DANNI DA MOBBING RIFLUISCONO NEL DANNO ESISTENZIALE

 

Trib. Pinerolo (sezione lavoro, 1° grado) 6 febbraio 2003 (ud. 14 febbraio 03) – Giud. Reynaud - CANDELO Maria (avv. Braggion, Avalis) c. INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (avv. Ollà, Petrucciano)

Mobbing – Riscontro di demansionamento, vessazioni, controlli persecutori, accanimento disciplinare  nell’arco di 6 anni – Sussistenza – Riconducibilità al danno esistenziale – Risarcibilità in via equitativa.

 

Il fenomeno del “mobbing” consiste in una condotta vessatoria, reiterata e duratura, individuale o collettiva, rivolta nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori gerarchici (mobbing verticale) e/o colleghi (mobbing orizzontale), oppure anche da parte di sottoposti nei confronti di un superiore (mobbing ascendente); in alcuni casi si tratta di una precisa strategia aziendale finalizzata all’estromissione del lavoratore dall’azienda (bossing).

Relativamente al cd. danno alla professionalità – per demansionamento -  parte della più recente giurisprudenza di merito e legittimità (Cass., 14.11.2001 n. 14199; Trib. Treviso, 13.10.2000) si mostra consapevole della plurioffensività della condotta posta in essere in violazione dell’art. 2103 c.c. e, anche ai fini risarcitori, rifiutando l’omnicomprensiva categoria del “danno alla professionalità”, tende a distiguere le varie “voci” di danno. Siffatto metodo – ritiene questo Tribunale – è senza dubbio preferibile, sicché, facendo impiego delle comuni categorie descrittive del danno quali più sopra delineate, occorre innanzitutto distinguere il danno patrimoniale (danno emergente per diminuzione di retribuzione conseguente alla dequalificazione e per perdita di chances, o  lucro cessante per la concreta perdita di possibilità di carriera interne all’azienda o di migliori impieghi) dal danno non patrimoniale. All’interno di quest’ultima categoria bisogna poi distinguere il danno biologico (che può assumere le forme di malattia psichica), il danno morale (ravvisabile in caso di reato) e il danno esistenziale, inteso come sconvolgimento della vita familiare, lavorativa e sociale conseguente al demansionamento.

Proprio con riguardo ai danni che colpiscono la persona, la Cassazione insegna che essi possono “consistere nella lesione dell’integrità fisio-psichica, cioè nel danno alla salute o danno biologico in senso stretto, oppure in quello che più genericamente si designa come “danno esistenziale”, al fine di coprire tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana (es. impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della propria vita lavorativa)”, poiché  “non è solo il bene della salute a ricevere una consacrazione costituzionale sulla base dell’art. 32, ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell’uomo nell’ambito della famiglia o di altra comunità” gode di una speciale considerazione negli artt. 2 e 29 Cost., sicché “tanto i pregiudizi alla salute quanto quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di natura non patrimoniale, non possono essere lasciati privi di tutela risarcitoria, sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile”.

Nel caso di specie (per effetto dell’illegittima costrizione a svolgere mansioni dequalificanti, delle “sfuriate” dei superiori, dell’accanimento disciplinare, degli esasperati controlli, ecc.) ricorre il cd. danno esistenziale, strutturato dalla lesione della personalità morale della dipendente (art. 2087 c.c.), del suo diritto a svolgere mansioni confacenti con il livello d’inquadramento attribuito (art. 2103 c.c.), della sua dignità quale donna e lavoratrice (art. 41, comma 2, Cost.), del suo diritto a realizzarsi, senza indebite costrizioni, nel mondo del lavoro e in altre formazioni sociali, in particolare in seno alla famiglia, ove la donna lavoratrice deve poter svolgere serenamente la propria essenziale funzione anche materna (artt. 2, 29, 37 comma 1 Cost.).

La liquidazione di tale danno esistenziale è necessariamente di tipo equitativo ed è quantificabile in € 11.040 (per i 276 gg. di prestazione negli anni 1994-2000) a fronte del generale  peggioramento della vita lavorativa, in € 16.800  per il generale peggioramento dell’esistenza (nei 7 anni), in € 2.500 per le residue compromissioni esistenziali dopo il trasferimento a Torino, in € 583,23 per spese documentate di accertamenti medici e terapie antistress, per un totale generale di € 30.923,23(comprensive di spese legali).

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 11.4.2002, CANDELO Maria conveniva in giudizio il datore di lavoro Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), lamentando d’essere stata vittima, dall’ottobre 1988 al novembre 2000, di mobbing, posto in essere dai superiori della sede di Pinerolo, in specie dai capi reparto RUSSO, SERASSIO e TRANCHIDA, e dai direttori di sede TASSONE, VITARI e PALMISANO. Sostenendendo che la condotta mobbizzante si sarebbe concretizzata, in particolare, in asfissianti e arbitrari controlli dei superiori, in ingiuste e continue lettere di contestazione e richieste di giustificazione (anche in ordine alla produttività), nell’attribuzione di mansioni dequalificanti (a partire dal 1994), nell’emarginazione (anche in termini d’isolamento fisico) sul luogo di lavoro, con conseguente detrimento delle proprie condizioni di salute psico-fisiche e grave peggioramento della qualità di vita in ambito lavorativo ed extralavorativo, la ricorrente deduceva di avere, infine, richiesto ed ottenuto, dal dicembre 2000, il trasferimento alla più lontana sede di Torino per sfuggire all’intollerabile situazione vessatoria che per lungo tempo era stata costretta a subire (e che l’aveva altresì indotta a non riprendere il lavoro a tempo pieno, pur venute le meno le esigenze familiari per le quali, dal 1°.1.1995, aveva ottenuto il part-time a 18 ore settimanali). Allegando che, dopo il trasferimento – cessata la situazione di mobbing e ottenute mansioni compatibili con il proprio inquadramento – le condizioni di salute e di vita erano sensibilmente migliorate (salvo che per i disagi connessi agli spostamenti quotidiani per raggiungere la nuova sede di lavoro), la ricorrente chiedeva la condanna dell’INPS al risarcimento del danno da dequalificazione professionale (in misura pari alla differenza tra la retribuzione spettante ad un impiegato di 8° livello, qual era la ricorrente, e un impiegato di 4° livello, inquadramento cui sarebbero riconducibili le mansioni inferiori assegnate), del danno biologico temporaneo causatole (indicato nella misura del 30%), del danno esistenziale, del danno morale, del danno patrimoniale (per le spese mediche sostenute), negli importi indicati nella conclusioni in epigrafe trascritte. Ella chiedeva, altresì, la condanna del convenuto a reintegrarla presso la sede di Pinerolo, in mansioni confacenti con il proprio inquadramento professionale.

         Costituendosi ritualmente in giudizio, resisteva l’INPS, negando che la ricorrente fosse stata oggetto di una condotta vessatoria da parte dei superiori e sostenendo, invece, che, nei suoi confronti, erano stati legittimamente adottati provvedimenti di contestazione e lettere di deplorazione giustificati da numerosi errori compiuti sul lavoro e da negligenza nell’espletamento delle mansioni affidate. Sosteneva, inoltre, l’Istituto, che le mansioni assegnate alla ricorrente furono sempre compatibili con l’inquadramento assegnato (il 7° livello) e che le assenze per malattia della ricorrente, numerose nel periodo anteriore al 1989, andarono invece scemando negli anni successivi, sicché, lungi dall’essere peggiorata, nel periodo per cui è causa, la salute della lavoratrice migliorò. La difesa dell’INPS chiedeva quindi la reiezione del ricorso.

         Fallita la conciliazione, interrogati liberamente la ricorrente e l’attuale direttore della sede INPS di Pinerolo PALMISANO, acquisiti i documenti prodotti, escussi 18 testimoni e sentiti liberamente gli ex capireparto della ricorrente RUSSO e TRANCHIDA (nei confronti dei quali, giusta le allegazioni contenute in ricorso, erano potenzialmente ravvisabili estremi di responsabilità extracontrattuale per i medesimi danni dedotti in giudizio, sicché essi avrebbero potuto partecipare al processo), all’udienza del 14.1.2003 i procuratori discutevano la causa rassegnando le conclusioni in atti e il giudice pronunciava sentenza dando lettura del dispositivo.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La causa petendi delle azioni risarcitorie esercitate nel presente giudizio è stata qualificata, per un verso, quale situazione di demansionamento in violazione dell’art. 2103 c.c. e, per altro verso, quale condotta di mobbing, posta in essere in violazione degli artt. 2087, 1175, 1375 c.c. e integrante anche gli estremi della responsabilità extracontrattuale. I due aspetti della questione debbono essere partitamente esaminati.

A)          Il demansionamento. L’istruttoria espletata consente di affermare che la ricorrente è stata assegnata a mansioni inferiori a quelle proprie del suo inquadramento professionale dal gennaio 1994 al novembre 2000, quando richiese il trasferimento alla sede di Torino.

