Danno da mobbing tra illecito civile, delitto e responsabilità contrattuale
di Giovanni Battista Petti
Nel 1997 nella mia prima opera "Il risarcimento del danno biologico" (Utet editore) nel capitolo dedicato al "danno professionale, rischio da lavoro" consideravo alcune fattispecie giurisprudenziali, riunite per gruppi omogenei, in cui venivano in evidenza due interessanti temi: il tema del concorso tra responsabilità contrattuale ed aquiliana, quando siano lesi diritti fondamentali del lavoratore sindacalista e del lavoratore in genere; il tema del danno biologico consequenziale ad una attività illecita del datore di lavoro. Cinque anni dopo, pubblicando la nuova opera, triplicata per volume e per aumento di temi sul danno alla persona, per il medesimo editore, ho finalmente considerato il danno da mobbing (pag. 287 e ss.) accanto alle figure tradizionali di illecito indicate nel titoletto del paragrafo, con ulteriori arricchimenti giurisprudenziali.
La riflessione da compiere, res melius perpensa, dopo aver partecipato ad alcuni interessanti convegni, nazionali ed internazionali sul tema, è che in Italia il diritto giurisprudenziale vivente è ancora fermo ai buoni rimedi tradizionali, che funzionano attraverso il giudizio civile, il rito del lavoro, i provvedimenti di urgenza, gli ordini di ripristino del rapporto, la tutela penale della donna sottoposta a molestie o ad abusi sessuali.
E' una situazione simile a quella francese, e malgrado la lentezza dei tempi, punisce il datore di lavoro, il preposto, il manager che prevarica ed ha licenza di licenziare a suo diletto. In realtà nelle situazioni sopra descritte è possibile, in concreto, individuare una situazione collaterale di mobbing, che opera come fattore determinante della condotta illecita, dell'abuso di potere, della dequalificazione e del licenziamento, ma a questa situazione contestuale e collaterale non si è attribuita una autonoma rilevanza, perché l'urgenza della tutela ed i limiti della domanda esigevano una decisione diversa, di tutela del sindacalista discriminato, non promosso, colpito da sanzioni disciplinari, dequalificato, la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato che doveva condurre alla reintegrazione nel posto di lavoro, la giusta riqualificazione del dequalificato, infine la tutela della donna sessualmente molestata. La situazione collaterale della vessazione aveva dunque un valore giuridico che non apparteneva alle ragioni della domanda di giustizia, ma alla prova dell'inadempimento od alla prova dell'illecito. Prova essenzialmente orale e non sempre ammessa se non formulata in modo adeguato o non rilevante rispetto al tema della decisione.
La presa di coscienza, da parte dei giuristi e persine di alcuni volenterosi parlamentari europei e nazionali, della autonomia e della pericolosità sociale del fenomeno del mobbing, ha consentito le prime decisioni giurisprudenziali che hanno in qualche modo tipicizzato la figura del mobbing, considerandolo essenzialmente sotto il profilo del danno biologico e del danno professionale (come sembra ammettere l'Inail almeno in sede di convegni).
Ovviamente i giudici di merito sono in attesa della conferma delle Corti superiori e della Corte di Cassazione ed è prevedibile, allo stato del diritto vivente, che le Corti superiori riconoscano la risarcibilità del danno biologico da mobbing sulla base della responsabilità aquiliana (per il neminem laedere) ovvero sulla base della responsabilità contrattuale ai sensi dello art. 2087 c.c., ma di questo dirò nei paragrafi seguenti.
 
Il suo fondamento costituzionale
L'esame del fenomeno e la sua doppia fondazione sulla responsabilità da inadempimento contrattuale o per la violazione del neminem laedere, non contrappone due scelte di diverse rationes decidendi. Infatti anche quando si deduce la responsabilità contrattuale, l'inadempimento determina la lesione di diritti umani del lavoratore che sono tutti inviolabili, sia che riguardino la sua integrità psicofisica, sia che riguardino la sua integrità morale, sia che riguardino la integrità del suo patrimonio che il lavoro attivo e la retribuzione, faticosamente, giorno per giorno, contribuiscono a formare.
Il mobbing distrugge le risorse umane ed economiche del lavoratore, e senza alcuna giusta causa. E' la civiltà della prevaricazione e della discriminazione più becera.
