Per risarcire il mobbing è ultroneo il requisito dell'intenzionalità
1. Il 20 maggio 2008 la sezione lavoro della Cassazione, con il n. 12735, ha emesso una importante decisione, sulla quale di seguito ci intratterremo, delineando preliminarmente la vicenda da cui è scaturita.
Il Direttore Generale di un’azienda torinese – facente parte di un Gruppo – ad un certo momento e per ragioni poco comprensibili cade in disgrazia.  I vertici aziendali iniziano un’opera di emarginazione con la tecnica di bypassarlo, di non invitarlo alle riunioni, esautorandolo nelle decisioni aziendali e nei poteri di pertinenza; il direttore generale imputa all’azienda una dequalificazione e intraprende una vertenza convocando, senza esiti, i rappresentanti aziendali presso la commissione di conciliazione della DPL; i vertici aziendali progressivamente provvedono a spostargli la sede di lavoro, a licenziare (per esubero di personale o soppressione di posizione di lavoro)  due addette del di lui ufficio da questi fiduciariamente assunte, e – come avviene in simili situazioni di disagio da ambiente ostile – il direttore generale cade in malattia da sindrome depressiva. Durante la medesima gli viene revocata l’auto di servizio, il via card, il bancomat, la firma sul conto corrente bancario. Percependo pacificamente di essere stato sfiduciato senza alcuna motivazione, alla fine della malattia rassegna con immediatezza le dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c. e inizia una rivendicazione legale. L’azienda, disconoscendo la giusta causa di dimissioni, trattiene dalle spettanze di fine rapporto l’indennità di mancato preavviso. Nella vertenza, pertanto, il dirigente rivendica: a) la corresponsione dell’indennità di supposto mancato preavviso trattenutagli dal tfr, l’indennità di preavviso per dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c. (o ex art. 16 ccnl per i dirigenti d’industria dimessisi per cd. mutamento sostanziale di posizione), l’annuale premio di risultato (cd. indennità integrativa), il danno da dequalificazione, il danno biologico e morale conseguente ad una asserita pratica di mobbing aziendale.
Il tribunale di Torino, in primo grado, rigetta integralmente il ricorso; adita la Corte d’Appello, questa riscontra sussistente la giusta causa di dimissioni, imponendo all’azienda la corresponsione di quanto trattenuto dal tfr ed  il versamento della consistente indennità di preavviso, tuttavia nega la dequalificazione in quanto la ricerca di nuove mansioni sarebbe stata oggettivamente impedita dalla caduta in malattia del dirigente; nega altresì la sussistenza di una strategia persecutoria idonea – per carente reiterazione, sistematicità e intenzionalità vessatoria delle plurime condotte aziendali –  a legittimare il risarcimento dei danni biologico e morale da cd. mobbing.
 
2. L’azienda non paga di una simile soluzione giudiziale “transattiva” (giacché a fronte dell’aliquid datum dalla magistratura al ricorrente c’è anche il cd. aliquid retentum a favore della convenuta, in forma di esenzione dal risarcimento danni da dequalificazione e da condotte mortificanti e vessatorie, condensate dal ricorrente nella dizione sociologica d’uso, “mobbing”), ricorre in Cassazione e qui riceve la  classica “lezione”.
La Cassazione non solo riconferma la pacifica sussistenza della giusta causa di dimissioni, sottraendo l’accertamento operato dalla Corte d’Appello torinese, sul punto specifico, a qualsiasi vizio di motivazione, in quanto giudica la condotta aziendale “massimamente espressiva, oltre che di disistima nei confronti del direttore generale, anche di assoluta sfiducia in ordine alla correttezza e correntezza futura del rapporto”, ma - salvo non riconoscere il danno da dequalificazione in ragione della sopravvenuta malattia che l’ha reso temporalmente residuale e poco percettibile - sconfessa la Corte d’Appello di Torino in ordine alla irrisarcibilità del danno biologico e morale da comportamenti vessatori, lesivi della personalità morale ex art. 2087 c.c. e rinvia per un esame di riscontro, esente dai vizi argomentativi e concettuali della Corte torinese, alla Corte d’Appello di Genova.
La motivazione della Corte torinese in ordine al diniego dei danni da cd. mobbing è espressamente qualificata erronea.
