Un caso di mobbing iniziato per compiacere i Sindacati aziendali

 

Trib. Pisa, sez. lav. (giudice unico di 1° grado), 10 aprile 2002 – Est. Nisticò – RG c. Telecom SpA.

 

Mobbing strutturato da trasferimenti illegittimi, inottemperanza ad ordini giudiziali ed infine da licenziamento per asserita ristrutturazione aziendale – Illegittimità – Danno esistenziale – Sussistenza – Risarcibilità in via equitativa.

 

Il divieto di molestie morali - codificato nell’art. 2087 c.c. secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”- appartiene alla struttura di un obbligo legale, normativamente previsto ed immediatamente operante nella fase genetica e funzionale del contratto di lavoro.

La norma in esame, ancorché collocata sistematicamente in un testo risalente al 1942, appartiene alla definizione costituzionale che il nostro ordinamento assegna al lavoro, inteso quale momento di personale realizzazione ma contestualmente protetto dalle insidie ontologiche di uno schema naturalmente verticistico, all’interno del quale è verisimile che le posizioni più deboli subiscano condizionamenti od addirittura vessazioni da parte di chi detiene la posizione dominante. In tal senso ad essa si affida il compito di realizzare un impianto relazionale nel quale sia fatta salva sempre e comunque la personalità del soggetto debole o la sua dignità individuale, al fine di elidere ogni tentativo di asservimento od ogni forma di pressione che non consenta la piena affermazione della persona del lavoratore o che ne riduca la capacità di gestire correttamente il suo rapporto.

Provenendo tale disposizione normativa da un impianto anteriore alla nostra Costituzione, rimane rafforzato il convincimento che la regola del necessario rispetto della personalità morale del lavoratore origini dalla nostra cultura ordinamentale e dalla nostra tradizione giuridica e che quindi l’obbligo di rispetto appartenga al nostro ordinamento in quanto ispirato ad un criterio condiviso di umanesimo del lavoro.

E’ opinione di questo giudice (e non solo, v. Trib. Forlì 15 marzo 2001, Riv. Crit. Lav., 2001, 441) che il danno derivante dalla lesione alla personalità morale del lavoratore, come costruito dall’art. 2087 c.c., abbia rilevanza autonoma rispetto al danno patrimoniale ed al c.d. danno biologico (ed anche rispetto al danno morale). La disposizione in esame, infatti, vieta ex se la molestia morale, indipendentemente dall’eventuale (e concorrente) pregiudizio che possa altrimenti derivare per il lavoratore (sia alla sua dimensione patrimoniale che a quella riferibile alla vita di relazione), per configurare un obbligo risarcitorio determinato dal comportamento tipizzato che non presuppone alcuna lesione comportante una deminutio materiale o psicologica. Il mobbing (così chiamiamo per comodità il comportamento vietato dall’art. 2087 c.c.) può anche cagionare una diversa lesione patrimoniale od alla vita di relazione e così scemare la capacità reddituale o quella relazionale, ma può anche esaurirsi in sé stesso, provocando (come nella gran parte dei casi già sottoposti all’attenzione dei giudici) il solo disagio derivante dalla “pressione” (indebita) del datore di lavoro e dunque la compromissione oggettiva della personalità del lavoratore. La legge, infatti, non tutela (solo) l’integrità psicologica del lavoratore, ma la sua personalità morale, che è cosa diversa e di diversi contenuti. Il mancato rispetto di tale obbligo di tutela, dunque, comporta il risarcimento del danno al solo verificarsi della fattispecie vietata. La voce di danno, così, apparterrà alla tipologia che oggi la dottrina configura come danno esistenziale.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in Cancelleria in data 26.1.2001, l’ing. RG, dipendente con funzioni dirigenziali di Telecom Italia s.p.a. e con sede di lavoro a Pisa , esponeva:

- nell’ambito delle sue funzioni di responsabile dell’Area Esercizio Toscana Marittima ed in attuazione di direttive ricevute rivolte a contenere il lavoro straordinario, egli aveva emesso una istruzione di lavoro in base alle quali, per gli interventi in reperibilità, occorresse operare alcune valutazioni preventive all’intervento medesimo (perché questo non risultasse “a vuoto”);