A maggior ragione il fondamento costituzionale emerge nel caso di illecito civile o di delitto finalizzato all'esclusione ed emarginazione del lavoratore.
Qui viene in gioco la lesione diretta del diritto al lavoro, come diritto soggettivo inviolabile, ovviamente nel momento della sua effettività e del suo esercizio. Lavoro che non è solo rapporto di gerarchia e disciplina o di supina obbedienza e mortificazione; lavoro è collaborazione leale ed operosa, ma è anche vita vissuta quotidianamente in un ambiente produttivo e sociale, che deve essere salubre, sicuro, sereno, solidale.
Il mobbing distrugge la civile esistenza nei luoghi di lavoro e produce danni gravissimi, che subisce l'impresa, con la perdita della produttività, la previdenza per la cura della malattia sociale, lo Stato per la erogazione della spesa, e direttamente la vittima, assistita, talora indennizzata, ma sino ad oggi difficilmente risarcita nella integralità dei danni subiti.
I  progetti di legge
Il primo progetto di legge (n. 1813 del 9 luglio 1996) composto da un solo articolo, recava la criminalizzazione del mobbing come delitto, punibili le con la reclusione da uno a tre anni e con l'interdizione dai pubblici uffici sino a tre anni. La fattispecie penale prevista era la seguente:
"Chiunque cagiona un danno ad altri ponendo in essere una condotta tesa ad instaurare una forma di terrore psicologico nell'ambiente di lavoro è punito ..."
La nozione, tratta dalla legislazione svedese, presuppone il dolo specifico da parte del soggetto agente, in quanto la condotta è "tesa" ossia intesa, indirizzata a creare una forma di terrore psicologico, ma l'evento di danno deve essere concretamente cagionato, e così costituisce una condizione di punibilità. Pertanto il giudice penale, ai fini della imputabilità soggettiva, deve accertare il dolo specifico, non bastando quello generico, ed il danno in concreto, restando esclusa la incriminabilità del tentativo e la configurazione del reato se il danno non si realizza. Come dire che la punibilità del delitto era prevista per situazioni eccezionali, con la conseguente irrisarcibilità del danno morale nei casi, frequenti, data la ingenuità delle assoluzioni con la formula "il fatto non sussiste" o con quella "il fatto non costituisce reato" e con l'eventuale preclusione della azione civile per il giudicato esterno tra danneggiante e danneggiato.
Soltanto tre anni dopo appare il Disegno di legge n. 6410 presentato dalla Camera a firma dell'on. Benvenuto, ex sindacalista. La definizione del mobbing è decisamente più completa e la fattispecie considerata come illecito civile.
Il legislatore non adotta la parola "mobbing" ma l'espressione "violenza e persecuzione psicologica costituita da atti posti in essere e da comportamenti tenuti dai datori di lavoro nonché da soggetti che rivestano incarichi in posizione sovraordinata o di pari grado nei confronti del lavoratore, che mirano a danneggiare questo ultimo e che sono svolti con carattere sistematico e duraturo con palese predeterminazione
Noto che è ancora palese la ossessione del dolo specifico, anche se, correttamente, il danno tentato o verificato non è condizione di punibilità. Un ulteriore comma (art. 1 comma terzo) descrive le condotte mobbizzanti e le conseguenze rilevanti, e così determina un grave problema interpretativo sulla natura ed efficacia della norma specificante, se di stretta interpretazione, se meramente descrittiva.
Un comma finale reca la descrizione del danno biologico rilevante: è il danno che comporta la menomazione della capacità lavorativa, ovvero pregiudica la autostima del lavoratore o che si traduce in forme depressive. Dove è incerta la natura di danno psichico, medicalmente accettabile, o di danno psichico (come metus, intimidazione psicologica, tale da indurre apprensione e timore in un soggetto sano di mente ma prudente di temperamento).
Un terzo disegno di legge, n. 4265, presentato al senato il 13 ottobre 1999, a firma sen. Tapparo ed altri, considera il mobbing come illecito civile e lo definisce come violenze morali e persecuzioni psicologiche perpetrate in ambito lavorativo mediante una serie dì condotte illecite, dettagliatamente descritte subito dopo la definizione. Aggiunge che ai fini dell'accertamento della responsabilità soggettiva per dolo specifico (la esplicita volontà di recare danno) la istigazione è considerata equivalente alla commissione del fatto (art. 2). In caso di azione giudiziaria il risarcimento del danno è espressamente previsto in forma equitativa. Formula ambigua, perché non si comprende se la equità concerne il solo danno come quantum e se la equità sia qualcosa di diverso dal principio generale del risarcimento integrale.
