autenticità della firma dell'allora sindaco (I) che aveva sottoscritto il mandato alle liti a margine della memoria difensiva.

Esaminando, allora, il merito della causa, il ricorso è fondato e deve essere accolto, sia pure nei limiti di cui al dispositivo.

La ricorrente contesta la legittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, irrogatale in data 11 giugno 2001, e che rappresenterebbe un episodio da inserire nell'ambito del più generale comportamento vessatorio posto in essere nei suoi confronti dal datore di lavoro attraverso anche una serie di iniziative giudiziarie penali e civili, tutte rivelatesi infondate, comportamento espressamente qualificato in ricorso in termini di mobbing. Inoltre, deduce, quale ulteriore aspetto dell'atteggiamento illegittimo del comune, il demansionamento cui venne sottoposta dal 2001 chiedendo il risarcimento del danno derivatone. Rivendica infine, il risarcimento del danno biologico, permanente e temporaneo, del danno esistenziale, morale e all'immagine causato dall'illegittimo comportamento del datore di lavoro.

In ricorso, come detto, la ricorrente ha esplicitamente qualificato il comportamento del datore di lavoro in termini di c.d. mobbing: il termine mobbing dall'inglese to mob, è ormai entrato nel linguaggio giuridico, sulla scorta dell'elaborazione sociologica e degli studi di psicologia del lavoro, sviluppatisi in Italia alla luce di un'ampia letteratura nordeuropea in argomento.

La giurisprudenza del lavoro, svolgendo il consueto ruolo di tipizzazione giuridica, ha classificato in tal modo alcune ipotesi sintomatiche del fenomeno delle vessazioni sul posto di lavoro: le sentenze che si sono occupate dell'argomento (le prime sono le note: Trib. Torino 16 novembre 1999 e 30 dicembre 1999) sostanzialmente identificano il mobbing in atti e comportamenti ostili vessatori e di persecuzione psicologica, posti in essere dai colleghi, il c.d. mobbing orizzontale, e/o dal datore di lavoro e dai superiori gerarchici il c.d. mobbing verticale, nei confronti di un dipendente, individuato come la vittima; si tratta di atti e comportamenti intenzionalmente volti ad isolare ed emarginare la vittima nell'ambiente di lavoro, e spesso finalizzati ad ottenerne l'estromissione attraverso il licenziamento ovvero inducendolo a rassegnare le dimissioni, il c.d. mobbing strategico o bossing. L'effetto di tali pratiche di sopruso è di provocare nel soggetto mobbizzato uno stato di disagio psicologico e l'insorgere di malattie psicosomatiche classificate come disturbi di adattamento e, nei casi più gravi, disturbi post-traumatici da stress. Gli autori che si sono occupati in modo approfondito del tema notano, inoltre, come la vittima sia talvolta un soggetto debole, in altri casi un soggetto zelante ovvero con una personalità eccessiva ovvero ancora un dipendente con una anzianità divenuta troppo onerosa.

Già da questa sommaria descrizione emergono come elementi caratterizzanti il mobbing:

- l'aggressione o la vessazione psicologica della vittima, o la durata nel tempo dei comportamenti vessatori;

- la ripetizione e/o reiterazione delle azioni ostili che le rende sistematiche;

- l'andamento progressivo della persecuzione psicologica, con l'individuazione di quattro o sei fasi, a seconda degli autori, di sviluppo del fenomeno.

Ora la vessazione psicologica può essere compiuta attraverso atti di contenuto tipico inerenti la gestione del rapporto di lavoro, quali demansionamenti, trasferimenti, discriminazioni economiche o di carriera, controlli esasperati, sanzioni disciplinari o licenziamenti illegittimi ovvero attraverso comportamenti di aggressione verbale consumati davanti a terzi, dipendenti o meno ovvero ancora attraverso comportamenti che si sostanziano in un vero e proprio allontanamento della vittima dal gruppo con il suo conseguente isolamento.

Ciò che distingue il mobbing dal conflitto puro e semplice nei rapporti interpersonali è appunto il continuo ripetersi in un arco di tempo di una certa durata del trattamento vessatorio inflitto alla vittima.

Accanto al profilo strutturale della ripetitività degli atti vessatori, è invece discusso se debba necessariamente ravvisarsi un profilo finalistico, inteso come valutazione della finalità illecita del motivo vessatorio: in proposito, basti osservare come tale valutazione debba essere intesa come idoneità lesiva dei beni della persona verificabile attraverso la monodirezionalità della condotta, la pretestuosità della stessa e ancora una volta il permanere nel tempo del comportamento vessatorio. L'attività istruttoria si è pertanto sviluppata per accertare in giudizio il trattamento vessatorio e ostile dedotto dalla ricorrente come posto in essere dal comune nei suoi confronti a decorrere dal 2001 dopo una sua presa di posizione pubblica, condivisa con altri funzionari capi settore dell'amministrazione comunale, di critica alla ridefinizione della struttura organizzativa del comune in quattro aree deliberata nel maggio 2000, con conseguente selezione delle figure da incaricare per le relative posizioni organizzative (lettera 29 settembre 2000 prodotta sub doc. 39 di parte ricorrente). In linea generale, occorre osservare come la ricorrente abbia prospettato una azione vessatoria nei suoi confronti manifestatasi sia attraverso atti di contenuto tipico, inerenti la gestione del rapporto di lavoro, quali la contestazione disciplinare dell'11 giugno 2001 relativa alla vicenda (F) e lo svuotamento dei suoi compiti e delle sue mansioni, definito, con una significativa espressione dalla difesa della (A), riprendendo la dichiarazione di un teste, «la scrivania vuota», sia attraverso una serie di iniziative giudiziarie, penali e civili, che hanno avuto larga eco nel paese di (B) in quanto riportate dalla stampa locale, caratterizzate da affermazioni in qualche modo gratuitamente lesive della sua immagine, e che si sono rivelate tutte infondate sia, infine, attraverso alcune affermazioni del suo superiore gerarchico (C) a colleghi dipendenti del comune e tali da determinare il suo isolamento dal contesto lavorativo.