Erronea perché la Corte – a fini di negazione – si è autoconfezionata (o ha recepito) una nozione maldestra e stereotipata del mobbing che incontra il condivisibile dissenso della Cassazione, nella misura in cui ha inopinatamente addizionato alle caratteristiche della lesività (sistematica, reiterata e non sporadica o episodica) delle condotte quello della cd. intenzionalità o finalizzazione intenzionale di nuocere alla vittima, in fattispecie non riscontrata dalla Corte di merito. Cioè a dire, vi ha addizionato il requisito penalistico del dolo o animus nocendi o cd. elemento soggettivo/psicologico, del tutto pertinente in ambito penalistico ma nient’affatto necessario, anzi del tutto estraneo all’ambito della responsabilità civile di natura contrattuale, sufficiente essendo l’elemento colposo.
E’ da tempo che la Corte d’Appello Torino, in tema di mobbing,  ricorre alle argomentazioni che di seguito riproduciamo: «(…) stando ai contributi scientifici più accreditati ma anche all'orientamento oramai prevalente della giurisprudenza, risulta essere la definizione comune del mobbing/bossing (o mobbing datoriale), quella per cui  deve essere inteso come una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, per­sistente e in costante progresso, in cui una persona viene fatta oggetto da parte del datore di lavoro, o dei suoi preposti, di azioni di alto contenuto persecutorio, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità e con la conseguenza che il mobbizzato si trova nella impossibilità di reagire adegua­tamente a tali attacchi e, a lungo andare, accusa disturbi psicosomatici, rela­zionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche per­manenti. È opinione comune, inoltre, che è onere del lavoratore provare in modo rigoroso che il datore di lavoro ha posto in essere nei suoi confronti una precisa strategia persecutoria, attraverso una serie ripetuta di comportamenti materiali finalizzati ad espellerlo dall'ambiente di lavoro». Mobbing che non sarebbe ravvisabile – sempre secondo la Corte d’Appello di Torino - se «i comportamenti del datore di lavoro sono comunque privi di carattere vessatorio o persecutorio (...), e se nei confronti degli stessi non è ravvisabile il carattere della ripetitività (...)». In concreto, prosegue  sempre la Corte d’appello torinese, «non è suf­ficiente a costituire mobbing una situazione conflittuale nei rapporti interper­sonali, essendo invece necessario che esista una condotta vessatoria, reiterata e duratura, finalizzata all'isolamento del lavoratore nel proprio contesto lavora­tivo ovvero alla sua estromissione dall'azienda e che l’effetto di tali soprusi provochi nel soggetto mobbizzato uno stato di disagio psichico e l’insorgere di un danno alla salute, non dovendosi per vero dimenticare che la norma alla quale occorre fare riferimento è l’art. 2087 cod. civ. e che, pertanto, è necessario dimostrare che il datore di lavoro è venuto meno all'obbligo di tutelare la salute psico-fisica del proprio dipendente (...)». Ciò in quanto «in assenza di una definizione legislativa del mobbing e di una tutela specifica della vittima, la scienza psichiatrica prima e la dottrina giuslavoristica e la giurisprudenza poi si sono occupate dell’elaborazione dei tratti caratteristici del mobbing e a tale elaborazione occorre necessariamente riferirsi nel valutare la fattispecie oggetto di causa»(così, C. App. Torino, Sez. lav., 27 maggio 2005, inedita,  e  conf. C. App. Torino, Sez. lav., 14 luglio 2004, inedita; porzioni di sentenze entrambe tratte dal volume curato da  C. Parodi – con la collaborazione di R. Sanlorenzo, consigliere della sezione lavoro della C. d’Appello di Torino - Mobbing, Il sole 24 Ore, 2007, 65 e ss.).