- la cosa aveva provocato una decisa reazione sindacale, con attribuzione di responsabilità, al punto che il ricorrente si era visto costretto a sporgere querela per le affermazioni contenute in un comunicato sindacale ed a richiedere il datore di lavoro la tutela personale ex art. 15 CCNL;

- per tutta risposta l’ing. RG veniva invitato presso la sede romana e sollecitato a ritirare la querela ed egli replicava con una lettera di doglianza;

- seguiva una contestazione disciplinare sostanzialmente consistente nella attribuzione della responsabilità di aver creato una situazione di “tensione sul piano dei rapporti con le OO.SS.”, cui non seguiva alcun provvedimento sanzionatorio;

- il 7 giugno del 1999 il ricorrente veniva trasferito con effetto immediato a Firenze, ricevendone come spiegazione informale (dal superiore ing. Taggiasco) la necessità di offrire un tributo alle oo.ss., opinione sostanzialmente confermata in occasione di una pubblica manifestazione, richiesta dalle oo.ss. medesime, durante la quale era stato detto che il suo trasferimento era stato determinato dai “noti fatti accaduti sul territorio”;

al ricorrente veniva anche negato un aumento di stipendio (ordinariamente erogato nel mese di maggio) contrariamente a quanto era stato fatto in favore di altri colleghi;

l’ing. RG reagiva con una richiesta ex art. 700 c.p.c. accolta dal Tribunale di Firenze e confermata dal Collegio di reclamo, risultando vittorioso anche nel giudizio di merito conclusosi con la sentenza 30 gennaio 2001;

il 29 luglio 1999 il ricorrente veniva reintegrato a Pisa;

l’11.1.2000, con ordine di servizio n. 6, la Telecom comunicava la costituzione dell’Area Operativa Rete Toscana Alta assegnata all’ing. Bettini e nella riunione del 19.1.2000 l’ing. Bettini specificava ai convenuti della Toscana Marittima che avrebbero dovuto fare riferimento a lui stesso: di fatto il ricorrente veniva spogliato di ogni funzione;

- il 27 gennaio l’ing. RG presentava un esposto alla Procura della Repubblica evidenziando la sostanziale inosservanza dell’ordine giudiziale di reintegra a Pisa;

il 9 fabbraio 2000 l’ing. RG veniva licenziato e quindi il ricorrente, in esito ad un nuovo procedimento ex art. 700 c.p.c. davanti al Tribunale di Pisa veniva reintegrato nel posto di lavoro ed il provvedimento veniva confermato dal Tribunale di Pisa in sede collegiale di reclamo;

venivano intavolate delle trattative per trovare una collocazione per l’ing. RG, il quale non era stato riammesso al lavoro, se non in data 22 novembre 2000, allorché contestualmente veniva nuovamente trasferito a Firenze; il 28 successivo Telecom depositava davanti al Tribunale di Torino un ricorso per l’accertamento della legittimità del trasferimento .

Su questi presupposti l’ing. RG chiedeva al giudice il risarcimento del danno alla professionalità, il risarcimento per danno alla dignità personale e l’accertamento del diritto a rifiutare il trasferimento perché discriminatorio ed illegittimo, avanzando una ennesima richiesta cautelare in corso di causa.

Rigettata la domanda cautelare con provvedimento 18.4.2002, nel giudizio di merito il datore di lavoro si costituiva in giudizio eccependo preliminarmente la litispendenza con il procedimento instaurato a Torino e contestando nel merito tutte le allegazioni e le deduzioni in punto di danno del ricorrente.

Senza l’assunzione di mezzi istruttori, all’udienza del 10.4.2002, sulle conclusioni delle parti, la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo del quale veniva data pubblica lettura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Ai sensi del disposto dell’art. 2087 c.c. , “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore” .

Il divieto di molestie morali, dunque, appartiene alla struttura di un obbligo legale, normativamente previsto ed immediatamente operante nella fase genetica e funzionale del contratto di lavoro.

La norma in esame, ancorché collocata sistematicamente in un testo risalente al 1942, appartiene alla definizione costituzionale che il nostro ordinamento assegna al lavoro, inteso quale momento di personale realizzazione ma contestualmente protetto dalle insidie ontologiche di uno schema naturalmente verticistico, all’interno del quale è verisimile che le posizioni più deboli subiscano condizionamenti od addirittura vessazioni da parte di chi detiene la posizione dominante. In tal senso ad essa si affida il compito di realizzare un impianto relazionale nel quale sia fatta salva sempre e comunque la personalità del soggetto debole o la sua dignità individuale, al fine di elidere ogni tentativo di asservimento od ogni forma di pressione che non consenta la piena affermazione della persona del lavoratore o che ne riduca la capacità di gestire correttamente il suo rapporto.