Un quarto disegno di legge, n. 4313, presentato al Senato il 2 novembre 1999, a firma del sen. De Luca, segue la medesima tecnica di una prima definizione generica dello illecito civile (qualsiasi atto e comportamento da chiunque esercitato allo scopo di provocare in un ambito lavorativo, un danno al lavoratore) seguito da un comma di specificazione delle condotte e da un altro comma che descrive il danno rilevante (danno di natura fisica o psichica che comporta la menomazione della capacità lavorativa, ovvero pregiudica la autostima del lavoratore, ovvero si traduce in forme depressive attraverso atteggiamenti apatici, aggressivi, di isolamento e di demotivazione. Noto che essendo il danno di natura fisica e psichica, si tratta di un danno medicalmente accettabile, non di un mero anche se protratto danno psicologico).
Un quinto disegno di legge, n. 6667, presentato alla Camera il 5 gennaio 2000, a firma dell'On. Fiori, considera nuovamente il mobbing come delitto punibile con la reclusione e la interdizione dagli uffici pubblici.
L'illecito penale è cosi descritto: "Chiunque pone in essere atti di violenza psicologica o comunque riconducibili ad essa, inequivocabilmente e strumentalmente finalizzati a provocare un danno lesivo della dignità fisica e morale, di altri, costretti a subire tali atti a causa di uno stato di necessità, è condannato etc.", dove la ingenuità decisiva (ai fini di una quasi certa assoluzione) è nel requisito dello "stato di necessità" secondo la nozione data dall'ari. 54 del codice penale. Infatti la vittima prima di diventare un danneggiato in modo grave, non versa nella necessità di salvare se stesso da un pericolo attuale, e comunque la prova dello stato di necessità è particolarmente delicata, aggiungendosi alla prova del dolo specifico.
Un quinto disegno di legge, n. 4512, presentato al senato il 2 marzo 2000, dai Senatori Tomassini e più, considera l'illecito sotto il profilo della responsabilità civile, sempre adottando la doppia formula della definizione sintetica (violenza e persecuzione psicologica, con dolo specifico) e del comma descrittivo della condotta vessatoria tale da modificare la personalità del lavoratore e da indurlo ad abbandonare il lavoro (art. 1).
Il disegno di legge è probabilmente il migliore fin qui congegnato, prevedendo un organismo interno di tutela con compiti di prevenzione e di prescrizione inibitoria al datore di lavoro. E' inoltre previsto il risarcimento integrale dei danni, secondo le leggi vigenti (incluso il danno da colpa aquiliana) e la reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di dimissioni (essendo implicita la reintegrazione nel caso di licenziamento anche formalmente legittimo).
Le azioni di tutela giudiziaria appartengono alla competenza del giudice del lavoro, che liquida il danno in forma equitativa (art. 7). La formula non è ambigua perché si tratta del danno biologico da mobbing e la equità deve tendere al risarcimento integrale, mentre per i danni morale, esistenziale e patrimoniale, il risarcimento segue i criteri del diritto vivente ed è sempre per la integrante, altrimenti sarebbe un indennizzo.
Un sesto disegno di legge, presentato al senato il 25 settembre 2000 dall'On. Magnalbò riprende la concezione dello illecito civile come "violenza fisica, comprese le molestie sessuali e la persecuzione psicologica (violenza morale?) nell'ambito dei rapporti di lavoro, secondo la doppia formula ormai tralaticia".
Questi primi disegni di legge illustrano la XIII legislatura e sono decaduti dopo lo scioglimento delle Camere.
Nella XIV legislatura il Senatore Magnalbò ha diligentemente riproposto il proprio disegno di legge (n. 442 presentato il 9 luglio 2001), ed un secondo disegno, sempre al Senato (n. 870, presentato il 21 novembre 2001), a firma del sen. Costa, riproduce fedelmente il testo del primo. Il miglioramento testuale consiste nella più analitica descrizione delle condotte vessatorie, secondo un catalogo indicativo, ma sempre con la precisione della intenzione dolosa del soggetto agente.
