Rischia il licenziamento il "mobbizzato" che pubblicizza all'opinione pubblica esterna ed interna la propria condizione di confinamento in inattività (alludendo a causali di indebita ed interessata pressione clientelare del proprio direttore)
Corte d’Appello di Bari, 31 gennaio 2002 (ud. 17.1.2002) – Pres. Est. Berloco – Di
Meo (avv.ti E. e V. Gagliardi) c. A.M. E. T. SpA (avv. Veneto)
Diritto
di critica e di denuncia ai “media” da
parte del mobbizzato – Sobrietà e senza allusioni penalisticamente rilevanti e
lesive dell’immagine aziendale – Comunque con modalità non conflittuali onde
non infrangere la collaborazione che dovrebbe caratterizzare il rapporto di
lavoro – Legittimità del disposto licenziamento.
Se
è vero che al lavoratore è riconosciuto il diritto di manifestare liberamente
le proprie opinioni in merito all'operato datoriale, è pur vero che detto
diritto subisce notevoli "temperamenti" in ragione del necessario
rispetto dei diritti parimenti garantiti al datore di lavoro, oltre che del
vincolo fiduciario proprio del rapporto di lavoro subordinato.
L'entità
delle accuse mosse dal ricorrente all’azienda e ai suoi dirigenti, unitamente
all'inevitabile discredito sociale patito dall'azienda, in conseguenza delle
dichiarazioni, costituiscono violazione del dettato normativo e contrattuale in
materia di rapporto di lavoro subordinato, menomando la stima e la reputazione
del datore di lavoro.
Il
Supremo Collegio, sul punto, ha statuito che l'esercizio del diritto di
critica, costituzionalmente tutelato ex art.21 cost., non può servire per
giustificare, in termini assoluti, qualunque manifestazione del pensiero
effettuata dal lavoratore …, al contrario il diritto di critica del lavoratore
non può che essere sottoposto agli stessi limiti …che incontrerebbe, qualora
fosse esercitato da ogni altro privato cittadino, al di fuori, cioè, di una
relazione contrattuale con il soggetto passivo della critica.
In
altri termini, lo status di lavoratore non può certo attribuire al soggetto
agente una assenza di limiti. Semmai, l'esercizio della critica all'interno del
rapporto di lavoro impone al dipendente l'adozione di particolari sensibilità e
cautele, in considerazione dello status di partner contrattuale che, comunque,
il dipendente ricopre nei confronti del soggetto passivo della critica (vedi
Cass. Sez. Lav. 16/5/1998 n.4952).
Indiscutibile
deve ritenersi la portata lesiva del comportamento dell'appellante, ove si
considerino le immediate conseguenze pregiudizievoli dell'immagine aziendale e
l'innegabile conflittualità che andava ad instaurare, incompatibili con lo
spirito di collaborazione, che dovrebbe animare il rapporto di dipendenza [ in
fattispecie il mobbizzato aveva rilasciato ad un quotidiano un’intervista, poi
affissa dallo stesso sulla porta del proprio ufficio – contenente anche
allusioni di (indebite e rifiutate)
pressioni clientelari da parte del proprio direttore - onde rendere partecipe l’opinione pubblica
interna ed esterna della condizione di inattività in cui era stato confinato
dall’azienda pubblica, dopo una denuncia giudiziale di demansionamento
riconosciuta legittima e dopo un
successivo licenziamento, dichiarato illegittimo con provvedimento cautelare ].