Sin dal 1985, CANDELO Maria era inquadrata nella VII qualifica funzionale, prevista per i dipendenti degli Enti Pubblici non economici e disciplinata, da ultimo, nel D.P.R. 1°.3.1988 n. 285. Secondo il menzionato decreto, i dipendenti inquadrati in tale livello svolgono, per quanto qui interessa, “attività di collaborazione istruttoria, di iniziativa promozionale, studio di addestramento, qualificazione e aggiornamento del personale, elaborazione e progettazione di natura amministrativo-contabile e tecnica che – nell’ambito di prescrizioni generali contenute in norme o procedure definite o in direttive di massima – presuppongono specializzazione e preparazione professionale nelle attribuzioni di settore o di modulo organizzativo interdisciplinare, capacità di valutazione e perseguimento dei risultati, nonché capacità di decisione, di proposta e di individuazione dei procedimenti necessari alla soluzione dei casi esaminati e delle concrete situazioni di lavoro”. In particolare, quanto alle mansioni impiegatizie, il relativo profilo professionale del “collaboratore di amministrazione” è proprio di chi “svolge attività istruttoria mediante la predisposizione, la formazione, la definizione e la revisione di atti, provvedimenti e documenti anche di natura contabile-finanziaria, comportante l’applicazione di norme complesse, dei quali cura la sottoscrizione quando gli stessi non rientrino nella competenza dei livelli superiori, avvalendosi all’occorrenza di procedure e strumenti informatici…svolge compiti di studio, formazione, programmazione, analisi ed elaborazione di dati…cura e segue lo sviluppo ed il processo formativo psico-intellettuale dei singoli e di gruppo concorrendo alla formulazione dei programmi e promuovendo piani di intervento che i singoli casi richiedono…rilascia certificazioni che richiedono ricerche e/o elaborazioni”. Si tratta, all’evidenza – ciò che trova conferma nella comparazione tra la menzionata declaratoria e quella propria delle categorie funzionali inferiori – di mansioni di particolare responsabilità, che presuppongono elevata specializzazione e preparazione (si consideri che, per i neo-assunti, si richiede il possesso del diploma di laurea), notevole autonomia, anche decisoria.

La ricorrente ha in effetti svolto mansioni confacenti alla qualifica attribuita sino al dicembre 1993 (anche se già quell’anno fu adibita, per un certo periodo, allo svolgimento di compiti propri di un livello inferiore: si veda la lettera del 26.3.1993 – doc. 22 di parte ricorrente – nella quale il direttore dell’Istituto VITARI si dice consapevole della “demotivazione che può scaturire dal contingente espletamento di mansioni ripetitive” e certo che il responsabile dell’Ufficio “valuterà con attenzione il suo desiderio di essere reintegrata in mansioni confacenti con la qualifica rivestita”). Dal gennaio 1994  ella fu però assegnata all’Unità Operativa Prestazioni non pensionistiche e fu “incaricata dell’acquisizione dei certificati e della gestione dei dati acquisiti” (cfr. comunicazione di servizio del 14.1.1994: doc. 32 di parte ricorrente). Salvo quanto si dirà infra, CANDELO mantenne quest’incarico sino al 4.1.1999 (cfr. doc. 49 di parte ricorrente, dove, per mero errore materiale, la data è stata indicata quale 4.1.1998).

L’attività di acquisizione dei certificati di malattia – l’unica effettivamente svolta, a dispetto del riferimento alla “gestione dei dati acquisiti” contenuto nella citata disposizione di servizio – consiste nell’inserire nella banca dati informatica dell’Istituto le informazioni contenute nei certificati medici che, quotidianamente (e nell’ordine di svariate diecine), i lavoratori in malattia recapitano all’INPS. Si tratta, in sostanza, di leggere (e decifrare perché, spesso, essendo manoscritti, non sono chiarissimi) i dati salienti (generalità del lavoratore, elementi identificativi del datore di lavoro, periodo di malattia…) contenuti nei certificati e di inserirli nel programma informatico. La cosiddetta acquisizione può avvenire tramite digitazione sulla tastiera dell’elaboratore, ovvero attraverso il lettore ottico: in questo secondo caso, proprio a causa della scarsa intelligibilità della scrittura, la trasposizione ottica determina errori che poi debbono essere corretti con la tastiera. In caso di dati mancanti (ad esempio, ciò che spesso difetta, il codice identificativo della posizione attribuita al datore di lavoro), l’operatore addetto all’acquisizione deve ricercarlo su altra banca dati informatica e inserirlo.

Si tratta, com’è evidente, di un’operazione meramente manuale, che non necessita di alcuno sforzo intellettuale, né di particolari capacità od esperienza: basta saper leggere e scrivere; un lavoro ripetitivo e privo di qualsiasi stimolo, che, proprio per questa ragione, era sempre stato suddiviso tra diverse persone aventi altre, principali, occupazioni. Si considerino, al proposito, le eloquenti affermazioni rese dal teste VITARI, direttore della sede INPS di Pinerolo dal 1992 al 1997: “credo che, pro-quota, l’acquisizione dei certificati fosse fatta da tutti, trattandosi attività non esaltante”. In realtà, la persona ufficialmente deputata ad acquisire certificati medici – come da ordine scritto già citato – fu la ricorrente, e, come ha dichiarato il suo capo-reparto TRANCHIDA, altre persone furono assegnate a questo incarico (per brevi periodi, o saltuariamente) per affiancare (e non per sostituire) la CANDELO “e raggiungere gli standard, essendosi accumulati dei ritardi”. I colleghi sapevano che nel periodo indicato l’attività assolutamente preponderante della ricorrente fu quella di acquisire certificati di malattia (cfr. deposizioni CHIABRANDO, CALLIERO, SCILLITANI, MANE’ e le dichiarazioni della stessa TRANCHIDA). In particolare, per tutto il 1994, quando ancora lavorava a tempo pieno,  e per il 1995 – quando richiese il part-time – la ricorrente non ebbe altri incarichi.

Nel 1996 le fu richiesto, in aggiunta alla precedente mansione, di gestire le pratiche delle cure termali. Questo compito era compatibile con il profilo professionale, ma  - per usare parole della stessa capo-reparto TRANCHIDA – “le cure termali si svolgevano in un tempo limitato dell’anno e c’era un numero abbastanza esiguo e quindi non era certo l’adempimento preponderante…il lavoro delle cure termali si svolgeva sostanzialmente nel periodo maggio-luglio, per circa 12 pratiche nell’anno”.

Nel corso del 1998 – in un periodo d’assenza della capo-reparto TRANCHIDA – il direttore PALMISANO attribuì alla ricorrente (e al suo collega PINZINO) il compito di liquidare le richieste d’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, mansione, questa, compatibile con il VII livello funzionale. Il periodo in cui ella svolse la nuova mansione, tuttavia, fu breve, posto che, al rientro della TRANCHIDA da un’assenza dovuta a malattia (collocabile nel settembre 1998), l’insoddisfazione della dirigente sull’operato della CANDELO portò a esonerarla dal lavoro sulle indennità di disoccupazione con requisiti ridotti e a impiegarla nuovamente a tempo pieno nell’acquisizione dei certificati di malattia.

Dopo ben cinque anni di attribuzione di tale dequalificante mansione – si pensi quanto al proposito riferito dalla teste MANE’: “ho svolto questo lavoro l’anno scorso: a tutti gli impiegati sono stati dati 200 certificati per smaltire l’arretrato. Tutti ci siamo lamentati perché era un lavoro monotono e ripetitivo” – dal gennaio 1999 la ricorrente fu spostata dall’U.O. Prestazioni non pensionistiche alla dirette dipendenze della Direzione e le fu assegnato un solo incarico, nuovamente mortificante sul piano della professionalità e incompatibile con il livello d’inquadramento. La ricorrente, in sostanza, doveva prelevare, personalmente, in un polveroso archivio nel sottotetto, pratiche di pensione esaurite ed ivi collocate, in disordine, da anni, trasferirle in un apposito ufficio che le era stato assegnato e controllarle una per una prima che fossero avviate al macero. Il contenuto di tale attività di controllo è stato così riferito dal direttore PALMISANO: “occorreva verificare l’esatta data di morte dei pensionati, che l’eliminazione della pensione fosse avvenuta ai momenti giusti, la verifica che non fossero state riscosse rate posteriormente al decesso quando vi fosse un delegato alla riscossione, la sistemazione dei fascicoli per anni di evento, per avviarli al macero”. Appare evidente come la lavoratrice sia stata estromessa da ogni processo produttivo e incaricata di svolgere, a tempo pieno, un lavoro noioso, ripetitivo, fisicamente pesante (lo spostamento dei fascicoli), che nessuno aveva fatto per molti anni e che – dopo il suo trasferimento – fu terminato ad opera di più persone, nessuna delle quali in ciò impiegata a tempo pieno (come PALMISANO ha ammesso). Il contenuto intellettivo dell’attività – vale a dire, la limitata opera di controllo sul fatto che, dopo il decesso del pensionato, non fossero state riscosse rate di pensione – appare ridottissimo e non può essere ritenuto elemento qualificante della complessiva mansione, né, comunque, presenta i caratteri tipici delle funzioni proprie del collaboratore di amministrazione (applicazione di norme complesse, compiti di studio, formazione, programmazione, analisi, elaborazione dati…). La teste MANE’, rilevando l’anomalia dell’incarico, ha riferito che “quel lavoro non era mai stato svolto nel reparto e non era stata organizzata nessuna task-force per farlo”, come sarebbe stato ragionevole fare e come, in effetti, fu fatto dopo il trasferimento della CANDELO. Del resto, un eloquente indizio della insignificanza qualitativa del compito (e, probabilmente, anche della sua stranezza), lo si ricava dall’elenco telefonico interno stampato nel febbraio 2000 (doc. 61 di parte ricorrente); diversamente dagli altri addetti alla sede di Pinerolo (per ciascuno dei quali è indicata una specifica mansione, propria dei processi produttivi o delle attività collaterali dell’Istituto), la funzione attribuita alla ricorrente viene descritta come “adempimenti vari”: essendo pacifico che CANDELO non aveva alcun altro compito oltre a quello sopra menzionato, tale (falsa) annotazione rivela probabilmente come non apparisse nemmeno decoroso indicare in un documento destinato alla circolazione interna la vera (ed unica) mansione attribuita alla lavoratrice.

