DANNI DA MOBBING RIFLUISCONO NEL DANNO ESISTENZIALE
Trib.
Pinerolo (sezione lavoro, 1° grado) 6 febbraio 2003 (ud. 14 febbraio 03) –
Giud. Reynaud - CANDELO Maria (avv. Braggion, Avalis) c. INPS – ISTITUTO
NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (avv. Ollà, Petrucciano)
Mobbing – Riscontro di demansionamento, vessazioni, controlli
persecutori, accanimento disciplinare
nell’arco di 6 anni – Sussistenza – Riconducibilità al danno
esistenziale – Risarcibilità in via equitativa.
Il fenomeno del “mobbing”
consiste in una condotta vessatoria, reiterata e duratura, individuale o
collettiva, rivolta nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori
gerarchici (mobbing verticale) e/o colleghi (mobbing orizzontale), oppure anche
da parte di sottoposti nei confronti di un superiore (mobbing ascendente); in
alcuni casi si tratta di una precisa strategia aziendale finalizzata
all’estromissione del lavoratore dall’azienda (bossing).
Relativamente al cd. danno
alla professionalità – per demansionamento -
parte della più recente giurisprudenza di merito e legittimità (Cass.,
14.11.2001 n. 14199; Trib. Treviso, 13.10.2000) si mostra consapevole della
plurioffensività della condotta posta in essere in violazione dell’art. 2103
c.c. e, anche ai fini risarcitori, rifiutando l’omnicomprensiva categoria del
“danno alla professionalità”, tende a distiguere le varie “voci” di danno.
Siffatto metodo – ritiene questo Tribunale – è senza dubbio preferibile,
sicché, facendo impiego delle comuni categorie descrittive del danno quali più
sopra delineate, occorre innanzitutto distinguere il danno patrimoniale (danno
emergente per diminuzione di retribuzione conseguente alla dequalificazione e
per perdita di chances, o lucro
cessante per la concreta perdita di possibilità di carriera interne all’azienda
o di migliori impieghi) dal danno non patrimoniale. All’interno di quest’ultima
categoria bisogna poi distinguere il danno biologico (che può assumere le forme
di malattia psichica), il danno morale (ravvisabile in caso di reato) e il
danno esistenziale, inteso come sconvolgimento della vita familiare, lavorativa
e sociale conseguente al demansionamento.
Proprio con riguardo ai danni
che colpiscono la persona, la Cassazione insegna che essi possono “consistere
nella lesione dell’integrità fisio-psichica, cioè nel danno alla salute o danno
biologico in senso stretto, oppure in quello che più genericamente si designa
come “danno esistenziale”, al fine di coprire tutte le compromissioni delle
attività realizzatrici della persona umana (es. impedimenti alla serenità
familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di
benessere, al sereno svolgimento della propria vita lavorativa)”, poiché “non è solo il bene della salute a ricevere
una consacrazione costituzionale sulla base dell’art. 32, ma anche il libero
dispiegarsi delle attività dell’uomo nell’ambito della famiglia o di altra
comunità” gode di una speciale considerazione negli artt. 2 e 29 Cost., sicché
“tanto i pregiudizi alla salute quanto quelli alla dimensione esistenziale,
sicuramente di natura non patrimoniale, non possono essere lasciati privi di
tutela risarcitoria, sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata
del sistema della responsabilità civile”.
Nel caso di specie (per
effetto dell’illegittima costrizione a svolgere mansioni
dequalificanti, delle “sfuriate” dei superiori, dell’accanimento disciplinare,
degli esasperati controlli, ecc.) ricorre il cd. danno esistenziale,
strutturato dalla lesione della personalità morale della dipendente (art. 2087
c.c.), del suo diritto a svolgere mansioni confacenti con il livello
d’inquadramento attribuito (art. 2103 c.c.), della sua dignità quale donna e
lavoratrice (art. 41, comma 2, Cost.), del suo diritto a realizzarsi, senza
indebite costrizioni, nel mondo del lavoro e in altre formazioni sociali, in
particolare in seno alla famiglia, ove la donna lavoratrice deve poter svolgere
serenamente la propria essenziale funzione anche materna (artt. 2, 29, 37 comma
1 Cost.).
La liquidazione di tale danno
esistenziale è necessariamente di tipo equitativo ed è quantificabile in €
11.040 (per i 276 gg. di prestazione negli anni 1994-2000) a fronte del
generale peggioramento della vita
lavorativa, in € 16.800 per il generale
peggioramento dell’esistenza (nei 7 anni), in € 2.500 per le residue
compromissioni esistenziali dopo il trasferimento a Torino, in € 583,23 per
spese documentate di accertamenti medici e terapie antistress, per un totale
generale di € 30.923,23(comprensive di spese legali).
Con ricorso depositato in data 11.4.2002, CANDELO Maria conveniva
in giudizio il datore di lavoro Istituto Nazionale della Previdenza Sociale
(INPS), lamentando d’essere stata vittima, dall’ottobre 1988 al novembre 2000,
di mobbing, posto in essere dai superiori della sede di Pinerolo, in specie dai
capi reparto RUSSO, SERASSIO e TRANCHIDA, e dai direttori di sede TASSONE,
VITARI e PALMISANO. Sostenendendo che la condotta mobbizzante si sarebbe
concretizzata, in particolare, in asfissianti e arbitrari controlli dei
superiori, in ingiuste e continue lettere di contestazione e richieste di
giustificazione (anche in ordine alla produttività), nell’attribuzione di
mansioni dequalificanti (a partire dal 1994), nell’emarginazione (anche in
termini d’isolamento fisico) sul luogo di lavoro, con conseguente detrimento delle
proprie condizioni di salute psico-fisiche e grave peggioramento della qualità
di vita in ambito lavorativo ed extralavorativo, la ricorrente deduceva di
avere, infine, richiesto ed ottenuto, dal dicembre 2000, il trasferimento alla
più lontana sede di Torino per sfuggire all’intollerabile situazione vessatoria
che per lungo tempo era stata costretta a subire (e che l’aveva altresì indotta
a non riprendere il lavoro a tempo pieno, pur venute le meno le esigenze
familiari per le quali, dal 1°.1.1995, aveva ottenuto il part-time a 18 ore
settimanali). Allegando che, dopo il trasferimento – cessata la situazione di
mobbing e ottenute mansioni compatibili con il proprio inquadramento – le
condizioni di salute e di vita erano sensibilmente migliorate (salvo che per i
disagi connessi agli spostamenti quotidiani per raggiungere la nuova sede di
lavoro), la ricorrente chiedeva la condanna dell’INPS al risarcimento del danno
da dequalificazione professionale (in misura pari alla differenza tra la
retribuzione spettante ad un impiegato di 8° livello, qual era la ricorrente, e
un impiegato di 4° livello, inquadramento cui sarebbero riconducibili le
mansioni inferiori assegnate), del danno biologico temporaneo causatole
(indicato nella misura del 30%), del danno esistenziale, del danno morale, del
danno patrimoniale (per le spese mediche sostenute), negli importi indicati
nella conclusioni in epigrafe trascritte. Ella chiedeva, altresì, la condanna
del convenuto a reintegrarla presso la sede di Pinerolo, in mansioni confacenti
con il proprio inquadramento professionale.
Costituendosi
ritualmente in giudizio, resisteva l’INPS, negando che la ricorrente fosse
stata oggetto di una condotta vessatoria da parte dei superiori e sostenendo,
invece, che, nei suoi confronti, erano stati legittimamente adottati
provvedimenti di contestazione e lettere di deplorazione giustificati da
numerosi errori compiuti sul lavoro e da negligenza nell’espletamento delle
mansioni affidate. Sosteneva, inoltre, l’Istituto, che le mansioni assegnate
alla ricorrente furono sempre compatibili con l’inquadramento assegnato (il 7°
livello) e che le assenze per malattia della ricorrente, numerose nel periodo
anteriore al 1989, andarono invece scemando negli anni successivi, sicché,
lungi dall’essere peggiorata, nel periodo per cui è causa, la salute della
lavoratrice migliorò. La difesa dell’INPS chiedeva quindi la reiezione del
ricorso.
Fallita la
conciliazione, interrogati liberamente la ricorrente e l’attuale direttore
della sede INPS di Pinerolo PALMISANO, acquisiti i documenti prodotti, escussi
18 testimoni e sentiti liberamente gli ex capireparto della ricorrente RUSSO e
TRANCHIDA (nei confronti dei quali, giusta le allegazioni contenute in ricorso,
erano potenzialmente ravvisabili estremi di responsabilità extracontrattuale
per i medesimi danni dedotti in giudizio, sicché essi avrebbero potuto
partecipare al processo), all’udienza del 14.1.2003 i procuratori discutevano
la causa rassegnando le conclusioni in atti e il giudice pronunciava sentenza dando
lettura del dispositivo.
1. La causa petendi
delle azioni risarcitorie esercitate nel presente giudizio è stata qualificata,
per un verso, quale situazione di demansionamento in violazione dell’art. 2103
c.c. e, per altro verso, quale condotta di mobbing, posta in essere in
violazione degli artt. 2087, 1175, 1375 c.c. e integrante anche gli estremi
della responsabilità extracontrattuale. I due aspetti della questione debbono
essere partitamente esaminati.
A)
Il demansionamento. L’istruttoria espletata consente di
affermare che la ricorrente è stata assegnata a mansioni inferiori a quelle
proprie del suo inquadramento professionale dal gennaio 1994 al novembre 2000,
quando richiese il trasferimento alla sede di Torino.
