IL MOBBING TRA REALTÀ ED EQUIVOCO

 

1) Il mobbing come realtà

Sappiamo tutti cos’è il mobbing perché a ciascuno di noi è certamente accaduto di doversene occupare, se non altro perché attratti dalla parola, ed incuriositi, abbiamo letto articoli al riguardo. Sappiamo dunque che deriva dall’inglese (to mob) e che è termine che la psicologia del lavoro ha mutuato dall’etologia per descrivere «una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione» (Ege 2002).

Dunque si tratta di una condotta vessatoria sul luogo di lavoro che a volte costituisce vera e propria strategia aziendale finalizzata all’estromissione del lavoratore dall’azienda .

Anche se la teorizzazione del mobbing risale all’inizio degli anni ’90 (per opera di Leymann) è in questo scorcio di terzo millennio che l’interesse per questo fenomeno ha coinvolto ed interessato a vario livello non solo i media ma anche sindacati, politici, giudici, avvocati, medici legali. In particolare numerosi sono stati i progetti di legge per disciplinare un fenomeno che esploso come una nuova peste, un nuovo AIDS ha sembrato cogliere di colpo tutti indifesi.

I dati sono infatti da … peste del 2000. 

Al riguardo una Risoluzione del Parlamento dell’Unione europea (risoluzione 20 settembre 2001 n. A5-0283/2001) ha evidenziato che l’Europa annovera oltre 12 milioni di mobbizzati e cioè circa l’8% della forza lavoro dell’Unione, dati tra l’altro che devono ritenersi sottostimati (al riguardo “il Sole 24 ore” del 21.10.2002 indica in 40 milioni il numero di lavoratori colpiti in Europa, pari al 38% della forza lavoro, di cui il 4% relativo a casi registrati in Italia sul totale UE; inoltre secondo il servizio giornalistico, il 71% dei casi italiani si registra presso gli uffici pubblici, il 52% riguarda lavoratori di sesso maschile, e per l’80% le vittime appartengono alla categoria dei quadri e degli impiegati ed il costo della sindrome derivante per i paesi della UE ammonterebbe a circa 20 miliardi di euro), e soprattutto ha evidenziato come il mobbing coinvolge una moltitudine di soggetti: i lavoratori, per gli «effetti devastanti del mobbing sulla salute fisica e psichica delle vittime», le loro famiglie e la società civile nel suo complesso ( se non altro in termini di costi sociali) e non da ultimo le aziende che vengono ad avere dal mobbing «conseguenze nefaste … per quanto riguarda la redditività e l'efficienza economica dell'impresa a causa dell'assenteismo che esso provoca, della riduzione della produttività dei lavoratori indotta dal loro stato di confusione e di difficoltà di concentrazione nonché dalla necessità di erogare indennità ai lavoratori licenziati».

La risoluzione si preoccupa inoltre di individuare le cause del fenomeno ed individua il nesso tra, da una parte, il fenomeno del mobbing nella vita professionale e, dall'altra, lo stress o il lavoro ad elevato grado di tensione, l'aumento della competizione, la riduzione della sicurezza dell'impiego nonché l'incertezza dei compiti professionali (Risoluzione 20.9.2001 n. A5-0283/2001, punto E).

Il che significa in altre parole che il mobbing è figlio del nostro tempo.

Non è un caso che ciò sia avvenuto verso la fine degli anni ottanta, perché proprio in quel periodo il mondo del lavoro ha iniziato a conoscere massicciamente gli effetti delle grandi trasformazioni portate dalle nuove caratteristiche dell’economia attuale: la globalizzazione innanzitutto, che con lo spostamento, su larga scala, di enormi produzioni in paesi a basso costo di manodopera ha reso necessario operare massicci tagli del personale in tutti i settori produttivi. Con la conseguenza, per chi rimaneva, di una sempre maggiore precarietà del posto di lavoro, da una parte, e di una esasperata rincorsa alla riduzione del costo aziendale, dall’altra. D’altra parte, il fenomeno delle fusioni tra colossi societari ha provocato, nei settori interessati dal fenomeno, una serie di doppioni: se due grandi banche, o due grandi compagnie assicurative, si fondono, migliaia di impiegati divengono in esubero, e quindi, in qualche modo, molti o pochi devono essere eliminati. Maggiore è la flessibilità e la precarietà, maggiore sarà la possibilità che basti un nonnulla per spazzarti via dal lavoro; maggiore sarà quindi la concorrenza tra colleghi, anche a mezzo di colpi bassi, per mantenere la propria competitività; e più facile ed invitante sarà per l’azienda elaborare strategie per l’eliminazione di quei dipendenti che, ad un certo punto della loro carriera e senza colpe, sono divenuti un segno meno nella lista delle “risorse umane”. E’ questo dunque lo sfondo nel quale collocare le vicende di mobbing; una situazione di base dove il livello di soglia di attenzione nervosa del lavoratore è già, per ragioni indipendenti dalla volontà dei singoli, molto alta (Oliva 2002, 2).