Prima di tutto, per sgombrare il campo da possibili equivoci, va notato come in ricorso la vicenda della mancata assegnazione dell'incarico di posizione organizzativa alla signora (A) non sia stata riportata in termini di destituzione dalle funzioni in precedenza ricoperte ovvero di dequalificazione o demansionamento: tale lettura della prospettazione della ricorrente è abilmente accreditata dalla difesa del comune, nella convinzione, condivisa da questo giudicante che, da questo punto di vista, la dipendente non possa rivendicare alcun diritto leso dal comportamento della pubblica amministrazione. Come è noto, l'istituzione della struttura organizzativa, denominata area delle posizioni organizzative, è un atto di macro-organizzazione che ha per oggetto le linee fondamentali di organizzazione degli uffici sindacabile attraverso il ricorso al giudice ordinario solo in quanto atto presupposto rispetto all'individuazione dei beneficiari delle posizioni organizzative stesse e nei limiti della violazione del procedimento ovvero dei criteri stabiliti dalle norme contrattuali e dalle deliberazioni unilaterali dell'ente locale.

In realtà la riorganizzazione amministrativa e la conseguente selezione delle figure cui attribuire le posizioni organizzative nella quale la (A) viene giudicata inidonea è descritta come l'antecedente logico fattuale dell'operazione di svuotamento delle mansioni della lavoratrice che avviene in termini logici e temporali in un momento successivo. Né tale svuotamento si ricollega alla perdita delle funzioni di coordinamento, come sembra ritenere la difesa del comune, posto che in ricorso si deduce esplicitamente - ed è stata ammessa la prova sul punto - che la signora (A) venne sollevata di fatto da ogni incarico (cap. 25 del ricorso), che il suo diretto superiore (C) si impegnò ad evitare che la ricorrente si occupasse di alcunché (cap. 27 del ricorso), affidando i suoi compiti ad altri impiegati di livello inferiore al suo, ed in particolare al (E) (cap. 28 del ricorso). La prova del demansionamento è stata raggiunta sia attraverso le deposizioni dei testi escussi sia attraverso la documentazione prodotta in giudizio, naturalmente con riferimento al periodo oggetto delle deduzioni contenute in ricorso e cioè sino al 2002, posto che la ricorrente ha dichiarato di essere stata trasferita dall'1 gennaio 2003 al servizio demografico come responsabile dello stesso (cfr. le dichiarazioni rese nell'interrogatorio libero del 28 febbraio 2003) e su tale diverso incarico non è stato allegato né acquisito alcun elemento probatorio, trattandosi di attività nuova e diversa rispetto a quanto esposto all'atto del deposito del ricorso.

In particolare, è in atti la copia della determinazione nr. 44 del 23 marzo 2001 con cui il Capo Settore istituzionale (C) nomina la ricorrente responsabile dei servizi amministrativi dei servizi sociali per il periodo dall'1 febbraio 2001 al 31 dicembre 2001 (doc. 51 di parte ricorrente) : ora, al dì là dell'ovvia constatazione che vengono stabiliti a fine marzo - e la comunicazione alla (A) è del 26 aprile 2001- dal responsabile dell'area dei servizi al cittadino gli incarichi relativi ai vari servizi a decorrere dal 1° febbraio precedente, la lettura dell'atto evidenzia come, a differenza degli altri responsabili dei servizi le cui funzioni sono facilmente identificabili (responsabile centro anziani, trasporti, associazionismo e volontariato, segretariato sociale il (E), responsabile servizio handicap, minori la (L), responsabile biblioteca la (M), tutti di categoria D1, responsabile servizi sport cultura, tempo libero, istruzione, CAG, informa giovani e asili nido lo (N), di categoria D3, e così via) alla ricorrente venga assegnata una funzione dai contorni quanto mai incerti. Peraltro, alla richiesta datata 4 maggio 2001 della (A) di ricevere in modo chiaro e dettagliato l'indicazione delle sue funzioni per evitare sovrapposizioni di ruoli o conflittualità con gli altri responsabili all'interno dell'Area Servizi al Cittadino (doc. 54 di parte ricorrente) non viene data alcuna risposta dal responsabile di area così da confermare la tesi attorea dell'assoluta inconsistenza della funzione assegnata alla lavoratrice che sino al 2000 aveva pacificamente svolto un'attività lavorativa corrispondente al suo inquadramento in termini quantitativi e qualitativi.

Quanto alle deposizioni testimoniali assunte la teste (O), dipendente dell'ASL Provincia di Milano I nel settore dei servizi sociali ha riferito che nel 2001 andò nell'ufficio della (A) e vide la scrivania di quest'ultima, in precedenza sempre ingombra di carte completamente vuota: la ricorrente, da parte sua, le confidò di non saper come far passare le otto ore della giornata lavorativa dato che nessuno le dava retta. La teste ha, poi, confermato la circostanza, già risultante dalla documentazione in atti, che la (A) si era rivolta ai suoi superiori, in particolare ai (C), anche per iscritto, senza ricevere risposta, sulla sua situazione lavorativa.

La teste (P) ha invece affermato di non aver più visto la ricorrente al settore dei servizi sociali, di cui si occupava direttamente in qualità di consigliere comunale nella corrispondente commissione e per motivi professionali legati alla sua attività di consulente immobiliare, da un certo momento del 2000 e di averla rivista solo ai servizi anagrafici a fine 2002, non essendo a conoscenza di cosa avesse fatto da un punto di vista lavorativo nel periodo intermedio: ora, considerato che il teste all'epoca era consigliere comunale e membro della commissione servizi sociali, la mancata conoscenza degli incarichi lavorativi della (A) nel 2001 e 2002 può solo significare che la ricorrente non svolgesse alcuna attività nel settore servizi sociali che la potesse mettere a contatto con la (P).

D'altro canto, la medesima testimone ha ricordato un incontro casuale con la (A) che le confidò che «sul lavoro le avevano tolto tutto», così confermando, ancora una volta, le risultanze documentali cui si è già fatto cenno.

Il secondo aspetto vessatorio che la ricorrente assume di aver subito è quello relativo alla sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, che le viene irrogata mentre è assente in malattia l'11 giugno 2001, per fatti collegati alla c.d. vicenda (F) e che hanno costituito oggetto anche dell'esposto presentato dal comune alla Procura della Repubblica di Milano, archiviato dal GIP presso il Tribunale di Milano in data 11 dicembre 2002, esposto da leggere, nell'ottica del ricorso, come un ulteriore e distinto episodio delle vessazioni perpetrate dal comune di (B) contro la sua dipendente.