Sin dal 1985, CANDELO Maria era inquadrata nella VII
qualifica funzionale, prevista per i dipendenti degli Enti Pubblici non
economici e disciplinata, da ultimo, nel D.P.R. 1°.3.1988 n. 285. Secondo il
menzionato decreto, i dipendenti inquadrati in tale livello svolgono, per
quanto qui interessa, “attività di collaborazione istruttoria, di iniziativa
promozionale, studio di addestramento, qualificazione e aggiornamento del
personale, elaborazione e progettazione di natura amministrativo-contabile e
tecnica che – nell’ambito di prescrizioni generali contenute in norme o
procedure definite o in direttive di massima – presuppongono specializzazione e
preparazione professionale nelle attribuzioni di settore o di modulo
organizzativo interdisciplinare, capacità di valutazione e perseguimento dei
risultati, nonché capacità di decisione, di proposta e di individuazione dei
procedimenti necessari alla soluzione dei casi esaminati e delle concrete
situazioni di lavoro”. In particolare, quanto alle mansioni impiegatizie, il
relativo profilo professionale del “collaboratore di amministrazione” è proprio
di chi “svolge attività istruttoria mediante la predisposizione, la formazione,
la definizione e la revisione di atti, provvedimenti e documenti anche di
natura contabile-finanziaria, comportante l’applicazione di norme complesse,
dei quali cura la sottoscrizione quando gli stessi non rientrino nella
competenza dei livelli superiori, avvalendosi all’occorrenza di procedure e
strumenti informatici…svolge compiti di studio, formazione, programmazione,
analisi ed elaborazione di dati…cura e segue lo sviluppo ed il processo
formativo psico-intellettuale dei singoli e di gruppo concorrendo alla
formulazione dei programmi e promuovendo piani di intervento che i singoli casi
richiedono…rilascia certificazioni che richiedono ricerche e/o elaborazioni”.
Si tratta, all’evidenza – ciò che trova conferma nella comparazione tra la
menzionata declaratoria e quella propria delle categorie funzionali inferiori –
di mansioni di particolare responsabilità, che presuppongono elevata
specializzazione e preparazione (si consideri che, per i neo-assunti, si
richiede il possesso del diploma di laurea), notevole autonomia, anche
decisoria.
La ricorrente ha in effetti svolto mansioni confacenti alla
qualifica attribuita sino al dicembre 1993 (anche se già quell’anno fu adibita,
per un certo periodo, allo svolgimento di compiti propri di un livello
inferiore: si veda la lettera del 26.3.1993 – doc. 22 di parte ricorrente –
nella quale il direttore dell’Istituto VITARI si dice consapevole della
“demotivazione che può scaturire dal contingente espletamento di mansioni
ripetitive” e certo che il responsabile dell’Ufficio “valuterà con attenzione
il suo desiderio di essere reintegrata in mansioni confacenti con la qualifica
rivestita”). Dal gennaio 1994 ella fu
però assegnata all’Unità Operativa Prestazioni non pensionistiche e fu
“incaricata dell’acquisizione dei certificati e della gestione dei dati
acquisiti” (cfr. comunicazione di servizio del 14.1.1994: doc. 32 di parte
ricorrente). Salvo quanto si dirà infra, CANDELO mantenne quest’incarico sino
al 4.1.1999 (cfr. doc. 49 di parte ricorrente, dove, per mero errore materiale,
la data è stata indicata quale 4.1.1998).
L’attività di acquisizione dei certificati di malattia –
l’unica effettivamente svolta, a dispetto del riferimento alla “gestione dei
dati acquisiti” contenuto nella citata disposizione di servizio – consiste
nell’inserire nella banca dati informatica dell’Istituto le informazioni
contenute nei certificati medici che, quotidianamente (e nell’ordine di
svariate diecine), i lavoratori in malattia recapitano all’INPS. Si tratta, in
sostanza, di leggere (e decifrare perché, spesso, essendo manoscritti, non sono
chiarissimi) i dati salienti (generalità del lavoratore, elementi
identificativi del datore di lavoro, periodo di malattia…) contenuti nei
certificati e di inserirli nel programma informatico. La cosiddetta
acquisizione può avvenire tramite digitazione sulla tastiera dell’elaboratore,
ovvero attraverso il lettore ottico: in questo secondo caso, proprio a causa
della scarsa intelligibilità della scrittura, la trasposizione ottica determina
errori che poi debbono essere corretti con la tastiera. In caso di dati
mancanti (ad esempio, ciò che spesso difetta, il codice identificativo della
posizione attribuita al datore di lavoro), l’operatore addetto all’acquisizione
deve ricercarlo su altra banca dati informatica e inserirlo.
Si tratta, com’è evidente, di un’operazione meramente
manuale, che non necessita di alcuno sforzo intellettuale, né di particolari
capacità od esperienza: basta saper leggere e scrivere; un lavoro ripetitivo e
privo di qualsiasi stimolo, che, proprio per questa ragione, era sempre stato
suddiviso tra diverse persone aventi altre, principali, occupazioni. Si
considerino, al proposito, le eloquenti affermazioni rese dal teste VITARI,
direttore della sede INPS di Pinerolo dal 1992 al 1997: “credo che, pro-quota,
l’acquisizione dei certificati fosse fatta da tutti, trattandosi attività non esaltante”.
In realtà, la persona ufficialmente deputata ad acquisire certificati medici –
come da ordine scritto già citato – fu la ricorrente, e, come ha dichiarato il
suo capo-reparto TRANCHIDA, altre persone furono assegnate a questo incarico
(per brevi periodi, o saltuariamente) per affiancare (e non per sostituire) la
CANDELO “e raggiungere gli standard, essendosi accumulati dei ritardi”. I
colleghi sapevano che nel periodo indicato l’attività assolutamente
preponderante della ricorrente fu quella di acquisire certificati di malattia
(cfr. deposizioni CHIABRANDO, CALLIERO, SCILLITANI, MANE’ e le dichiarazioni
della stessa TRANCHIDA). In particolare, per tutto il 1994, quando ancora
lavorava a tempo pieno, e per il 1995 –
quando richiese il part-time – la ricorrente non ebbe altri incarichi.
Nel 1996 le fu richiesto, in aggiunta alla precedente
mansione, di gestire le pratiche delle cure termali. Questo compito era
compatibile con il profilo professionale, ma
- per usare parole della stessa capo-reparto TRANCHIDA – “le cure
termali si svolgevano in un tempo limitato dell’anno e c’era un numero
abbastanza esiguo e quindi non era certo l’adempimento preponderante…il lavoro
delle cure termali si svolgeva sostanzialmente nel periodo maggio-luglio, per
circa 12 pratiche nell’anno”.
Nel corso del 1998 – in un periodo d’assenza della
capo-reparto TRANCHIDA – il direttore PALMISANO attribuì alla ricorrente (e al
suo collega PINZINO) il compito di liquidare le richieste d’indennità di
disoccupazione con requisiti ridotti, mansione, questa, compatibile con il VII
livello funzionale. Il periodo in cui ella svolse la nuova mansione, tuttavia,
fu breve, posto che, al rientro della TRANCHIDA da un’assenza dovuta a malattia
(collocabile nel settembre 1998), l’insoddisfazione della dirigente
sull’operato della CANDELO portò a esonerarla dal lavoro sulle indennità di
disoccupazione con requisiti ridotti e a impiegarla nuovamente a tempo pieno
nell’acquisizione dei certificati di malattia.
Dopo ben cinque anni di attribuzione di tale
dequalificante mansione – si pensi quanto al proposito riferito dalla teste
MANE’: “ho svolto questo lavoro l’anno scorso: a tutti gli impiegati sono stati
dati 200 certificati per smaltire l’arretrato. Tutti ci siamo lamentati perché
era un lavoro monotono e ripetitivo” – dal gennaio 1999 la ricorrente fu
spostata dall’U.O. Prestazioni non pensionistiche alla dirette dipendenze della
Direzione e le fu assegnato un solo incarico, nuovamente mortificante sul piano
della professionalità e incompatibile con il livello d’inquadramento. La
ricorrente, in sostanza, doveva prelevare, personalmente, in un polveroso
archivio nel sottotetto, pratiche di pensione esaurite ed ivi collocate, in
disordine, da anni, trasferirle in un apposito ufficio che le era stato
assegnato e controllarle una per una prima che fossero avviate al macero. Il
contenuto di tale attività di controllo è stato così riferito dal direttore
PALMISANO: “occorreva verificare l’esatta data di morte dei pensionati, che
l’eliminazione della pensione fosse avvenuta ai momenti giusti, la verifica che
non fossero state riscosse rate posteriormente al decesso quando vi fosse un
delegato alla riscossione, la sistemazione dei fascicoli per anni di evento,
per avviarli al macero”. Appare evidente come la lavoratrice sia stata
estromessa da ogni processo produttivo e incaricata di svolgere, a tempo pieno,
un lavoro noioso, ripetitivo, fisicamente pesante (lo spostamento dei
fascicoli), che nessuno aveva fatto per molti anni e che – dopo il suo trasferimento
– fu terminato ad opera di più persone, nessuna delle quali in ciò impiegata a
tempo pieno (come PALMISANO ha ammesso). Il contenuto intellettivo
dell’attività – vale a dire, la limitata opera di controllo sul fatto che, dopo
il decesso del pensionato, non fossero state riscosse rate di pensione – appare
ridottissimo e non può essere ritenuto elemento qualificante della complessiva
mansione, né, comunque, presenta i caratteri tipici delle funzioni proprie del
collaboratore di amministrazione (applicazione di norme complesse, compiti di
studio, formazione, programmazione, analisi, elaborazione dati…). La teste
MANE’, rilevando l’anomalia dell’incarico, ha riferito che “quel lavoro non era
mai stato svolto nel reparto e non era stata organizzata nessuna task-force per
farlo”, come sarebbe stato ragionevole fare e come, in effetti, fu fatto dopo
il trasferimento della CANDELO. Del resto, un eloquente indizio della
insignificanza qualitativa del compito (e, probabilmente, anche della sua
stranezza), lo si ricava dall’elenco telefonico interno stampato nel febbraio
2000 (doc. 61 di parte ricorrente); diversamente dagli altri addetti alla sede
di Pinerolo (per ciascuno dei quali è indicata una specifica mansione, propria
dei processi produttivi o delle attività collaterali dell’Istituto), la
funzione attribuita alla ricorrente viene descritta come “adempimenti vari”:
essendo pacifico che CANDELO non aveva alcun altro compito oltre a quello sopra
menzionato, tale (falsa) annotazione rivela probabilmente come non apparisse
nemmeno decoroso indicare in un documento destinato alla circolazione interna
la vera (ed unica) mansione attribuita alla lavoratrice.