Anche il nostro legislatore si è attivato con disegni di legge che per il momento non sono sfociati in nulla di concreto ma che segnano l’interesse della politica per questo fenomeno. Se analizziamo le varie proposte si può notare come da un approccio definitorio rigido…«ai fini della presente legge, per violenza e persecuzione psicologica si intendono gli atti posti in essere e i comportamenti tenuti da datori di lavoro, nonché da soggetti che rivestono incarichi in posizione sovraordinata o pari grado nei confronti del lavoratore, che mirano a danneggiare quest’ultimo e che sono svolti con carattere sistematico e duraturo e con palese determinazione. Gli atti e i comportamento rilevanti ai fini della presente legge si caratterizzano per il contenuto vessatorio e per le finalità persecutorie. Il danno di natura psico-fisica provocato dagli atti e comportamenti di cui ai commi 2 e 3 rileva ai fini della presente legge quando comporta la menomazione della capacità lavorativa, ovvero pregiudica l’autostima del lavoratore che li subisce, ovvero di traduce in forme depressive (DDL 6410 del 30.9.1999, Camera deputati, primo firmatario Benvenuto)», si sia passati a definizioni più morbide, secondo cui il mobbing viene definito in termini di violenze morali e persecuzioni psicologiche nell’ambito dell’attività lavorativa poste in essere con azioni –a carattere sistematico, duraturo e intenso- che mirano a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore (DDL 4265 del 13.10.1999, Senato, primi firmatari De Luca, Smuraglia e Tapparo).

Nell’attuale legislatura devono segnalarsi i disegni di legge a firma del sen. Magnalbò (n. 422 del 9.7.2001) e quello del sen. Costa (n. 870 del 21.11.2001), progetti che si caratterizzano per la tipizzazione dei comportamenti capaci di integrare mobbing, «attacchi alla reputazione, creazione di falsi pettegolezzi, insinuazioni malevole, segnalazioni diffamatorie, attribuzioni di errori altrui, carenza di informative e informazioni volutamente errate, al fine di creare problemi, controlli e sorveglianza continui, minacce di trasferimenti, apertura di corrispondenza, difficoltà di permessi o ferie, assenza di promozioni o passaggi di grado, ingiustificata rimozione da incarichi già ricoperti, svalutazione dei risultati già ottenuti».

Occorre subito notare come la semplice disamina della casistica rischi di lasciare fuori comportamenti costituenti mobbing, tenuto conto dell’atipicità dei comportamenti che lo caratterizzano; la tecnica definitoria, se rigida, rischia invece di limitare gli spazi di tutela, non essendo possibile prevedere in astratto i mille modi di manifestarsi del fenomeno mobbing.

Anche la contrattazione collettiva si è occupata del mobbing. Ad esempio è previsto che costituiscano infrazione disciplinare atti e comportamenti lesivi della dignità della persona, ivi comprese le molestie sessuali, le violenze morali e le vessazioni di cui vengono fatto oggetto utenti e colleghi (art. 42 CCNL 1998-2001 Università): Il CCNL del comparto Ministeri (CCNL 28.2.2003) prevede con espresso riferimento alla citata Risoluzione del parlamento europeo) la creazione di un «Comitato paritetico sul fenomeno del mobbing» con il compito di «Raccogliere dati relativi “all’aspetto quantitativo e qualitativo del fenomeno del mobbing, individuare le cause del fenomeno e verificare l’esistenza di condizioni di lavoro in grado di favorirne l’insorgenza,  formulare proposte, in relazione alla prevenzione e repressione delle “situazioni di criticità”, e in relazione alla definizione dei codici di condotta, attuare idonei interventi formativi e di aggiornamento del personale ». Inoltre le Amministrazioni sono tenute «A costituire degli appositi “sportelli di ascolto” nell’ambito delle strutture esistenti, istituire la figura del consigliere di fiducia, a definire i codici di condotta ».