Stavolta, a quanto leggiamo dal resoconto della motivazione fornitoci dalla Cassazione nella decisione n. 12735/08 in commento, la Corte d’Appello deve essere stata più esplicita ed incisiva nel postulare l’esigenza del riscontro del requisito dell’intenzionalità o dolo, acclarabile in capo al vessatore, requisito che Trib. Bari, 20.2./12.3.2004 (est. Rubino), in D&G n. 15/2004, ha addirittura enfatizzato con l’aggettivo “indefettibile” a fini di diniego, incontrando a suo tempo il nostro deciso dissenso. Con la conseguenza che quando il ricorrente non lo dimostri (invero dopo le prime decisioni la pretesa è oramai stata lasciata cadere, nella consapevolezza che non si può onerare la vittima di provare ciò che sta nella mente del vessatore) o obbiettivamente non appaia possibile il riscontro da parte del magistrato in ragione delle caratteristiche delle condotte, il vessatore va esente da responsabilità risarcitorie ed il ricorrente se ne torna  a casa con “le pive nel sacco”.
Chi scrive da tempo ha evidenziato diffusamente l’erroneità della richiesta del suddetto requisito psicologico o soggettivo, al fine di sottrarre all’obbligo di risarcibilità l’autore di una condotta contrattualmente e oggettivamente inadempiente e lesiva dell’art. 2087 c.c. (che fa obbligo al datore di tutelare anche la personalità morale del prestatore)  nonché  dell’art. 2103 c.c. (quando ricorra congiuntamente la dequalificazione).
Ci siamo spesi in articoli e in capitoli di volumi (cfr. da ultimo il nostro, Il rapporto di lavoro in azienda, Ediesse, Roma 2008, p. 108 e ss.) nel tentare di far percepire e recepire quanto segue:
«In ordine al riscontro dell’elemento soggettivo o teleologico della finalizzazione degli atti persecutori o vessatori, riteniamo – in contrasto con chi si ostina, anche in sede giudiziale, per tale riscontro con onere probatorio a carico del mobbizzato e non già semmai per una emersione dagli atti istruttori – che tale riscontro non sia affatto necessario, essendo sufficiente a strutturare la fattispecie non già la finalizzazione quanto la «idoneità» dei comportamenti a ledere oggettivamente la dignità, immagine e reputazione professionale del lavoratore. Sul punto non può che convenirsi – non già in generale, ma sullo specifico aspetto – con quella dottrina (A. Vallebona, Il mobbing senza veli, in DRI, 4/2005, 1052 e ss., concetto ripetuto dall’autore in Mobbing: qualificazione, oneri probatori e rimedi, in MGL 2006, 9) che al riguardo ha evidenziato come: “L’idea di valorizzare l’elemento soggettivo della condotta lesiva, non solo, come si vedrà, è incompatibile col diritto vigente, ma condizionerebbe ogni tutela alla difficile prova di tale elemento. Quello che conta, invece, è la oggettività della condotta, come è stato già chiarito per le discriminazioni e per il comportamento antisindacale”, da Cass., Ss.Uu., 12 giugno 1997 n. 5295 (da noi commentata in D&L 1998, nell’articolo Irrilevanza dell’intenzionalità nella condotta antisindacale, ivi 1998, 293)». Tale decisione aveva al riguardo risolto una divergenza di opinioni in seno alle sezioni semplici della Cassazione – in tema di condotta antisindacale – in questi termini: «Per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (l. n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate […], né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero».
Nello stesso senso, autorevolmente da altra dottrina, è stato detto: «Anche la finalità di allontanare o escludere il lavoratore dal posto di lavoro non può considerarsi un requisito presente in ogni pratica di mobbing; non è, in altri termini, necessario, o comunque rilevante, il “dolo specifico”» (S. Banchetti, Mobbing, danni alla persona del lavoratore e strumenti di tutela, in www. personaedanno.it, 2005, 5; S. Banchetti, Il mobbing, in Trattato breve dei nuovi danni, a cura di P. Cendon, Cedam, Milano 2001, 2082; H. Ege, nota critica a Trib. Como, 22.5.2001, in LG., 2002, 76; M. Pedrazzoli – a cura di – Vessazioni e angherie sul lavoro, Zanichelli, Bologna 2007, 28 e ss., secondo cui «l’intento persecutorio della condotta non occorre ma può giovare per andare oltre il danno prevedibile»). Del tutto confermativamente, C. Cardarello (Il mobbing e il risarcimento del danno: quando le sentenze anticipano le norme, in D&G, n. 9, 2005, 55) secondo cui: «Ancorare la sussistenza del mobbing alla contemporanea esistenza dell’elemento doloso sembra profondamente errato, giacché ciò che deve rilevare, pur in presenza di un comportamento colposo, è l’oggettività del fatto, o dei fatti, costituenti compressione della sfera professionale e personale del lavoratore, dovendosi semmai ritenere che il profilo doloso possa, anzi debba, costituire un elemento aggravante la responsabilità del mobber in termini risarcitori».