Le due dequalificanti incombenze che si sono descritte
rientrano (se non, addirittura, nella IV qualifica professionale, come dedotto
da parte ricorrente: ciò che vale soprattutto per il lavoro di acquisizione dei
certificati, un’attività di “mera digitazione su terminale” prevista per il
profilo dell’archivista e per l’attività di riordino e catalogazione dei fascicoli)
nella V categoria, che contempla lo svolgimento di “attività amministrative…di
carattere esecutivo che richiedono conoscenze specialistiche, preparazione
specializzata, conoscenze tecnologiche, perizia nell’esecuzione”. Tra i compiti
previsti nel relativo profilo professionale impiegatizio (operatore di
amministrazione) compare l’effettuazione di “ricerche e caricamento dati via
terminale per elaborazioni elementari e fuori linea”.
CANDELO Maria, dunque, - dopo aver ottenuto da 10 anni una
qualifica professionale per la quale si richiede il possesso del diploma di
laurea – fu costretta a svolgere, sostanzialmente per sette anni consecutivi,
mansioni ripetitive, defatiganti, meramente esecutive che, a tutto concedere,
potevano essere legittimamente affidate ad un dipendente con qualifica
funzionale inferiore di almeno due livelli. Si consideri, poi, che, dal
settembre 1999, alla ricorrente fu riconosciuto l’inquadramento nell’VIII
categoria funzionale – cui corrisponde il profilo di funzionario di amministrazione,
che, secondo il D.P.R. 285/1988, “è preposto ad un settore o struttura
dell’Ente” – sicché il divario tra la qualifica posseduta e le mansioni in
concreto disimpegnate divenne enorme.
Il prolungato demansionamento della ricorrente – che, altrimenti,
sarebbe certamente continuato (a tacer d’altro, si è accennato che il lavoro
sulle pratiche archiviate non era ancora terminato) – si concluse soltanto
quando ella, psicologicamente stremata, richiese ed ottenne, nel dicembre 2000,
il trasferimento presso la sede di Torino.
2. Il c.d.
mobbing. Prima di esaminare il secondo
profilo della causa petendi dedotta in giudizio, occorre fare qualche premessa
sulla nozione e sulla considerazione giuridica del mobbing, un fenomeno – da
tempo oggetto di studio da parte delle scienze sociologiche e psicologiche –
che è approdato nelle aule di giustizia italiane nel 1999. Costituisce fatto
notorio che – sia pur con una certa approssimazione – il fenomeno in parola
consiste in una condotta vessatoria, reiterata e duratura, individuale o
collettiva, rivolta nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori
gerarchici (mobbing verticale) e/o colleghi (mobbing orizzontale), oppure anche
da parte di sottoposti nei confronti di un superiore (mobbing ascendente); in alcuni
casi si tratta di una precisa strategia aziendale finalizzata all’estromissione
del lavoratore dall’azienda (bossing). I numerosi progetti di legge presentati
in Parlamento, nella trascorsa e nell’attuale legislatatura, per disciplinare
il mobbing e le sue conseguenze non hanno sortito esito. L’unica indicazione
normativa – non vincolante ai fini della presente decisione, ma pure
significativa, anche dell’attenzione che l’ordinamento giuridico riserva alla
questione – è contenuta nella L.R. Lazio, 11 luglio 2002, n. 16, rubricata
Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del “mobbing” nei luoghi
di lavoro. All’art. 2, comma 1, di tale legge, si afferma che “per “mobbing”
s’intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel
tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o
privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione
sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e
propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”. Da alcuni
precedenti giurisprudenziali di merito che hanno esaminato funditus il problema
e che hanno fatto ricorso, in sede di CTU, a cognizioni scientifiche, si
apprende che, secondo la psicologia del lavoro, il modello italiano di mobbing
consterebbe di uno stadio iniziale e di sei fasi successive che sono state così
descritte: “dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale e
accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si indivuda la
vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale…la seconda fase è
il vero e proprio inizio del mobbing, nel quale la vittima prova un senso di
disagio e di fastidio…La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia
a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua
salute…La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori e abusi
dell’amministrazione del personale…La quinta fase del mobbing è quella
dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che
cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria
prostrazione…la sesta fase, peraltro indicata solo e fortunatamente eventuale,
nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più gravi nel
suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di
pensionamenti, o in licenziamenti” (v. Trib. Forlì, sent. 15.3.2001).
Se questo è il mobbing, certamente il caso di specie –
limitatamente ai periodi di cui si dirà – può esserne considerato un fulgido
esempio. Reputa, tuttavia, il Tribunale che, al di là della questione delle
“etichette” e in assenza di una disciplina normativa che ricolleghi ad un
fenomeno chiamato “mobbing” certe, determinate, conseguenze giuridiche, non
metta conto soffermarsi ulteriormente sulla questione definitoria, né abbia
importanza appurare quale considerazione meriti il caso in esame nell’ambito
della psicologia del lavoro. Per questa ragione – non essendovi stata,
peraltro, richiesta di parte – questo giudice non ha ritenuto rilevante
disporre un’apposita consulenza tecnica d’ufficio. Ciò che rileva, invece, è
analizzare se le condotte vessatorie lamentate in ricorso – che, anche per
comodità lessicale, ben possiamo definire mobbing – e i pregiudizi che si
allega esserne derivati abbiano fondamento e se possano condurre
all’accoglimento delle domande di risarcimento danni avanzate. Così posta, la
questione è eminentemente giuridica e dev’essere valutata alla luce delle
disposizioni del codice civile giustamente evocate in ricorso: l’art. 2087
(letto anche alla stregua degli artt. 1175 e 1375) sul piano della
responsabilità contrattuale e l’art. 2043 sul piano della responsabilità
aquiliana (essendo stata dedotta la lesione di diritti fondamentali della
persona, è infatti pacifica l’ammissibilità del concorso delle due azioni).
Occore, dunque, verificare se nei fatti lamentati dalla ricorrente siano
ravvisabili, da un lato, una situazione d’inadempimento contrattuale o una
condotta dolosa o colposa e, d’altro lato – quale conseguenza – dei danni
risarcibili. A tal fine, il periodo di lavoro dedotto in causa dev’essere
suddiviso in due distinti lassi temporali.
Dall’ottobre 1988 alla fine del 1992. In relazione a questo periodo, non può dirsi provato che
la ricorrente sia stata vittima di illegittime (o illecite) condotte vessatorie
imputabili al datore di lavoro. Giova premettere che, dal 1990 alla seconda
metà del 1992, quando direttore della sede INPS di Pinerolo fu il dott.
PARLAGRECO, per stessa ammissione della parte ricorrente non vi furono problemi
di sorta (cfr. capo 6 del ricorso e dichiarazioni rese nell’interrogatorio
libero: “dal 1990 al 1992 direttore fu il dottor Parlagreco e io lavorai in
totale serenità”). Il lasso di tempo in cui la CANDELO sarebbe stata oggetto di
indebite e ripetute pressioni da parte del proprio capo-reparto dott. RUSSO si
riduce, sostanzialmente, a poco più di un anno. Che negli ultimi mesi del 1988
e nel 1989 vi sia stati problemi tra la lavoratrice e i superiori appare chiaro
leggendo la corrispondenza intercorsa tra gli stessi e la documentazione
prdotta dalla ricorrente (docc. 1-17). Le prove testimoniali, tuttavia, non
hanno confortato le allegazioni al proposito contenute nel capo 6 del ricorso,
ove si afferma che RUSSO avrebbe posto in essere “un asfissiante e arbitrario
controllo sull’attività lavorativa della ricorrente” con “lettere di
contestazione ovviamente infondate”. Certamente ci fu il controllo da parte del
superiore e ci furono le lettere di contestazione, ma non v’è prova che essi
fossero, rispettivamente, arbitrario e infondate, né le ragioni che
determinarono la crisi dei rapporti personali tra RUSSO e CANDELO (vale a dire,
l’ostinato rifiuto di quest’ultima di seguire le interpretazioni che alla
normativa dava il capo-reparto, ritenendole sbagliate) possono essere imputate
al superiore gerarchico.
A quest’ultimo proposito, occorre infatti osservare che sul
principale motivo d’attrito tra i due in ordine all’interpretazione della
disciplina legale applicabile (che consisteva nel disaccordo sul numero massimo
delle visite mediche di controllo ai lavoratori in malattia che potevano
attribuirsi, al giorno, per ciascun medico), la tesi interpretativa della
CANDELO è stata sostanzialmente sconfessata da una testimone (sicuramente
competente in materia) che la stessa ricorrente ha indicato, CAMPOLO Maria.
Questa, infatti, pur premesso che “la norma prevede che in linea di massima si
possano dare tre visite di controllo per ogni fascia oraria per ogni singolo
medico”, ha poi affermato che “in alcune realtà si sono date molte più visite
per ogni singolo medico…anche a Torino”, giustificando tale prassi (che era
quella seguita dal dott. RUSSO e contestata dalla ricorrente) “perché, essendo
obbligati a fare le visite di controllo richiesteci e avendo pochi medici,
dovevamo darne di più”.
Quanto ai controlli e alle lettere di contestazione per
scarsa produttività – e per ritardi accumulati nell’anno 1989 e precisamente
quantificati, in una lettera a cui non risulta essere stata data risposta, in
ben 1.519 minuti – si tratta di attività che rientrano nei poteri (e anche nei
doveri) del superiore gerarchico e questo giudice non ha elementi per ritenere
che si trattasse di atti arbitrari e di rilievi infondati. Anzi, il fatto che,
per il 1989, la ricorrente sia stata esclusa dagli incentivi per scarso
rendimento (fatto eccezionale, a quanto consta, per un ente come l’INPS: cfr.
anche le dichiarazioni rese dal teste SERASSIO) e che, pur avendo contestato
tale decisione per il tramite di un’organizzazione sindacale, la vertenza non
si sia risolta a suo favore (senza che CANDELO ne abbia contestato l’esito in
sede giudiziaria), depone nel senso della correttezza (o, quanto meno, della
non arbitrarietà) dell’operato dell’INPS. Non essendo ravvisabili inadempimenti
contrattuali, non può quindi esaminarsi la questione della risarcibilità di
pretesi danni (che, peraltro, sono stati indicati, per quel periodo di tempo,
in maniera molto sfumata dall’unico testimone escusso sul punto, AUDRITO
Andrea).