Si segnala proprio nell’ottica preventiva il codice etico dell’Azienda ospedaliera O.I.R.M. – S. Anna di Torino che proprio con riferimento alla Risoluzione 20.9.2001 ha indicato con chiarezza il proprio obiettivo nel «Riconoscimento e la comprensione dei processi latenti e non, che influenzano le relazioni interpersonali all’interno dell’istituzione, provocando disagio, perdita di efficienza e creatività, resistenza al cambiamento, e creando in questo modo i presupposti per il sorgere e l’alimentarsi di situazioni di mobbing. Come azienda, in situazioni di mobbing, dobbiamo affrontare problemi riguardanti la produttività, l’assenteismo, l’abbassamento della qualità del lavoro e del servizio erogato, la perdita di professionalità e il deterioramento della qualità della vita in termini di costi sociali » (Codice etico Azienda ospedaliera OIRM – S. Anna, Torino).

In ultimo deve segnalarsi una delibera del Consiglio di Amministrazione dell’INAIL (n. 473 del 26/72001) in cui il Consiglio ha ritenuto che «Le patologie psichiche e psicosomatiche conseguenza di stress e disagio lavorativi, compreso il cosiddetto “mobbing strategico”, possono essere oggetto della tutela assicurativa dell’INAIL se l’assicurato ne prova la causa lavorativa (Delibera INAIL 26.7.2001 n. 473) ».

A tale delibera ha poi fatto seguito la Circolare 17.12.2003 n. 71 che, seppure con estrema cautela, ha fatto rientrare nel rischio tutelato dall’istituto anche il cosiddetto “mobbing strategico”, specificamente ricollegabile a finalità lavorative.

Il mobbing è quindi un portato della realtà con cui ci dobbiamo confrontare, legato al nuovo modello organizzativo di questo periodo storico; il mobbing quindi come nuova «malattia professionale» di cui dobbiamo cercare di individuarne con maggiore precisione i contorni.

 

2) La definizione di mobbing nella psicologia del lavoro e nella giurisprudenza

Innanizutto occorre rilevare come la psicologia del lavoro ritenga essenziali, quali caratteristiche fondamentali del mobbing, la quantità delle azioni persecutorie e la durata nel tempo dell’azione mobbizzante. Leymann riteneva che il mobbing dovesse durare da almeno sei mesi e che gli episodi mobbizzanti dovessero intervenire con frequenza settimanale. Questi parametri sono stati messi in discussione e superati dall’attuale atteggiamento sicuramente più flessibile essendo ormai acquisito il dato che il limite dei sei mesi e della frequenza settimanale non siano soglie minime che abbiano fondamento scientifico. In realtà, occorre navigare a vista nel senso che non esiste un limite minimo di durata del mobbing, tenuto conto che, con la condotta mobbizzante, interagiscono sia altre cause o concause sia le condizioni del soggetto mobbizzato (le c.d. preesistenze) sia infine la qualità della condotta, qualità che può interferire sull’elemento squisitamente temporale.

La giurisprudenza, nelle occasioni in cui se ne è occupata ha avuto un approccio pragmatico, anche se legato alla nozione di mobbing elaborata dalla psicologia del lavoro (in particolare da ultimo ed esplicitamente Tribunale Agrigento 1.2.2005, in Diritto e giustizia, n. 10/2005, secondo cui «il mobbing è una realtà fenomenica, non un concetto giuridico, e che, pertanto, intanto si potrà riconoscerlo nella fattispecie concreta, in quanto la fattispecie medesima sia perfettamente sussumibile nei requisiti richiesti dalla sociologia del lavoro, nazionale e internazionale, compreso l’andamento nelle sei fasi successive del modello Ege»), avvertendo peraltro il disagio della mancanza di una precisa definizione.

Probabilmente occorre ancora del tempo per consentire alla giurisprudenza di elaborare una propria nozione di mobbing anche se allo stato è possibile intravedere, proprio con riferimento alla definizione del mobbing, due approcci tra loro contrapposti.

Il primo, di tipo soggettivo, incentra la propria attenzione anche sulle motivazioni e le finalità dell’azione del mobber, analizzando l’intento persecutorio e richiede quindi un accertamento dell’aspetto soggettivo delle condotte, che devono essere necessariamente dolose (ad es. Trib. Milano 20.5.2000, Dir. rel. Ind., 2001, 2, 285; Trib. Como 22.5.2001, Il Lavoro nella giurisprudenza, 2002, 73; Trib Agrigento, 1.2.2005, cit.).