Provenendo tale disposizione normativa da un impianto anteriore alla nostra Costituzione, rimane rafforzato il convincimento che la regola del necessario rispetto della personalità morale del lavoratore origini dalla nostra cultura ordinamentale e dalla nostra tradizione giuridica e che quindi l’obbligo di rispetto appartenga al nostro ordinamento in quanto ispirato ad un criterio condiviso di umanesimo del lavoro.

Il che vuole anche dire che, nonostante le istanze attuali di segno contrario, la prospettiva nella quale si pone da sempre il nostro legislatore non è una prospettiva di mercato, dove il lavoratore assume il ruolo, come oggi si dice con espressioni proprie della subcultura aziendalistica dominante, di capitale umano o di risorsa umana, bensì quello di soggetto dotato, anche nel contratto di lavoro, della sua personalità e della sua dignità, la cui affermazione si pone in senso prioritario rispetto all’interesse imprenditoriale di utilizzare a piacimento la forza lavoro.

Questo, poi, comporta, come linea di tendenza interpretativa (come vedremo confermata dalla nostra Costituzione e dalla normativa continentale) il primato dell’impianto protettivo in favore della parte debole del rapporto rispetto alle regole mercantili e l’autonomia ontologica del sistema lavoristico rispetto al generale sistema dei rapporti contrattuali, pure mitigato, come sappiamo dalla clausola generale di cui all’art. 1375 c.c. secondo cui “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”.

Queste regole di civiltà giuridica appaiono trasfuse e rafforzate nella Carta Costituzionale la quale, come è noto, enuncia il fenomeno del lavoro addirittura in sede definitoria del nostro ordinamento (art. 1), valorizza i criteri di solidarietà (art. 2), di tutela del lavoro (art. 4), di eguaglianza sostanziale (art. 3, 2° comma), di tutela in favore di soggetti debolissimi (art. 37), per prevedere, infine, in una disposizione che riguarda l’esercizio dell’impresa (art. 41), il limite attinente l’utile sociale ed il rispetto della dignità umana.

Trattandosi di principi noti a tutti e dai contenuti univoci, qui si può solo dire di come la nostra carta fondamentale realizzi un sistema di protezione in favore della parte debole e quindi (anche) di tutela forte della personalità morale del lavoratore nella sua dimensione individuale e nella sua dimensione collettiva (art. 39 Cost.), con ciò confermando che la prospettiva non è quella dell’impresa bensì quella del lavoratore e contestualmente escludendo che questi possa essere lasciato solo nel mercato del lavoro (e nel singolo rapporto).

Vero è che oggi circola, sostenuta mediaticamente ma non scientificamente, l’opinione secondo la quale i principi appena enunciati mostrerebbero la loro inadeguatezza rispetto alle istanze europee, ma, come si vedrà, si tratta solo di slogans del tutto privi di contenuti, supportati da esigenze di parte, mediante l’enfatizzazione dei criteri di competitività e concorrenza secondo i quali i risultati di protezione in favore delle parti deboli si otterrebbero comunque “per ricaduta”. Chi afferma questo non conosce la Carta di Nizza, la quale, come è noto, recepisce integralmente i criteri enunciati nella nostra Costituzione approntando strumenti di tutela diretta (e non solo quali effetti della competitività aziendale) in favore dei lavoratori, di tal che può senz’altro affermarsi che il nostro ordinamento può ritenersi all’avanguardia (come in altre occasioni) anche in sede europea. Né qui occorre riprodurre i testi del documento comunitario, a tutti noto.

Ma vi è di più, perché alla necessaria tutela della personalità morale del lavoratore le istituzioni europee dedicano tutta la loro attenzione, evidenziando come il mobbing annidi proprio dove c’è precarietà, o flessibilità, come oggi si dice. Vale la pena, allora , riportare integralmente la risoluzione del Parlamento Europeo A5-0283/2001.