La lettera di contestazione disciplinare è del 7 maggio 2001 (doc. 68 di parte ricorrente) e segue una prima richiesta di chiarimenti del segretario generale (Q) in data 10 aprile 2001 (doc. 65 di parte ricorrente) cui la ricorrente risponde in data 12 aprile 2001 (doc. 67 di parte ricorrente), ripercorrendo l'intera vicenda e difendendosi dalla neppur troppo velata accusa di essersi appropriata di una somma spettante al comune con una serie di argomenti ben precisi.

Nella lettera di contestazione disciplinare vera e propria gli addebiti sono:

-«durante il colloquio avuto con il Responsabile dell'Area Servizi al Cittadino non ha provveduto ad illustrare a quest'ultimo, suo superiore gerarchico, la procedura non legittima cui aveva dato corso»;

-«ha introitato somme di denaro senza adottare gli opportuni provvedimenti amministrativi (...) con grave pregiudizio all'immagine dell'Amministrazione Comunale»;

-«ha trattenuto somme di denaro senza consentire la riscossione nelle casse del Comune»;

-«durante il periodo di assenza per malattia, in data 26/2 u.s. presso il Centro Polivalente Anziani Il Melograno, come da ricevuta in mio possesso, riscuoteva la somma di L. 384.000».

La lettera 11 giugno 2001 con cui viene irrogata la sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione ricostruisce in termini ancora diversi le condotte disciplinarmente rilevanti (doc. 78 di parte ricorrente): quanto al primo episodio, per il quale va sottolineato che la lettera di contestazione non conteneva alcun riferimento temporale, il colloquio con il Responsabile di Area viene collocato in data 1° febbraio 2001 e si aggiunge l'ulteriore addebito alla signora (A) di non essersi «attivata ad informarlo successivamente stante il fatto che il dr. (C) si è assentato, per motivi personali, solo a far tempo del 12/2/2001».

Poi, quanto ai tre punti della lettera 7 maggio 2001, si modificano i fatti già contestati evidentemente adeguandoli alle difese della ricorrente di cui alla lettera 12 aprile 2001 e a cui la dipendente si era riportata formalmente nella audizione a difesa del 30 maggio 2001 (doc. 75 di parte ricorrente) nei seguenti termini:

«Sono state introitate anche durante il periodo di assenza di malattia, somme di denaro, in assoluta violazione dell'art. 179 e seguenti del T.U. DLgs. 267/2000 arrecando grave pregiudizio all'immagine dell'Amministrazione Comunale.

È stata depositata presso l'Ufficio economato una busta riportante all'esterno la seguente dicitura Servizi Sociali, sig. (F) consegnata soltanto in data 11 aprile 2001, senza riferire al responsabile Economato in merito al contenuto della predetta busta e quindi, senza consentire la riscossione».

Quindi, non viene più riportato l'episodio descritto nella lettera di contestazione del ricevimento di denaro da parte del signor (F) presso il Centro Polivalente Anziani Il Melograno durante l'assenza per malattia, ma si moltiplica il numero delle somme di denaro introitate dalla ricorrente anche nel periodo di malattia, peraltro senza l'indicazione di una data o di una occasione specifica, e si aggiunge un comportamento del tutto nuovo, la cui indicazione viene evidentemente resa necessaria dalla circostanza che non si poteva più incolpare la ricorrente di aver incassato somme, che erano risultate depositate presso l'economato in busta chiusa con la dicitura della pratica e del servizio cui si riferivano.

Tali rilievi, che denotano la nullità del procedimento disciplinare per la palese violazione dei principi di specificità e immodificabilità della contestazione, nullità, peraltro non dedotta in ricorso, si sommano a quelli relativi al merito della vicenda (F) che sono maggiormente significativi sotto l'aspetto del lamentato mobbing.

Ora i comportamenti contestati nella lettera 7 maggio 2001 e che sono gli unici a poter essere considerati ai fini del giudizio in ordine alla legittimità della sanzione irrogata alla signora (A), sono di non aver informato durante il colloquio avuto con il Responsabile dell'Area Servizi al Cittadino quest'ultimo, suo superiore gerarchico, della procedura non legittima cui aveva dato corso, o di aver introitato somme di denaro senza adottare gli opportuni provvedimenti amministrativi con grave pregiudizio all'immagine dell'Amministrazione Comunale, di aver trattenuto somme di denaro senza consentire la riscossione nelle casse del Comune e di aver riscosso durante il periodo di assenza per malattia, in data 26/2 u.s. presso il Centro Polivalente Anziani Il Melograno, rilasciandone ricevuta la somma di L. 384.000.

Invero, in base ai principi generali in materia di esercizio del potere disciplinare, l'onere della prova dei fatti contestati incombe al comune di (B) il quale tuttavia, nella sua memoria difensiva non deduce nulla, limitandosi a richiamare la documentazione di natura disciplinare e la segnalazione fatta alla Procura della Repubblica ed a chiedere l'audizione di alcuni testi sui corrispondenti capitoli di prova del ricorso e quella del teste (F) su un capitolo specifico, che è costruito in termini di prova dell'appropriazione di denaro del comune da parte della ricorrente. All'udienza del 15 aprile 2004, benché vi fosse in atti la prova del ricevimento dell'avviso del rinvio di ufficio dell'udienza del 6 febbraio 2004 da parte della difesa del comune convenuto, nessuno compariva e alla successiva udienza del 6 luglio 2004 la parte veniva dichiarata decaduta dalla prova testimoniale.

Al di là della genericità di alcune delle circostanze contestate, che avrebbero, in ogni caso, reso arduo al comune assolvere l'onere della prova, va osservato che dalle deposizioni dei teste di parte ricorrente (O) e del teste di parte convenuta (S) viene confermata la versione dei fatti che la ricorrente offrì già nella lettera del 12 aprile 2001 di risposta ai chiarimenti sollecitati dal segretario comunale (Q), e cioè di aver trovato la soluzione del versamento in contanti del residuo del contributo economico diretto erogato dalla Provincia di Milano per un operatore di sostegno alla comunicazione al minore Cristian (F), perché il padre del bambino non aveva accettato di delegare la Provincia al pagamento diretto all'assistente della comunicazione, ricevendo quindi mensilmente sul suo conto corrente bancario la somma accreditata dall'ente per il sostegno al figlio, e di aver inserito i tre versamenti del dicembre 2000, gennaio 2001 e febbraio 2001, relativi ai mesi di settembre, ottobre, novembre e dicembre 2000 in una busta depositata all'economato, in quanto il primo versamento era avvenuto a metà dicembre, quando già era sospesa l'emissione dei mandati e delle c.d. reversali, e perché non era chiaro a quale capitolo di entrata il denaro andasse imputato, dato che esisteva un capitolo di bilancio generico Entrate diverse da utenti ma in questo modo le somme non sarebbero confluite nel bilancio del settore servizi sociali.