Il secondo, invece, di tipo oggettivo, sofferma l’attenzione sull’accertamento di condotte che in presenza di elementi oggettivi (la ripetizione, la pretestuosità, il carattere emulativo, l’efficienza lesiva dei beni salute e/o dignità ecc.) risultano riconducibili ad una complessiva ratio vessatoria e discriminatoria (ad es. Trib Pisa 3.10.2001, Lav. Giur, 2002, 456). In altri termini, l’elemento psicologico del mobber è un elemento su cui non si struttura la fattispecie dell’azione mobbizzante, ma che al massimo può discendere dalla qualificazione di una determinata serie di episodi come mobbing (Oliva 2002, 21).

 

3) Gli equivoci

La mancata definizione del mobbing da parte del legislatore e l’alacre ricerca di strumenti per la sua repressione da un lato, unitamente alla non ancora matura elaborazione di una definizione giurisprudenziale del mobbing, dall’altro, non deve fare cadere nell’equivoco di ritenere che il mobbizzato non trovi già attualmente nel nostro ordinamento adeguata tutela.

Il quadro normativo attuale già consente infatti di reprimere le condotte di mobbing.

E’ l’equivoco in cui è incorso proprio il tribunale di Como che muovendo dal presupposto che la molestia morale era stata posta in essere da una sola persona e quindi non rispondeva ai requisiti dell’aggressione collettiva, aveva rigettato la domanda risarcitoria perché «Il "mobbing" aziendale, per cui potrebbe sussistere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro è collettivo e comprende l'insieme di atti ciascuno dei quali è formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo; inoltre deve essere posto con il dolo specifico quale volontà di nuocere, o infastidire, o svilire un compagno di lavoro, ai fini dell'allontanamento del mobbizzato dall'impresa» (Tribunale Como, 22.5.2001, Il lavoro nella giurisprudenza, 2002, 73).

Al riguardo non bisogna dimenticare che dal combinato disposto degli artt. 32 e 41 della Carta costituzionale, la salute (non solo come diritto della persona ma anche come interesse della collettività) e la dignità del lavoratore sono al centro del sistema giuridico. Inoltre l’art. 2087 c.c., norma antica ma ad un tempo strordinariamente moderna, impone al datore di lavoro di adottare «nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

Quest’ultima norma, è da sempre stata interpretata, per quanto riguarda la tutela fisica del lavoratore, secondo il principio della c.d. massima sicurezza tecnicamente fattibile (cfr. Cass. 2.1.2001, n. 5; Cass. 14.7.2001, n. 9601). In altri termini il datore di lavoro ha l’obbligo di «porre in essere quanto necessario al fine di tutelare la persona fisica del lavoratore ricorrendo a quanto di meglio la tecnica e l’esperienza possano offrire» (così Nisticò 2002, 717).

Ragioni di sistematicità (poiché la protezione fisica e quella morale appartengono al medesimo enunciato normativo) e la già considerata derivazione costituzionale della tutela contro le molestie morali suggeriscono di ritenere che il medesimo principio possa trovare applicazione anche avuto riguardo ai comportamenti riconducibili alla nozione di mobbing, nel senso di dover ritenere obbligato il datore di lavoro ai medesimi contenuti di estrema attenzione anche per quanto concerne gli aspetti di protezione (meglio di non lesione) della sfera morale e del dipendente. Questo, conseguentemente, comporta l’obbligo del datore di astenersi dal comportamento mobbizzante e di vigilare che tutti gli altri lo facciano, profilandosi, dunque, un responsabilità commissiva ed anche una responsabilità omissiva (Nisticò 2002, 717).

Il 2087 c.c. quindi come norma cui ricondurre non solo il generale principio del neminem laedere, ma altresì ogni elemento che includa l'obbligo del datore di lavoro di comportarsi nei riguardi dell'altra parte secondo il generale dovere di correttezza di cui all'art. 1175 c.c. (Garofalo 2003,23).

Un primo equivoco deve quindi essere rimosso e cioè che il mobbizzato attualmente non trovi tutela nel nostro ordinamento e che quindi sia necessario l’intervento legislativo. La tutela che gli viene accordata trova invece fondamento nella citata disposizione codicistica nonché, per il principio della possibilità di cumulare le azioni, anche in quella di cui all’art. 2043 c.c., generale disposizione in tema di fatto illecito.