Il Parlamento europeo,

- visti gli articoli 2, 3, 13, 125-129, 136-140 e 143 del trattato CE,

- viste le sue risoluzioni del 13 aprile 1999 sulla comunicazione della Commissione "Modernizzare l'organizzazione del lavoro - Un atteggiamento positivo nei confronti dei cambiamenti", del 24 ottobre 2000 su "Orientamenti a favore dell'occupazione per il 2001 - Relazione congiunta sull'occupazione 2000"e del 25 ottobre 2000 sull'Agenda per la politica sociale,

- viste le parti pertinenti delle conclusioni del Consiglio europeo in occasione dei vertici di Nizza e di Stoccolma,

- visto l'articolo 163 del suo regolamento,

- visti la relazione della commissione per l'occupazione e gli affari sociali e il parere della commissione per i diritti della donna e le pari opportunità (A5-0283/2000)

A. considerando che, secondo un sondaggio svolto tra 21.500 lavoratori dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Fondazione di Dublino), nel corso degli ultimi 12 mesi l'8% dei lavoratori dell'Unione europea, pari a 12 milioni di persone, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro, e che si può presupporre che il dato sia notevolmente sottostimato,

B. considerando che l'incidenza di fenomeni di violenza e molestie sul lavoro, tra cui la Fondazione include il mobbing, presenta sensibili variazioni tra gli Stati membri e che ciò è dovuto, secondo la Fondazione, al fatto che in alcuni paesi soltanto pochi casi vengono dichiarati, che in altri la sensibilità verso il fenomeno è maggiore e che esistono differenze tra i sistemi giuridici nonché differenze culturali; che la precarietà dell'impiego costituisce una delle cause principali dell'aumento della frequenza di suddetti fenomeni,

C. considerando che la Fondazione di Dublino rileva che le persone esposte al mobbing subiscono uno stress notevolmente più elevato rispetto agli altri lavoratori in generale e che le molestie costituiscono dei rischi potenziali per la salute che spesso sfociano in patologie associate allo stress; che i dati nazionali sul mobbing nella vita professionale, disaggregati per generi, non offrono, secondo l'Agenzia, un quadro uniforme della situazione;

D. considerando che dai dati provenienti da uno degli Stati membri risulta che i casi di mobbing sono di gran lunga più frequenti nelle professioni caratterizzate da un elevato livello di tensione, professioni esercitate più comunemente da donne che da uomini e che hanno conosciuto una grande espansione nel corso degli anni 90,

E. considerando che gli studi e l'esperienza empirica convergono nel rilevare un chiaro nesso tra, da una parte, il fenomeno del mobbing nella vita professionale e, dall'altra, lo stress o il lavoro ad elevato grado di tensione, l'aumento della competizione, la riduzione della sicurezza dell'impiego nonché l'incertezza dei compiti professionali,

F. considerando che tra le cause del mobbing vanno ad esempio annoverate le carenze a livello di organizzazione lavorativa, di informazione interna e di direzione; che problemi organizzativi irrisolti e di lunga durata si traducono in pesanti pressioni sui gruppi di lavoro e possono condurre all'adozione della logica del "capro espiatorio" e al mobbing; che le conseguenze per l'individuo e per il gruppo di lavoro possono essere rilevanti, così come i costi per i singoli, le imprese e la società;

1. ritiene che il mobbing, fenomeno di cui al momento non si conosce la reale entità, costituisca un grave problema nel contesto della vita professionale e che sia opportuno prestarvi maggiore attenzione e rafforzare le misure per farvi fronte, inclusa la ricerca di nuovi strumenti per combattere il fenomeno;

2. richiama l'attenzione sul fatto che il continuo aumento dei contratti a termine e della precarietà del lavoro, in particolare tra le donne, crea condizioni propizie alla pratica di varie forme di molestia;

3. richiama l'attenzione sugli effetti devastanti del mobbing sulla salute fisica e psichica delle vittime, nonché delle loro famiglie, in quanto essi impongono spesso il ricorso ad un trattamento medico e psicoterapeutico e conducono generalmente a un congedo per malattia o alle dimissioni;

4. richiama l'attenzione sul fatto che, secondo alcune inchieste, le donne sono più frequentemente vittime che non gli uomini dei fenomeni di mobbing, che si tratti di molestie verticali: discendenti (dal superiore al subordinato) o ascendenti (dal subordinato al superiore), di molestie orizzontali (tra colleghi di pari livello) o di molestie miste;