Le due dequalificanti incombenze che si sono descritte rientrano (se non, addirittura, nella IV qualifica professionale, come dedotto da parte ricorrente: ciò che vale soprattutto per il lavoro di acquisizione dei certificati, un’attività di “mera digitazione su terminale” prevista per il profilo dell’archivista e per l’attività di riordino e catalogazione dei fascicoli) nella V categoria, che contempla lo svolgimento di “attività amministrative…di carattere esecutivo che richiedono conoscenze specialistiche, preparazione specializzata, conoscenze tecnologiche, perizia nell’esecuzione”. Tra i compiti previsti nel relativo profilo professionale impiegatizio (operatore di amministrazione) compare l’effettuazione di “ricerche e caricamento dati via terminale per elaborazioni elementari e fuori linea”.

CANDELO Maria, dunque, - dopo aver ottenuto da 10 anni una qualifica professionale per la quale si richiede il possesso del diploma di laurea – fu costretta a svolgere, sostanzialmente per sette anni consecutivi, mansioni ripetitive, defatiganti, meramente esecutive che, a tutto concedere, potevano essere legittimamente affidate ad un dipendente con qualifica funzionale inferiore di almeno due livelli. Si consideri, poi, che, dal settembre 1999, alla ricorrente fu riconosciuto l’inquadramento nell’VIII categoria funzionale – cui corrisponde il profilo di funzionario di amministrazione, che, secondo il D.P.R. 285/1988, “è preposto ad un settore o struttura dell’Ente” – sicché il divario tra la qualifica posseduta e le mansioni in concreto disimpegnate divenne enorme.  Il prolungato demansionamento della ricorrente – che, altrimenti, sarebbe certamente continuato (a tacer d’altro, si è accennato che il lavoro sulle pratiche archiviate non era ancora terminato) – si concluse soltanto quando ella, psicologicamente stremata, richiese ed ottenne, nel dicembre 2000, il trasferimento presso la sede di Torino.

2. Il c.d. mobbing. Prima di esaminare il secondo profilo della causa petendi dedotta in giudizio, occorre fare qualche premessa sulla nozione e sulla considerazione giuridica del mobbing, un fenomeno – da tempo oggetto di studio da parte delle scienze sociologiche e psicologiche – che è approdato nelle aule di giustizia italiane nel 1999. Costituisce fatto notorio che – sia pur con una certa approssimazione – il fenomeno in parola consiste in una condotta vessatoria, reiterata e duratura, individuale o collettiva, rivolta nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori gerarchici (mobbing verticale) e/o colleghi (mobbing orizzontale), oppure anche da parte di sottoposti nei confronti di un superiore (mobbing ascendente); in alcuni casi si tratta di una precisa strategia aziendale finalizzata all’estromissione del lavoratore dall’azienda (bossing). I numerosi progetti di legge presentati in Parlamento, nella trascorsa e nell’attuale legislatatura, per disciplinare il mobbing e le sue conseguenze non hanno sortito esito. L’unica indicazione normativa – non vincolante ai fini della presente decisione, ma pure significativa, anche dell’attenzione che l’ordinamento giuridico riserva alla questione – è contenuta nella L.R. Lazio, 11 luglio 2002, n. 16, rubricata Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del “mobbing” nei luoghi di lavoro. All’art. 2, comma 1, di tale legge, si afferma che “per “mobbing” s’intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”. Da alcuni precedenti giurisprudenziali di merito che hanno esaminato funditus il problema e che hanno fatto ricorso, in sede di CTU, a cognizioni scientifiche, si apprende che, secondo la psicologia del lavoro, il modello italiano di mobbing consterebbe di uno stadio iniziale e di sei fasi successive che sono state così descritte: “dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si indivuda la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale…la seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing, nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio…La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute…La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori e abusi dell’amministrazione del personale…La quinta fase del mobbing è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione…la sesta fase, peraltro indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti” (v. Trib. Forlì, sent. 15.3.2001).

Se questo è il mobbing, certamente il caso di specie – limitatamente ai periodi di cui si dirà – può esserne considerato un fulgido esempio. Reputa, tuttavia, il Tribunale che, al di là della questione delle “etichette” e in assenza di una disciplina normativa che ricolleghi ad un fenomeno chiamato “mobbing” certe, determinate, conseguenze giuridiche, non metta conto soffermarsi ulteriormente sulla questione definitoria, né abbia importanza appurare quale considerazione meriti il caso in esame nell’ambito della psicologia del lavoro. Per questa ragione – non essendovi stata, peraltro, richiesta di parte – questo giudice non ha ritenuto rilevante disporre un’apposita consulenza tecnica d’ufficio. Ciò che rileva, invece, è analizzare se le condotte vessatorie lamentate in ricorso – che, anche per comodità lessicale, ben possiamo definire mobbing – e i pregiudizi che si allega esserne derivati abbiano fondamento e se possano condurre all’accoglimento delle domande di risarcimento danni avanzate. Così posta, la questione è eminentemente giuridica e dev’essere valutata alla luce delle disposizioni del codice civile giustamente evocate in ricorso: l’art. 2087 (letto anche alla stregua degli artt. 1175 e 1375) sul piano della responsabilità contrattuale e l’art. 2043 sul piano della responsabilità aquiliana (essendo stata dedotta la lesione di diritti fondamentali della persona, è infatti pacifica l’ammissibilità del concorso delle due azioni). Occore, dunque, verificare se nei fatti lamentati dalla ricorrente siano ravvisabili, da un lato, una situazione d’inadempimento contrattuale o una condotta dolosa o colposa e, d’altro lato – quale conseguenza – dei danni risarcibili. A tal fine, il periodo di lavoro dedotto in causa dev’essere suddiviso in due distinti lassi temporali.

Dall’ottobre 1988 alla fine del 1992. In relazione a questo periodo, non può dirsi provato che la ricorrente sia stata vittima di illegittime (o illecite) condotte vessatorie imputabili al datore di lavoro. Giova premettere che, dal 1990 alla seconda metà del 1992, quando direttore della sede INPS di Pinerolo fu il dott. PARLAGRECO, per stessa ammissione della parte ricorrente non vi furono problemi di sorta (cfr. capo 6 del ricorso e dichiarazioni rese nell’interrogatorio libero: “dal 1990 al 1992 direttore fu il dottor Parlagreco e io lavorai in totale serenità”). Il lasso di tempo in cui la CANDELO sarebbe stata oggetto di indebite e ripetute pressioni da parte del proprio capo-reparto dott. RUSSO si riduce, sostanzialmente, a poco più di un anno. Che negli ultimi mesi del 1988 e nel 1989 vi sia stati problemi tra la lavoratrice e i superiori appare chiaro leggendo la corrispondenza intercorsa tra gli stessi e la documentazione prdotta dalla ricorrente (docc. 1-17). Le prove testimoniali, tuttavia, non hanno confortato le allegazioni al proposito contenute nel capo 6 del ricorso, ove si afferma che RUSSO avrebbe posto in essere “un asfissiante e arbitrario controllo sull’attività lavorativa della ricorrente” con “lettere di contestazione ovviamente infondate”. Certamente ci fu il controllo da parte del superiore e ci furono le lettere di contestazione, ma non v’è prova che essi fossero, rispettivamente, arbitrario e infondate, né le ragioni che determinarono la crisi dei rapporti personali tra RUSSO e CANDELO (vale a dire, l’ostinato rifiuto di quest’ultima di seguire le interpretazioni che alla normativa dava il capo-reparto, ritenendole sbagliate) possono essere imputate al superiore gerarchico.

A quest’ultimo proposito, occorre infatti osservare che sul principale motivo d’attrito tra i due in ordine all’interpretazione della disciplina legale applicabile (che consisteva nel disaccordo sul numero massimo delle visite mediche di controllo ai lavoratori in malattia che potevano attribuirsi, al giorno, per ciascun medico), la tesi interpretativa della CANDELO è stata sostanzialmente sconfessata da una testimone (sicuramente competente in materia) che la stessa ricorrente ha indicato, CAMPOLO Maria. Questa, infatti, pur premesso che “la norma prevede che in linea di massima si possano dare tre visite di controllo per ogni fascia oraria per ogni singolo medico”, ha poi affermato che “in alcune realtà si sono date molte più visite per ogni singolo medico…anche a Torino”, giustificando tale prassi (che era quella seguita dal dott. RUSSO e contestata dalla ricorrente) “perché, essendo obbligati a fare le visite di controllo richiesteci e avendo pochi medici, dovevamo darne di più”.

Quanto ai controlli e alle lettere di contestazione per scarsa produttività – e per ritardi accumulati nell’anno 1989 e precisamente quantificati, in una lettera a cui non risulta essere stata data risposta, in ben 1.519 minuti – si tratta di attività che rientrano nei poteri (e anche nei doveri) del superiore gerarchico e questo giudice non ha elementi per ritenere che si trattasse di atti arbitrari e di rilievi infondati. Anzi, il fatto che, per il 1989, la ricorrente sia stata esclusa dagli incentivi per scarso rendimento (fatto eccezionale, a quanto consta, per un ente come l’INPS: cfr. anche le dichiarazioni rese dal teste SERASSIO) e che, pur avendo contestato tale decisione per il tramite di un’organizzazione sindacale, la vertenza non si sia risolta a suo favore (senza che CANDELO ne abbia contestato l’esito in sede giudiziaria), depone nel senso della correttezza (o, quanto meno, della non arbitrarietà) dell’operato dell’INPS. Non essendo ravvisabili inadempimenti contrattuali, non può quindi esaminarsi la questione della risarcibilità di pretesi danni (che, peraltro, sono stati indicati, per quel periodo di tempo, in maniera molto sfumata dall’unico testimone escusso sul punto, AUDRITO Andrea).

