Mobbing, insidia mortale: ma occorrono le prove

 

Mobbing, il termine è ormai entrato nell'uso comune. E se ne parla diffusamente. Talvolta a sproposito, attribuendo a quella parola (derivante dal verbo inglese "to mob", aggredire) un significato non sempre corretto dal punto di vista medico e legale. Di cosa si tratta? La scienza medica definisce mobbing "quella forma di violenza o molestia psicologica, ripetuta in modo iterativo, con modalità polimorfe, con caratteri di intenzionalità, per un tempo determinato, dai sei mesi in su, con ampia variabilità dipendente dalle modalità e dalla struttura di personalità dei soggetti". In altre parole, una violenza morale, esercitata da superiori (cosiddetto mobbing verticale) o da pari grado (mobbing orizzontale) con sistematica frequenza. E seppure meno praticata, esiste una terza variante, quella esercitata dai subalterni singolarmente o in gruppo, mediante attacchi contro la persona, con la finalità di screditare il suo lavoro, di immiserirne il ruolo e lo status professionale.

L’offesa viene prolungata nel tempo e sustanziata con umiliazioni costanti, con continui deprezzamenti e critiche rivolte alla qualità e alla finalità del lavoro svolto, attuata con reiterati sabotaggi, con emarginazioni e svuotamento di mansioni impedendo o vanificando ogni contributo lavorativo, al punto di rendere evidente la sindrome che si definisce "della scrivania vuota". O, ancora, con continue forme di aggressioni sanzionatorie, con eccessivo ricorso alle visite fiscali, alle contestazioni disciplinari, al trasferimento in sedi lontane, al rifiuto immotivato di concessione di permessi o di ferie, al mancato riconoscimento di legittime gratificazioni, a uno stato di obbligata inedia lavorativa, a costanti e reiterate angherie.

A chi non è mai capitato di vedersi criticare o di vedersi negare un sacrosanto riconoscimento di merito conquistato sul campo?

Certo non è storia solo dei giorni nostri (anche se l’organizzazione del lavoro, basata oggi sull’eccessiva competitività e sul ricorso massiccio alla tecnologia, esaspera il fenomeno, rendendo in taluni casi secondaria l’importanza del fattore uomo). Il mobbing è sempre esistito. Ma è solo negli ultimi anni che il fenomeno, che ha assunto pesantissimi costi sociali e sanitari, ha richiamato l'attenzione degli operatori. Tanto da rappresentare una materia di studi interdisciplinari, avviati con sistematicità e con rigore scientifico.

E’ bene, tuttavia, tenere presente che perché si possa parlare, non a sproposito, di mobbing (termine importato dalla Svezia, dove per la prima volta ne è stata individuata la rilevante portata sociale), occorre la ripetitività, la reiterazione per mesi e anni da comportamenti di offesa perpetrati nei confronti dei soggetti interessati. Secondo le definizioni mediche, in pratica, si tratta di un rischio lavorativo cosiddetto "relazionale" o "interpersonale" che va sempre più diffondendosi, al punto che, secondo uno studio condotto e reso noto dall’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, in Italia interesserebbe attualmente il 4,2% della forza lavoro, vale a dire circa 1.000.000 di persone (dati da riferirsi agli anni dello studio 1996-97, mentre per quest’anno si fanno già proiezioni oltre 1.500.000), con conseguente grave perdita di efficienza per le aziende. Dunque, una vera e propria emergenza.

"Il mobbing – afferma il professor Renato Gilioli, responsabile del Centro per il disadattamento Lavorativo, istituito da due anni presso la Clinica del Lavoro di Milano, unico centro pubblico in Italia ad occuparsi in modo specifico del problema – comporta effetti devastanti sulla salute del lavoratore e dei suoi congiunti (che sono vittime secondarie del fenomeno) provocando situazioni patologiche, il più delle volte di tipo psichiatrico, con disturbi post-traumatici da stress e disturbi dell’adattamento. Ciò spesso provoca, nel soggetto colpito, ferite psichiche non più rimarginabili nel tempo, indipendentemente dalla personalità individuale del mobbizzato".

 

Nel mirino del "mobber" più numerose le donne.