La versione della ricorrente è stata integralmente confermata dai testi escussi: come dichiarato dalla teste (O) assistente sociale dell'azienda sanitaria ospedaliera, il bambino (F) affetto da un deficit uditivo, era seguito dall'équipe di neuropsichiatria infantile ed era stato segnalato come vittima di un abuso sessuale da parte della Procura della Repubblica per i Minorenni di Milano. Per questi motivi, beneficiava di un contributo economico diretto erogato dalla Provincia di Milano per un operatore di sostegno alla comunicazione a scuola. La (O), ha riferito che, dopo la segnalazione dell'abuso, propose al padre del minore, d'accordo con il medico curante. l'intervento presso la famiglia di un secondo educatore, proveniente dal comune convenuto, che avrebbe affiancato l'unico operatore di sostegno rimasto e che sarebbe stato parzialmente retribuito con il contributo economico proveniente dalla Provincia di Milano, attraverso il versamento da parte della famiglia (F) al Comune di (B) del residuo del contributo provinciale, una volta retribuito l'assistente alla comunicazione che operava il sostegno a scuola. Tale somma era consegnata in contanti da (F) e incassata dalla ricorrente che ne rilasciava una ricevuta, ma durante l'assenza per malattia della (A) il versamento fu rifiutato dall'assistente (E) cui il (F) sì era rivolto, in sostituzione della ricorrente, «perché non sapeva cosa fare». La teste ha precisato che la soluzione del versamento in contanti di parte del contributo provinciale fu proposta da lei e dalla dr.ssa (T) che aveva in cura il minore, alla ricorrente; che la (A) le riferì del problema amministrativo che sussisteva per l'incasso di denaro dalla famiglia, posto che, malgrado un decreto del Tribunale per i Minorenni di Milano che attribuiva al Comune di (B) compiti di vigilanza e sostegno sul minore vittima di abusi, il comune stesso non aveva adottato alcuna delibera d'incarico ad un educatore per il sostegno al piccolo (F) e che avrebbe trovato una soluzione sul piano formale.

Dal canto suo, il teste (S), pure dipendente del Comune di (B), ha dichiarato che nella cassaforte del Servizio Provveditorato di cui era responsabile e di cui aveva le chiavi, aveva conservato due buste chiuse consegnategli in data 11 e 13 aprile 2001 dalla (A) peraltro ancora in cassaforte al momento della sua deposizione testimoniale il 14 novembre 2003; che in altre occasioni era capitato che conservasse, per conto di colleghi o della ricorrente stessa, buste contenenti denaro, in attesa del versamento entro il 15 del mese successivo alla Tesoreria comunale che necessariamente tali somme in deposito nella cassaforte non erano registrate da nessuna parte sino al momento del versamento in tesoreria che implicava l'emissione di un documento, la c.d. reversale con indicazione del capitolo di bilancio in cui la somma doveva essere iscritta.

Ora la teste (O) non fissa da un punto di vista temporale il momento in cui venne decisa la soluzione del versamento diretto da parte degli (F) ma si tratta evidentemente del 2000, quando la ricorrente era ancora la responsabile dei servizi sociali comunali, mentre il caso viene a conoscenza del nuovo capo settore (C) tra la fine del mese di marzo ed i primi giorni di aprile 2001, quando l'(F) si presentò per versare in comune la solita somma e assente la ricorrente in malattia dal febbraio 2001, l'assistente sociale (E) non seppe cosa farne (circostanza che trova conferma nella lettera 8 maggio 2001 prodotta quale doc. 69 di parte ricorrente).

L'addebito disciplinare che quindi, ben poteva essere mosso alla ricorrente era di avere gestito in modo troppo personalizzato e informale la vicenda, nel senso di aver adottato la soluzione proposta dall'assistente sociale (O), pur essendo consapevole dei problemi amministrativi che ciò avrebbe comportato, senza attivarsi per risolverli prima dell'attuazione dei versamenti e, una volta cessata dalla sua funzione di responsabile del servizio, di non averne informato alcuno dei colleghi o il (C) per l'adozione di un provvedimento che sanasse la situazione ma certamente non emergevano dalla vicenda, valutata in modo obiettivo, elementi che potessero indicare una volontà della (A) di appropriarsi di somme di denaro, posto che, da un lato, le modalità dei pagamenti erano note all'(F) alla (O) e alla dr.ssa (T), e dall'altro, che è pacifico che la (A) ogni volta rilasciò all'(F) una ricevuta dell'incasso del compenso per l'educatore del comune, circostanza ben nota all'amministrazione comunale che la cita nella contestazione di addebito e poco compatibile con l'intenzione di appropriarsi della somma.

Significativa dal punto di vista della prova del lamentato mobbing, risulta la nota informativa inviata dal superiore della (A), (C), al segretario comunale (Q) in data 10 aprile 2001 (doc. 64 di parte ricorrente) e che presumibilmente, dà origine a tutta la vicenda, compreso l'esposto alla Procura della Repubblica di Milano: tale nota contiene gran parte della ricostruzione dei fatti ma evidenzia, da un lato che (F) non riesce a spiegarsi perché il pagamento all'educatrice incaricata del sostegno al figlio debba avvenire attraverso la (A) e dall'altro che l'educatrice stessa lavora all'interno del progetto Disagio del Comune di (B) che non prevede recuperi a carico dell'utenza. Laddove in realtà, nessun onere era stato imposto agli (F) ma solo l'intero utilizzo della somma percepita dalla provincia in favore degli interventi educativi per il figlio.

Peraltro, e ciò assume rilievo decisivo per definire come vessatoria la condotta del comune, la segnalazione di reato nei confronti della Pubblica Amministrazione (doc. 120 di parte ricorrente) viene inviata alla Procura della Repubblica in data 28 maggio 2001, e cioè prima dell'audizione della ricorrente, ma dopo che alla nota informativa di (C), che poteva dare adito a dubbi, erano seguiti la versione a sua difesa fornita sin dal 12 aprile dalla signora (A), come pure la nota 8 maggio 2001 inviata al (C) stesso, che chiariva la questione del residuo del contributo provinciale riportando le dichiarazioni del signor (F) (doc. 69 di parte ricorrente), perfettamente concordi sul punto con quelle della dipendente comunale.