L’alternativa tra concezione cd. «soggettiva» – per la quale verrebbe in rilievo l’elemento psicologico, il dolo generico o specifico – e la cd. concezione «oggettiva» (che noi sosteniamo), è stata esaminata anche da R. Scognamiglio, che lo ha portato in due saggi (A proposito di mobbing, in RIDL 2004, I, 503-505 e in Mobbing: profili civilistici e giuslavoristici, in MGL 2006, 5) ad una chiara opzione per la tesi «oggettiva» asserendo, nell’ultimo articolo sul tema, che: «A mio avviso, la teoria che attribuisce rilevanza all’elemento soggettivo si espone all’obiezione, e fa correre il rischio di restringere l’ambito di operatività del mobbing, implicando la difficile verifica della intenzione del trasgressore. Laddove appare sufficiente per la ricorrenza, e la rilevanza del fenomeno che la sequenza di atti e comportamenti contrastanti con gli interessi e le esigenze del lavoratore assuma una valenza persecutoria, in cui risulta implicito, per tagliare corto alla questione, il perseguimento di una finalità illecita». Lo stesso accademico, nel precedente saggio, in senso conforme, affermava con altre parole che: «A ben vedere l’alternativa tra le concezioni soggettiva ed oggettiva del mobbing costituisce frutto di una considerazione astratta del fenomeno, che poco contribuisce, seppure non risulta fuorviante, alla sua corretta configurazione. In effetti la distinzione, che si propone, tra motivo discriminatorio o vessatorio e l’aspetto soggettivo della condotta individuato nel dolo o nella colpa, induce ad identificare l’elemento soggettivo nella finalità illecita della condotta illegittima, riconducibile piuttosto alla componente obiettiva della condotta medesima».
Sul punto specifico – tra le diverse decisioni giurisprudenziali – si è pronunciato abbastanza recentemente Tar del Lazio, III sez. bis, 12.1/5.4.2004 (est. Arzillo, inedita), che ha opposto alla pretesa di condizionare il mobbing al riscontro del requisito dell’intenzionalità, tali condivisibili argomentazioni: «Al riguardo va precisato che questo intento persecutorio non va configurato in termini eccessivamente soggettivistici: il Tribunale, discostandosi da un orientamento giurisprudenziale (Trib. Como, 22 febbraio 2003, in MGL 2003, 328), ritiene che non sia comunque necessario indagare nella loro interezza i motivi che sono a base dell’intento persecutorio, essendo sufficiente attenersi ai caratteri oggettivi della condotta (ripetitiva, emulativa, pretestuosa e quindi oggettivamente vessatoria e discriminatoria), ai fini di poter considerare dolosi i comportamenti lamentati (in questo senso cfr. Trib. Milano, 20 maggio 2000, in LG 2001, 367). Risultano quindi inconferenti le deduzioni della difesa (…), secondo cui la vicenda presupporrebbe una ricostruzione in chiave penalistica, con le connesse conseguenze sia in ordine all’interruzione del cd. “nesso di occasionalità necessaria”, sia in ordine alla necessità di rilevare la sussistenza di un disegno criminoso puntualmente preordinato e coordinato in danno dell’odierna ricorrente. Siffatto ordine di idee è del tutto improprio in questa sede».
Anche nei recenti lavori parlamentari per l’eventuale emanazione di una disciplina legislativa del mobbing, si è assistito a nutriti emendamenti tesi a sostituire termini teleologici del d.d.l. unificato in discussione quali «comportamenti finalizzati» o «tesi a», con terminologia oggettivante espressa dagli aggettivi «idonei» o «atti a» ledere la personalità morale del lavoratore (in analogia con la formulazione antidiscriminatoria dell’art. 15 Stat. lav., in cui è reperibile la dizione «diretto a»). Perché, come ha insegnato il precedente delle Sezioni Unite in tema di condotta antisindacale, quello che rileva è l’idoneità oggettiva ad arrecare pregiudizio e non si vede per quale ragione in tale tematica – caratterizzata da lesioni di diritti maggiormente protetti in quanto riconducibili nell’ambito degli «inviolabili» dell’individuo – ci si debba discostare, in omaggio a incomprensibile tolleranza, suscettibile di risultare ostativa nei confronti di una auspicabile deterrenza alla reiterazione di una forma patologica di concepire ed affrontare i rapporti interpersonali nell’ambiente di lavoro.