5. richiama l'attenzione sul fatto che false accuse di mobbing possono trasformarsi a loro volta in un temibile strumento di mobbing;

6. pone l'accento sul fatto che le misure contro il mobbing sul luogo di lavoro vanno considerate una componente importante degli sforzi finalizzati all'aumento della qualità del lavoro e al miglioramento delle relazioni sociali nella vita lavorativa; ritiene che esse contribuiscano altresì a combattere l'esclusione sociale, il che può giustificare l'adozione di misure comunitarie e risulta in sintonia con l'Agenda sociale e gli orientamenti in materia di occupazione dell'Unione europea;

7. rileva che i problemi di mobbing sul posto di lavoro vengono probabilmente ancora sottovalutati in molti settori all'interno dell'UE e che vi sono molti argomenti a favore di iniziative comuni a livello dell'Unione, quali ad esempio la difficoltà di trovare strumenti efficaci per prevenire e contrastare il fenomeno, il fatto che gli orientamenti sulle misure per combattere il mobbing sul posto di lavoro possano produrre effetti normativi ed influire sugli atteggiamenti e che l'adozione di tali orientamenti comuni sia giustificata anche da ragioni di equità;

8. esorta la Commissione a prendere ugualmente in considerazione, nelle sue comunicazioni relative a una strategia comune in materia di salute e sicurezza sul lavoro e al rafforzamento della dimensione qualitativa della politica occupazionale e sociale nonché nel libro verde sulla responsabilità sociale delle imprese, fattori psichici, psicosociali e sociali connessi all'ambiente lavorativo, inclusa l'organizzazione lavorativa, invitandola pertanto ad attribuire importanza a misure di miglioramento dell'ambiente lavorativo che siano lungimiranti, sistematiche e preventive, finalizzate tra l'altro a combattere il mobbing sul posto di lavoro e a valutare l'esigenza di iniziative legislative in tal senso;

9. esorta il Consiglio e la Commissione ad includere indicatori quantitativi relativi al mobbing sul posto di lavoro negli indicatori relativi alla qualità del lavoro, che dovranno essere definiti in vista del Consiglio europeo di Laeken;

10. esorta gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del "mobbing" ;

11. sottolinea espressamente la responsabilità degli Stati membri e dell'intera società per il mobbing e la violenza sul posto di lavoro, ravvisando in tale responsabilità il punto centrale di una strategia di lotta a tale fenomeno;

12. raccomanda agli Stati membri di imporre alle imprese, ai pubblici poteri nonché alle parti sociali l'attuazione di politiche di prevenzione efficaci, l'introduzione di un sistema di scambio di esperienze e l'individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime e ad evitare sue recrudescenze; raccomanda, in tale contesto, la messa a punto di un'informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che nel settore pubblico; ricorda a tale proposito la possibilità di nominare sul luogo di lavoro una persona di fiducia alla quale i lavoratori possono eventualmente rivolgersi;

13. esorta la Commissione ad esaminare la possibilità di chiarificare o estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro oppure di elaborare una nuova direttiva quadro, come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie, nonché come meccanismo di difesa del rispetto della dignità della persona del lavoratore, della sua intimità e del suo onore; sottolinea pertanto che è importante che la questione del miglioramento dell'ambiente di lavoro venga affrontata in modo sistematico e con l'adozione di misure preventive;

14. sottolinea che una base statistica migliore può agevolare e ampliare la conoscenza e la ricerca e segnala il ruolo che l'Eurostat e la Fondazione di Dublino possono svolgere in tale contesto; esorta la Commissione, la Fondazione di Dublino e l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro a prendere iniziative affinché vengano condotti studi approfonditi in materia di mobbing;

15. sottolinea l'importanza di studiare più da vicino il fenomeno del mobbing sul posto di lavoro in relazione sia agli aspetti attinenti all'organizzazione del lavoro sia a quelli legati a fattori quali genere, età, settore e tipo di professione; chiede che lo studio in questione comprenda un'analisi della situazione particolare delle donne vittime di mobbing;

16. constata che uno Stato membro ha già adottato una normativa mirante a lottare contro il mobbing sul posto di lavoro e che altri Stati sono impegnati nella ratifica di una legislazione volta a reprimere tale fenomeno, richiamandosi il più delle volte alle legislazioni adottate per reprimere le molestie sessuali; esorta gli Stati membri a prestare attenzione al problema del mobbing sul luogo di lavoro e a tenerne conto nel contesto delle rispettive legislazioni nazionali e di altre azioni;