"Lo stillicidio quotidiano di offese, umiliazioni, ritorsioni, intimidazioni, vessazioni psicologiche e un generalizzato e costante clima di tensione comportano un’alterazione della sfera neuropsichica – aggiunge il professor Gilioli, che è stato relatore a un convegno recentemente tenutosi a Milano sull'argomento - tanto che il soggetto colpito da mobbing, spesso, cade in depressione, talvolta perde il posto di lavoro e in ogni caso intacca il proprio menage familiare".

Quando un soggetto diventa il capro espiatorio all’interno di un’azienda per fronteggiare l'accresciuta concorrenza dei colleghi, il fantasma della disoccupazione reso ancora più preoccupante dalla crisi cronica di posti di lavoro, il montante stress, di lì a breve dovrà far fronte ad insonnia, paura, debolezza generalizzata, si sentirà crollare addosso il mondo, in una forma di isolamento sistematico o di attacchi più o meno diretti alla propria persona.

"Nel nostro Centro finora abbiamo esaminato circa mille casi – spiega ancora il Professor Gilioli – si tratta di persone provenienti da tutta Italia, di entrambi i sessi, anche se con una lieve prevalenza femminile, con un’età media tra i 35-44 anni e 44-55 anni, con un livello di scolarità medio-alta (diploma superiore oltre ad un’elevata presenza di laureati), che rivestono qualifiche di impiegati, quadri e dirigenti (solo in minima parte operai) sia nel settore privato sia nel pubblico, costrette a subire queste forme di abuso di potere per periodi anche molto lunghi, dai due ai quattro, cinque anni e oltre, talvolta. Queste persone manifestano i primi disagi con sintomi di allarme psicosomatico: si va dalle cefalee ai disturbi dell’equilibrio, dai problemi gastrici ai dolori ostearticolari. Ma non solo. Spesso a questo quadro iniziale si associano nel tempo disturbi di natura emozionale, quali ansia, tensione, attacchi di panico, disturbi del sonno e dell’umore, e di natura comportamentale, quali anoressia, bulimia, farmacodipendenza, fobie".

 

Difficile la diagnosi per l'omertà dei colleghi.

Non sempre risulta facile la diagnosi delle situazioni lavorative di mobbing e delle malattie correlate proprio per una scarsa collaborazione dell’ambiente di lavoro; perciò diventa importante il ruolo svolto all’interno dell’azienda dai responsabili delle risorse umane e dal medico del lavoro, anche ai sensi di quanto previsto dall’attuale normativa in materia, in primo luogo il D.L. 626/94". Ma tant'è. I problemi delle persone perseguitate cadono nell'indifferenza e spesso suscitano un diffuso senso di fastidio nell'ambiente di lavoro. E' un male, quello dei mobbizzati, che, ancora oggi, l’Inail non riconosce ufficialmente e che spesso anche a livello sindacale richiama scarsa attenzione per la sua stessa natura.

Se poi il mobbing è strategicamente mirato in ragione di un preciso disegno di esclusione di un lavoratore (al fine di creare le condizioni ottimali per un licenziamento o per le dimissioni, una sorta di morbido ammortizzatore sociale, come viene visto da molti) o è solo un mobbing cosiddetto emozionale, perché deriva da un’esaltazione dei comuni sentimenti di ciascun individuo, quali gelosia, rivalità, antipatia, ambizione, questo non cambia la sostanza del problema.

E dal punto di vista giuridico cosa s’intende per mobbing? Esiste una legge ad hoc? Come si sono orientati finora i giudici?

Finalmente qualcosa si muove, occorre dirlo, sia pure a fatica comincia a farsi strada, da qualche anno, una maggiore attenzione alla portata del fenomeno e una più precisa presa di coscienza da parte delle istituzioni.

Diversi disegni e progetti di legge sono stati portati all'esame del Parlamento (il primo cronologicamente parlando risale addirittura al 1996), con lo scopo di produrre il varo di leggi specifiche, con linee guida comuni anche se con profonde differenze, aventi finalità preventive e di informazione ma anche repressive (si prevedono infatti sanzioni penali per chi pone in essere atti di violenza psicologica nei confronti di individui "costretti a subire tali atti a causa di uno stato di necessità"). Il mobbing, dunque, comincia ad essere considerato come violenza o persecuzione psicologica, una sorta di vero e proprio terrorismo psicologico contro il quale si rendono necessari provvedimenti di tutela di e difesa dei lavoratori impiegati in tutte le tipologie di lavoro "pubblico e privato, comprese le collaborazioni", con sanzioni notevolmente aumentate se la condotta illegittima comporta per la persona offesa anche danni psico-fisici o danni materiali ed economici o sanzionando espressamente la condotta di strategia societaria illecita o istituendo uno sportello unico contro gli abusi nei posti di lavoro.