 
Tra diritto penale e diritto civile
Abbiamo visto, de ture condendo, un orientamento dei parlamentari italiani diretto alla criminalizzazione del mobbing attraverso autonoma fattispecie da inserire nel titolo XII del Codice penale, tra i delitti contro la persona, con la particolare aggiunta della qualità del soggetto passivo, che è un lavoratore.
Il legislatore cosi verrebbe ad escludere il mobbing praticato dai lavoratori per intimidire e vessare i preposti ed i dirigenti, o per ammorbidire certe rigidità, resistenze o riduzione di retribuzioni o di posti di lavoro, praticate dal management.
Resta fuori dal mobbing la vessazione della parte forte.
La utilità di una tipicizzazione mi sembra evidente, se si vuol dare forza e speranza al lavoratore vessato, anche per la soddisfazione di una condanna penale e per il conseguimento di un danno morale esemplare.
Ma è impensabile nella situazione politica attuale una ulteriore criminalizzazione delle parti forti e del resto, un eccesso di criminalizzazione porterebbe alla esasperazione di un conflitto sociale in situazioni di crisi della grande, media o piccola impresa.
Del resto, quando le condotte mobbizzanti si concretano in violenza fisica o morale, in minacce, in molestie, in offese dell'onore e della reputazione, esistono di già, nel codice penale, norme appropriate che tutti conosciamo.
La tipicizzazione dello illecito penale condurrebbe ad una sovrapposizione con le concorrenti norme penali e dovrebbe applicarsi il principio della prevalenza della legge speciale: ma nel caso di lesioni gravi o gravissime o di induzione al suicidio, la pena edittale proposta nei disegni di legge è addirittura più favorevole al reo.
Dunque occorre considerare con maggiore attenzione la pena edittale ed il sistema delle aggravanti.
La fattispecie penale, nei disegni e progetti di legge, include solo il dolo specifico; si tratta di una ingenuità o di un errore di prospettiva. Nella esperienza di lavoro le vessazioni e le discriminazioni, anche se protratte nel tempo, sono per la gran parte colpose, ed essenzialmente colposa e per omissione è la condotta del datore di lavoro, specie nel caso di mobbing orizzontale (praticato dai colleghi), ma anche nel caso di mobbing verticale (praticato dai preposti) od aziendale (praticato dai manager).
Se non si prevede, per legge, anche la colpa, la utilità della norma penale sarà gravemente ridotta; con l'ulteriore conseguenza che per effetto della tipicizzazione, il danneggiante assolto perché il fatto non costituisce reato, potrà sostenere che anche le note dell'illecito civile coincidono con quelle del fatto reato, inclusa la nota soggettiva del dolo.
Tesi errata, perché la struttura dello illecito penale non coincide con quella dello illecito civile, sia per le diverse regole della responsabilità civile per alcuni criteri di imputabilità (diversità che si nota proprio a carico del datore di lavoro, gravato da regole di sicurezza e dalla norma speciale dello art. 2087 c.c. da interpretarsi unitamente all'art. 41 secondo comma della Costituzione), sia per la diversità tra danno criminale (che nel mobbing lede contemporaneamente la libertà e dignità della persona, la sua salute, e l'ordine pubblico economico nei rapporti di lavoro, come definito anche dal secondo comma del citato art. 41 della Costituzione) e danno ingiusto della vittima, che è un danno ingiusto civile, che lede i beni della vita, la salute, il patrimonio, la integrità morale. La distinzione tra i due tipi di danno ha rilevanza ai fini del rapporto tra cosa giudicata penale e poteri di cognizione del giudice civile, tenendo anche in considerazione i limiti soggettivi ed oggettivi del giudicato penale, dopo gli interventi ablativi della Corte Costituzionale (tra il 1971 ed il 1975) e della riforma del nuovo processo penale che ha rimosso il principio della unitarietà della cognizione del medesimo fatto, in favore del giudicato penale.