17. esorta le istituzioni europee a fungere da modello sia per quanto riguarda l'adozione di misure per prevenire e combattere il mobbing all'interno delle loro stesse strutture che per quanto riguarda l'aiuto e l'assistenza a individui o gruppi di lavoro, prevedendo eventualmente un adeguamento dello statuto dei funzionari nonché un'adeguata politica di sanzioni;

18. constata che le persone esposte al mobbing nelle istituzioni europee beneficiano attualmente di un aiuto insufficiente e si compiace al riguardo con l'amministrazione per aver istituito da tempo un corso destinato in particolare alle donne amministratrici intitolato "La gestione al femminile" e, più recentemente, un comitato consultivo sul mobbing;

19. chiede che si esamini in quale misura la consultazione a livello comunitario tra le parti sociali può contribuire a combattere il mobbing sul posto di lavoro e ad associare a tale lotta le organizzazioni dei lavoratori;

20. esorta le parti sociali negli Stati membri a elaborare, tra di loro e a livello comunitario, strategie idonee di lotta contro il mobbing e la violenza sul luogo di lavoro, procedendo altresì a uno scambio di esperienze in merito secondo il principio delle "migliori pratiche" ;

21. ricorda che il mobbing comporta altresì conseguenze nefaste per i datori di lavoro per quanto riguarda la redditività e l'efficienza economica dell'impresa a causa dell'assenteismo che esso provoca, della riduzione della produttività dei lavoratori indotta dal loro stato di confusione e di difficoltà di concentrazione nonché dalla necessità di erogare indennità ai lavoratori licenziati;

22. sottolinea l'importanza di ampliare e chiarire la responsabilità del datore di lavoro per quanto concerne la messa in atto di misure sistematiche atte a creare un ambiente di lavoro soddisfacente;

23. chiede che abbia luogo una discussione in merito alle modalità di sostegno alle reti e organizzazioni di volontariato impegnate nella lotta al mobbing;

24. invita la Commissione a presentare, entro il marzo 2002, un libro verde recante un'analisi dettagliata della situazione relativa al mobbing sul posto di lavoro in ogni Stato membro e, sulla base di detta analisi, a presentare successivamente, entro l'ottobre 2002, un programma d'azione concernente le misure comunitarie contro il mobbing sul posto di lavoro; chiede che tale piano d'azione venga corredato di uno scadenzario;

25. incarica la sua Presidente di trasmettere la presente risoluzione alla Commissione, al Consiglio, alla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ed all'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro”

 

2) E’ opinione di questo giudice (e non solo, v. Trib. Forlì 15 marzo 2001, Riv. Crit. Lav., 2001, 441 ) che il danno derivante dalla lesione alla personalità morale del lavoratore, come costruito dall’art. 2087 c.c., abbia rilevanza autonoma rispetto al danno patrimoniale ed al c.d. danno biologico (ed anche rispetto al danno morale). La disposizione in esame, infatti, vieta ex se la molestia morale, indipendentemente dall’ eventuale (e concorrente) pregiudizio che possa altrimenti derivare per il lavoratore (sia alla sua dimensione patrimoniale che a quella riferibile alla vita di relazione), per configurare un obbligo risarcitorio determinato dal comportamento tipizzato che non presuppone alcuna lesione comportante una deminutio materiale o psicologica. Il mobbing (così chiamiamo per comodità il comportamento vietato dall’art. 2087 c.c.) può anche cagionare una diversa lesione patrimoniale od alla vita di relazione e così scemare la capacità reddituale o quella relazionale, ma può anche esaurirsi in sé stesso, provocando (come nella gran parte dei casi già sottoposti all’attenzione dei giudici) il solo disagio derivante dalla “pressione” (indebita) del datore di lavoro e dunque la compromissione oggettiva della personalità del lavoratore. La legge, infatti, non tutela (solo) l’integrità psicologica del lavoratore, ma la sua personalità morale, che è cosa diversa e di diversi contenuti. Il mancato rispetto di tale obbligo di tutela, dunque, comporta il risarcimento del danno al solo verificarsi della fattispecie vietata. La voce di danno, così, apparterrà alla tipologia che oggi la dottrina configura come danno esistenziale.