 

Solo la certificazione medica può dare sostanza all'accusa.

Vi è da dire però che, a tutt’oggi, già esistono nel nostro ordinamento gli strumenti validi per configurare il mobbing e per tutelare il lavoratore che da esso viene colpito e vi sono state le prime pronunce di merito sul problema, applicando in modo organico la normativa in vigore, con disposizioni sparse nel sistema. Con la particolarità, tuttavia, che nel caso del mobbing viene completamente ribaltato, per il giurista, il piano di studio del fenomeno: normalmente, in ambito giuridico, se un comportamento è giuridicamente rilevante in quanto posto in essere in violazione di una norma, cioè contra legem, se ne studiano gli effetti e le conseguenze di carattere risarcitorio, in questo caso, il punto di partenza è la patologia accertata dal medico e solo in un secondo tempo se ne individuano le cause e i possibili rimedi; in buona sostanza, se lo psichiatra dichiara il lavoratore ammalato, se la causa trova origine nell’ambiente di lavoro, allora si può parlare, dal punto di vista degli operatori del diritto, di mobbing.

E, in questa ottica, una definizione giuridica, anche se ancora eccessivamente generica, di mobbing si può già ricavare, dalle due pronunce di merito rese dal Tribunale di Torino (16.11.1999; 30.12.1999), che hanno sanzionato espressamente il fenomeno: "spesso nelle aziende il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore d'opera, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio". Si deve quindi trattare di comportamenti intenzionalmente mirati a una pressione psicologica e morale sul lavoratore, non occasionali e sporadici, ma predeterminati. Nel caso specifico, tuttavia, il Tribunale ha assolutamente dimenticato di esaminare in quante occasioni e per quanto tempo la ricorrente ha subito trattamenti incivili tali da configurare una condotta mobbizzante, trascurando in toto di dare rilievo a quegli elementi di ripetitività e frequenza necessari a dare sostanza al mobbing.

Va anche detto che, al momento, la giurisprudenza ancora non si è pronunciata su possibili forme di mobbing perpetrate da colleghi di pari livello o, addirittura, da subalterni.

E occorre poi sottolineare come già in passato i giudici in realtà si siano occupati di fattispecie configurabili come mobbing, pur senza che lo si classificasse come tale. Non è episodico, infatti, il caso di reiterate distorsioni createsi nell’ambito lavorativo, con conseguenti negative incidenze sull’individuo colpito, anche non necessariamente da parte di un gruppo, ma semplicemente ad opera di un solo soggetto: si va dalle molestie sessuali (importante sul punto la recentissima sentenza 8.1.2000 nella quale la Corte di Cassazione ribadisce come tali atti "costituiscono uno dei comportamenti più detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale e, come conseguenza, l’integrità psico-fisica dei prestatori d’opera subordinati", facendo sorgere a carico del datore di lavoro "una vera e propria responsabilità contrattuale per l’inadempimento dell’obbligo previsto dall’articolo 2087 codice civile"), esercitate abusando molto spesso di una posizione di potere, fino alla negazione completa della professionalità lavorativa, con relativo ridimensionamento e dequalificazione, oltre che con una mortificazione nelle aspettative professionali e un mancato conseguente riconoscimento della qualificazione professionale, con una palese violazione del dettato legislativo (articolo 2103 codice civile). In tali ipotesi, ovviamente, oltre all’obbligo in capo al datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nelle mansioni spettantigli, sussiste quello del risarcimento del danno alla professionalità globalmente intesa, danno che viene liquidato in via equitativa dal giudice. E tale danno, per la negazione della professionalità di una lavoratrice in seguito a comportamenti distorsivi mirati a un demansionamento, è stato riconosciuto e liquidato anche nella succitata sentenza del Tribunale di Torino 30.12.99.

 

Condanna esemplare dei responsabili oltre a un congruo risarcimento.