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con
ricorso al Giudice del lavoro di Trani del 14/7/1999 Di Meo Ing. Pietro
esponeva:
-
che
con lettera 30/5/1988 era stato assunto alle dipendenze dell'AMET, svolgendo le
funzioni di coordinatore delle problematiche informatiche in azienda (Gruppo A -
cat.A/1 del vigente c.c.n.l.);
-
che
in seguito a missiva del 19/11/91 gli erano state attribuite dall'azienda
mansioni dequalificanti di addetto all'Ufficio Commerciale, escludendo quelle
relative al sistema informatico, le quali venivano assegnate al capo
dell'ufficio commerciale;
-
che,
denunciata tale dequalificazione anche in via giudiziale, con sentenza del
25/10/96 gli era stato riconosciuto il diritto alle mansioni di assunzione;
-
che
l'istante e le Associazioni di categoria avevano contestato l'operato dell'ente
municipalizzato in ordine al concorso bandito il 21/2/1994 per posto di
spettanza di specialista polivalente già presente in azienda;
-
che,
invocando infondati addebiti, l'AMET dapprima aveva adottato un provvedimento
disciplinare di sospensione dal servizio, impugnato giudizialmente, e poi con
lettera 28/4/1994 un atto di licenziamento, dichiarato illegittimo con le
conseguenze di legge in via cautelare dal Pretore del lavoro di Trani con
ordinanza del 29/6/94, confermata in sede di reclamo con provvedimento 4/10/94;
-
che,
pendente il giudizio di merito, in data 4/7/94 era stato reintegrato nel posto
di lavoro, ma di fatto emarginato da qualsiasi attività lavorativa inerente le
proprie mansioni, con l'affidamento di compiti di archivista e di semplice
immettitore di dati nel computer (impiegato di livello Bl);
-
che
il 7/4/95 gli era stato finalmente assegnato un compito progettuale completato
nel dicembre 1995, epoca dalla quale non gli veniva più affidata alcuna
mansione;
-
che
tale inattività, retribuita per ben tre anni e per otto ore al giorno, aveva
arrecato pregiudizio alla sua dignità e professionalità e assunto notorietà
pubblica anche in conseguenza di una ispezione presso l'AMET ordinata dal
Ministero del Lavoro;
-
che
l'azienda il 4/12/98 gli aveva inviato la seguente missiva disciplinare: “in
data 3/12/1998 questa Direzione è stata informata del fatto che Ella ha
esposto, al di fuori della porta del Suo ufficio, visibile da tutti i
dipendenti e dagli utenti di passaggio, una fotocopia di un articolo
giornalistico riportante Sue dichiarazioni lesive della immagine dell'Azienda e
contenenti gravi accuse, anche a valenza penale, nei confronti del Direttore”;
-
che,
nonostante le giustificazioni fornite il 12/12/98, con provvedimento 28/1/1999,
comunicato il successivo 29 gennaio, l'AMET aveva disposto il suo
licenziamento
in tronco, ritenendo la commessa infrazione lesiva irreparabilmente del
rapporto di fiducia;
-
che
il giudice del lavoro, adito con ricorso ex art.700 c.p.c., depositava in data
15/6/99 ordinanza di reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro,
rilevando come il comportamento contestato al dipendente non rivestiva il
carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro;
-
che
col presente ordinario giudizio di merito intendeva ribadire l'illegittimità
del provvedimento risolutivo impugnato con lettera del 3/2/1999, atteso il
comportamento vessatorio dell'azienda nei suoi riguardi;
-
che
in particolare l'affissione di un articolo di giornale alla porta dell'ufficio
non poteva configurare giusta causa di licenziamento, tenuto conto anche del
suo stato di esasperazione in cui versava da tempo;
-
che
il contenuto dell'intervista riportava fedelmente una vicenda reale ed era
espressione dell'esercizio del diritto di critica nei limiti della correttezza;
-
che
il gesto contestatogli non aveva arrecato alcun eventuale danno all'azienda né
vi era rapporto di proporzionalità con l'adottata sanzione espulsiva;
-
che
il complessivo comportamento aziendale gli aveva cagionato un pregiudizio alla
salute, oltre che all'immagine ed alla vita di relazione.
Tanto
premesso, il ricorrente chiedeva, previa dichiarazione di illegittimità del
licenziamento disciplinare infertogli il 28/1/99, di ordinare alla convenuta
azienda la sua reintegra nel posto di lavoro, con ogni conseguenza ex art.18
Stat. Lav., nonché di condannare la medesima al risarcimento di ogni ulteriore
danno anche biologico, col favore delle spese di lite.
Instauratosi
il contraddittorio, l'AMET con diffuse argomentazioni contestava le deduzioni e
le pretese avanzate dal Di Meo, concludendo per l'integrale reiezione
dell'infondata domanda e la rifusione delle competenze.
L'adito
Giudice del lavoro rigettava la domanda e, per l'effetto, revocava il
provvedimento d'urgenza del 11/6/199; condannava il Di Meo alla rifusione, in
favore dell'AMET, delle spese processuali anche per il giudizio cautelare.