Come illecito contrattuale
Allo stato del diritto vigente non esiste una fattispecie tipica codificata di mobbing, e le definizioni proposte dalla letteratura specialistica lo delimitano nell'ambito dei rapporti di lavoro, descrivendo o situazioni di terrore psicologico o di violenza psichica o morale, che incidono sia sulla integrità psicofisica della vittima, sia sulla integrità morale ed esistenziale, sia sulla sua tasca ed infine sulla esistenza stessa del rapporto di lavoro (con licenziamenti ingiusti o dimissioni forzate).
Un rimedio tradizionale suggerito sia dalla dottrina laburistica e dai civilisti (vedi per tutti l'opera di Monateri, Bona ed Oliva, MOBBING, VESSAZIONI SUL LAVORO, Giuffrè edit. 2000) e condiviso dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 5491 del 2 maggio 2000.
Poiché alla giurisprudenza dedico un apposito paragrafo, in questa sede le riflessioni sono di ordine logico sistematico generale.
La prima questione concerne la risposta al seguente quesito: la condotta configurabile come mobbing, tenendo conto delle caratteristiche concrete della situazione vessatoria e delle sue conseguenze determinanti un danno ingiusto, costituisce un inadempimento contrattuale da cui far derivare una richiesta di risarcimento danni per inadempimento ai sensi dell'alt. 1223 c.c.?
La risposta, per il diritto positivo, si desume correlando l'art. 1223 (ed in taluni casi di obbligazioni di non fare considerando anche l'art. 1222 c.c.) all'art. 2087 del codice civile, che è norma imperativa ed inderogabile, perché attiene all'ordine pubblico economico nei rapporti di lavoro (secondo la tradizionale ratio legis corporativa nel 1942 e costituzionalizzata dall'art. 41 secondo comma della Cost. dopo il 1948).
Questa norma integra come effetto naturale il contenuto del singolo rapporto di lavoro e dunque l'imprenditore (e per analogia iuris qualsiasi datore di lavoro, pubblico o privato) ASSUME L'OBBLIGO DI ADOTTARE nell'esercizio dell'impresa o della prestazione lavorativa, tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, la esperienza e la tecnica, sono necessario a tutelare la INTEGRITÀ' FISICA E LA PERSONALITÀ' MORALE DEI PRESTATORI DI LAVORO.
Considero le due situazioni tipo di mobbing orizzontale (tra colleghi) o di mobbing verticale, diretto o indiretto o per interposta persona (tra il i capo, o il preposto o il suo missus).
MOBBING ORIZZONTALE. La difesa del datore di lavoro sarà la seguente:
non debbo rispondere del fatto illecito altrui (i colleghi vessatori) e la vessazione non dipende dalla mancanza di misure appropriate per rendere serena e non conflittuale la vita lavorativa aziendale.
La pretesa del lavoratore potrà essere articolata, chiedendo di provare:
a. la   esistenza   della   lesione   della   integrità   psicofisica   come   conseguenza   dello inadempimento dell'obbligo di protezione, date le circostanze ambientali e la durata e la esternazione delle condotte vessatorie;
b. la esistenza del nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa (v. sul punto Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763);
c. la imputabilità soggettiva della condotta inadempiente, essendo il datore consapevole di quanto avveniva in fabbrica o in azienda o sul luogo del lavoro, o potendo essere consapevole della situazione utilizzando l'organizzazione gerarchica e di controllo del personale.
Se il lavoratore prova l'inadempimento contrattuale, non avendo il datore di lavoro ottemperato all'obbligo di protezione della integrità psicofisica e della integrità della personalità morale (lo art. 2087 è norma speciale rispetto all'art. 2059 e dunque non
presuppone, per la lesione della integrità morale, il fatto reato) il regime probatorio è quello dell'art. 1218 c.c. ed è il datore di lavoro che deve dare la prova contraria dimostrando di aver ottemperato allo obbligo di tutela delle condizioni di lavoro.
La migliore dottrina poi suggerisce di costituzionalizzare la lettura dell'art. 2087, sia correlandolo al secondo comma dell'art. 41 della Costituzione, nel senso che il rapporto di lavoro inerisce all'impresa ed alla sua libera gestione, ma che tale gestione non può recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità della persona umana (cfr. in tal senso Corte Cost. 18 luglio 1991 n. 7768), sia correlandolo ad altre norme costituzionali, quali l'art. 2 (posto che il mobbing attenta alla dignità umana ed alla salute e cioè lede diritti inviolabili dell'uomo che lavora), o l'art. 3 (per gli odiosi aspetti discriminatori e di emarginazione del mobbing) o l'art. 32 per la lesione della salute, o l'art. 4 (per la lesione delle condizioni che rendono effettivo l'esercizio del diritto di lavoro) o l'art. 37 (per la particolare posizione della donna lavoratrice).