Certo, i problemi, dal punto di vista della tutela dei diritti del lavoratore, si fanno più rilevanti quando la difesa, anziché di fronte a un licenziamento (in presenza del quale può sempre reagire, con l’impugnazione), si trova a dover riparare a una situazione di dimissioni forzose, alle quali il soggetto mobbizzato è stato costretto al culmine di anni di vessazioni e ritorsioni.

Cosa fare, come reagire? Se si prova il mobbing e quindi una giusta causa, va riconosciuto un risarcimento, oltre al preavviso. E, ancora, si può chiedere la reintegrazione, provando (con un onere probatorio pesante a carico del lavoratore, soprattutto in considerazione delle omertà fisiologiche ed inevitabili dei colleghi di lavoro), che le dimissioni non sono state frutto di una scelta consapevole ma determinate da un comportamento illegittimo, ai sensi dell’articolo 1434 codice civile.

 

Trasferimenti ingiustificati ma anche pesanti carichi di lavoro.

Spesso il Giudice, chiamato ad accertare la sussistenza di condotte e comportamenti mobbizzanti, si trova a dover valutare se il datore di lavoro non abbia nel caso di specie inciso con propri atti (trasferimenti, valutazioni, assegnazione di mansioni inferiori a quelle per le quali si è stati assunti, licenziamenti) sulla posizione del lavoratore, mosso da intenti discriminatori, di ritorsione o punitivi o per motivi irragionevoli ed illeciti, anche in considerazione dei principi cardine di buona fede e correttezza. Se da una valutazione complessiva dei comportamenti reiterati emergono connotazioni persecutorie, il giudice ha il dovere di sanzionare tali condotte.

Ma anche l’impegno eccessivo richiesto a un prestatore d’opera a causa di una cattiva organizzazione del lavoro all’interno dell’azienda (ad esempio, dover lavorare ininterrottamente, senza poter godere del riposo settimanale o dover lavorare con eccessivi carichi di lavoro giornalieri), va stigmatizzato, come ha ribadito la Suprema Corte in una sua recente pronuncia: l’eccessivo sovraccarico di lavoro, tale da eccedere la normale tollerabilità secondo le regole di comune esperienza, oppure un carico sproporzionato di lavoro usurante, configura una violazione degli articoli 32 (che tutela il diritto primario ed assoluto alla salute, con una norma immediatamente precettiva) e 41, comma 2 della Costituzione (che pone un limite all’iniziativa economica privata, laddove ne vieta l’esercizio con modalità tali da pregiudicare sicurezza e dignità umana), dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché un inadempimento dell’articolo 2087 codice civile (che contempla la responsabilità contrattuale del datore di lavoro e che in tale ambito va intesa come norma di chiusura dell’ordinamento a protezione del lavoratore), posto che il datore di lavoro ha l’obbligo di organizzare al meglio i carichi di lavoro e di adottare tutte le misure volte a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (Cassazione 5.2.2000 n. 1307).

Risulta chiaro, perciò, quale tipo di responsabilità incomba sul datore di lavoro. Per lui non esiste solo un generico obbligo all’adozione di tutte le misure di prudenza e diligenza necessarie al fine di tutelare l’incolumità e l’integrità psico-fisica del lavoratore, ma anche un espresso divieto di compiere direttamente qualsiasi azione lesiva dell’integrità del dipendente e un obbligo specifico di prevenire e scoraggiare la realizzazione di condotte potenzialmente lesive nell’ambito del rapporto di lavoro. In sostanza, se il datore di lavoro viene a conoscenza di condotte illegittime tenute da alcuni suoi collaboratori o dipendenti nei confronti di un altro suo dipendente ha l’espresso obbligo di intervenire a tutela del soggetto vessato, anche con il licenziamento in tronco dei "mobber", come ha riconosciuto più di una volta la giurisprudenza.

Se poi, il mobbing presenta deprecabili connotazioni di maltrattamento verbale e di aggressione ingiuriosa a danno del lavoratore, lo stesso ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale alla professionalità o all’immagine professionale, del danno biologico per i danni alla salute e alla vita di relazione, del danno esistenziale di più recente creazione dottrinale e giurisprudenziale (da intendersi come somma di ripercussioni relazionali di segno negativo, che si concreta nella rinuncia a un facere) e del danno morale, ex articoli 2043 e 2059 codice civile, oltre a sconfinare addirittura nel reato di ingiurie.