Dal 1993 al 2000. In questo lasso di tempo, e, in particolare, dal gennaio 1994 in avanti – quando cominciò il grave demansionamento di cui già si è detto – la situazione lavorativa della CANDELO appare invece connotata da condotte vessatorie illegittime e ingiustificate che, proprio perché protrattesi a lungo, sconvolsero la vita lavorativa ed extralavorativa della donna. Una fase iniziale di accettabile, se pur aspro, conflitto tra lavoratrice e superiori gerarchici, degenerò in una situazione di patologica “crisi” del rapporto di lavoro, in cui la lavoratrice, inizialmente reattiva e battagliera, fu sfiancata dai superiori gerarchici, che la colpirono – con intenti chiaramente punitivi – affidandole (a lungo) mansioni notevolmente inferiori rispetto al livello professionale acquisito; queste, data la loro natura, portarono ad un isolamento della CANDELO rispetto ai colleghi impiegati nell’ordinario processo produttivo, ne minarono conseguentemente l’autostima determinando i pregiudizi di cui meglio, di seguito, si dirà e innescarono un “circolo vizioso” che, da un lato, portò la dipendente a non riuscire a svolgere in modo ottimale il (sia pur banale) lavoro affidatole e, d’altro lato, le attirò ulteriori riprovazioni da parte dei superiori.

In particolare, il periodo temporale in questione è caratterizzato dai seguenti aspetti.

A) Nel 1993 CANDELO fu incaricata, insieme ai colleghi SCILLITANI e SAPONE, di gestire uno sportello aperto al pubblico di nuova istituzione, denominato “progetto estratto conto unificato” e ampiamente pubblicizzato dall’INPS. In sostanza, dopo aver ricevuto un estratto conto della loro situazione contributiva, i lavoratori – personalmente o per il tramite dei patronati – potevano rivolgersi al nuovo sportello dell’Istituto per avere chiarimenti sulla loro situazione o per richiedere integrazioni e correzioni dell’estratto conto. A causa della novità del servizio e del grandissimo numero di utenti che accedevano allo sportello (molti dei quali, peraltro, necessitavano di fare chiarezza sulla propria situazione contributiva al fine di poter accedere ai benefici previsti dalla l. 223/1991 sulla mobilità, il cui termine di scadenza era fissato al 31.12.1993), il lavoro era intensissimo e molto tempo doveva essere dedicato al contatto col pubblico, sicché era impossibile soddisfare altresì i requisiti di produttività nell’archiviazione delle pratiche eseguite. Di ciò hanno riferito i testi SCILLITANI e SAPONE. Non di meno, i tre addetti – la cui solerzia e competenza nell’adempimento delle mansioni otteneva positivi riscontri dagli utenti (cfr. deposizioni testi ACQUACHIARA e BARDO) – erano sottoposti ad una esagerata pressione psicologica ad opera del capo-reparto SERASSIO, il quale, con cadenza quasi settimanale richiedeva loro (ma in modo particolare alla CANDELO), anche per iscritto, i dati di produzione, ne contestava la non conformità agli standars previsti e sollecitava lettere di richiami del direttore della sede (che puntualmente giungevano) con richiesta di giustificazioni (altrettanto puntualmente fornite dai lavoratori). Dalla lettura della corrispondenza intercorsa in quel periodo (cfr. docc. 19-27 di parte ricorrente) tra azienda, lavoratori e organizzazioni sindacali (che intervennero a sostegno dei dipendenti), si ricava come la pretesa aziendale di una produttività conforme ai dati stabiliti a livello nazionale in sede di contrattazione collettiva non teneva nel debito conto le condizioni di particolare affluenza del pubblico (e le difficoltà che ogni nuovo progetto incontra nella prima fase di attuazione) che caratterizzavano l’attività svolta da CANDELO e dai suoi due colleghi, sicché appare non conforme agli obblighi di correttezza e buona fede  l’asfissiante e continuo controllo esercitato (cui, peraltro, non seguì mai l’adozione di provvedimenti sanzionatori, segno che lo stesso direttore VITARI, come trapela dalle lettere da lui scritte, in realtà non riteneva i dipendenti colpevoli di negligenza, anche se concorreva con SERASSIO nel ternerli “sotto pressione”). In questo periodo, la ricorrente fu altresì vittima di “dispetti” da parte del superiore SERASSIO, come il diniego a fruire di un periodo di ferie precedentemente concordato, benché le esigenze d’ufficio non richiedessero necessariamente la presenza della CANDELO, tanto da richiedere il personale intervento “di supplica” del marito della ricorrente – che già aveva prenotato il soggiorno per una breve vacanza con tutta la famiglia e con amici – per vincere, infine, l’opposizione del superiore (cfr. deposizioni testi SAPONE e AUDRITO). Si è già ricordato, inoltre, il fatto che alla ricorrente furono affidate, per un certo periodo, mansioni  che lo stesso VITARI, per iscritto, giudicò non confacenti al livello di inquadramento.

         B) A partire dal gennaio 1994 – a seguito di una contestazione disciplinare relativa ad errori commessi nello svolgimento della mansione (contestazione, questa, che, almeno in parte, non si ha motivo di ritenere infondata, tenuto conto delle non convincenti giustificazioni addotte dalla ricorrente, e delle sue parziali ammissioni di responsabilità, e del fatto che il conseguente provvedimento di deplorazione scritta non è stato contestato) – la ricorrente fu trasferita ad altro ufficio e, come più sopra si è detto, iniziò il periodo di grave demansionamento. Ciò che rende più riprovevole l’adibizione a mansioni inferiori è che essa deve ritenersi assunta (e poi mantenuta) con intento punitivo (quindi, quale illegittima e atipica “sanzione disciplinare”), proprio a causa delle mancanze cui più sopra si accennava (e delle contestazioni successivamente mosse): nella lettera di deplorazione del direttore VITARI del 12.4.1994 si legge, infatti, che “la negligenza mostrata…rivela scarse attitudini ad espletare le mansioni proprie della qualifica rivestita”, frase, questa, che – se letta nel contesto di ciò che era appena avvenuto (vale a dire l’attribuzione di mansioni di gran lunga inferiori) – rivela le ragioni sottese alla violazione dell’art. 2103 c.c. Deve, inoltre, osservarsi che il direttore fu probabilmente contrariato anche dal fatto che l’iniziale sua decisione di adibire la CANDELO alla reception dovette essere revocata a seguito della presentazione, da parte della ricorrente, di certificazione medica (poi convalidita dal medico legale dell’INPS) che attestava la necessità che la dipendente lavorasse in un ambiente ben riscaldato (quale non era la reception, posto che attraverso il locale in questione affluivano, direttamente dall’esterno, con conseguente frequente apertura della porta, le numerose persone che si recavano giornalmente all’Istituto).

         C) Nel periodo in cui la ricorrente fu costretta a svolgere mansioni inferiori ella fu oggetto, inoltre, di atteggiamenti vessatori da parte dei superiori, volti a lederne l’immagine e la personalità morale intesa in senso lato, ad infastidirla, a metterla in imbarazzo davanti ai colleghi. In alcuni casi si trattava di atti illegittimi, in altri casi di provvedimenti che – pur rientranti nei poteri del datore di lavoro – presentavano caratteri anomali che ne disvelavano l’intenzione ingiustamente punitiva, in altri casi ancora di condotte soltanto moralmente riprovevoli (anche da parte di colleghi) aventi lo stessso scopo di “colpire” un dipendente oramai caduto in disgrazia. Si considerino i seguenti esempi:

- nel luglio 1996, il direttore VITARI – a distanza di 12 giorni, quando la ricorrente già si trovava in ferie – le spedì nel luogo di villeggiatura una lettera di contestazione (doc. 40 di parte ricorrente) e affisse nella bacheca aziendale (conferendo così un’anomala pubblicità alla vicenda) l’avviso di avvio del procedimento disciplinare; i fatti contestati appaiono essere stati eccessivamente enfatizzati e, anche a causa di una lettera di giustificazioni della ricorrente dal contenuto chiaramente remissivo, sono stati frettolosamente ritenuti come ammessi nonostante risultassero elementi di segno contrario (si vedano, a questo proposito, le dichiarazioni rese dalla teste MANE’), mentre la vicenda, soprattutto se giudicata così grave come l’INPS ha mostrato di ritenere, avrebbe probabilmente meritato un più attento approfondimento, anche per capire, ad esempio, chi era il dipendente – pacificamente diverso dalla CANDELO – che aveva portato il proprio figlioletto sul luogo di lavoro e che, in definitiva, era responsabile della sua condotta; ma, a prescindere dal merito della vicenda, i tempi (vale a dire il periodo in cui la lavoratrice era in ferie, benché non si potesse oramai più parlare di immediatezza rispetto alla data del fatto) e i modi scelti per muovere la contestazione  rivelano un particolare accanimento;

- l’atteggiamente intimidatorio e persecutorio (tanto da provocare nella ricorrente crisi di pianto in ufficio, delle quali hanno riferito numerosi testimoni) tenuto nei confronti della CANDELO dalla capo-reparto TRANCHIDA negli anni 1997 e, in particolare, 1998, con sfuriate e rimproveri mossi ad alta voce e in modo tale che potessero essere uditi dai colleghi;

la rinnovata abitudine, del capo reparto e del nuovo direttore, di muovere rilievi disciplinari (docc. 45-47 di parte ricorrente), cui la ricorrente replicò con dettagliate spiegazioni, in data 22.12.1998 (doc. 48), evidentemente ritenute accoglibili, posto che le contestazioni non ebbero seguito sul piano disciplinare;