La difesa del lavoratore dovrà fare tesoro di questo orientamento evolutivo, proprio perché la prova della lesione di diritti inviolabili umani, ma inerenti allo status di lavoratore, non solo giustifica la legittimazione attiva e l’an debeatur, ma evidenzia la contestualità dello inadempimento contrattuale e la plurioffensività della condotta da cui scaturiscono, come conseguenza diretta e immediata (artt. 1223 e 1224 c.c.), una serie di danni. Accanto alle norme costituzionali, ma in posizione subordinata, si trovano poi le norme statutarie e le norme speciali che disciplinano e tutelano la vita sindacale, il diritto di sciopero, la sicurezza sul lavoro e quanto altro sia stato positivamente previsto per garantire sicurezza, salute e serenità nel posto di lavoro e nello svolgimento quotidiano delle mansioni lavorative.
Occorre allora arricchire la causa petendi in relazione all'inadempimento considerando la vasta rete di tutela delle condizioni di lavoro, mentre la lesione dei diritti del lavoratore dovrà essere costituzionalmente e positivamente fondata per arricchire le voci del danno ingiusto da risarcire a titolo di inadempimento contrattuale e dunque fruendo del maggior termine di prescrizione della azione risarcitoria (in questa direzione v. Cass. 2000/5491 citata).
La necessità di costruire le nuove regole della civiltà del lavoro, partendo dal basso e dai rapporti di quotidianità della vita lavorativa, è un'esigenza che la Cassazione, sezione del Lavoro, ha ritenuto di dover sottolineare più volte e da ultimo nella sentenza 18 gennaio 1999 n. 434, dove si afferma il seguente principio di diritto:
- il comportamento delle parti nel rapporto lavorativo deve conformarsi, oltre che ai principi dell'ordinamento, della correttezza e della buona fede anche ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme ai predetti principi compongono il diritto vivente, ed in materia di diritti di lavoro la cd. "civiltà del lavoro".
Non si tratta di un obiter utopistico, ma di realismo positivo in una visione promozionale ed evolutiva del diritto dal volto umano, specie quando la vittima è il lavoratore. Nel caso di MOBBING VERTICALE la situazione vessatoria potrà essere semplice o diretta, nel caso in cui sia il manager o il datore di lavoro ad assumere l'iniziativa della persecuzione e della emarginazione; ma potrà essere più complessa o indiretta, nei casi in cui l'imprenditore non voglia esporsi di persona, ma utilizzi il sistema di deleghe, di ordini o insinuazioni orali, in modo da avvalersi del fiduciario, dell'agente provocatore, del preposto.
In questi casi il mobbing assumerà costantemente la non responsabilità per il fatto illecito altrui o per aver delegato i poteri nella gestione di una complessa impresa, divisa in vari comparti e varie attività. La strategia della mobbizzazione aziendale viene allora economicamente giustificata con le esigenze di mercato, con la flessibilità in uscita e gli ammortizzatori sociali.
Ma a questo punto il problema diventa politico, e non sempre chi si occupa della politica del lavoro può occuparsi delle singole sventure.
Come illecito aquiliano
La scelta dei mezzi di difesa compete al lavoratore danneggiato ed al suo difensore, e dunque la richiesta risarcitoria può essere fondata sul principio del neminem laedere e sulla responsabilità aquiliana ai sensi dello art. 2043 del codice civile (cfr. Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763).
Si tratta di una scelta strategica, che deve essere ben ponderata dal difensore, per la ragione che il regime della responsabilità civile da inadempimento contrattuale è diverso, ma non necessariamente migliore (eccetto che per il termine di prescrizione ordinario anziché breve) del regime della responsabilità extracontrattuale.
Partiamo dalle fattispecie tipo del mobbing orizzontale (tra colleghi) e del mobbing verticale (del capo, del boss).