Dal 1993 al 2000. In
questo lasso di tempo, e, in particolare, dal gennaio 1994 in avanti – quando
cominciò il grave demansionamento di cui già si è detto – la situazione
lavorativa della CANDELO appare invece connotata da condotte vessatorie
illegittime e ingiustificate che, proprio perché protrattesi a lungo,
sconvolsero la vita lavorativa ed extralavorativa della donna. Una fase
iniziale di accettabile, se pur aspro, conflitto tra lavoratrice e superiori
gerarchici, degenerò in una situazione di patologica “crisi” del rapporto di
lavoro, in cui la lavoratrice, inizialmente reattiva e battagliera, fu
sfiancata dai superiori gerarchici, che la colpirono – con intenti chiaramente
punitivi – affidandole (a lungo) mansioni notevolmente inferiori rispetto al livello
professionale acquisito; queste, data la loro natura, portarono ad un
isolamento della CANDELO rispetto ai colleghi impiegati nell’ordinario processo
produttivo, ne minarono conseguentemente l’autostima determinando i pregiudizi
di cui meglio, di seguito, si dirà e innescarono un “circolo vizioso” che, da
un lato, portò la dipendente a non riuscire a svolgere in modo ottimale il (sia
pur banale) lavoro affidatole e, d’altro lato, le attirò ulteriori riprovazioni
da parte dei superiori.
In particolare, il periodo temporale in questione è
caratterizzato dai seguenti aspetti.
A) Nel
1993 CANDELO fu incaricata, insieme ai colleghi SCILLITANI e SAPONE, di gestire
uno sportello aperto al pubblico di nuova istituzione, denominato “progetto
estratto conto unificato” e ampiamente pubblicizzato dall’INPS. In sostanza,
dopo aver ricevuto un estratto conto della loro situazione contributiva, i
lavoratori – personalmente o per il tramite dei patronati – potevano rivolgersi
al nuovo sportello dell’Istituto per avere chiarimenti sulla loro situazione o
per richiedere integrazioni e correzioni dell’estratto conto. A causa della
novità del servizio e del grandissimo numero di utenti che accedevano allo
sportello (molti dei quali, peraltro, necessitavano di fare chiarezza sulla
propria situazione contributiva al fine di poter accedere ai benefici previsti
dalla l. 223/1991 sulla mobilità, il cui termine di scadenza era fissato al
31.12.1993), il lavoro era intensissimo e molto tempo doveva essere dedicato al
contatto col pubblico, sicché era impossibile soddisfare altresì i requisiti di
produttività nell’archiviazione delle pratiche eseguite. Di ciò hanno riferito
i testi SCILLITANI e SAPONE. Non di meno, i tre addetti – la cui solerzia e
competenza nell’adempimento delle mansioni otteneva positivi riscontri dagli
utenti (cfr. deposizioni testi ACQUACHIARA e BARDO) – erano sottoposti ad una
esagerata pressione psicologica ad opera del capo-reparto SERASSIO, il quale,
con cadenza quasi settimanale richiedeva loro (ma in modo particolare alla
CANDELO), anche per iscritto, i dati di produzione, ne contestava la non
conformità agli standars previsti e sollecitava lettere di richiami del
direttore della sede (che puntualmente giungevano) con richiesta di
giustificazioni (altrettanto puntualmente fornite dai lavoratori). Dalla
lettura della corrispondenza intercorsa in quel periodo (cfr. docc. 19-27 di
parte ricorrente) tra azienda, lavoratori e organizzazioni sindacali (che
intervennero a sostegno dei dipendenti), si ricava come la pretesa aziendale di
una produttività conforme ai dati stabiliti a livello nazionale in sede di
contrattazione collettiva non teneva nel debito conto le condizioni di
particolare affluenza del pubblico (e le difficoltà che ogni nuovo progetto
incontra nella prima fase di attuazione) che caratterizzavano l’attività svolta
da CANDELO e dai suoi due colleghi, sicché appare non conforme agli obblighi di
correttezza e buona fede l’asfissiante
e continuo controllo esercitato (cui, peraltro, non seguì mai l’adozione di
provvedimenti sanzionatori, segno che lo stesso direttore VITARI, come trapela
dalle lettere da lui scritte, in realtà non riteneva i dipendenti colpevoli di
negligenza, anche se concorreva con SERASSIO nel ternerli “sotto pressione”).
In questo periodo, la ricorrente fu altresì vittima di “dispetti” da parte del
superiore SERASSIO, come il diniego a fruire di un periodo di ferie
precedentemente concordato, benché le esigenze d’ufficio non richiedessero
necessariamente la presenza della CANDELO, tanto da richiedere il personale
intervento “di supplica” del marito della ricorrente – che già aveva prenotato
il soggiorno per una breve vacanza con tutta la famiglia e con amici – per
vincere, infine, l’opposizione del superiore (cfr. deposizioni testi SAPONE e
AUDRITO). Si è già ricordato, inoltre, il fatto che alla ricorrente furono
affidate, per un certo periodo, mansioni
che lo stesso VITARI, per iscritto, giudicò non confacenti al livello di
inquadramento.
B) A
partire dal gennaio 1994 – a seguito di una contestazione disciplinare relativa
ad errori commessi nello svolgimento della mansione (contestazione, questa,
che, almeno in parte, non si ha motivo di ritenere infondata, tenuto conto
delle non convincenti giustificazioni addotte dalla ricorrente, e delle sue
parziali ammissioni di responsabilità, e del fatto che il conseguente
provvedimento di deplorazione scritta non è stato contestato) – la ricorrente
fu trasferita ad altro ufficio e, come più sopra si è detto, iniziò il periodo
di grave demansionamento. Ciò che rende più riprovevole l’adibizione a mansioni
inferiori è che essa deve ritenersi assunta (e poi mantenuta) con intento
punitivo (quindi, quale illegittima e atipica “sanzione disciplinare”), proprio
a causa delle mancanze cui più sopra si accennava (e delle contestazioni
successivamente mosse): nella lettera di deplorazione del direttore VITARI del
12.4.1994 si legge, infatti, che “la negligenza mostrata…rivela scarse
attitudini ad espletare le mansioni proprie della qualifica rivestita”, frase,
questa, che – se letta nel contesto di ciò che era appena avvenuto (vale a dire
l’attribuzione di mansioni di gran lunga inferiori) – rivela le ragioni sottese
alla violazione dell’art. 2103 c.c. Deve, inoltre, osservarsi che il direttore
fu probabilmente contrariato anche dal fatto che l’iniziale sua decisione di
adibire la CANDELO alla reception dovette essere revocata a seguito della
presentazione, da parte della ricorrente, di certificazione medica (poi
convalidita dal medico legale dell’INPS) che attestava la necessità che la
dipendente lavorasse in un ambiente ben riscaldato (quale non era la reception,
posto che attraverso il locale in questione affluivano, direttamente
dall’esterno, con conseguente frequente apertura della porta, le numerose persone
che si recavano giornalmente all’Istituto).
C) Nel
periodo in cui la ricorrente fu costretta a svolgere mansioni inferiori ella fu
oggetto, inoltre, di atteggiamenti vessatori da parte dei superiori, volti a
lederne l’immagine e la personalità morale intesa in senso lato, ad
infastidirla, a metterla in imbarazzo davanti ai colleghi. In alcuni casi si
trattava di atti illegittimi, in altri casi di provvedimenti che – pur
rientranti nei poteri del datore di lavoro – presentavano caratteri anomali che
ne disvelavano l’intenzione ingiustamente punitiva, in altri casi ancora di
condotte soltanto moralmente riprovevoli (anche da parte di colleghi) aventi lo
stessso scopo di “colpire” un dipendente oramai caduto in disgrazia. Si
considerino i seguenti esempi:
- nel luglio 1996, il direttore VITARI – a distanza di 12
giorni, quando la ricorrente già si trovava in ferie – le spedì nel luogo di
villeggiatura una lettera di contestazione (doc. 40 di parte ricorrente) e
affisse nella bacheca aziendale (conferendo così un’anomala pubblicità alla
vicenda) l’avviso di avvio del procedimento disciplinare; i fatti contestati
appaiono essere stati eccessivamente enfatizzati e, anche a causa di una
lettera di giustificazioni della ricorrente dal contenuto chiaramente remissivo,
sono stati frettolosamente ritenuti come ammessi nonostante risultassero
elementi di segno contrario (si vedano, a questo proposito, le dichiarazioni
rese dalla teste MANE’), mentre la vicenda, soprattutto se giudicata così grave
come l’INPS ha mostrato di ritenere, avrebbe probabilmente meritato un più
attento approfondimento, anche per capire, ad esempio, chi era il dipendente –
pacificamente diverso dalla CANDELO – che aveva portato il proprio figlioletto
sul luogo di lavoro e che, in definitiva, era responsabile della sua condotta;
ma, a prescindere dal merito della vicenda, i tempi (vale a dire il periodo in
cui la lavoratrice era in ferie, benché non si potesse oramai più parlare di
immediatezza rispetto alla data del fatto) e i modi scelti per muovere la
contestazione rivelano un particolare
accanimento;
- l’atteggiamente intimidatorio e persecutorio (tanto da
provocare nella ricorrente crisi di pianto in ufficio, delle quali hanno
riferito numerosi testimoni) tenuto nei confronti della CANDELO dalla
capo-reparto TRANCHIDA negli anni 1997 e, in particolare, 1998, con sfuriate e
rimproveri mossi ad alta voce e in modo tale che potessero essere uditi dai
colleghi;
la rinnovata abitudine, del capo reparto e del nuovo
direttore, di muovere rilievi disciplinari (docc. 45-47 di parte ricorrente),
cui la ricorrente replicò con dettagliate spiegazioni, in data 22.12.1998 (doc.