L’obbligo risarcitorio a evidente natura contrattuale, poiché, come si è visto, origina dal disposto dell’art. 2087 c.c., conseguendo, sul piano dell’onere dalla prova, che grava sul datore di lavoro provare che il comportamento descritto ed accertato non abbia avuto alcuna potenzialità lesiva.

Ritenuta, poi, la definizione fin qui offerta, i criteri di liquidazione dal danno saranno diversi da quelli ordinariamente utilizzati per la liquidazione del danno biologico e saranno affidati alla ricostruzione equitativa del giudice (art. 1226 c.c.) il quale può utilizzare alcuni parametri di riferimento, non ultimo quello di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (così Tribunale di Pisa, 3.10.2001, Fulceri c. Autogrill e Rigo).

 

3) Sul piano sistematico, il disposto di cui all’art. 2087 c.c. si configura quale norma di chiusura (o, se si vuole, quale clausola generale): il nostro ordinamento, infatti, conosce già strumenti di tutela specifica rispetto a comportamenti tipizzati e questo vale, per esempio, avuto riguardo ad alcune fattispecie dettate dallo Statuto dei lavoratori in tema di divieto di indagini sulle opinioni, divieto di controlli occulti o di atti di gestione discriminatori. In tali casi la fattispecie risarcitoria concorrerà con quella tipica, trattandosi di forme diverse di tutela ed operando la prima, come si è detto, quale clausola generale. Se così è, allora, indipendentemente dalla sussistenza di un comportamento tipizzato, il diritto al risarcimento potrà autonomamente configurarsi sulla base della valutazione complessiva di una serie di atti tenuti insieme da un unico intento vessatorio e quindi anche nelle ipotesi, non infrequenti, di atti singolarmente leciti, ma non più tali se considerati nella loro evoluzione teleologica (è il caso dello stillicidio di provvedimenti disciplinari “pignoli” o dell’abuso di strumenti di controllo, come avviene nella immotivata reiterazione di accertamenti sanitari, ritenuta lesiva da Cass. 475/1999). In buona sostanza si tratta di mutuare correttamente la costruzione dell’abuso di diritto.

 

4) Fatte queste premesse, sul piano della ricostruzione in punto di diritto, si può osservare come gli elementi che sintomaticamente convergono verso l’affermazione di un comportamento schiettamente vessatorio del datore di lavoro possono, in questa controversia, ricavarsi da una serie di dati oggettivi, per pervenire alla conclusione del pieno accoglimento della domanda risarcitoria (ancorché sotto un’ unica voce di danno, ex art. 2087 c.c., senza poter distinguere fra danno alla professionalità e danno alla dignità morale).

La complessa (ma non tanto) vicenda che ci occupa origina da un comportamento tenuto dall’ing. RG (che qui non importa ritenere se sia stato corretto o meno) nell’esercizio del suo compito, poi risultato inviso alle organizzazioni sindacali. La circostanza è nella sostanza assolutamente pacifica, al punto che non è in contestazione che in tal senso siano state esposte le ragioni del conflitto fra il ricorrente ed il datore di lavoro in un contesto di relativa pubblicità (ci si riferisce ai “noti fatti accaduti sul territorio”).

Che il primo trasferimento da Pisa a Firenze fosse illegittimo e che originasse dalla esigenza datoriale di “offrire ai sindacati la testa del RG” lo hanno già affermato tre giudici chiamati in sedi diverse (v. ord. Trib. Firenze 20 luglio 1999 e ord. Trib. Firenze – giudice del reclamo - 6 ottobre 1999, sentenza 30.1.2002 del Tribunale di Firenze, tutte prodotte dal ricorrente).

Dalla lettura dei provvedimenti citati si coglie con certezza che il ricorrente sia stato (illegittimamente) trasferito a Firenze al solo scopo di risolvere la questione insorta con il dissenso del sindacato per l’operato del dirigente. In buona sostanza un “lavarsene le mani” che non corrisponde ai doveri di correttezza di cui all’art. 1375 c.c e che già denota una volontà “obliqua” di utilizzazione degli strumenti datoriali di gestione del rapporto di lavoro.