Tra le più recenti pronunce, in merito, si segnala, tra le altre, la sentenza n. 11727 del 18.10.99 nella quale i giudici hanno riconosciuto un danno esistenziale conseguente a un ipotesi accertata di demansionamento del lavoratore. In questa lettura combinata delle disposizioni del nostro ordinamento, bisogna tenere presenti anche gli articoli 1175 e 1375 codice civile, che prevedono i principi fondamentali della buona fede e correttezza, nonché tutte le norme antidiscriminatorie, in particolare gli articoli 2, 3, 4, 13, 35 ultimo comma, 37, comma 1, 39, 46 della nostra carta costituzionale, gli articoli 8, 15 e 19 dello Statuto dei Lavoratori, le leggi 903/1977, 125/1991, 135/1990 e tutte le norme internazionali e comunitarie in tema di divieto di discriminazione sul luogo di lavoro. In pratica, laddove si accerta un nesso di causalità tra condotta mobbizzante e lesione, il relativo danno psichico (che dal punto di vista medico non è mai effetto di una sola causa, ma di una serie di concause o fattori di rischio), va riconosciuto come malattia professionale.

Sul piano penale, d’altra parte, i reati direttamente collegati al mobbing e ravvisabili nei diversi casi, possono ricomprendere molte fattispecie: dalle lesioni personali alle molestie sessuali, dall’abuso di ufficio alla violenza privata, spesso con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di autorità, di relazioni d’ufficio o di prestazione d’opera.

 

Attenti: se manca la prova si rischia il licenziamento.

E’ bene, altresì, rilevare, che, accanto a condotte tipiche, configurabili già come comportamenti tenuti in violazione di ben precise disposizioni di legge, e quindi già immediatamente stigmatizzate dal nostro ordinamento (licenziamenti, demansionamenti, mancata osservanza dei comportamenti di reintegra del giudice), esiste ancora una serie numerosissima di condotte cosiddette atipiche, più subdole e striscianti, non immediatamente sanzionate e difficilmente sanzionabili, se non accompagnate da altre condotte tipiche, per la difficoltà stessa per il giudice di accertare il danno effettivamente arrecato al lavoratore (ad esempio, l’eccessivo numero di visite fiscali richieste, il controllo esasperato del tempo trascorso alla macchina del caffè o al telefono etc.); queste ultime, difficilmente connotabili giuridicamente, oltre ad essere certamente espressione dell’autorità del datore di lavoro, possono anche essere tenute da colleghi pari grado o addirittura subalterni e possono comunque causare gravi danni al lavoratore, se trascendono la normale tollerabilità e se vengono protratte con una certa frequenza e un’esasperata ripetitività. Solo in tal modo, un comportamento atipico con connotati persecutori e/o vessatori, espressione fisiologica di ogni aggregazione sociale, può acquisire rilevanza giuridica.

Ma, se oggi in tanti rivendicano di essere stati mobbizzati per lungo tempo dal datore di lavoro, la Corte di Cassazione avverte: sono da evitare in ogni caso le esasperazioni e le accuse infondate; infatti, "un’accusa non provata di mobbing giustifica la comminazione di un licenziamento per giusta causa, per violazione dello stesso rapporto di fiducia lavoratore-datore di lavoro" (Cassazione 8.1.2000 n. 143). In breve, muovere un’accusa di mobbing, significa essere in grado "per il lavoratore di provare gli elementi essenziali della fattispecie. Al punto che, pur non potendosi escludere che il reperimento delle varie fonti di prova possa risultare particolarmente difficoltoso a causa di eventuali sacche di omertà sempre presenti, o per altre ragioni, non è chi non veda che la mancata acquisizione della prova in questione, riguardo alle cause che hanno determinato la lesione dedotta e gli effetti che si asserisce essere derivati, impedisce al giudice l’accoglimento della domanda" (Cassazione citata). In buona sostanza, attenzione: un’accusa non provata di mobbing costituisce un motivo legittimo di risoluzione del rapporto di lavoro.

 

Luisella Nicosia, avvocato in Milano

 

(fonte: www.odg.mi.it/mobbing.htm )

 

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