48), evidentemente ritenute accoglibili, posto che le contestazioni non ebbero
seguito sul piano disciplinare;
- il conseguente cambiamento di mansioni adottato con
provvedimento del 28.12.1998 – nuovamente spiegabile in anomala chiave punitiva
rispetto alle contestazioni di cui si è appena detto – con attribuzione di
compiti parimenti dequalificanti e con l’ulteriore disposizione di lavorare, da
sola, in una stanza adiacente a quella del direttore, e con questa comunicante
per il tramite di una porta a vetri, così da ingenerare il timore di essere
“controllata a vista”;
timore fondato, considerata l’ingiustificata “scenata” fatta
pubblicamente dal direttore PALMISANO alla ricorrente, in presenza di colleghi,
nel giugno 1999, perché questa – su richiesta, peraltro, di un funzionario di
livello superiore – si era recata a dare una mano a colleghi che necessitavano
di aiuto ed aveva osato “allontanarsi” dalla stanza che le era stata assegnata
(episodio, peraltro non contestato da parte convenuta, di cui hanno riferito il
teste AUDRITO e di cui si parla nella lettera di protesta della CANDELO del
23.6.99);
- il generale atteggiamento ostile nei confronti della
CANDELO che, in conseguenza delle chiarissime prese di posizione dei superiori
e della direzione, anche alcuni colleghi pari livello furono indotti a tenere:
si considerino le eloquenti dichiarazioni del teste SAPONE: “i superiori un po’
la prendevano di mira: bastava una virgola sbagliata ed erano rimproveri…sentii
Tranchida che diceva Candelo ha fatto questo o quell’altro…ricordo fatti
episodici, ma messi tutti insieme diventavano fatti continuativi ed era sempre
lei ad essere presa di mira o segnalata…ad esempio andava a portare un
certificato in banca, trovava coda, e i colleghi e superiori si lamentavano
perché non tornava. Mentre per altri colleghi, in casi simili, una
giustificazione si trovava, per lei non si trovava mai nessuna
giustificazione”; si consideri, altresì, il fatto – riferito dalla teste BARDO,
utente dell’Istituto – che il portinaio della sede INPS, alla richiesta della
stessa BARDO di poter parlare con la ricorrente (alla quale si era rivolta, con
soddisfazione, qualche tempo prima per una pratica pensionistica), disse che la
CANDELO non era più lì e soltanto a seguito delle rimostranze dell’utente (che
conosceva l’auto della ricorrente e l’aveva vista sul piazzale), si risolse ad
indicarle dove fosse il suo luogo di lavoro.
3. La responsabilità
dell’INPS. In ordine alle condotte di demansionamento e
di mobbing più sopra descritte deve affermarsi la responsabilità di parte
convenuta, sia sul piano contrattuale, sia sul piano extracontrattuale. Quanto
al primo aspetto, se è conclamato l’inadempimento dell’obbligo statuito
nell’art. 2103 c.c., è altrettanto chiara la violazione dell’art. 2087 c.c.,
nella parte cui obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure
necessarie a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro, anche
alla luce dell’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede (artt. 1075
e 1375 c.c.). Non soltanto, infatti, la convenuta non ha assolto all’onere
della prova che le incombeva in ordine all’adempimento di tali obbligazioni, ma
le circostanze sopra riepilogate mostrano, al contrario, come la lesione della
personalità morale della CANDELO – costretta per anni a svolgere mansioni
dequalificanti e a subire vessazioni da parte dei superiori gerarchici – sia
stata posta in essere direttamente (o comunque avallata) da chi, presso la sede
INPS di Pinerolo, rappresenta il datore di lavoro, vale a dire il direttore.
Vane, peraltro, sono state le reiterate richieste scritte avanzate dalla ricorrente per far cessare le
ostilità ai suoi danni, nelle quali ella esplicitava lo stato di sofferenza
psicologica ed esistenziale in cui si trovava (cfr. docc. 36, 51, 55, 56, 57,
59, 64). Accertato, quindi, l’inadempimento dell’INPS agli obblighi nascenti
dal contratto, la ricorrente ha diritto al risarcimento del danno, del quale
più oltre si dirà.
Quanto alla responsabilità
extracontrattuale, come già si accennato – e come meglio si porrà in evidenza
di seguito, analizzando i concreti pregiudizi patiti dalla ricorrente a causa
delle condotte poste in essere dai superiori – nel caso di specie vengono in
rilievo (anche) danni alla persona, in violazione di diritti costituzionalmente
garantiti, sicché, giusta consolidato orientamento giurisprudenziale, è
ammissibile il concorso dell’actio ex lege Aquilia con l’azione di
responsabilità contrattuale. Per quanto si appena osservato, è sicuramente
ravvisabile (quanto meno) la colpa nei confronti dei superiori gerarchichi
della ricorrente, colpa specifica per violazione di legge (in particolare, gli
artt. 2103 e 2087 c.c.), e dei danni cagionati dal preposto nell’adempimento
delle sue funzioni, il datore di lavoro risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c.
4. I danni
risarcibili. Prima di esaminare i concreti pregiudizi
conseguenti all’inadempimento dell’INPS e al fatto illecito dei suoi
dipendenti, occorre chiarire quali tipologie di danno vengono astrattamente in
rilievo nel caso di episodi di demansionamento e mobbing. Sul punto, infatti,
gli orientamenti espressi in giurisprudenza non sono concordi e, prudentemente,
la difesa di parte ricorrente ha
invocato tutti i profili di danno conosciuti dalla prassi giudiziaria. Ritiene,
tuttavia, il giudicante che sia fuorviante fare ricorso – come spesso si è
fatto, soprattutto con riguardo alla violazione dell’art. 2103 c.c. – a pretese
categorie di danno che sarebbero tipiche degli inadempimenti in parola, quale
il c.d. “danno alla professionalità”. Le categorie del pregiudizio risarcibile
sono, anche in questi casi, quelle generali, e pure su questo punto – stante la
varietà di opinioni – occorre fare chiarezza.
In conformità ad una consolidata
tradizione, si suole distinguere tra danno patrimoniale e danno non
patrimoniale, ma la definizione di tali concetti – e di quest’ultimo in
particolare – è controversa. La necessità di distinzione s’impone, com’è noto,
per via della limite che l’art. 2059 c.c. pone alla risarcibilità di quello che
ivi è definito “danno non patrimoniale” e che delimita la portata generale che
altrimenti dovrebbe riconoscersi all’art. 2043 c.c. Nonostante la tradizionale
lettura in termini “patrimonialistici” che di tale ultima disposizione è stata
data, essa non pone, infatti, alcun limite alla natura del danno risarcibile.
Per l’art. 2043 c.c., è risarcibile qualsiasi profilo di danno (incida esso sul
patrimonio oppure no), purché sia “ingiusto”, e – secondo l’ampia accezione
affermatasi in progresso di tempo e di recente accolta dalla Corte Suprema, che
riconosce alla norma la portata di una clausola generale primaria – tale è il
“danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si
risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento” (Cass. S.U.,
sent. 22.7.1999 n. 500).
Ciò premesso, si deve affermare che il danneggiante è tenuto
al risarcimento di qualsiasi tipo di pregiudizio consegua al fatto illecito,
salvo il “danno non patrimoniale” di cui all’art. 2059 c.c., che può essere
risarcito nei soli casi specificamente determinati dalla legge
(tradizionalmente coincidenti con la commissione di illeciti penali, anche se,
nell’ultimo decennio, diverse altre ipotesi settoriali sono state previste). Al
proposito, in conformità all’autorevole insegnamento della Corte costituzionale
– accolto dal prevalente orientamento della giurisprudenza – questo Tribunale
ritiene che la limitazione posta dall’art. 2059 c.c. (che, altrimenti, sarebbe
incompatibile con la Costituzione) valga per il solo danno morale soggettivo,
coincidente con l’ansia, l’angoscia, le sofferenze psichiche o fisiche, il
perturbamento dello stato d’animo (cfr. C. Cost., sent. 14.7.1986 n. 184). Come
ha di recente affermato la Suprema Corte in materia di tutela dei diritti
personali del lavoratore lesi dal datore di lavoro, deve quindi ritenersi che
“la lettura conforme alla Costituzione delle norme che disciplinano la
responsabilità civile impone di interpretarle nel senso che, in caso di lesione
di un diritto fondamentale della persona, il rimedio del risarcimento del danno
non possa essere negato per il fatto che il pregiudizio sofferto non sia di natura
patrimoniale, e ciò in via generale e non alla stregua della circoscritta
previsione dell’art. 2059 c.c.”, precisando, tuttavia – sulla scorta della
sent. Corte cost. 27.10.1994 n. 372 – che, in tali casi, “se è indiscutibile
che la prova della lesione è, in re ipsa, anche prova dell’esistenza del danno,
è pur sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la
dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello
indicato dall’art. 1223 c.c.” (Cass., Sez. Lav., sent. 3.7.2001 n. 9009).
Le
considerazioni svolte con riguardo al settore della responsabilità civile
debbono ritenersi valide anche sul piano della responsabilità contrattuale. Del
resto, l’art. 1223 c.c. – ad onta, pure qui, di una tradizionale lettura in
senso patrimoniale – prevede la risarcibilità, accanto al lucro cessante, di
qualsiasi “perdita” l’inadempimento abbia causato (senza richiedere,
necessariamente, che essa abbia natura economica). Se, quindi, da un lato, il
danno morale in senso stretto quale più sopra si è definito non costituisce
“perdita”, sicché – al di là della formale inapplicabilità dell’art. 2059 c.c.,
che opera soltanto per i fatti illeciti – esso non rientra nell’art. 1223 c.c.,
dall’altro lato, la disposizione considera qualsiasi altra perdita di un bene
giuridicamente rilevante.