- il conseguente cambiamento di mansioni adottato con provvedimento del 28.12.1998 – nuovamente spiegabile in anomala chiave punitiva rispetto alle contestazioni di cui si è appena detto – con attribuzione di compiti parimenti dequalificanti e con l’ulteriore disposizione di lavorare, da sola, in una stanza adiacente a quella del direttore, e con questa comunicante per il tramite di una porta a vetri, così da ingenerare il timore di essere “controllata a vista”;

timore fondato, considerata l’ingiustificata “scenata” fatta pubblicamente dal direttore PALMISANO alla ricorrente, in presenza di colleghi, nel giugno 1999, perché questa – su richiesta, peraltro, di un funzionario di livello superiore – si era recata a dare una mano a colleghi che necessitavano di aiuto ed aveva osato “allontanarsi” dalla stanza che le era stata assegnata (episodio, peraltro non contestato da parte convenuta, di cui hanno riferito il teste AUDRITO e di cui si parla nella lettera di protesta della CANDELO del 23.6.99);

- il generale atteggiamento ostile nei confronti della CANDELO che, in conseguenza delle chiarissime prese di posizione dei superiori e della direzione, anche alcuni colleghi pari livello furono indotti a tenere: si considerino le eloquenti dichiarazioni del teste SAPONE: “i superiori un po’ la prendevano di mira: bastava una virgola sbagliata ed erano rimproveri…sentii Tranchida che diceva Candelo ha fatto questo o quell’altro…ricordo fatti episodici, ma messi tutti insieme diventavano fatti continuativi ed era sempre lei ad essere presa di mira o segnalata…ad esempio andava a portare un certificato in banca, trovava coda, e i colleghi e superiori si lamentavano perché non tornava. Mentre per altri colleghi, in casi simili, una giustificazione si trovava, per lei non si trovava mai nessuna giustificazione”; si consideri, altresì, il fatto – riferito dalla teste BARDO, utente dell’Istituto – che il portinaio della sede INPS, alla richiesta della stessa BARDO di poter parlare con la ricorrente (alla quale si era rivolta, con soddisfazione, qualche tempo prima per una pratica pensionistica), disse che la CANDELO non era più lì e soltanto a seguito delle rimostranze dell’utente (che conosceva l’auto della ricorrente e l’aveva vista sul piazzale), si risolse ad indicarle dove fosse il suo luogo di lavoro.

3. La responsabilità dell’INPS. In ordine alle condotte di demansionamento e di mobbing più sopra descritte deve affermarsi la responsabilità di parte convenuta, sia sul piano contrattuale, sia sul piano extracontrattuale. Quanto al primo aspetto, se è conclamato l’inadempimento dell’obbligo statuito nell’art. 2103 c.c., è altrettanto chiara la violazione dell’art. 2087 c.c., nella parte cui obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro, anche alla luce dell’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede (artt. 1075 e 1375 c.c.). Non soltanto, infatti, la convenuta non ha assolto all’onere della prova che le incombeva in ordine all’adempimento di tali obbligazioni, ma le circostanze sopra riepilogate mostrano, al contrario, come la lesione della personalità morale della CANDELO – costretta per anni a svolgere mansioni dequalificanti e a subire vessazioni da parte dei superiori gerarchici – sia stata posta in essere direttamente (o comunque avallata) da chi, presso la sede INPS di Pinerolo, rappresenta il datore di lavoro, vale a dire il direttore. Vane, peraltro, sono state le reiterate richieste scritte  avanzate dalla ricorrente per far cessare le ostilità ai suoi danni, nelle quali ella esplicitava lo stato di sofferenza psicologica ed esistenziale in cui si trovava (cfr. docc. 36, 51, 55, 56, 57, 59, 64). Accertato, quindi, l’inadempimento dell’INPS agli obblighi nascenti dal contratto, la ricorrente ha diritto al risarcimento del danno, del quale più oltre si dirà.

Quanto alla responsabilità extracontrattuale, come già si accennato – e come meglio si porrà in evidenza di seguito, analizzando i concreti pregiudizi patiti dalla ricorrente a causa delle condotte poste in essere dai superiori – nel caso di specie vengono in rilievo (anche) danni alla persona, in violazione di diritti costituzionalmente garantiti, sicché, giusta consolidato orientamento giurisprudenziale, è ammissibile il concorso dell’actio ex lege Aquilia con l’azione di responsabilità contrattuale. Per quanto si appena osservato, è sicuramente ravvisabile (quanto meno) la colpa nei confronti dei superiori gerarchichi della ricorrente, colpa specifica per violazione di legge (in particolare, gli artt. 2103 e 2087 c.c.), e dei danni cagionati dal preposto nell’adempimento delle sue funzioni, il datore di lavoro risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c.

4. I danni risarcibili. Prima di esaminare i concreti pregiudizi conseguenti all’inadempimento dell’INPS e al fatto illecito dei suoi dipendenti, occorre chiarire quali tipologie di danno vengono astrattamente in rilievo nel caso di episodi di demansionamento e mobbing. Sul punto, infatti, gli orientamenti espressi in giurisprudenza non sono concordi e, prudentemente, la difesa di parte ricorrente  ha invocato tutti i profili di danno conosciuti dalla prassi giudiziaria. Ritiene, tuttavia, il giudicante che sia fuorviante fare ricorso – come spesso si è fatto, soprattutto con riguardo alla violazione dell’art. 2103 c.c. – a pretese categorie di danno che sarebbero tipiche degli inadempimenti in parola, quale il c.d. “danno alla professionalità”. Le categorie del pregiudizio risarcibile sono, anche in questi casi, quelle generali, e pure su questo punto – stante la varietà di opinioni – occorre fare chiarezza.

In conformità ad una consolidata tradizione, si suole distinguere tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, ma la definizione di tali concetti – e di quest’ultimo in particolare – è controversa. La necessità di distinzione s’impone, com’è noto, per via della limite che l’art. 2059 c.c. pone alla risarcibilità di quello che ivi è definito “danno non patrimoniale” e che delimita la portata generale che altrimenti dovrebbe riconoscersi all’art. 2043 c.c. Nonostante la tradizionale lettura in termini “patrimonialistici” che di tale ultima disposizione è stata data, essa non pone, infatti, alcun limite alla natura del danno risarcibile. Per l’art. 2043 c.c., è risarcibile qualsiasi profilo di danno (incida esso sul patrimonio oppure no), purché sia “ingiusto”, e – secondo l’ampia accezione affermatasi in progresso di tempo e di recente accolta dalla Corte Suprema, che riconosce alla norma la portata di una clausola generale primaria – tale è il “danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento” (Cass. S.U., sent. 22.7.1999 n. 500).

Ciò premesso, si deve affermare che il danneggiante è tenuto al risarcimento di qualsiasi tipo di pregiudizio consegua al fatto illecito, salvo il “danno non patrimoniale” di cui all’art. 2059 c.c., che può essere risarcito nei soli casi specificamente determinati dalla legge (tradizionalmente coincidenti con la commissione di illeciti penali, anche se, nell’ultimo decennio, diverse altre ipotesi settoriali sono state previste). Al proposito, in conformità all’autorevole insegnamento della Corte costituzionale – accolto dal prevalente orientamento della giurisprudenza – questo Tribunale ritiene che la limitazione posta dall’art. 2059 c.c. (che, altrimenti, sarebbe incompatibile con la Costituzione) valga per il solo danno morale soggettivo, coincidente con l’ansia, l’angoscia, le sofferenze psichiche o fisiche, il perturbamento dello stato d’animo (cfr. C. Cost., sent. 14.7.1986 n. 184). Come ha di recente affermato la Suprema Corte in materia di tutela dei diritti personali del lavoratore lesi dal datore di lavoro, deve quindi ritenersi che “la lettura conforme alla Costituzione delle norme che disciplinano la responsabilità civile impone di interpretarle nel senso che, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, il rimedio del risarcimento del danno non possa essere negato per il fatto che il pregiudizio sofferto non sia di natura patrimoniale, e ciò in via generale e non alla stregua della circoscritta previsione dell’art. 2059 c.c.”, precisando, tuttavia – sulla scorta della sent. Corte cost. 27.10.1994 n. 372 – che, in tali casi, “se è indiscutibile che la prova della lesione è, in re ipsa, anche prova dell’esistenza del danno, è pur sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c.” (Cass., Sez. Lav., sent. 3.7.2001 n. 9009).

Le considerazioni svolte con riguardo al settore della responsabilità civile debbono ritenersi valide anche sul piano della responsabilità contrattuale. Del resto, l’art. 1223 c.c. – ad onta, pure qui, di una tradizionale lettura in senso patrimoniale – prevede la risarcibilità, accanto al lucro cessante, di qualsiasi “perdita” l’inadempimento abbia causato (senza richiedere, necessariamente, che essa abbia natura economica). Se, quindi, da un lato, il danno morale in senso stretto quale più sopra si è definito non costituisce “perdita”, sicché – al di là della formale inapplicabilità dell’art. 2059 c.c., che opera soltanto per i fatti illeciti – esso non rientra nell’art. 1223 c.c., dall’altro lato, la disposizione considera qualsiasi altra perdita di un bene giuridicamente rilevante.