Ovviamente, quindi, il procedimento penale è stato archiviato con decreto in data 11 dicembre 2002.

Conformemente alla richiesta del P.M. che ha ritenuto inesistente il reato di abuso d'ufficio per mancanza degli elementi costitutivi del reato, sulla base degli stessi elementi che erano a disposizione dell'amministrazione comunale (doc. 122 di parte ricorrente). Sul punto va ancora notato come, dopo l'archiviazione sia derivato un ulteriore contenzioso civile tra la signora (A) ed il Comune di (B) per il rimborso delle relative spese legali sopportate dalla ricorrente, il cui diritto è stato negato dal comune, ed affermato da questo Tribunale con sentenza 6 giugno 2005 di condanna del datore di lavoro (doc. 143 di parte ricorrente), contro la quale pende giudizio d'appello.

La difesa del comune nelle note difensive ha argomentato che la decisione del segretario generale dr.ssa (Q) di segnalare i fatti alla Procura della Repubblica era un atto dovuto la cui valutazione in termini di vessazione o meno deve essere effettuata nel contesto della situazione quale si presentava in quel momento, e non alla luce dell'esito del procedimento penale: se in linea teorica, tale considerazione è corretta e condivisibile nel caso di specie come evidenziato, già al momento della presentazione della segnalazione di reato non emergevano dalla vicenda, valutata in modo obiettivo, circostanze che potessero indicare una volontà della (A) di appropriarsi di somme di denaro, proprio in base a quegli elementi di fatto che erano a disposizione dell'amministrazione comunale e che sono stati considerati dal Pubblico Ministero.

Analoga ed esemplare, in tal senso, è la c.d. vicenda (G), rispetto alla quale l'amministrazione comunale non ha sollevato nei confronti della ricorrente alcun rilievo disciplinare, depositando direttamente in data 4 novembre 2002 una denuncia querela alla Procura della Repubblica di Milano ed instaurando, successivamente, un procedimento civile: sul punto, ai fini che interessano in questa sede, occorre notare che, sempre abilmente, la difesa del Comune nella sua memoria difensiva pone l'accento sulla condotta di violazione «delle primarie regole di contabilità pubblica in materia di accertamento e impegni di spesa» che la dipendente avrebbe posto in essere, ma in tal modo conferma che i fatti denunciati, ove realmente esistenti ed accertati, avrebbero al più giustificato l'apertura di un procedimento disciplinare. Al contrario, il datore di lavoro sceglie di percorrere la strada della denuncia penale, a distanza di oltre due anni dai fatti, esponendo nell'atto una versione che non può certo definirsi anodina: invero, la ricorrente è qualificata come impiegata del comune, laddove all'epoca, giugno 2000, la signora (A) era la responsabile dei servizi sociali del comune di (B) : si pone in evidenza che abbia utilizzato carta intestata del comune, senza indicazione di un numero di protocollo per assumere impegni in favore del nucleo in difficoltà composto dalla signora (G) e dal figlio minore, per dare la parvenza che la lettera provenisse dal Comune, come se fosse una circostanza anomala l'uso di carta intestata da parte della responsabile di un servizio comunale per questioni indubitabilmente inerenti il suo servizio.

Quanto all'atteggiamento processuale del comune, va ancora notato come l'ente locale abbia proposto opposizione avverso la richiesta di archiviazione della denuncia depositata dal Pubblico Ministero in data 24 settembre 2003, e motivata dal rilievo che, da un lato, la (A) era la responsabile dei servizi sociali e «non una semplice impiegata come riduttivamente è indicato in querela» così che in tale veste le era stato riconosciuto in precedenza senza contestazioni ed aveva «la possibilità di sottoscrivere impegni di spesa a carico del Comune» e che costituendo tale impegno l'atto conclusivo della disamina della pratica (G) di cui era chiamata ad occuparsi in quanto relativa al suo settore dei servizi alla persona «era logico e consequenziale che per svolgere i suoi compiti utilizzasse la carta intestata del Comune» e dall'altro che la (A) stessa non aveva avuto nessun guadagno economico né altri vantaggi dalla vicenda, mentre la signora (G) non aveva «ottenuto nulla che non fosse una sua legittima aspettativa chiedere tant'è che successive non contestate delibere di giunta hanno concesso i richiesti contributi economici alla signora (G) » (doc. 132 di parte ricorrente).

Il G.P. presso il Tribunale di Milano ha poi archiviato in data 11/12 febbraio 2004 la denuncia querela ma ancora a fine aprile 2004 nell'atto di appello del comune convenuto avanti la Corte di Appello di Milano nel giudizio civile promosso dal comune stesso contro la signora (A), sempre per la vicenda del canone di affitto della signora (G), si legge che la ricorrente scriveva una missiva palesemente falsa, che compiva un falso in atto pubblico e che abusava dei suoi poteri «sconfinando nell'illecito penale» e che per tali fatti, definiti di correità con gli altri appellati «è stata denunciata in sede penale dal Comune di (B) », evidentemente dimenticando che più di due mesi prima il procedimento penale era stato archiviato per le ragioni sopra esposte (doc. 136 di parte ricorrente).

In conclusione, dalla lettura di tutta questa imponente mole di atti processuali risulta confermata la propettazione dei fatti in termini vessatori così come esposta in ricorso, dal momento che il comportamento del comune e le affermazioni sul conto della signora (A) travalicano la doverosa segnalazione di fatti anomali sul piano amministrativo, peraltro nel caso (G) neppure oggetto di una contestazione disciplinare, ed assumono la valenza persecutoria che connota il mobbing.

L'ultimo comportamento dedotto in ricorso è rappresentato da alcune affermazioni del superiore gerarchico della ricorrente, il capo settore (C) che, nell'ottica del ricorso sarebbero rivelatori della finalità illecita del motivo vessatorio l'unica testimonianza escussa sul punto, quella della consigliera comunale (P), si è limitata a riferire di aver saputo da altri consiglieri comunali l'indicazione data dal (C) ai colleghi della signora (A) di non aver più rapporti con lei nonché l'uso di alcuni epiteti poco gradevoli riferiti dal (C) stesso alla persona della ricorrente.