Con riguardo ai danni che colpiscono la persona, poi, la
Cassazione insegna che essi possono “consistere nella lesione dell’integrità
fisio-psichica, cioè nel danno alla salute o danno biologico in senso stretto,
oppure in quello che più genericamente si designa come “danno esistenziale”, al
fine di coprire tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della
persona umana (es. impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un
ambiente salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della
propria vita lavorativa)”, poiché “non
è solo il bene della salute a ricevere una consacrazione costituzionale sulla
base dell’art. 32, ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell’uomo
nell’ambito della famiglia o di altra comunità” gode di una speciale
considerazione negli artt. 2 e 29 Cost., sicché “tanto i pregiudizi alla salute
quanto quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di natura non
patrimoniale, non possono essere lasciati privi di tutela risarcitoria, sulla
scorta di una lettura costituzionalmente orientata del sistema della
responsabilità civile”.
Sulla scorta delle argomentazioni sopra svolte, deve quindi
concludersi che, in materia di danni alla persona, accanto alle tradizionali
tipologie del danno patrimoniale, del danno morale strettamente inteso e del
danno biologico, viene in rilievo anche la categoria del danno esistenziale.
Nell’area del danno non patrimoniale, essa si distingue da quella del danno
morale – oltre che per il diverso regime giuridico, la prima rientrando nella generale disciplina di cui all’art.
2043 c.c e la seconda essendo soggetta alla previsione dell’art. 2059 c.c. –
per la sua caratteristica di abbracciare quelle compromissioni dell’esistenza
quotidiana che siano “naturalisticamente” accertabili e percepibili,
traducendosi in modificazioni peggiorative del normale svolgimento della vita
lavorativa, familiare, culturale, di svago, laddove, come si è detto, il danno
morale è un pati interiore che prescinde da qualsiasi ricaduta sull’agire
umano. E’ ben vero che la sofferenza, l’angoscia, il malessere psichico (non
rilevante come patologia medica) possono indurre sostanziali cambiamenti
nell’esistenza quotidiana; occorre tenere conto, tuttavia, che, per un verso,
non sempre ciò accade e, per altro verso, laddove tale consequenzialità si
apprezzi saranno ravvisabili due distinte “voci” di danno, sicché, sul piano
della liquidazione – necessariamente equitativa – occorrerà valutare
attentamente, e distintamente, la natura e la gravità dei diversi profili di
pregiudizio per indennizzare “tutto” il pregiudizio, evitando, però,
duplicazioni risarcitorie. Dal danno biologico – che, pure, rientra in una
concezione lata di danno esistenziale, posto che, in tal caso, ciò che si
risarcisce non è la lesione psico-fisica in sé, ma la ricaduta che essa produce
sull’agire non reddituale del danneggiato (cfr. C. cost., sent. 372/1994),
sicché il regime giuridico è il medesimo – il danno esistenziale (in senso stretto)
si distingue a seconda che, a monte, vi sia una lesione del bene della salute
fisica o psichica (accertabile con una consulenza medico-legale), ovvero
l’iniuria concerna la lesione di altri beni della persona giuridicamente
rilevanti.
4. Sulla scorta di
queste premesse, occorre dunque esaminare le “voci” di danno di cui parte
ricorrente lamenta l’esistenza e di cui chiede il risarcimento.
A) Il
preteso “danno alla professionalità”. Ritiene
il Tribunale che il panorama delle categorie concettuali di danno sopra
riepilogate sia esaustivo, potendo esservi ricondotte tutte le “perdite” che,
in concreto, una condotta illecita (o inadempiente) può determinare. Non appare
quindi necessario richiamare il concetto di “danno alla professionalità” – che
pure viene normalmente evocato in giurisprudenza nei casi di violazione
dell’art. 2103 c.c. – trattandosi di una categoria disomogenea, cui sono stati
ricondotti pregiudizi di svariata natura, i quali si fondono (e si confondono)
in un contenitore che, a ben vedere, appare, per un verso privo di coerenza
logica e sistematica e, per altro verso, foriero di complicazioni processuali,
sia quanto al problema della prova del pregiudizio, sia quanto alla sua
liquidazione. Guardando alla giurisprudenza che ha fatto uso del paradigma in
questione si comprende, infatti, come
esso sia stato utilizzato per compensare
i diversi tipi di danno causati dal demansionamento, condotta, questa,
che può ledere la professionalità del lavoratore (depauperandola o non
consentendone l’incremento, con il conseguente pregiudizio sulla possibilità di
carriera e sulla minor competitività nel mercato del lavoro: v. Cass. 7.7.2001
n. 9228), ma anche la sua dignità professionale (intesa quale diritto di
manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo:
Cass. 2.1.2002 n. 10) e la sua immagine all’interno e all’esterno dell’azienda
(con possibili riflessi economici e morali: C. App. Milano 11.5.2001); può poi
determinare danni biologici (soprattutto di carattere psichico: Trib. Torino,
27.6.2001) e, più raramente (perché non è frequente la realizzazione di reati),
danni morali. Inoltre – considerando le ripercussioni negative che un
demansionamento o, addirittura, una forzata e duratura inattività, producono
sulla quotidiana esistenza del
lavoratore – si è talvolta parlato di danni alla vita di relazione (Cass.
6.11.2000 n. 14443).
Sul rilievo che il demansionamento comporta – pressoché
sempre – un pregiudizio alla
professionalità (a volte intesa quale elemento che consente al lavoratore di
concorrere sul mercato del lavoro e, dunque, di ottenere reddito e, a volte,
intesa, anche o soltanto, come lesione di un diritto della personalità) e
all’immagine o al decoro professionale del
prestatore d’opera, la più recente giurisprudenza di merito e
legittimità – richiamata in ricorso – suole ritenere che tali danni siano in re
ipsa, potendo essere desunti (e liquidati) sulla base di comuni regole di
esperienza, valutabili quali indizi di carattere logico. Gli ulteriori profili
di danno (salvo quello biologico, sempre tenuto ben distinto e liquidato
soltanto a seguito di rigorosa prova), sono spesso ricompresi in tali
pregiudizi e, in linea di massima, si afferma che l’intero danno da perdita di
professionalità trova ristoro nel riconoscimento di una somma corrispondente ad
una certa percentuale della retribuzione mensile o – come ha richiesto la
difesa di parte ricorrente nel caso di specie – nell’importo corrispondente
alla differenza tra la retribuzione prevista per l’inquadramento assegnato al
dipendente e l’inferiore livello in cui rientrano le mansioni di fatto
assegnate.
Una parte
della più recente giurisprudenza di merito e legittimità (Cass., 14.11.2001 n.
14199; Trib. Treviso, 13.10.2000) si mostra invece consapevole della
plurioffensività della condotta posta in essere in violazione dell’art. 2103
c.c. e, anche ai fini risarcitori, rifiutando l’omnicomprensiva categoria del
“danno alla professionalità”, tende a distiguere le varie “voci” di danno.
Siffatto metodo – ritiene questo Tribunale – è senza dubbio preferibile,
sicché, facendo impiego delle comuni categorie descrittive del danno quali più
sopra delineate, occorre innanzitutto distinguere il danno patrimoniale (danno
emergente per diminuzione di retribuzione conseguente alla dequalificazione e
per perdita di chances, o lucro
cessante per la concreta perdita di possibilità di carriera interne all’azienda
o di migliori impieghi) dal danno non patrimoniale. All’interno di quest’ultima
categoria bisogna poi distinguere il danno biologico (che può assumere le forme
di malattia psichica), il danno morale (ravvisabile in caso di reato) e il
danno esistenziale, inteso come sconvolgimento della vita familiare, lavorativa
e sociale conseguente al demansionamento.
B) Il danno biologico. Parte ricorrente
ha allegato che dalla condotta di demansionamento e mobbing imputabile all’INPS
sarebbe derivato un danno biologico temporaneo del 30% - così quantificato dal
consulente di parte dott. MAGLIONA – qualificabile come “disturbo dell’adattamento
con significativa componente occupazionale” (diagnosticato dai sanitari della
Clinica del Lavoro L. Devoto dell’Università di Milano). Rileva, al proposito,
il giudicante che, in mancanza di un attendibile valutazione medica compiuta su
dati di fatto oggettivi, non possa ritenersi provata l’esistenza di una
patologia in senso medico-legale. In primo luogo, deve osservarsi come la
diagnosi formulata nel febbraio 2000 dai clinici dell’Università di Milano
consegua ad accertamenti diagnostici che questo giudice non è stato posto in
grado di valutare (a parte il referto della visita neurologica, essi sono
soltanto menzionati nella lettera di dimissioni prodotta come doc. 63), mentre
il giudizio del dott. MAGLIONA si è fondato (oltre che, e soprattutto, su tale
diagnosi) soltanto su alcuni certificati medici, alcuni dei quali (quelli del
1989 e del 1992) inutilizzabili perché
antecedenti al periodo per il quale è stata riconosciuta la responsabilità
della convenuta e altri non significativi (il certificato del 14.6.1999
riguarda una crisi d’ansia acuta a seguito della “scenata” subita quel giorno
dal direttore PALMISANO – della quale già si è detto – senza indicazione di
prognosi, mentre il certificato del medico curante dott. TORNONI non è nemmeno
stato prodotto in causa e sembra comunque trattarsi di un parere rilasciato
appositamente per il presente giudizio). In secondo luogo, i tratti salienti
della pretesa patologia quali rilevabili dalla lettera di dimissioni
dell’Università di Milano (ansia e umore depresso) sembrano costituire – come,
peraltro, espressamente si legge nel referto della visita neurologica – un non
meglio qualificato “stato di disagio psicofisico”, che è stato correlato (non
tanto ad una situazione di alterazione organica, quanto) alla conflittualità ed
emarginazione vissuti nell’ambiente di lavoro. Il principale rimedio suggerito,
del resto, è stato l’inserimento in gruppi di auto-aiuto, mentre la
farmacoterapia (peraltro di carattere antidepressivo) è stata ritenuta soltanto
“utile” (e non, quindi, necessaria), sicché appare fortemente dubbia (e non può
dirsi provata) la sussistenza di una vera e propria malattia. Si consideri, da ultimo, che parte
ricorrente – probabilmente consapevole della difficoltà di fornire un’adeguata dimostrazione
del danno biologico lamentato – non ha nemmeno richiesto che fosse disposta una
CTU medico-legale.