Con riguardo ai danni che colpiscono la persona, poi, la Cassazione insegna che essi possono “consistere nella lesione dell’integrità fisio-psichica, cioè nel danno alla salute o danno biologico in senso stretto, oppure in quello che più genericamente si designa come “danno esistenziale”, al fine di coprire tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana (es. impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della propria vita lavorativa)”, poiché  “non è solo il bene della salute a ricevere una consacrazione costituzionale sulla base dell’art. 32, ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell’uomo nell’ambito della famiglia o di altra comunità” gode di una speciale considerazione negli artt. 2 e 29 Cost., sicché “tanto i pregiudizi alla salute quanto quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di natura non patrimoniale, non possono essere lasciati privi di tutela risarcitoria, sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile”.

Sulla scorta delle argomentazioni sopra svolte, deve quindi concludersi che, in materia di danni alla persona, accanto alle tradizionali tipologie del danno patrimoniale, del danno morale strettamente inteso e del danno biologico, viene in rilievo anche la categoria del danno esistenziale. Nell’area del danno non patrimoniale, essa si distingue da quella del danno morale – oltre che per il diverso regime giuridico,  la prima rientrando nella generale disciplina di cui all’art. 2043 c.c e la seconda essendo soggetta alla previsione dell’art. 2059 c.c. – per la sua caratteristica di abbracciare quelle compromissioni dell’esistenza quotidiana che siano “naturalisticamente” accertabili e percepibili, traducendosi in modificazioni peggiorative del normale svolgimento della vita lavorativa, familiare, culturale, di svago, laddove, come si è detto, il danno morale è un pati interiore che prescinde da qualsiasi ricaduta sull’agire umano. E’ ben vero che la sofferenza, l’angoscia, il malessere psichico (non rilevante come patologia medica) possono indurre sostanziali cambiamenti nell’esistenza quotidiana; occorre tenere conto, tuttavia, che, per un verso, non sempre ciò accade e, per altro verso, laddove tale consequenzialità si apprezzi saranno ravvisabili due distinte “voci” di danno, sicché, sul piano della liquidazione – necessariamente equitativa – occorrerà valutare attentamente, e distintamente, la natura e la gravità dei diversi profili di pregiudizio per indennizzare “tutto” il pregiudizio, evitando, però, duplicazioni risarcitorie. Dal danno biologico – che, pure, rientra in una concezione lata di danno esistenziale, posto che, in tal caso, ciò che si risarcisce non è la lesione psico-fisica in sé, ma la ricaduta che essa produce sull’agire non reddituale del danneggiato (cfr. C. cost., sent. 372/1994), sicché il regime giuridico è il medesimo – il danno esistenziale (in senso stretto) si distingue a seconda che, a monte, vi sia una lesione del bene della salute fisica o psichica (accertabile con una consulenza medico-legale), ovvero l’iniuria concerna la lesione di altri beni della persona giuridicamente rilevanti.

4. Sulla scorta di queste premesse, occorre dunque esaminare le “voci” di danno di cui parte ricorrente lamenta l’esistenza e di cui chiede il risarcimento.

A) Il preteso “danno alla professionalità”. Ritiene il Tribunale che il panorama delle categorie concettuali di danno sopra riepilogate sia esaustivo, potendo esservi ricondotte tutte le “perdite” che, in concreto, una condotta illecita (o inadempiente) può determinare. Non appare quindi necessario richiamare il concetto di “danno alla professionalità” – che pure viene normalmente evocato in giurisprudenza nei casi di violazione dell’art. 2103 c.c. – trattandosi di una categoria disomogenea, cui sono stati ricondotti pregiudizi di svariata natura, i quali si fondono (e si confondono) in un contenitore che, a ben vedere, appare, per un verso privo di coerenza logica e sistematica e, per altro verso, foriero di complicazioni processuali, sia quanto al problema della prova del pregiudizio, sia quanto alla sua liquidazione. Guardando alla giurisprudenza che ha fatto uso del paradigma in questione  si comprende, infatti, come esso sia stato utilizzato per compensare  i diversi tipi di danno causati dal demansionamento, condotta, questa, che può ledere la professionalità del lavoratore (depauperandola o non consentendone l’incremento, con il conseguente pregiudizio sulla possibilità di carriera e sulla minor competitività nel mercato del lavoro: v. Cass. 7.7.2001 n. 9228), ma anche la sua dignità professionale (intesa quale diritto di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo: Cass. 2.1.2002 n. 10) e la sua immagine all’interno e all’esterno dell’azienda (con possibili riflessi economici e morali: C. App. Milano 11.5.2001); può poi determinare danni biologici (soprattutto di carattere psichico: Trib. Torino, 27.6.2001) e, più raramente (perché non è frequente la realizzazione di reati), danni morali. Inoltre – considerando le ripercussioni negative che un demansionamento o, addirittura, una forzata e duratura inattività, producono sulla  quotidiana esistenza del lavoratore – si è talvolta parlato di danni alla vita di relazione (Cass. 6.11.2000 n. 14443).

Sul rilievo che il demansionamento comporta – pressoché sempre – un  pregiudizio alla professionalità (a volte intesa quale elemento che consente al lavoratore di concorrere sul mercato del lavoro e, dunque, di ottenere reddito e, a volte, intesa, anche o soltanto, come lesione di un diritto della personalità) e all’immagine o al decoro professionale del  prestatore d’opera, la più recente giurisprudenza di merito e legittimità – richiamata in ricorso – suole ritenere che tali danni siano in re ipsa, potendo essere desunti (e liquidati) sulla base di comuni regole di esperienza, valutabili quali indizi di carattere logico. Gli ulteriori profili di danno (salvo quello biologico, sempre tenuto ben distinto e liquidato soltanto a seguito di rigorosa prova), sono spesso ricompresi in tali pregiudizi e, in linea di massima, si afferma che l’intero danno da perdita di professionalità trova ristoro nel riconoscimento di una somma corrispondente ad una certa percentuale della retribuzione mensile o – come ha richiesto la difesa di parte ricorrente nel caso di specie – nell’importo corrispondente alla differenza tra la retribuzione prevista per l’inquadramento assegnato al dipendente e l’inferiore livello in cui rientrano le mansioni di fatto assegnate.

         Una parte della più recente giurisprudenza di merito e legittimità (Cass., 14.11.2001 n. 14199; Trib. Treviso, 13.10.2000) si mostra invece consapevole della plurioffensività della condotta posta in essere in violazione dell’art. 2103 c.c. e, anche ai fini risarcitori, rifiutando l’omnicomprensiva categoria del “danno alla professionalità”, tende a distiguere le varie “voci” di danno. Siffatto metodo – ritiene questo Tribunale – è senza dubbio preferibile, sicché, facendo impiego delle comuni categorie descrittive del danno quali più sopra delineate, occorre innanzitutto distinguere il danno patrimoniale (danno emergente per diminuzione di retribuzione conseguente alla dequalificazione e per perdita di chances, o  lucro cessante per la concreta perdita di possibilità di carriera interne all’azienda o di migliori impieghi) dal danno non patrimoniale. All’interno di quest’ultima categoria bisogna poi distinguere il danno biologico (che può assumere le forme di malattia psichica), il danno morale (ravvisabile in caso di reato) e il danno esistenziale, inteso come sconvolgimento della vita familiare, lavorativa e sociale conseguente al demansionamento.

         B) Il danno biologico. Parte ricorrente ha allegato che dalla condotta di demansionamento e mobbing imputabile all’INPS sarebbe derivato un danno biologico temporaneo del 30% - così quantificato dal consulente di parte dott. MAGLIONA – qualificabile come “disturbo dell’adattamento con significativa componente occupazionale” (diagnosticato dai sanitari della Clinica del Lavoro L. Devoto dell’Università di Milano). Rileva, al proposito, il giudicante che, in mancanza di un attendibile valutazione medica compiuta su dati di fatto oggettivi, non possa ritenersi provata l’esistenza di una patologia in senso medico-legale. In primo luogo, deve osservarsi come la diagnosi formulata nel febbraio 2000 dai clinici dell’Università di Milano consegua ad accertamenti diagnostici che questo giudice non è stato posto in grado di valutare (a parte il referto della visita neurologica, essi sono soltanto menzionati nella lettera di dimissioni prodotta come doc. 63), mentre il giudizio del dott. MAGLIONA si è fondato (oltre che, e soprattutto, su tale diagnosi) soltanto su alcuni certificati medici, alcuni dei quali (quelli del 1989  e del 1992) inutilizzabili perché antecedenti al periodo per il quale è stata riconosciuta la responsabilità della convenuta e altri non significativi (il certificato del 14.6.1999 riguarda una crisi d’ansia acuta a seguito della “scenata” subita quel giorno dal direttore PALMISANO – della quale già si è detto – senza indicazione di prognosi, mentre il certificato del medico curante dott. TORNONI non è nemmeno stato prodotto in causa e sembra comunque trattarsi di un parere rilasciato appositamente per il presente giudizio). In secondo luogo, i tratti salienti della pretesa patologia quali rilevabili dalla lettera di dimissioni dell’Università di Milano (ansia e umore depresso) sembrano costituire – come, peraltro, espressamente si legge nel referto della visita neurologica – un non meglio qualificato “stato di disagio psicofisico”, che è stato correlato (non tanto ad una situazione di alterazione organica, quanto) alla conflittualità ed emarginazione vissuti nell’ambiente di lavoro. Il principale rimedio suggerito, del resto, è stato l’inserimento in gruppi di auto-aiuto, mentre la farmacoterapia (peraltro di carattere antidepressivo) è stata ritenuta soltanto “utile” (e non, quindi, necessaria), sicché appare fortemente dubbia (e non può dirsi provata) la sussistenza di una vera e propria malattia.  Si consideri, da ultimo, che parte ricorrente – probabilmente consapevole della difficoltà di fornire un’adeguata dimostrazione del danno biologico lamentato – non ha nemmeno richiesto che fosse disposta una CTU medico-legale.