In conclusione, l'analisi della fattispecie concreta dedotta dalla lavoratrice e accertata in giudizio conduce a ravvisare nel comportamento del datore di lavoro una ipotesi di mobbing, alla luce della ricostruzione generale del fenomeno quale è stata operata in precedenza.

La ripetitività degli atti vessatori e la loro permanenza per un apprezzabile lasso di tempo emerge con chiarezza così da esplicitare l'aspetto finalistico del comportamento del datore di lavoro né rileva, alla luce delle modalità di attuazione del mobbing, che la signora (A) sia stata assente dal lavoro in malattia per lunghi periodi.

Per quanto riguarda l'origine della responsabilità del datore di lavoro, nonostante l'assenza di una definizione legislativa del mobbing dottrina e giurisprudenza concordano sulla riconducibilità delle vessazioni psicologiche poste in essere in azienda, quale ne sia l'autore, ad una violazione dell'obbligo di sicurezza e di protezione dei dipendenti previsto dall'art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro. Come osservato dalla Corte di Cassazione, il contenuto dell'obbligo previsto dall'art. 2087 c.c. non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il datore di lavoro, di porre in essere nell'ambito aziendale, comportamenti che siano lesivi del diritto alla integrità psicofisica lavorativa, dal momento che l'integrità psicofisica e morale dell'individuo trova riconoscimento giuridico non solo quale interesse tutelato dalle leggi ordinarie e speciali, ma anche da norme di rango costituzionale, quali in particolare l'art. 32 Cost., che garantisce la salute come fondamentale diritto dell'individuo (cfr.: Cass. 8 novembre 2002 nr. 15749: Cass. 2 maggio 2000 nr. 5491). Peraltro, sul datore di lavoro grava anche il più generale obbligo espresso dall'art. 2043 c.c., pure invocato in ricorso, così che i comportamenti persecutori e vessatori di cui si discute ben possono costituire al contempo fonte di responsabilità contrattuale e di concorrente responsabilità aquiliana (cfr. in tal senso: T.A.R. Lazio 25 giugno 2004 nr. 6254).

Ora in termini di ripartizione dell'onere probatorio ciò si risolve stante la natura anche contrattuale dell'illecito consistente nell'inadempimento dell'obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità psicofisica e la dignità del lavoratore, nell'affermazione che grava su quest'ultimo l'onere di provare di avere ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psicofisica e della dignità del prestatore, mentre grava sul lavoratore l'onere di provare sia la lesione all'integrità psicofisica sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa (cfr. sul punto Cass. 2 maggio 2000 cit.; Cass. 21 dicembre 1998 nr. 12763).

Nel caso in esame, mentre il comune convenuto non ha fornito alcun elemento volto a dimostrare di aver posto in essere attività tese a tutelare la signora (A) dal comportamento vessatorio acclarato nei termini di cui sopra, i risultati dell'attività istruttoria appena descritta, cui vanno aggiunti quelli emergenti dalla consulenza tecnica d'ufficio, consentono di affermare l'assolvimento dell'onere gravante sulla lavoratrice sia in punto di nesso di causalità tra evento dannoso e comportamento vessatorio che in punto di conseguenze patologiche di quest'ultimo.

Le sofferenze conseguenti al comportamento vessatorio dell'ente locale sulla ricorrente devono ritenersi provate, sotto il profilo più propriamente clinico delle manifestazioni di somatizzazione: la relazione del consulente tecnico d'ufficio dr. (U) conclude per una condizione psicopatologica, consistente in un disturbo depressivo maggiore, con caratteri di cronicità e sintomi moderati, quadro con associata somatizzazione e calo ponderale certificato in data 3 luglio 2001 e preceduto da una sindrome reattiva individuata dal medico curante nel febbraio 2001.

Secondo quanto osservato nella relazione del C.T.U. l'assenza di preesistenti disturbi psichici con potenziale ricaduta sull'equilibrio psicofisico della paziente e la coincidenza temporale tra l'insorgenza della patologia e la situazione determinatasi sul posto di lavoro rendono non prospettabile una ipotesi di esclusione del nesso di causalità per la preesistenza di una causa efficiente autonoma in grado di generare l'evento da sola o come concausa: in particolare, il consulente nota che l'anamnesi psicopatologica non ha evidenziato l'esistenza di una personalità morbosa di tipo depressivo, osservando, altresì che la sussistenza di una simile personalità, ipotizzata dal CT di parte convenuta, pur in assenza di elementi in tal senso desumibili dalle valutazioni psicodiagnostiche effettuate nel corso dell'esame peritale, avrebbe fortemente contrastato la decennale attività di responsabile del Settore Servizi alla persona, che prevede, per definizione, un intenso e continuo rapporto con realtà dell'utenza spesso disperate e richiede, quindi, un valido equilibrio psichico.

I consulenti di parte hanno sottolineato l'intervento di un fatto familiare negativo, cioè la malattia del marito della ricorrente ed il successivo decesso, avvenuto nell'ottobre 2002. per una patologia neoplastica: sul punto, il consulente tecnico d'ufficio dr. (U) rileva che, se tale evento indubbiamente grave sotto il profilo dell'impatto psicologico, non mostra caratteristiche cronologiche che consentano di indicarlo come cagione della sindrome depressiva, già conclamata nel luglio 2001 con somatizzazione. Al contrario, il disturbo depressivo maggiore che la ricorrente accusò in conseguenza del comportamento vessatorio sistemico e continuato subito in ambiente lavorativo aggravò, secondo le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, la successiva sofferenza psicologica connessa alla malattia ed al decesso del marito tanto da dar luogo, ancor oggi, nella signora (A) a sensi di colpa e di vergogna per aver turbato il periodo finale della vita dello stesso.