Avverso
detta pronuncia, proponeva appello il Di Meo, il quale, dopo aver prospettato
tutte le sue vicende lavorative e giudiziali, deduceva che non era attribuibile
a lui l'elaborazione giornalistica dell'articolo affisso dietro alla sua porta;
che legittimamente era dato al lavoratore l'esercizio del diritto di critica
sulla base della verità oggettiva degli avvenimenti quando non si sostanziava
in una condotta lesiva del decoro dell'impresa suscettibile di provocare, con
la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdite di
commesse o di occasioni di lavoro. Assumeva di aver difeso la propria posizione
senza aver travalicato con dolo o colpa grave la soglia del rispetto della
verità oggettiva.
Precisava
che non era stata neanche scossa la fiducia, che sottende al rapporto di lavoro
con l'affermazione che veniva pagato senza lavorare, concretizzando invece
questo un grave pregiudizio alla sua dignità e professionalità. Comunque
assumeva che non vi era una proporzionalità tra il fatto addebitato e il
licenziamento.
Concludeva
per la riforma della gravata sentenza e per l'accoglimento della domanda, con
ogni conseguente provvedimento di legge e con vittoria di spese e competenze
del doppio grado del giudizio.
Resisteva
al gravame l'appellata, la quale, deducendone l'infondatezza, ne chiedeva il
rigetto, con la rifusione delle spese di questo grado del giudizio.
In
data odierna, la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo letto in
udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L'appello
è infondato.
Osserva
il Collegio che l'esito del merito di questo giudizio non può essere
condizionato dalla soluzione data alla vertenza in sede di cautelare, in quanto
questo è espressione di un giudizio a sommaria cognitio. Quando, invece, il
giudice valuta il merito della causa con complessiva e puntuale valutazione dei
fatti, ben può approdare ad un diverso ed opposto convincimento. Sicché, non
potendosi ritenere il giudice vincolato dal provvedimento d'urgenza, in questo
giudizio di merito ben può discortarsene, con una valutazione dei fatti del
tutto autonoma.
La
vicenda che interessa questa vertenza ebbe inizio con la nota aziendale del
4/12/1998, con la quale si comunicava al Di Meo che "In data 3/12/1998
questa direzione è stata informata del fatto che ella ha esposto, al di fuori
della porta del suo ufficio, visibile da tutti i dipendenti e dagli utenti di
passaggio, una fotocopia di un articolo giornalistico riportante sue
dichiarazioni lesive dell'immagine dell'azienda e contenente gravi accuse,
anche di valenza penale, nei confronti del direttore. Poiché si ravvisano gli
estremi dell'applicazione di adeguato provvedimento disciplinare, fatta salva ogni
altra azione ...., vorrà esporre le sue giustificazioni in merito".
Seguite
le giustificazioni, non condivise dall'azienda, il Consiglio di
amministrazione, con nota del 17/2/1999, comunicò al ricorrente di aver
deliberato il suo licenziamento senza preavviso e con indennità.
Per
accertare la presunta illegittimità di detto recesso è necessario analizzare
sia il comportamento della affissione dell'articolo giornalistico sia il
contenuto dello stesso in ordine alle dichiarazioni del Di Meo rilasciate all'articolista.
Nell'articolo
si legge: “Tre casi di mala burocrazia” (uno dei tre era il caso Di Meo) con
sottotitolo: "Pagato solo per non lavorare". "AMET, Azienda
Speciale Elettricità e Trasporti di Trani, in provincia di Bari, una storia di
ordinaria inefficienza. Vittima un ingegnere, pagato con soldi dei cittadinicontribuenti,
costretto a non lavorare".
Già
queste espressioni, che il ricorrente attribuisce al giornalista sono da
ritenersi offensive dell'immagine dell'azienda, tali da incidere sulla fiducia
che deve sottendere ad ogni rapporto di lavoro ed a maggior ragione quando il
dipendente è di un certo rango nella struttura, trattandosi di un ingegnere di
alto livello di inquadramento.
Quand'anche
le espressioni non fossero emanazione del suo pensiero, ma una formulazione del
giornalista, per far notizia, il fatto stesso della affissione dietro la porta
del suo ufficio, comporta la sua approvazione, facendola propria e condividendo
tutto l'articolo come formulato; se questo non fosse stato condiviso
innanzitutto il Di Meo avrebbe fatto pubblicare la smentita e poi non lo
avrebbe affisso sulla porta del suo ufficio.