         C) Il danno morale. Se il turbamento psichico di cui si è appena detto non sembra valutabile quale patologia, certamente esso rientra nella nozione del danno morale di cui più sopra si è detto. Nel caso di specie, però, la limitazione contenuta nell’art. 2059 c.c. impedisce di ottenerne il risarcimento. La richiesta – non meglio specificata in ricorso – poggia, probabilmente, sul fatto che l’esistenza dell’allegata patologia avrebbe consentito di ravvisare il reato di lesioni (quanto meno) colpose. Disattesa questa prospettazione, non essendo ravvisabile (e neanche allegato), alcun altro illecito penale nella condotta tenuta dai superiori gerarchici della ricorrente, la relativa domanda deve quindi essere disattesa.

         D) Il danno esistenziale. Su questo piano, la domanda è certamente fondata. Lungi dall’aver prodotto soltanto meri turbamenti d’animo e disagi psichici o pure sofferenze, le vessazioni e il demansionamento subiti dalla ricorrente hanno infatti determinato un apprezzabile, e concreto, peggioramento delle condizioni di vita della CANDELO, sia sul posto di lavoro, sia nel mondo extralavorativo. Nel caso di specie, è quindi possibile affermare la sussistenza del danno esistenziale, seguendo gli insegnamenti della Corte di cassazione, che, al proposito, osserva come “il pregiudizio di un diritto inviolabile della personalità deve essere da colui che lo invoca allegato e provato (sia pure con ampio ricorso alle presunzioni, allorché non si versi nell’ambito del pregiudizio della salute in senso stretto, in relazione al quale l’alterazione fisica o psichica è oggettivamente accertabile), nei suoi caratteri naturalistici (incidenza su di una concreta attività, pure non reddituale, e non mero patema d’animo interiore) e nel nesso di causalità”, sicché, “su di un piano diverso e logicamente successivo, una volta accertato il cd. danno evento (cioè il pregiudizio del diritto fondamentale), si colloca la valutazione del cd. danno-conseguenza, cioè dell’entità del sacrificio sofferto, ai fini di una liquidazione naturaliter equitativa” (Cass., sent. 9009/2001).

         Nel caso di specie, quello che il giudice della nomofilachia, nella decisione appena citata, indica come danno-evento – ma che meglio potrebbe essere definito, come insegna Cass. S.U. n. 500/1999, quale interesse giuridico protetto dall’ordinamento che consente di ritenere ingiusto il conseguente pregiudizio – è la lesione della personalità morale della dipendente (art. 2087 c.c.), del suo diritto a svolgere mansioni confacenti con il livello d’inquadramento attribuito (art. 2103 c.c.), della sua dignità quale donna e lavoratrice (art. 41, comma 2 Cost.), del suo diritto a realizzarsi, senza indebite costrizioni, nel mondo del lavoro e in altre formazioni sociali, in particolare in seno alla famiglia, ove la donna lavoratrice deve poter svolgere serenamente la propria essenziale funzione anche materna (artt. 2, 29, 37 comma 1 Cost.). Or bene, osserva il giudicante come tali interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento siano indubbiamente stati lesi e come ne siano conseguentemente derivati pregiudizi alla quotidiana esistenza della CANDELO con particolare riguardo al mondo del lavoro e a quello familiare.

         Circa il primo aspetto della questione, è agevole rilevare che la qualità della vita lavorativa della CANDELO peggiorò sensibilmente a far tempo dal gennaio 1994, quando cominciò ad essere attuato il demansionamento e dopo che, nel precedente anno 1993, la lavoratrice già era stata fatta oggetto di indebite ed esagerate pressioni da parte dei superiori (sicché se ne era già vulnerata la capacità di reazione). Già si è detto dell’illegittima costrizione a svolgere mansioni dequalificanti, delle “sfuriate” dei superiori, dell’accanimento disciplinare, delle non sporadiche crisi di pianto sul luogo di lavoro. A ciò si aggiungano, per qualificare la gravità del peggioramento dell’esistenza lavorativa, i seguenti, ulteriori, elementi raccolti nel corso dell’istruttoria testimoniale e riferiti al periodo 1994-2000:

- la particolare prostrazione psicologica che la costrizione a svolgere così a lungo mansioni inferiori cagionò alla CANDELO: ha riferito la teste MANE’ “ricordo momenti di sconforto da parte della ricorrente perché era adibita esclusivamente a quel lavoro di acquisizione certificati. Sentiva che perdeva di professionalità e mi chiedeva come uscirne…rimasi di nuovo assente per malattia e tornai nell’ottobre 1995. La ritrovai adibita al medesimo lavoro, la trovai molto sconfortata; chiedeva una reintegrazione in altre mansioni, ma non riusciva ad uscirne fuori”;

- la trasformazione che lo stato di stress lavorativo dovuto all’inadempienza del datore di lavoro determinò nella ricorrente e che molti – soprattutto coloro che l’avevano conosciuta in epoca precedente e che per qualche anno non la frequentarono – colsero  (testi BERTIN, CAMPOLO, MANE’); in particolare, la collega CAMPOLO, che aveva consciuto CANDELO negli anni ’80, la rivide, dopo molti anni, nel 1999 e così ha dichiarato: “vidi una persona parecchio diversa da come l’avevo conosciuta. Sembrava un pulcino bagnato, molto magra, molto ansiosa, l’ho vista piangere un po’ di volte, cosa che a me era sconosciuta. Mi parlò di problemi seri che aveva dal punto di vista lavorativo. Lei era ossessionata dal fatto di andare in ufficio perché aveva un ambiente ostile, face dei lavori dequalificanti era molto depressa”;

- l’estrinsecazione, da parte della ricorrente, del proprio grave disagio sul luogo di lavoro nei confronti di tutti coloro con cui ebbe modo di rapportarsi (ACQUACHIARA, SAPONE, BERTIN, CALLIERO, SCILLITANI, MATASSA, CAMPOLO, MANE’);

- il progressivo sconvolgimento della vita lavorativa dovuto agli abnormi controlli di cui era fatta oggetto da parte dei superiori: “ricordo poi di averla incontrata al 5° piano, in una stanza adiacente alla direzione. I due uffici sono comunicanti internamente da una porta a vetri e così il direttore poteva vedere se le persone entravano in quella stanza. I nostri rapporti quindi vennero meno, perché avevo paura a farmi vedere dialogare con la signora…viveva un momento di sconforto ancora maggiore di quanto accadeva quando lavorava al lettore ottico” (MANE’); “quando ci sentivamo al telefono, lei parlava a voce molto bassa; mi diceva che se abbassava improvvisamente il telefono significava che non poteva più parlare. Mi spiegò che si sentiva controllata, che era stata collocata in ufficio vicino al direttore e lei era ansiosa e si sentiva male” (CAROLI); “nel 1999 venna a parlare con me. L’impatto per me  fu duro. Vidi la ricorrente piangere; era in uno stato di prostrazione e umiliazione notevole. La signora mi raccontò di essere oggetto di vessazioni da parte del direttore della sede di Pinerolo” (SCALIA);

- la grave compromissione della vita lavorativa indusse poi la ricorrente a fare scelte che, altrimenti non avrebbe fatto (anche per i pregiudizi economici che ne conseguirono), come il mantenimento dell’orario a tempo parziale pur quando vennero meno le esigenze familiari che avevano determinato l’opzione (la necessità di accudire al figlio ancora piccolo) e, infine, la richiesta di  trasferimento alla ben più scomoda sede di Torino al solo scopo di sfuggire ad una situazione di vessazione continua oramai divenuta insostenibile, dopo aver in ogni modo cercato di ottenere (tramite richieste  ai superiori, alla sede regionale, alle organizzazioni sindacali) la cessazione delle condotte inadempienti e lesive (testi AUDRITO, CAMPOLO, SCALIA);

- che gli sconvolgimenti esistenziali di cui si è parlato dipendessero soltanto dalle vessazioni patite sul lavoro, lo si ricava – in termini di ragionevole certezza (cfr., sul punto, anche il conforme giudizio medico dei sanitari dell’Università di Milano) – dal fatto che, dopo il trasferimento alla sede di Torino, la cessazione delle ostilità nei suoi confronti, il ripristino in mansioni confacenti all’inquadramento, la precedente buona qualità della vita (lavorativa e non) fu in breve recuperata, salvo il solo disagio conseguente alla scomodità del viaggio per raggiungere la nuova sede (testi AUDRITO, CAMPOLO, SCALIA).

Secondo criteri logici di normalità, è poi agevole desumere come la grave situazione lavorativa appena tratteggiata non potesse non ripercuotersi al di fuori del mondo nel lavoro, ledendo, in particolare, la vita familiare e le attività di svago e ricreazione. Di ciò, peraltro, ha riferito – in modo apparso indubbiamente attendibile, anche per i riscontri documentali – il teste AUDRITO, marito della ricorrente: “una cosa che ha inciso sulla famiglia, fu la questione delle ferie. Mia moglie pianificava per tempo la richiesta di ferie, arrivato il momento di andare in ferie, magari con tutto prenotato, le veniva spesso detto che c’era una qualche ragione per cui non si potevano più concedere…in molti casi le lettere di contestazione arrivavano un giorno o due prima dei periodi di ferie, sicché ci rovinavano la vacanza…quando arrivavano le lettere cominciava ad avere periodi di insonnia, coliti, momenti di pianto e depressione che dopo un po’ si risolvevano. Con l’andare del tempo subentrò però un periodo d’ansia. Il colpo peggiore giunse nell’ultimo periodo quando fu isolata nella stanza di fianco al direttore…mia moglie è una persona estroversa e l’isolamento mise in crisi anche la sua autostima…oggi, per fortuna, a casa si parla di altre cose e non di INPS, come era successo nei lunghi anni precedenti. Non dico tutti i giorni, ma spesso, arrivata a casa, con mia moglie si doveva parlare a lungo per aiutarla a ripartire…d’accordo con la famiglia, telefonammo ad una nostra conoscente psicologa del San Luigi di Orbassano, perché la situazione si era fatta insostenibile, aveva frequenti crisi di pianto e ci consigliò una psichiatra del San Luigi. Mia moglie andò e fece diverse sedute…avevo sposato una persona e me ne ritrovavo un’altra”.