Esaminando, allora, la questione del danno risarcibile cagionato alla ricorrente per effetto del comportamento del datore di lavoro, deve osservarsi, in linea generale, che la determinazione del c.d. danno da mobbing rappresenta, in effetti, il punto più complesso dell'intera materia: invero, se non può porsi in dubbio che è giuridicamente configurabile un danno all'integrità psicofisica, come pregiudizio incidente sulla salute complessiva della persona ed in particolare come danno psichico, autonomo e indipendente dal danno morale, partendo dalla nozione di danno biologico accolto anche dalla Corte Costituzionale ex art. 32 Cost. deve riconoscersi l'ammissibilità e la risarcibilità di un danno da mobbing che prescinda dall'insorgenza di una psicopatologia apprezzabile sotto il profilo clinico e che si ricolleghi in via diretta ed immediata alla lesione della dignità personale, in termini cioè di un danno che si aggiunge al danno biologico in senso stretto, ove sussistente e provato, ovvero sia in grado di assicurare una tutela risarcitoria, piena in tutte le ipotesi in cui non sia ravvisabile una vera e propria lesione alla salute, ma solo una lesione della dignità personale, e cioè di un interesse comunque di rango costituzionale, inerente la persona. In altri termini, la tripartizione danno biologico, danno morale e danno patrimoniale non esaurisce l'ambito della possibile sfera risarcitoria, potendosi individuare un autonomo spazio per un danno non patrimoniale, inteso come danno esistenziale, identificabile in quella alterazione della qualità della vita che si estrinseca nella lesione della personalità del soggetto nel suo modo di essere sia personale che sociale, autonomo e differente dal danno morale cd. soggettivo, che non ne è assorbito, sia dal danno biologico (cfr.: Corte Cost. 12 dicembre 2003 nr. 356; Corte Cost. 11 luglio 2003 nr. 233; Cass. 31 maggio 2003 nr. 8827; Cass. 31 maggio 2003 nr. 8828: per la giurisprudenza di merito lavoristica cfr.: Trib. Pinerolo 2 aprile 2004; Corte d'Appello Milano 6 ottobre 2003; Trib. Siena 28 luglio 2003; Trib. Parma 17 aprile 2003).

La Corte di Cassazione, in ambito lavoristico, aveva già riconosciuto la risarcibilità di una voce di danno definito esistenziale, distinto dal danno biologico in senso stretto o danno alla salute inteso come la lesione all'integrità fisica o psichica, cioè una patologia oggettiva che si accerta secondo precisi parametri medico-legali, riconducendolo al «pregiudizio esistenziale che, senza ridursi al mero patema d'animo interno, richiama tuttavia disagi e turbamenti di tipo soggettivo» tale cioè da coprire tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana quali gli impedimenti alla serenità familiare e al sereno svolgimento della propria vita lavorativa. La Suprema Corte ha concluso che tale distinzione «non vale ad escludere il cd. danno esistenziale dall'ambito dei diritti inviolabili, poiché non è solo il bene alla salute a ricevere una consacrazione costituzionale sulla base dell'art. 32, ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell'uomo nell'ambito della famiglia o di altra comunità riceve considerazione costituzionale ai sensi degli artt. 2 e 29. Pertanto, tanto ai pregiudizi alla salute quanto quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di natura non patrimoniale, non possono essere lasciati privi di tutela risarcitoria, sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile» (Cass. 3 luglio 2001 nr. 9009). Più recentemente, la Corte ha esplicitamente affermato che i principi di cui alle ricordate sentenze nr. 8827 e 8828 ed in particolare la nozione di «danno non patrimoniale inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, che non si esaurisca nel danno morale e che non sia correlato alla qualifica di reato del fatto illecito ex art. 185 c.p.» affermati in tema di responsabilità extracontrattuale, «possono essere agevolmente applicati anche in tema di inadempimento contrattuale, per la liquidazione dei danni conseguenti alla accertata responsabilità contrattuale del datore di lavoro» (così: Cass. 26 maggio 2004 nr. 10157).

Facendo applicazione di tali principi nel caso in esame, va rilevato come, sotto il profilo clinico patologico, e dunque del danno alla salute o biologico in senso stretto, la consulenza tecnica d'ufficio abbia concluso nel senso che la sindrome psicopatologica riscontrata nella signora (A), presentandosi con caratteristiche di intensità maggiore e di acuzie per almeno sei mesi nel 2001, ha determinato una invalidità temporanea, valutabile nella misura del 75% per due mesi e del 50% per gli altri quattro mesi, ed un danno all'integrità psicofisica, inteso come pregiudizio incidente sulla salute complessiva, da valutarsi come permanente, nell'ordine dell'11%.

Quale metodo di calcolo per la liquidazione equitativa di tale voce di danno, si ritiene di seguire le tabelle per la liquidazione del danno biologico da invalidità temporanea e permanente elaborate dalle sezioni civili del Tribunale di Milano. Perciò, nel caso di specie, la determinazione del danno da invalidità permanente è quantificabile in euro 14.722, da invalidità temporanea è quantificabile in euro 6.982,50. prevedendosi una liquidazione per tale titolo di euro 66,50 al giorno e risultando 60 giorni di inabilità temporanea al 75% e 120 di inabilità temporanea al 50%, mentre gli ulteriori periodi di malattia che sono stati dedotti nelle note conclusive di parte ricorrente esulano dall'oggetto del presente giudizio. A tali importi si deve aggiungere il danno morale soggettivo, il c.d. pretium doloris, quantificato in via equitativa nella misura di euro 7.361, pari alla metà del danno biologico da invalidità permanente. Complessivamente, per tali voci di danno il Comune convenuto deve essere condannato al pagamento di euro 29.065,50, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.

Sotto il diverso profilo del danno esistenziale, inteso, come detto, in termini di alterazione della qualità della vita in relazione alle attività attraverso cui si realizza la personalità, ritiene questo giudicante che la domanda svolta dalla ricorrente debba essere respinta, mancando in ricorso deduzioni specifiche in ordine a quali aspetti della vita della signora (A) avrebbero subito una modificazione peggiorativa.

Al contrario, è fondata e deve essere accolta la domanda di risarcimento del danno all'immagine in quanto strettamente correlata all'accertato demansionamento professionale della ricorrente: in proposito, va ricordato come nell'ipotesi di demansionamento, la giurisprudenza consideri non solo la violazione del diritto allo svolgimento delle mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi di cui all'art. 56 D.Lgs. nr. 29/93, ora art. 52 D.Lgs. nr. 165/2001 bensì anche quella del diritto fondamentale costituzionalmente garantito alla libera esplicazione della personalità sul luogo di lavoro con conseguente obbligo risarcitorio, da un lato, del danno patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal dipendente e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, e dall'altro, del danno non patrimoniale conseguente alla lesione dell'immagine professionale, intesa come perdita di autostima ovvero di eterostima e lesione al prestigio goduto all'interno e all'esterno dell'ambiente lavorativo in ragione delle funzioni esercitate (cfr. tra le molte Cass. 10 giugno 2004 nr. 11045; Cass. 17 febbraio 2004 nr. 3082; Cass. 22 febbraio 2003 nr. 2763).