L'articolo
prosegue : "Si può pagare un dipendente e non farlo lavorare? Se i soldi
sono dei contribuenti, evidentemente, sì. E' quanto accade ... ... vittima
l'ingegnere Pietro Di Meo la cui funzione è stata ridotta a quella di timbrare
il cartellino due volte al giorno".
Anche
tale lagnanza del Di Meo non può che ritenersi uno stato di conflittualità con
l'azienda che andava risolto in sede giudiziaria e non con una notizia
giornalistica da ledere il decoro della datrice di lavoro ponendola in cattiva
luce presso la opinione pubblica, a prescindere dalla verità o falsità della
notizia, data la sua potenzialità offensiva dell'immagine aziendale.
Ma
vi è di più.
Nell'articolo
affisso riferisce il Di Meo: “i primi problemi sorgono già a due mesi
dall'assunzione. Dovevo occuparmi dall'acquisto di computers per l'azienda ...
ma quando il direttore mi ha "CONSIGLIATO" di acquistarli da una ditta
specifica, mi sono rifiutato” Da lì la nomina di "guastafeste,
rompiscatole".
Tali
espressioni, che lasciano intendere chiaramente un tentativo di corruzione ad
opera del direttore nei confronti del ricorrente, vanno ben oltre il diritto di
critica del lavoratore, dal momento che di fatto lo stesso si è realizzato in
accuse di rilevanza penale da parte del Di Meo in danno della datrice di
lavoro. Dichiarazioni accusatorie, per le quali il lavoratore è stato anche
denunciato all'Autorità Giudiziaria per calunnia, tali da scuotere
irrimediabilmente la fiducia dell'imprenditore, essenziale presupposto per la
prosecuzione della collaborazione del dipendente.
Se è
vero che al lavoratore è riconosciuto il diritto di manifestare liberamente le
proprie opinioni in merito all'operato datoriale, è pur vero che detto diritto
subisce notevoli "temperamenti" in ragione del necessario rispetto
dei diritti parimenti garantiti al datore di lavoro, oltre che del vincolo
fiduciario proprio del rapporto di lavoro subordinato.
L'entità
delle accuse mosse dal Di Meo all'AMET e ai suoi dirigenti, unitamente
all'inevitabile discredito sociale patito dall'azienda, in conseguenza delle
dichiarazioni, costituiscono violazione del dettato normativo e contrattuale in
materia di rapporto di lavoro subordinato, menomando la stima e la reputazione
del datore di lavoro.
Il
Supremo Collegio, sul punto, ha statuito che l'esercizio del diritto di
critica, costituzionalmente tutelato ex art.21 cost., non può servire per
giustificare, in termini assoluti, qualunque manifestazione del pensiero
effettuata dal lavoratore …, al contrario il diritto di critica del lavoratore
non può che essere sottoposto agli stessi limiti …che incontrerebbe, qualora
fosse esercitato da ogni altro privato cittadino, al di fuori, cioè, di una
relazione contrattuale con il soggetto passivo della critica.
In
altri termini, lo status di lavoratore non può certo attribuire al soggetto
agente una assenza di limiti ... ...Semmai, l'esercizio della critica
all'interno del rapporto di lavoro impone al dipendente l'adozione di
particolari sensibilità e cautele, in considerazione dello status di partner
contrattuale che, comunque, il dipendente ricopre nei confronti del soggetto
passivo della critica (vedi Cass. Sez. Lav. 16/5/1998 n.4952).
Indiscutibile
deve ritenersi la portata lesiva del comportamento dell'appellante, ove si
considerino le immediate conseguenze pregiudizievoli dell'immagine aziendale e
l'innegabile conflittualità che andava ad instaurare, incompatibili con lo spirito
di collaborazione, che dovrebbe animare il rapporto di dipendenza.
Lo
stesso titolo dell'articolo si pone in contrasto con i detti principi:
"Tre casi di mala burocrazia. Pagato per non lavorare", arricchito
dal contenuto dal quale si evince agevolmente una situazione aziendale
caratterizzata da tentativi di corruzione, posti in essere dal direttore
dell'AMET nei confronti della vittima, rappresentata dal ricorrente. Per le
modalità della condotta di questi, al di là della verità o falsità relative all'accusa
e dell'esito del reato di calunnia denunciato dalla azienda, per le dette
accuse formulate dal dipendente, si è abbondantemente fuori dal diritto di
critica; le accuse prevaricano decisamente questo diritto e vanno a minare
inesorabilmente il vincolo fiduciario del rapporto. L'aver apertamente
ricondotto, per il tramite di un mezzo di comunicazione di acclarata risonanza
sociale, l'operato aziendale nell'ambito di un complessivo "disegno
persecutorio", unitamente al pubblico discredito gettato sulla dirigenza
dell'azienda costituiscono certamente una situazione tale da compromettere
irreversibilmente il vincolo fiduciario in essere tra le parti e tale da
legittimare il licenziamento per giusta causa.