Certo è che se la vicenda fosse finita con questo maldestro tentativo di spostare il RG a Firenze, la fattispecie dedotta in giudizio ai fini risarcitori denuncerebbe insufficienti elementi sintomatici, ancorché per certi aspetti, la marcata illegittimità deponesse già per un evidente intento di natura semipunitiva, perché quando un problema sorge, nel rapporto di lavoro, si risolve, non si accantona, come qui ha fatto il datore di lavoro trasferendo il RG.

Tuttavia, come è pacifico, la questione ha un suo seguito ed abbastanza “pesante”, perché l’ing. RG, dopo un periodo di “quiete” viene licenziato per asserite esigenze di riorganizzazione del lavoro. Ancora una volta un giudice cautelare annulla il provvedimento datoriale (Trib. Pisa ord. ex art. 700 c.p.c. 11 luglio 2000) sul presupposto che il licenziamento fosse ritorsivo avendo accertato che il datore di lavoro aveva soppresso 15 Aree ed aveva ricollocato 14 preposti, tutti, in sostanza, ad eccezione del RG ed avendo ribadito come il precedente annullamento per ragioni di legittimità (mancanza di preavviso) da parte di un datore di lavoro tutt’altro che sprovveduto confermasse la volontà ritorsiva.

Anche questo provvedimento cautelare è stato confermato dal Tribunale di Pisa in sede di reclamo (v. ord. 8 agosto 2000) che ha condiviso gli argomenti del giudice dell’urgenza.

Fatto sta che Telecom non intende mantenere l’ing. RG in servizio ed il 24 novembre 2000 lo trasferisce nuovamente a Firenze, in alternativa alla proposta di destinazione in diverse sedi, tutte particolarmente distanti dal luogo di residenza.

Questo trasferimento è oggetto accertamento preventivo presso il Tribunale di Torino ed anche presso questo giudice in questa controversia (salva la litispendenza della quale infra).

Si ha, allora, in buona sostanza che il datore di lavoro ha in concreto vanificato cinque pronunce giudiziarie, impedendo al RG di svolgere la sua attività presso la sede di Pisa, alla quale è stato reiteratamente assegnato dai provvedimenti giudiziari a lui favorevoli.

Né deve sfuggire come, in occasione dell’ultimo contenzioso, Telecom Italia abbia depositato il ricorso di accertamento sulla legittimità del trasferimento (lontano dai giudici fiorentini e pisani ai quali la vicenda era già abbastanza chiara) nello stesso giorno nel quale si stavano svolgendo trattative per un idoneo collocamento del RG: il che denuncia, se ce ne fosse ancora bisogno, i contenuti di pervicacia con la quale il datore di lavoro si è letteralmente accanito nei confronti del suo dirigente, alimentando una condizioni di precarietà e disagio gravissimo protrattasi nel tempo.

In tale oggettivo contesto (che il datore di lavoro avrebbe ben potuto evitare adoprandosi per rimuovere le ragioni di dissenso sindacale, senza capri espiatori) la lesione della personalità morale e dalla dignità del lavoratore appare addirittura conclamata.

Ne consegue il risarcimento del danno ex art. 2087 c.c. (che questo giudice valuta complessivamente, tenuto conto che il danno alla professionalità così come enunciato appare privo di contenuti diversi rispetto al danno esistenziale) da liquidarsi sulla base dei parametri enunciati in premessa, della particolare gravità del fatto, del lungo lasso di tempo durante il quale si è protratta la lesione, della qualità professionale del RG, sempre encomiato prima di questa vicenda. Tale danno può, allora, essere quantificato in 80.000 €.

Va, invece, pronunciata la litispendenza fra la controversia presso il Tribunale di Torino e la domanda oggi formulata avente ad oggetto l’accertamento della legittimità a rifiutare il trasferimento: entrambe vertono, sia per quanto concerne il petitum che la causa petendi, sulla legittimità del trasferimento adottato dal datore di lavoro ed il Giudice di Torino è stato investito prima di questa della medesima questione.

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la sostanziale soccombenza.

P.Q.M.

Il Giudice dichiara la litispendenza della causa avuto riguardo alla domanda di cui al punto c) del ricorso.

Accoglie le altre domande e per l’effetto condanna parte convenuta a risarcire il danno al ricorrente nella misura di € 80.000.

Condanna parte convenuta al pagamento delle spese di lite che liquida in € 7.500 oltre Iva e Cap di cui € 6.000 per onorari, € 1490 per diritti ed € 10 per spese.

Pisa li 10.4.2002 

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