Nella fattispecie in esame i risultati dell'attività istruttoria sopra descritta, cui vanno aggiunti quelli emergenti dalla consulenza tecnica d'ufficio, consentono di affermare l'assolvimento dell'onere probatorio gravante sulla ricorrente relativamente ad entrambi gli aspetti appena delineati: il teste (P) ha riferito come della vicenda della rimozione della signora (A) dalle sue funzioni di responsabile dei servizi sociali parlò tutto il paese e in qualche modo ne parla ancora, perché la ricorrente era molto conosciuta mentre sono stati prodotti gli articoli dei giornali locali che hanno dato ampio risalto alla vicenda, anche con riferimento alle iniziative penali del Comune di (B) (doc. da 102 a 108 di parte ricorrente).

Per la determinazione in via equitativa di tale voce di danno, si ritiene equo utilizzare le tabelle per la liquidazione del danno biologico da invalidità permanente elaborate dalle sezioni civili del Tribunale di Milano, calcolato nella misura del 25% e dunque euro 3.680,50, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.

Parimenti fondata è la domanda di risarcimento del danno alla professionalità: invero, il rapporto di lavoro è cessato in data 31 gennaio 2006 così che la domanda relativa alla reintegrazione nelle mansioni non può essere più esaminata, mentre sul comune convenuto grava l'obbligo risarcitorio avente ad oggetto il danno patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal dipendente e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità.

Come è noto, gli orientamenti giurisprudenziali divergevano sul punto della prova del danno da dequalificazione sino al risolutivo intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione di cui alla sentenza 24 marzo 2006 nr. 6572: secondo un primo indirizzo, era a carico del lavoratore la prova della effettiva sussistenza di un danno patrimoniale, non ricavabile da presunzioni semplici, mentre altre decisioni, pur riconfermando il principio dell'onere della prova a carico del lavoratore in ordine al preteso danno da dequalificazione, in mancanza di tale prova riconoscevano, in via presuntiva, la sussistenza di un danno patrimoniale.

La Corte nel risolvere il contrasto giurisprudenziale, ha affermato che grava sul lavoratore l'onere di allegare e provare gli elementi in cui si sostanzia il danno alla professionalità: ora, nel caso della signora (A) la sostanziale inattività cui la stessa è stata posta sino alla data del trasferimento al servizio demografico come responsabile dello stesso, 1° gennaio 2003, (cfr. le dichiarazioni rese nell'interrogatorio libero del 28 febbraio 2003) - dovendosi ribadire che il periodo successivo non è oggetto del presente giudizio - ha determinato un impoverimento delle sue capacità professionali.

La quantificazione del danno alla professionalità della ricorrente non può che avvenire in via equitativa ex art. 1226 c.c., utilizzando come parametro la retribuzione base lorda annua, pari a circa euro 25.000, nella misura del 20%, per il periodo di dequalificazione accertato, con esclusione dei periodi di assenza per malattia, per la complessiva somma di euro 6.400 in moneta attuale, con interessi legali dalla domanda giudiziale al saldo.

Il comune convenuto deve, quindi, essere condannato al pagamento della complessiva somma di euro 39.146 con interessi legali dalla domanda giudiziale al saldo nonché alla rifusione delle spese di lite della ricorrente e della C.T.U. liquidate come in dispositivo.

Da ultimo deve essere esaminata la domanda di manleva svolta dal Comune di (B) nei confronti della terza chiamata (H) invocando la copertura assicurata dalla polizza nr. 1248212 operativa per il periodo dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2002 (doc. 1 della terza chiamata).

La compagnia assicurativa, regolarmente costituitasi, ha eccepito, in primo luogo, la carenza di legittimazione del comune, sostenendo che la polizza stessa copre la responsabilità civile e patrimoniale degli amministratori e dirigenti del contraente comune per i danni cagionati a terzi o alla Pubblica Amministrazione per fatti od omissioni posti in essere nell'esercizio delle funzioni istituzionali dei medesimi. In secondo luogo ha dedotto l'inoperatività della garanzia per l'omissione dell'avviso di sinistro nel termine di 10 giorni dalla formale richiesta di risarcimento del danno da parte del terzo danneggiato, ai sensi dell'art. 7 della polizza ed infine l'intervenuta prescrizione del diritto ex art. 2952 c.c.

La prima eccezione svolta dai (H) di Londra è fondata ed assorbente: la polizza definisce contraente il soggetto che stipula il contratto, cioè il Comune convenuto, mentre l'assicurato o persone assicurate, sono il soggetto il cui interesse è protetto dall'assicurazione, cioè coloro che sono nominativamente indicati nell'art. 26 della polizza, in quanto dirigenti ed amministratori del comune di (B), ivi compresa, tra l'altro, la ricorrente, in quanto Responsabile Settore Servizi al Cittadino.

Oggetto della copertura assicurativa ai sensi dell'art. 12 di polizza è la responsabilità professionale, responsabilità patrimoniale - amministrativa - erariale-contabile e formale derivante all'assicurato, cioè alle persone di cui all'elenco dell'art. 26, «per perdite patrimoniali involontariamente cagionate a terzi, allo Stato, compreso l'ente pubblico di appartenenza e la Pubblica Amministrazione in genere, in conseguenza di fatti od omissioni di cui debba rispondere a norma di legge, nell'esercizio delle sue funzioni istituzionali» così che non può estendersi al caso di specie, in cui il danno è cagionato ad un dipendente ed è chiamato a risponderne non la persona fisica che ha posto in essere il comportamento mobbizzante, bensì il comune in quanto datore di lavoro.

Le spese di lite della terza chiamata seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. La sentenza è esecutiva ex lege.

P.Q.M.

accerta

- l'illegittimità della sanzione disciplinare per cui è causa.

Condanna

- il comune convenuto al risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa in euro 39.146, oltre accessori, cagionati alla ricorrente dall'illegittimo comportamento del datore di lavoro.

Rigetta

- ogni altra domanda.

Milano 13 giugno 2006 (depositato 30 settembre 2006)

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