Nella prima situazione la scelta della responsabilità extracontrattuale consente al lavoratore sia di svolgere direttamente la difesa contro gli offensori (che hanno solitamente scarse risorse economiche) sia di agire contro il datore di lavoro, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2049 e 2055 c.c.
La prima norma, secondo un orientamento giurisprudenziale, determina una presunzione di colpa in eligendo o in vigilando (Cass. 22 marzo 1994 n. 2734) con conseguente onere della prova, a carico del datore di lavoro, circa la dimostrazione che l'illecito è del tutto estraneo al rapporto ed all'ambiente di lavoro; secondo altro orientamento (Cass. 29 agosto 1995 n. 9100) considera la responsabilità del "padrone" per il fatto del dipendente, come responsabilità oggettiva presunta dalla legge, senza che rilevi la dimostrazione della assenza di colpa. Conseguentemente, la sentenza penale di assoluzione del datore di lavoro con qualsiasi formula non preclude l'azione civile di danno.
Quale che sia l'orientamento preferibile (e certamente è, per il lavoratore, quello della responsabilità oggettiva) il regime extracontrattuale è migliore di quello contrattuale, quanto agli oneri della prova ed alle presunzioni, ed inoltre, nel caso di responsabilità oggettiva esonera il lavoratore dalla prova inerente alla consapevolezza o meno, del datore di lavoro, dei fatti lesivi commessi dai dipendenti o dal preposto. Nel caso di mobbing verticale commesso dal preposto, è ancora invocabile il combinato disposto tra l'art. 2049 e lo art. 2055 c.c.; nel caso di mobbing commesso dal datore di lavoro, dal manager o dal "padroncino" l'azione, proposta ai sensi degli artt. 2043 e 2059 (per i danni morali) non può giovarsi della disciplina dello art. 2049, ma è forse preferibile alla disciplina dello inadempimento contrattuale per il nesso di causalità e per la esclusione del limite di risarcibilità di cui allo art. 1225 del codice civile.
Per il nesso di causalità osservo che il neminem laedere si fonda sulle regole della causalità adeguata o della conditio sine qua non (artt. 40 e 41 c.p.), mentre il nesso di causalità per l'inadempimento è scritto nell'alt. 1223 c.c. come "conseguenza immediata e diretta di un inadempimento o di un ritardato adempimento". Ancora: il nesso di causalità dell'illecito civile è diverso dalle regole sulla prova del danno, che dipendono dalla natura del danno, patrimoniale, non patrimoniale, biologico, esistenziale.
Occorre poi considerare che malgrado l'art. 2087 c.c. consideri l'obbligo della tutela della personalità morale come obbligo contrattuale, non è detto che, in sede di richiesta risarcitoria, per il ristoro del danno non operi il limite dello accertamento del fatto reato. Ritengo che, attraverso la costituzionalizzazione dello art. 2087 c.c., debba essere preferita l'interpretazione evolutiva, secondo cui si tratta di norma specifica per la materia della responsabilità contrattuale e dunque è alternativa alla diversa tutela extracontrattuale prevista dallo art. 2059 c.c.
Due questioni procedurali. La prima concerne il giudice competente, giudice ordinario o giudice del lavoro; la seconda concerne il cumulo delle domande di responsabilità al fine della delimitazione della causa petendi e del petitum.
Alla prima questione rispondo nel senso che conviene privilegiare la competenza ratione materiae del giudice del lavoro e del rito del lavoro, che agevola l'attività difensiva del lavoratore e consente al giudice di intervenire sulla indicazione delle prove e sulla loro ammissione, anche di ufficio (art. 421 c.p.c.) e anche nel caso in cui la pretesa risarcitoria sia in tutto o in parte fondata sulla responsabilità aquiliana (Cass. 8 settembre 1999 n. 9539).
In tale direzione è consolidata la giurisprudenza del lavoro, anche se, in linea di tesi mi sembra ammissibile anche una azione ordinaria per illecito dinanzi al giudice ordinario.
Resta poi da approfondire l'impatto della riforma della giurisdizione, ai fini dell'eventuale competenza del TAR per illecito riferibile al datore di lavoro pubblico.
La seconda questione attiene alla possibilità del concorso tra responsabilità contrattuale ed extra-contrattuale, attraverso la proposizione di unica domanda risarcitoria. La supercitata massima della Cassazione (Cass. 21 dicembre 1998 n. 12541) che ammette il cumulo delle domande, merita un controllo ed una riflessione sulla motivazione.