Quanto alla liquidazione del danno, è evidente che essa può avvenire soltanto in termini equitativi che debbono avere riguardo alla natura, all’intensità e alla durata delle compromissioni esistenziali che si sono rilevate. In assenza di altri parametri oggettivi – e non apparendo opportuno fare riferimento ad un parametro di natura patrimoniale come quello della retribuzione per liquidare il danno alla persona (che colpisce i danneggiati in modo indipendente dalle loro capacità di reddito) – ritiene il giudicante che possa seguirsi un metodo in qualche modo analogo a quello comunemente utilizzato dai giudici di merito per risarcire il danno biologico temporaneo. Già si è posto in evidenza, infatti, la similitudine sussistente tra le due “voci” di danno in questione, entrambe contraddistinte dalle ricadute sul concreto dispiegarsi della vita del soggetto leso. Se, dunque, una lesione psico-fisica che annulli del tutto, per un certo tempo, le possibilità del soggetto di dedicarsi alle normali attività (c.d. inabilità temporanea totale) trova equo ristoro – secondo canoni di valutazione comunemente condivisi dalla giurisprudenza di merito del distretto – in una somma che si aggira sui 50 Euro al dì, la compromissione delle attività realizzatrici della persona evidenziata nel caso di specie può essere assimilata alla inabilità temporanea parziale conseguente a malattia. Ciò premesso, occorre poi considerare i due diversi ambiti in cui il pregiudizio esistenziale per la CANDELO si è prodotto.

Quanto al peggioramento della vita lavorativa, tenendo conto che l’orario di lavoro era di sei ore al giorno (1/4 del tempo a disposizione nella giornata) e che il pur grave demansionamento non annullò del tutto la possibilità di realizzarsi come lavoratrice, si stima equo indicare il risarcimento in 10 Euro per ciascun giorno lavorativo. Tenendo conto dei congedi feriali, dei giorni di permesso, delle assenze per malattia o altra causa, può prudenzialmente considerarsi un numero pari a 276 giornate lavorative nel 1994 e di 138 negli anni dal 1995 al 2000 (quando la ricorrente lavorò soltanto tre giorni a settimana), sicché se ne ricava un importo complessivo di 11.040 Euro.

A ciò deve aggiungersi il risarcimento dovuto per il generale peggioramento dell’esistenza complessivamente intesa, essendo chiaro – per quanto più sopra riferito – che il periodo 1994-2000 fu segnato, per la ricorrente, da gravi limitazioni in tutti i campi in cui l’individuo realizza se stesso, con disturbi che hanno compromesso la qualità della vita (insonnie, cefalee, inappetenza, coliti…), spazi sottratti agli svaghi e alla coltivazione degli affetti e delle amicizie, ripercussioni sulla serenità della vita familiare. Reputa il giudicante che, come media – avendo sempre riguardo ad un rapporto di proporzionalità con gli importi usualmente liquidati per indennizzare la I.T.P. - tali pregiudizi possano trovare equo ristoro in una somma mensile complessiva di 200 Euro per 7 anni, pari a 16.800 Euro.

         A tali importi occorre ancora aggiungere una somma forfetaria per le residue compromissioni esistenziali che, nel primo anno successivo al trasferimento alla sede di Torino, residuarono nell’ambito extralavorativo, prima che il graduale recupero della normale esistenza portasse ad un sostanziale ristabilimento dello status quo ante e per gli effetti negativi sin qui prodottisi per il disagio dovuto al pendolarismo tra il luogo di residenza e il nuovo (necessitato) luogo di lavoro. Questi pregiudizi possono trovare equo ristoro nella somma di Euro 2.500.

         E) Il danno patrimoniale. La sola pretesa al proposito espressamente avanzata in ricorso riguarda il rimborso delle spese sostenute per gli accertamenti medici e diagnostici resisi necessari per far fronte alla situazione di stress e per impedire che essa degenerasse. Che tali esborsi siano ripetibili quali danni emergenti causalmente conseguenti alla condotta inadempiente dell’INPS e illecita di suoi funzionari, indipendentemente dall’accertamento di una patologia e quindi di un danno biologico in senso stretto, non vi è dubbio: anche il costo sostenuto per gli accertamenti diagnostici finalizzati a tenere sotto controllo il proprio stato di salute per evitare l’insorgere di una malattia che sarebbe stata ascrivibile alla responsabilità di altri (condotta peraltro dovuta, ex artt. 1175 e 1227, comma 2, c.c.) costituisce infatti un danno. Trattandosi di spese documentate, deve quindi essere accolta la richiesta di condanna alla somma di 583,23 Euro.

         Occorre, ancora, esaminare gli eventuali profili di danno patrimoniale che possono ritenersi insiti nella richiesta di condanna al risarcimento del danno alla professionalità conseguente al demansionamento. A questo riguardo, osserva il giudicante come, nel caso di specie, non siano ravvisabili perdite o mancati guadagni. Ed invero:

la ricorrente percepì sempre lo stipendio proprio del suo livello d’inquadramento;

- non vi è prova che il prolungato demansionamento abbia inciso sulle chances di ottenere impieghi meglio remunerati: per un verso, la ricorrente non ha allegato, nemmeno nei momenti di massima pressione subita, di essere stata interessata ad assunzioni presso altri datori di lavoro e, anzi, quando si è trovata nella necessità di sfuggire alla situazione di mobbing ha optato per una soluzione interna all’INPS; per altro verso, ella, al pari di colleghi di VII livello aventi analoga anzianità di servizio (CHIABRANDO, CAMPOLO, CAROLI), ottenne la promozione nell’VIII livello (mentre altri colleghi - CALLIERO,  UGHETTO – rimasero di VII livello);

- il sia pur lungo periodo di demansionamento, dunque, non ha avuto ricadute negative sul patrimonio e, se può aver ostacolato l’incremento della professionalità della ricorrente (occorre, tuttavia, considerare che, anche su questo piano, l’incidenza pare essere stata modesta, posto che ci si trova di fronte ad un’impiegata che lavora all’INPS da 30 anni e che ha avuto possibilità di lavorare in diversi settori), l’unico soggetto che ne patisce le eventuali conseguenze patrimoniali è proprio l’Istituto convenuto, che, al limite, non può pretendere dalla dipendente la resa che vi sarebbe probabilmente stata se la professionalità fosse cresciuta anche nei sette anni per cui è causa.

5. Le ulteriori domande volte ad ottenere la condanna dell’INPS a disporre il trasferimento della ricorrente alla sede di Pinerolo in mansioni confacenti all’VIII livello sono prive di fondamento. La difesa di parte ricorrente non ha in alcun modo argomentato, sul piano giuridico, le ragioni che potrebbero condurre all’accoglimento di siffatte conclusioni. Essendosi trattato di un trasferimento di sede richiesto dalla CANDELO, si sarebbe dovuto richiedere una pronuncia di annullamento dell’atto negoziale presupposto, allegandone le ragioni; in difetto di esplicita domanda, giusta il principio di cui all’art. 112 c.p.c., questo giudice non può però affrontare la questione. Si consideri, del resto, che non consta l’impossibilità della ricorrente di riottenere, a semplice domanda, il trasferimento alla sede di Pinerolo. Quanto alla condanna ad ottenere mansioni confacenti all’attuale inquadramento, è pacifico che, da quando lavora a Torino, Maria CANDELO svolge compiti propri del suo livello professionale.

* * * *

In conclusione, disattesa ogni altra istanza, l’INPS dev’essere condannato a pagare alla ricorrente la somma complessiva di 30.923,23 Euro. Trattandosi di credito di valore liquidato secondo parametri correnti, sulla somma decorrono interessi legali dalla data della sentenza al saldo. In difetto di prova del maggior danno subito – giusta la previsione di cui all’art. 22, comma 36, l. 23.12.1994 n. 724 – non spetta, invece, la rivalutazione monetaria.

Quanto alle spese, la parziale, reciproca, soccombenza – tenendo conto della misura della stessa e del fatto che, comunque, le domande respinte non hanno comportato l’aggravio di istruttoria – giustifica la compensazione di esse in misura di un terzo. Parte convenuta deve quindi essere condannata a rimborsare alla ricorrente la restante parte delle spese che, per l’intero – valutato il valore della causa in relazione alla domanda definitivamente accolta e tenendo conto, da un lato, della non eccessiva durata del giudizio (definito in sole 5 udienze) e, d’altro lato, della complessità dei problemi sottesi – dev’essere liquidata in complessivi 4.950 Euro, di cui 1.700 per diritti, 450 per rimborso spese generali e il resto per onorari, oltre IVA e CPA.

P. Q. M.

visto l’art. 429 c.p.c.,

disattesa ogni altra istanza,

dichiara tenuto e condanna l’INPS a pagare alla   ricorrente la somma di 30.923,23 Euro, oltre interessi legali da oggi al saldo.

Compensa le spese di lite nella misura di 1/3 e condanna parte convenuta a rimborsare a parte ricorrente la restante parte delle spese, liquidate, per l’intero, in complessivi 4.950 Euro, oltre IVA  e CPA.

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