C) Il danno morale. Se il turbamento
psichico di cui si è appena detto non sembra valutabile quale patologia,
certamente esso rientra nella nozione del danno morale di cui più sopra si è
detto. Nel caso di specie, però, la limitazione contenuta nell’art. 2059 c.c.
impedisce di ottenerne il risarcimento. La richiesta – non meglio specificata
in ricorso – poggia, probabilmente, sul fatto che l’esistenza dell’allegata
patologia avrebbe consentito di ravvisare il reato di lesioni (quanto meno)
colpose. Disattesa questa prospettazione, non essendo ravvisabile (e neanche
allegato), alcun altro illecito penale nella condotta tenuta dai superiori
gerarchici della ricorrente, la relativa domanda deve quindi essere disattesa.
D) Il danno esistenziale. Su questo
piano, la domanda è certamente fondata. Lungi dall’aver prodotto soltanto meri
turbamenti d’animo e disagi psichici o pure sofferenze, le vessazioni e il
demansionamento subiti dalla ricorrente hanno infatti determinato un
apprezzabile, e concreto, peggioramento delle condizioni di vita della CANDELO,
sia sul posto di lavoro, sia nel mondo extralavorativo. Nel caso di specie, è
quindi possibile affermare la sussistenza del danno esistenziale, seguendo gli
insegnamenti della Corte di cassazione, che, al proposito, osserva come “il
pregiudizio di un diritto inviolabile della personalità deve essere da colui
che lo invoca allegato e provato (sia pure con ampio ricorso alle presunzioni,
allorché non si versi nell’ambito del pregiudizio della salute in senso
stretto, in relazione al quale l’alterazione fisica o psichica è oggettivamente
accertabile), nei suoi caratteri naturalistici (incidenza su di una concreta
attività, pure non reddituale, e non mero patema d’animo interiore) e nel nesso
di causalità”, sicché, “su di un piano diverso e logicamente successivo, una
volta accertato il cd. danno evento (cioè il pregiudizio del diritto
fondamentale), si colloca la valutazione del cd. danno-conseguenza, cioè
dell’entità del sacrificio sofferto, ai fini di una liquidazione naturaliter
equitativa” (Cass., sent. 9009/2001).
Nel caso di
specie, quello che il giudice della nomofilachia, nella decisione appena citata,
indica come danno-evento – ma che meglio potrebbe essere definito, come insegna
Cass. S.U. n. 500/1999, quale interesse giuridico protetto dall’ordinamento che
consente di ritenere ingiusto il conseguente pregiudizio – è la lesione della
personalità morale della dipendente (art. 2087 c.c.), del suo diritto a
svolgere mansioni confacenti con il livello d’inquadramento attribuito (art.
2103 c.c.), della sua dignità quale donna e lavoratrice (art. 41, comma 2
Cost.), del suo diritto a realizzarsi, senza indebite costrizioni, nel mondo
del lavoro e in altre formazioni sociali, in particolare in seno alla famiglia,
ove la donna lavoratrice deve poter svolgere serenamente la propria essenziale
funzione anche materna (artt. 2, 29, 37 comma 1 Cost.). Or bene, osserva il
giudicante come tali interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento siano
indubbiamente stati lesi e come ne siano conseguentemente derivati pregiudizi
alla quotidiana esistenza della CANDELO con particolare riguardo al mondo del
lavoro e a quello familiare.
Circa il primo
aspetto della questione, è agevole rilevare che la qualità della vita
lavorativa della CANDELO peggiorò sensibilmente a far tempo dal gennaio 1994,
quando cominciò ad essere attuato il demansionamento e dopo che, nel precedente
anno 1993, la lavoratrice già era stata fatta oggetto di indebite ed esagerate
pressioni da parte dei superiori (sicché se ne era già vulnerata la capacità di
reazione). Già si è detto dell’illegittima costrizione a svolgere mansioni
dequalificanti, delle “sfuriate” dei superiori, dell’accanimento disciplinare,
delle non sporadiche crisi di pianto sul luogo di lavoro. A ciò si aggiungano,
per qualificare la gravità del peggioramento dell’esistenza lavorativa, i
seguenti, ulteriori, elementi raccolti nel corso dell’istruttoria testimoniale
e riferiti al periodo 1994-2000:
- la particolare prostrazione psicologica che la costrizione
a svolgere così a lungo mansioni inferiori cagionò alla CANDELO: ha riferito la
teste MANE’ “ricordo momenti di sconforto da parte della ricorrente perché era
adibita esclusivamente a quel lavoro di acquisizione certificati. Sentiva che
perdeva di professionalità e mi chiedeva come uscirne…rimasi di nuovo assente
per malattia e tornai nell’ottobre 1995. La ritrovai adibita al medesimo
lavoro, la trovai molto sconfortata; chiedeva una reintegrazione in altre
mansioni, ma non riusciva ad uscirne fuori”;
- la trasformazione che lo stato di stress lavorativo dovuto
all’inadempienza del datore di lavoro determinò nella ricorrente e che molti –
soprattutto coloro che l’avevano conosciuta in epoca precedente e che per
qualche anno non la frequentarono – colsero
(testi BERTIN, CAMPOLO, MANE’); in particolare, la collega CAMPOLO, che
aveva consciuto CANDELO negli anni ’80, la rivide, dopo molti anni, nel 1999 e
così ha dichiarato: “vidi una persona parecchio diversa da come l’avevo
conosciuta. Sembrava un pulcino bagnato, molto magra, molto ansiosa, l’ho vista
piangere un po’ di volte, cosa che a me era sconosciuta. Mi parlò di problemi seri
che aveva dal punto di vista lavorativo. Lei era ossessionata dal fatto di
andare in ufficio perché aveva un ambiente ostile, face dei lavori
dequalificanti era molto depressa”;
- l’estrinsecazione, da parte della ricorrente, del proprio
grave disagio sul luogo di lavoro nei confronti di tutti coloro con cui ebbe
modo di rapportarsi (ACQUACHIARA, SAPONE, BERTIN, CALLIERO, SCILLITANI,
MATASSA, CAMPOLO, MANE’);
- il progressivo sconvolgimento della vita lavorativa dovuto
agli abnormi controlli di cui era fatta oggetto da parte dei superiori:
“ricordo poi di averla incontrata al 5° piano, in una stanza adiacente alla
direzione. I due uffici sono comunicanti internamente da una porta a vetri e
così il direttore poteva vedere se le persone entravano in quella stanza. I
nostri rapporti quindi vennero meno, perché avevo paura a farmi vedere
dialogare con la signora…viveva un momento di sconforto ancora maggiore di
quanto accadeva quando lavorava al lettore ottico” (MANE’); “quando ci
sentivamo al telefono, lei parlava a voce molto bassa; mi diceva che se
abbassava improvvisamente il telefono significava che non poteva più parlare.
Mi spiegò che si sentiva controllata, che era stata collocata in ufficio vicino
al direttore e lei era ansiosa e si sentiva male” (CAROLI); “nel 1999 venna a
parlare con me. L’impatto per me fu
duro. Vidi la ricorrente piangere; era in uno stato di prostrazione e
umiliazione notevole. La signora mi raccontò di essere oggetto di vessazioni da
parte del direttore della sede di Pinerolo” (SCALIA);
- la grave compromissione
della vita lavorativa indusse poi la ricorrente a fare scelte che, altrimenti
non avrebbe fatto (anche per i pregiudizi economici che ne conseguirono), come
il mantenimento dell’orario a tempo parziale pur quando vennero meno le
esigenze familiari che avevano determinato l’opzione (la necessità di accudire
al figlio ancora piccolo) e, infine, la richiesta di trasferimento alla ben più scomoda sede di Torino al solo scopo
di sfuggire ad una situazione di vessazione continua oramai divenuta
insostenibile, dopo aver in ogni modo cercato di ottenere (tramite
richieste ai superiori, alla sede
regionale, alle organizzazioni sindacali) la cessazione delle condotte
inadempienti e lesive (testi AUDRITO, CAMPOLO, SCALIA);
- che gli sconvolgimenti esistenziali di cui si è parlato
dipendessero soltanto dalle vessazioni patite sul lavoro, lo si ricava – in
termini di ragionevole certezza (cfr., sul punto, anche il conforme giudizio
medico dei sanitari dell’Università di Milano) – dal fatto che, dopo il
trasferimento alla sede di Torino, la cessazione delle ostilità nei suoi
confronti, il ripristino in mansioni confacenti all’inquadramento, la
precedente buona qualità della vita (lavorativa e non) fu in breve recuperata,
salvo il solo disagio conseguente alla scomodità del viaggio per raggiungere la
nuova sede (testi AUDRITO, CAMPOLO, SCALIA).
Secondo criteri logici di normalità, è poi agevole desumere
come la grave situazione lavorativa appena tratteggiata non potesse non
ripercuotersi al di fuori del mondo nel lavoro, ledendo, in particolare, la
vita familiare e le attività di svago e ricreazione. Di ciò, peraltro, ha
riferito – in modo apparso indubbiamente attendibile, anche per i riscontri
documentali – il teste AUDRITO, marito della ricorrente: “una cosa che ha
inciso sulla famiglia, fu la questione delle ferie. Mia moglie pianificava per
tempo la richiesta di ferie, arrivato il momento di andare in ferie, magari con
tutto prenotato, le veniva spesso detto che c’era una qualche ragione per cui
non si potevano più concedere…in molti casi le lettere di contestazione
arrivavano un giorno o due prima dei periodi di ferie, sicché ci rovinavano la
vacanza…quando arrivavano le lettere cominciava ad avere periodi di insonnia,
coliti, momenti di pianto e depressione che dopo un po’ si risolvevano. Con
l’andare del tempo subentrò però un periodo d’ansia. Il colpo peggiore giunse
nell’ultimo periodo quando fu isolata nella stanza di fianco al direttore…mia
moglie è una persona estroversa e l’isolamento mise in crisi anche la sua
autostima…oggi, per fortuna, a casa si parla di altre cose e non di INPS, come
era successo nei lunghi anni precedenti. Non dico tutti i giorni, ma spesso,
arrivata a casa, con mia moglie si doveva parlare a lungo per aiutarla a
ripartire…d’accordo con la famiglia, telefonammo ad una nostra conoscente
psicologa del San Luigi di Orbassano, perché la situazione si era fatta
insostenibile, aveva frequenti crisi di pianto e ci consigliò una psichiatra
del San Luigi. Mia moglie andò e fece diverse sedute…avevo sposato una persona
e me ne ritrovavo un’altra”.