Infatti a fronte di una domanda ambivalente, la controparte potrà esigere che la domanda sia specifica sin dalla replica all'atto introduttivo (artt. 63 nn 3 e 4 c.p.c. e 183 c.p.c.) ma la parte attrice ha il diritto di fondare la propria causa petendi sia sulle ragioni di responsabilità contrattuale sia su quelle proprie della responsabilità extracontrattuale, per una considerazione fondamentale.
Il mobbing consiste in una serie duratura di atti, tra di loro coordinati, che indeboliscono progressivamente le difese psichiche e morali del lavoratore, la sua capacità lavorativa, la presenza sul luogo del lavoro.
L'utilità della figura giova alla costruzione di un illecito unitario, ma che ha note di complessità, di plurioffensività, e pertanto produce una serie di danni progressivi che possono poi determinare l'evento della perdita del lavoro, ma possono anche determinare un danno psichico, una malattia, un suicidio, o, nel migliore dei casi, un danno esistenziale.
E' evidente che la dottrina riduzionista, a fronte di un illecito che produce molti danni, patrimoniali e non, proponga soluzioni mirate, ad esempio esigendo dal difensore sprovveduto del lavoratore, che precisi la natura dell'azione o della causa petendi, ed affermi che la pluralità consiste nella duplicazione o triplicazione seriale dei medesimo danno.
Ma si tratta di una dottrina non condivisibile, per una ragione di fondo.
La tutela dei diritti umani inviolabili interessa anche il lavoratore, e l'esempio di danno sociale emergente è quello che stiamo esaminando.
Siamo, in attesa di una improbabile tipicizzazione penale o civile (ma i poteri forti potrebbero organizzare un Comitato scientifico che consideri unitariamente e globalmente la liquidazione del danno, affidandone la valutazione ed arbitrati irrituali), nell'ambito di una normale tutela giurisdizionale da responsabilità civile.
Il giurista non crea alcuna nuova tipologia di danno, né il giudice crea una nuova figura di danno. Il giudice esamina una domanda risarcitoria da inadempimento ovvero una domanda risarcitoria per una serie di danni, fondata anche su ragioni di responsabilità extracontrattuale. Se le domande sono provate e fondate dovrà accoglierle.
Quanto poi ai problemi di etichettatura, la giurisprudenza è ancella della dottrina, anche quando si usano espressioni in lingua estera. Conta molto la lettura costituzionale del sistema della responsabilità civile, proprio perché questa lettura evolutiva, sostenuta dai giudici del merito, ma convalidata dai principi di diritto della Corte di Cassazione e dalle pronunce e dal metodo insegnato dalla Corte Costituzionale, concorre alla tutela ed allo sviluppo dei Diritti Umani, inclusi quelli del lavoratore.
Conclusioni
Le informazioni sin qui svolte, de iure condendo, evidenziano l'alternatività della scelta dei rimedi, con la tipicizzazione dell'illecito, sia in sede penale sia in sede civile, con una tecnica descrittiva che assume rilevanza per la struttura oggettiva di illecito con evento di danno biologico. Ora, mentre può essere utile la tipicizzazione penale, che rende certo il risarcimento del danno morale (art. 2059 c.c.) che altrimenti non sarebbe dovuto per atti di vessazione non costituenti reato, appare del tutto superflua la tipicizzazione civile che ha l'effetto perverso di delimitare La responsabilità civile ad ipotesi di dolo specifico, quando è a tutti noto che le più frequenti anche se durature vessazioni avvengono in situazioni di colpa per negligenza, per mancato controllo, per distratta o compiaciuta tolleranza, senza che sia possibile, per la vittima di dimostrare la esistenza di una pervicace intenzione dolosa che si estenda alla previsione specifica del danno biologico ed al fine specifico di allontanare il lavoratore dal posto di lavoro.
Per l'illecito civile è certamente migliore la tutela attualmente vigente, che reca la imputazione soggettiva nel vasto ambito delle condotte colpose e dolose.
Giovanni Battista Petti
Consigliere della III Sezione Civile della Suprema Corte, Ambasciatore dei Diritti Umani dell'Associazione Valore Uomo
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