Ma da questo primo equivoco non bisogna cadere in un secondo ed ancora più grave equivoco. Infatti si potrebbe liquidar l’intera vicenda, una volta costatato che il mobbing già trovava tutela nel nostro ordinamento, ritenendo del tutto superfluo ogni tentativo di approfondirne la nozione sia dal punto di vista della psicologia che del diritto. Invece la novità del mobbing e la maggiore tutela del lavoratore che da tale novità discende risiede nella capacità di questa nuova categoria di attrarre a sé, collegandoli tra loro, episodi vessatori che prima,in tutta evidenza, sfuggivano ad un preciso inquadramento entro le figure note della responsabilità datoriale. In particolare, il mobbing ha il pregio di costituire una chiave di lettura la quale permette di raggruppare e spiegare, attraverso una visione giuridica d’insieme, una universalità di atti, omissioni e comportamenti tra loro separati nel tempo: il mobbing è dunque un «legal framework», e cioè una cornice giuridica, che mette il giudice nelle condizioni di apprezzare la condotta illecita nella sua interezza, nel suo svilupparsi in modo ripetitivo. In altri termini, con l’ingresso del mobbing nelle corti i vari tasselli, che prima rimanevano disgiunti e costituivano, sussistendone i requisiti, fattispecie autonome di responsabilità, confluiscono perfettamente in un unico mosaico, in cui tutto il circolo vizioso del fenomeno in esame viene ad assumere il rilievo che gli spetta. La conseguenza di questo nuovo approccio è certo quella di un notevole salto qualitativo della tutela risarcitoria del mobbizzato «Il punto di forza del mobbing, proprio di superare il problema della rilevanza giuridica delle singole condotte, spostando il giudizio di responsabilità dai diversi episodi ripetuti nel tempo all’insieme di atti ed omissioni che compongono l’azione mobbizzante: la valutazione dell’antigiuridicità del comportamento dei mobbers viene quindi a giocarsi non già sulle singole condotte, ma sull’insieme a cui le stesse si riconducono, e cioè sulla logica unitaria che le attrae in un’unica cornice» (Oliva 2003, 15).

Piuttosto il mobbing consente oggigiorno di punire condotte che abbiano un quid pluris di antigiuridicità rispetto a quelle già tipizzate o già ex se sanzionate dal legislatore (es. 2103 c.c.; molestie sessuali) «o individuarne altre "atipiche" ma tutte ugualmente lesive della dignità della persona del lavoratore e volte alla realizzazione di finalità illecite» (Garofalo 2003, 26).

Ma l’equivoco che in questa sede deve più di ogni altro essere chiarito è che il mobbing nell’accezione psicologica non coincide, nella tutela dei beni, con il mobbing giuridico. Infatti l’area dei beni protetti dal mobbing giuridico è più ampia e quindi solo parzialmente coincidente con la sfera di protezione del mobbing della psicologia del lavoro. Se infatti nella maggior parte dei casi i beni lesi sono gli stessi ed in particolare la sfera psichica del mobbizzato (c.d. danno biologico), in molti casi invece il mobbing inciderà su beni di esclusiva rilevanza giuridica quali la personalità e la dignità del lavoratore. Questi beni a loro volta, soprattutto dopo l’apertura compiuta dalla giurisprudenza della cassazione con le sentenza n. 8827 e 8828 del 2003 che hanno riconosciuto la possibilità di risarcire il danno non patrimoniale anche in assenza di una fattispecie penale, troveranno nel c.d. danno esistenziale adeguato riferimento per il risarcimento.

La non coincidenza tra mobbing di rilevanza medica con quello giuridico deve infine sgombrare l’equivoco in ordine alla necessità o meno della CTU. Essa dipende infatti innanzitutto dai fatti allegati e da ciò che il mobbizzato chiede. Indubbiamente se viene richiesto il risarcimento di un danno alla sfera psico-fisica la Ctu è necessaria, alla condizione che venga richiesta la valutazione della sussistenza del nesso causale tra i fatti accertati ed il danno lamentato. Diversamente non ritengo necessario richiedere al CTU di verificare i presupposti della riconducibilità del caso concreto entro il mobbing. Il rischio è di confondere l’effetto con la causa di spostare ciò che è di competenza del giudice con ciò che è di competenza del ctu, insomma di equivocare ancora una volta su mobbing e dintorni.

Enrico Ravera

Consigliere della Corte di appello di Genova

Pescara, 13 maggio 2005 (Intervento tenuto al IV Congresso C.O.M.L.A.S. - Coordinamento dei medici legali delle aziende sanitarie)

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