Quanto alla liquidazione del danno, è evidente che
essa può avvenire soltanto in termini equitativi che debbono avere riguardo
alla natura, all’intensità e alla durata delle compromissioni esistenziali che
si sono rilevate. In assenza di altri parametri oggettivi – e non apparendo
opportuno fare riferimento ad un parametro di natura patrimoniale come quello
della retribuzione per liquidare il danno alla persona (che colpisce i danneggiati
in modo indipendente dalle loro capacità di reddito) – ritiene il giudicante
che possa seguirsi un metodo in qualche modo analogo a quello comunemente
utilizzato dai giudici di merito per risarcire il danno biologico temporaneo.
Già si è posto in evidenza, infatti, la similitudine sussistente tra le due
“voci” di danno in questione, entrambe contraddistinte dalle ricadute sul
concreto dispiegarsi della vita del soggetto leso. Se, dunque, una lesione
psico-fisica che annulli del tutto, per un certo tempo, le possibilità del
soggetto di dedicarsi alle normali attività (c.d. inabilità temporanea totale)
trova equo ristoro – secondo canoni di valutazione comunemente condivisi dalla
giurisprudenza di merito del distretto – in una somma che si aggira sui 50 Euro
al dì, la compromissione delle attività realizzatrici della persona evidenziata
nel caso di specie può essere assimilata alla inabilità temporanea parziale
conseguente a malattia. Ciò premesso, occorre poi considerare i due diversi
ambiti in cui il pregiudizio esistenziale per la CANDELO si è prodotto.
Quanto al peggioramento della vita lavorativa, tenendo conto
che l’orario di lavoro era di sei ore al giorno (1/4 del tempo a disposizione
nella giornata) e che il pur grave demansionamento non annullò del tutto la
possibilità di realizzarsi come lavoratrice, si stima equo indicare il
risarcimento in 10 Euro per ciascun giorno lavorativo. Tenendo conto dei
congedi feriali, dei giorni di permesso, delle assenze per malattia o altra
causa, può prudenzialmente considerarsi un numero pari a 276 giornate
lavorative nel 1994 e di 138 negli anni dal 1995 al 2000 (quando la ricorrente
lavorò soltanto tre giorni a settimana), sicché se ne ricava un importo
complessivo di 11.040 Euro.
A ciò deve aggiungersi il risarcimento
dovuto per il generale peggioramento dell’esistenza complessivamente intesa,
essendo chiaro – per quanto più sopra riferito – che il periodo 1994-2000 fu
segnato, per la ricorrente, da gravi limitazioni in tutti i campi in cui
l’individuo realizza se stesso, con disturbi che hanno compromesso la qualità
della vita (insonnie, cefalee, inappetenza, coliti…), spazi sottratti agli
svaghi e alla coltivazione degli affetti e delle amicizie, ripercussioni sulla
serenità della vita familiare. Reputa il giudicante che, come media – avendo
sempre riguardo ad un rapporto di proporzionalità con gli importi usualmente
liquidati per indennizzare la I.T.P. - tali pregiudizi possano trovare equo
ristoro in una somma mensile complessiva di 200 Euro per 7 anni, pari a 16.800
Euro.
A tali importi
occorre ancora aggiungere una somma forfetaria per le residue compromissioni
esistenziali che, nel primo anno successivo al trasferimento alla sede di
Torino, residuarono nell’ambito extralavorativo, prima che il graduale recupero
della normale esistenza portasse ad un sostanziale ristabilimento dello status
quo ante e per gli effetti negativi sin qui prodottisi per il disagio
dovuto al pendolarismo tra il luogo di residenza e il nuovo (necessitato) luogo
di lavoro. Questi pregiudizi possono trovare equo ristoro nella somma di Euro
2.500.
E) Il danno patrimoniale. La sola
pretesa al proposito espressamente avanzata in ricorso riguarda il rimborso
delle spese sostenute per gli accertamenti medici e diagnostici resisi necessari
per far fronte alla situazione di stress e per impedire che essa degenerasse.
Che tali esborsi siano ripetibili quali danni emergenti causalmente conseguenti
alla condotta inadempiente dell’INPS e illecita di suoi funzionari,
indipendentemente dall’accertamento di una patologia e quindi di un danno
biologico in senso stretto, non vi è dubbio: anche il costo sostenuto per gli
accertamenti diagnostici finalizzati a tenere sotto controllo il proprio stato
di salute per evitare l’insorgere di una malattia che sarebbe stata ascrivibile
alla responsabilità di altri (condotta peraltro dovuta, ex artt. 1175 e 1227,
comma 2, c.c.) costituisce infatti un danno. Trattandosi di spese documentate,
deve quindi essere accolta la richiesta di condanna alla somma di 583,23 Euro.
Occorre,
ancora, esaminare gli eventuali profili di danno patrimoniale che possono
ritenersi insiti nella richiesta di condanna al risarcimento del danno alla
professionalità conseguente al demansionamento. A questo riguardo, osserva il
giudicante come, nel caso di specie, non siano ravvisabili perdite o mancati
guadagni. Ed invero:
la ricorrente percepì sempre lo stipendio proprio del suo
livello d’inquadramento;
- non vi è prova che il prolungato demansionamento abbia
inciso sulle chances di ottenere impieghi meglio remunerati: per un verso, la
ricorrente non ha allegato, nemmeno nei momenti di massima pressione subita, di
essere stata interessata ad assunzioni presso altri datori di lavoro e, anzi,
quando si è trovata nella necessità di sfuggire alla situazione di mobbing ha
optato per una soluzione interna all’INPS; per altro verso, ella, al pari di
colleghi di VII livello aventi analoga anzianità di servizio (CHIABRANDO,
CAMPOLO, CAROLI), ottenne la promozione nell’VIII livello (mentre altri colleghi
- CALLIERO, UGHETTO – rimasero di VII
livello);
- il sia pur lungo periodo di demansionamento, dunque, non
ha avuto ricadute negative sul patrimonio e, se può aver ostacolato
l’incremento della professionalità della ricorrente (occorre, tuttavia, considerare
che, anche su questo piano, l’incidenza pare essere stata modesta, posto che ci
si trova di fronte ad un’impiegata che lavora all’INPS da 30 anni e che ha
avuto possibilità di lavorare in diversi settori), l’unico soggetto che ne
patisce le eventuali conseguenze patrimoniali è proprio l’Istituto convenuto,
che, al limite, non può pretendere dalla dipendente la resa che vi sarebbe
probabilmente stata se la professionalità fosse cresciuta anche nei sette anni
per cui è causa.
5. Le ulteriori
domande volte ad ottenere la condanna
dell’INPS a disporre il trasferimento della ricorrente alla sede di Pinerolo in
mansioni confacenti all’VIII livello sono prive di fondamento. La difesa di
parte ricorrente non ha in alcun modo argomentato, sul piano giuridico, le
ragioni che potrebbero condurre all’accoglimento di siffatte conclusioni.
Essendosi trattato di un trasferimento di sede richiesto dalla CANDELO, si
sarebbe dovuto richiedere una pronuncia di annullamento dell’atto negoziale
presupposto, allegandone le ragioni; in difetto di esplicita domanda, giusta il
principio di cui all’art. 112 c.p.c., questo giudice non può però affrontare la
questione. Si consideri, del resto, che non consta l’impossibilità della
ricorrente di riottenere, a semplice domanda, il trasferimento alla sede di
Pinerolo. Quanto alla condanna ad ottenere mansioni confacenti all’attuale
inquadramento, è pacifico che, da quando lavora a Torino, Maria CANDELO svolge
compiti propri del suo livello professionale.
* * * *
In conclusione,
disattesa ogni altra istanza, l’INPS dev’essere condannato a pagare alla
ricorrente la somma complessiva di 30.923,23 Euro. Trattandosi di credito di
valore liquidato secondo parametri correnti, sulla somma decorrono interessi
legali dalla data della sentenza al saldo. In difetto di prova del maggior
danno subito – giusta la previsione di cui all’art. 22, comma 36, l. 23.12.1994
n. 724 – non spetta, invece, la rivalutazione monetaria.
Quanto alle spese,
la parziale, reciproca, soccombenza – tenendo conto della misura della stessa e
del fatto che, comunque, le domande respinte non hanno comportato l’aggravio di
istruttoria – giustifica la compensazione di esse in misura di un terzo. Parte
convenuta deve quindi essere condannata a rimborsare alla ricorrente la restante
parte delle spese che, per l’intero – valutato il valore della causa in
relazione alla domanda definitivamente accolta e tenendo conto, da un lato,
della non eccessiva durata del giudizio (definito in sole 5 udienze) e, d’altro
lato, della complessità dei problemi sottesi – dev’essere liquidata in
complessivi 4.950 Euro, di cui 1.700 per diritti, 450 per rimborso spese
generali e il resto per onorari, oltre IVA e CPA.
P. Q. M.
visto l’art. 429 c.p.c.,
disattesa ogni altra istanza,
dichiara tenuto e condanna l’INPS a pagare alla ricorrente la somma di 30.923,23 Euro,
oltre interessi legali da oggi al saldo.
Compensa le spese di lite nella misura di 1/3 e condanna parte convenuta a rimborsare a parte ricorrente la restante parte delle spese, liquidate, per l’intero, in complessivi 4.950 Euro, oltre IVA e CPA.
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