Giusta
causa di recesso è anche ogni comportamento che incrina la relazione
interpersonale tra le parti, anche al di là delle fattispecie di infedeltà più
tipiche e più gravi. La stessa divulgazione con lo strumento della stampa
esorbita la "questione personale" ed è teleologicamente orientata
alla lesione della dignità del datore di lavoro e della sua pubblica
reputazione; essa va ben oltre l'assunto gesto dimostrativo, nell'esercizio del
diritto di critica (Cass. Sez.Lav.22/8/1997, n.7884; Cass. Sez. Lav. 16/2/2000
n.1749).
D'altro
canto, il comportamento del Di Meo è ancora più grave, ove si valuti l’elemento
psicologico dell'illecito commesso, per aver consapevolmente scelto il mezzo
della stampa per colpire l'azienda, anziché la via giudiziaria e gli altri
strumenti offerti dall'ordinamento, qualificandosi per giunta vittima del
sistema aziendale connotato da corruzione.
Il
provvedimento del licenziamento, inoltre, non può essere sproporzionato
rispetto alla gravità del fatto. Non emergono dagli atti elementi probatori che
lascino intravedere che esso sia discriminatorio.
Ogni
altro provvedimento diverso da quello espulsivo sarebbe stato inidoneo a
tutelare gli interessi aziendali e comunque non adeguatamente proporzionato ai
fatti contestati.
La
Sezione Lavoro della Cassazione ha insegnato che l'esercizio da parte del
lavoratore ... del diritto di critica, manifestata attraverso articoli ed
interviste su quotidiani, nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali
che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in
una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale, suscettibile di
provocare con la caduta della sua immagine anche in danno economico in termini
di perdite di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a
ledere definitivamente la fiducia, che sta alla base del rapporto di lavoro,
integrando la violazione del dovere scaturente dall'art.2105 c.c. e può
costituire giusta causa di licenziamento (Cass. Sez. Lav. 16/5/1998 n.4952).
Questo a maggior ragione se trattasi d'azienda pubblica o parapubblica,
sovvenzionata con denaro dei contribuenti. La divulgazione di un fatto di
rilevanza penale, non accertato e quindi non rispondente alla verità, desta
indubbiamente allarme sociale ed è idoneo a ledere ogni aspettativa di
collaborazione.
Assume
l'appellante che nella specie l'azienda non ha subito alcun danno economico,
per minimizzare l'efficacia offensiva del suo comportamento.
A
tale tesi difensiva non si può aderire, in quanto ciò che rileva, ai fini del
corretto esercizio del diritto di critica non è soltanto l'assenza di una
lesione economicamente rilevante degli interessi del datore, bensì
l'insussistenza di un pregiudizio di entità tale da compromettere
irrimediabilmente il vincolo fiduciario, sotteso al rapporto di lavoro
subordinato.
Nella
specie, tale compromissione è innegabile per quel che si è detto sopra e non
può che legittimare il licenziamento per giusta causa.
In
tema di licenziamento per giusta causa è irrilevante che il comportamento
addebitato al lavoratore abbia o meno comportato un danno economico per il
datore di lavoro, essendo, invece, rilevante solo la idoneità del suddetto
comportamento ad incidere negativamente sul rapporto fiduciario,
indipendentemente dall'effettivo verificarsi di un danno e dell'entità di esso
(vedi Cass. Civ. Sez. Lav. n.8553 del 2000).
Lo
stesso stato di conflittualità permanente venutosi a creare in azienda tra il
ricorrente e la società è incompatibile con il concetto di collaborazione che
caratterizza il rapporto di lavoro subordinato; stato di conflittualità poi
sfociato in una scomposta condotta reattiva del Di Meo, che travalica i limiti
della pur lodevole critica costruttiva del lavoratore al fine del perseguimento
degli scopi aziendali in un clima di integrazione e di armonia.