 
3. La Cassazione – in questa egregia decisione -  dimostra di condividere la nostra stessa (e tutt’altro che isolata, in dottrina) impostazione.
Afferma incisivamente e correttamente  la Cassazione: «Ritenendo il mobbing un fenomeno unitario caratterizzato dalla reiterazione e dalla sistematicità delle condotte lesive e dalla intenzionalità delle stesse in direzione del risultato perseguito di isolamento ed espulsione della vittima dal gruppo in cui è inserito, la Corte territoriale (torinese, ndr) ne ha escluso la ricorrenza per l'assenza di tali caratteristiche di reiterazione, sistematicità e intenzionalità delle condotte denunciate. Sennonché, il nostro Ordinamento giuridico non prevede una definizione nei termini indicati di condotte rappresentative del fenomeno mobbing, come un fatto pertanto tipico, a cui connettere conseguenze giuridiche anch'esse previste in maniera tipicizzata. Ciò che pertanto il ricorrente con l'espressione riassuntiva di mobbing riferita alle condotte del datore di lavoro poste in essere nei suoi confronti aveva sottoposto alla valutazione dei giudici di merito, ai fini del richiesto risarcimento dei danni, era la violazione da parte di tali condotte, considerate singolarmente e nel loro complesso, degli obblighi gravanti sull'imprenditore a norma dell'art. 2087 c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite per il relativo inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla necessaria presenza del dolo. Con l'erronea motivazione adottata, la Corte territoriale ha pertanto omesso di valutare correttamente i fatti accertati, tra quelli denunciati dal dirigente, nell'ambito della fattispecie ipotizzata di inadempimento agli obblighi contrattuali stabiliti dall'art. 2087 c.c.».
La motivazione del diniego risarcitorio da parte della Corte d’Appello di Torino viene quindi espressamente qualificata erronea.
Quello che ne esce come lezione per avvocati e ricorrenti è che nei ricorsi non andrebbe mai menzionato o enfatizzato il termine sociologico “mobbing” - per non imbattersi in rifiuti da parte di magistrati comodamente ancorati a fattispecie sociologiche di incerta o controversa configurazione - ma le richieste risarcitorie di danno da vessazioni, mortificazioni e persecuzioni vanno avanzate in quanto inadempimento agli obblighi contrattuali di tutela della personalità morale sanciti nell’art. 2087 c.c. Quantomeno fintanto che non vi sarà una legge che giuridicizzi, correttamente, la nozione di mobbing.
Infine ci piace leggere la decisione della Cassazione anche per quello che non dice espressamente e che auspichiamo abbia voluto perlomeno lasciar intendere.
Confermando gli indennizzi da dimissioni per giusta causa liquidati dalla Corte d’Appello di Torino ed accrescendoli al momento virtualmente (in ragione della loro concreta implementazione ad opera della Corte di rinvio, designata ad applicare le statuizioni di principio asserite) per effetto del parziale accoglimento dell’appello incidentale del ricorrente in ordine al risarcimento del cd. mobbing (correttamente inteso), l’attuale decisione contrasta e scoraggia di fatto quella prassi  su cui si adagia molta nostra magistratura di merito quando nel decidere una controversia in cui talora il lavoratore ha ragione al 100% fa giustizia con lo sconto… all’insegna del “prego, s’accontenti!”. E’ una prassi che riscontriamo troppo spesso, che finisce per essere altamente irrispettosa oltreché massimamente irritante e che dà corpo alla cd. “giustizia” transattiva, ben lungi dall’essere vera giustizia, ma compromesso mercantile realizzato in una sede e da una struttura istituzionale a ben altro deputata.

Mario Meucci

Roma, 6 giugno 2008

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