Né
possono rilevare i vari fatti, oggetto di altri giudizi, non verificati dal
primo giudice, in quanto questa vertenza attiene al licenziamento e alle cause
poste a base dello stesso, così come sarà il giudice penale a valutare quanto
di calunnioso v'è nelle accuse dall'appellante dichiarate al giornalista,
confermate e fatte proprie dalla affissione dietro la porta del suo ufficio e
mai smentite con lo stesso mezzo di divulgazione.
Sicché,
bene ha fatto il primo giudice a prescindere da altri episodi, oggetto di altri
giudizi, posto che nel fatto dedotto e allegato non sono ravvisabili elementi
di discriminazione o di emarginazione del lavoratore, comunque da non
giustificare mai l'addebito mossogli dall'azienda.
Sulle
basi delle suesposte considerazioni, è giusto rigettare l'appello.
Ricorrono
buone ragioni, data la complessità delle questioni, per compensare interamente
tra le parti le spese di questo grado del giudizio.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Bari, Sezione Lavoro, uditi i procuratori delle parti, rigetta l'appello proposto da Di Meo Pietro con ricorso del 21/5/2001 avverso la sentenza del Giudice lavoro Trib. Trani del 6/4/2001 nei confronti di AMET S.p.a. Trani e compensa interamente tra le parti le spese di questo grado del giudizio.
Nota
La decisione non convince. Nonostante gli sforzi per ancorare a considerazioni di diritto la legittimazione di un (nuovo) licenziamento - fondato sull'esorbitanza del diritto di critica con allusioni a pressioni clientelari del proprio direttore, la cui ricusazione avrebbe determinato la qualificazione di "guastafeste" del ricorrente - la sentenza sottovaluta che l'interessato era stato già oggetto di demansionamento (dichiarato poi giudizialmente illegittimo) nonché di un precedente licenziamento (anch'esso invalidato seppure con provvedimento cautelare in attesa del giudizio di merito). E' evidente che il mobbizzato era oggetto di un disegno "persecutorio" non percepito (o non voluto percepire) dal Collegio giudicante. L'esasperazione che prende umanamente chi si trova in queste condizioni - spesso alla ricerca di soluzioni implicanti la partecipazione dell'opinione pubblica alle proprie vicissitudini, attraverso il ricorso ai "media" in presenza di inascoltate proteste in sede aziendale o nelle aule giudiziarie la cui indifferenza risalta dalle lungaggini processuali - può occasionare qualche "scivolata", tramite il profferimento di qualche "parola di troppo" (che non può essere sanzionata con la perdita del posto di lavoro). Nel caso di specie la "parola di troppo"è costituita dall'allusivo addebito del ricorrente - riferito nell'intervista giornalistica - di essere stato sottoposto al trattamento vessatorio da quando non aveva aderito alle sollecitazioni del suo direttore di acquistare i computer aziendali da una ditta specifica. Questa unica affermazione non comprovata - nel contesto di una piena ed oggettiva veridicità dei fatti denunciati ai "media"- ha fornito al Collegio l'alibi per una dichiarazione di legittimità del (nuovo provvedimento di) licenziamento, addizionale ai precedenti provvedimenti aziendali, evidenzianti, non solo indiziariamente, l'operazione persecutoria posta in essere dall'azienda pubblica, sulla cui stima e reputazione pubblica lesa ci sembra, invero, riscontrare un eccesso di sensibilità da parte del Collegio giudicante. Il resto - i limiti al diritto di critica e particolarmente il limite di "nuovo conio localistico" del dover essere la critica del dipendente non "conflittuale" atteso il suo carattere di "partner" nel rapporto, in ragione della natura "collaborativa" da cui il rapporto stesso sarebbe intrinsecamente improntato - sono "ciance" giuridicamente infarcite e forzature inconcludenti che lumeggiano, tra l'altro, una concezione utopistica di "armoniosa" collaborazione azienda-dipendenti, che rinviene da una, peraltro inattuata, soluzione cogestionale delle aziende (ex art. 46 Cost.) e lasciano trasparire, anche mediante la scelta dei termini espositivi ("partner") una concezione del Collegio barese ideologicamente perdente (per lo meno sino ad oggi) che vorrebbe trasformato il dipendente che presta la propria attività in azienda (per l'esigenza di provvedere con il reddito alle proprie necessità esistenziali) in socio-collaboratore della stessa.
Mario Meucci
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