Mobbing e tecniche risarcitorie (*)

 

SOMMARIO:  Introduzione - 1. Il mobbing ed il tipo di responsabilità civile, tra art. 2043 e art. 2087 cod. civ. L’opzione prevalente – 2.  Le diverse categorie di danno – 3. Il danno patrimoniale - 4. Il danno non patrimoniale - 4.1. Il danno biologico - 4.2. Il danno esistenziale e il danno morale. La recente evoluzione interpretativa  - 5. Aspetti del danno esistenziale: la prova del danno e la quantificazione del risarcimento del danno alla personalità morale del lavoratore.

 

Introduzione

Il tema è di estremo interesse ed attualità, e non passa giorno senza che vengano pubblicati approfondimenti della dottrina e pronunzie della giurisprudenza sulla questione. Questo scritto, pertanto, non potrà certo essere esaustivo e tenere nel dovuto conto la miriade di opinioni che sulla materia sono state espresse. Si cercherà per questo di fornire, invece, una rappresentazione dell’attuale “stato dell’arte”, senza eccessive pretese di approfondimento teorico.

E’ indispensabile, poi, un‘altra premessa, di ordine, come dire, programmatico.

Il fatto che l’interesse degli interpreti sia da qualche tempo massicciamente indirizzato alle questioni relative ai danni alla persona del lavoratore ed al loro risarcimento[1] (nell’ambito del più ampio ed articolato dibattito sul nuovo diritto del danno alla persona) nasconde certamente un’insidia, e cioè che passi in secondo piano il tema fondamentale della effettività della tutela dei diritti.

Risulta perciò del tutto condivisibile l’opinione di un autorevole autore[2], secondo il quale l’utilizzo delle moderne e sempre più avanzate tecniche risarcitorie, pur essendo di grande utilità perché consente una più ampia e completa garanzia della riparazione dei danni alla persona, ha tuttavia l’effetto di limitare la visuale escludendo il più generale tema della effettività e coercibilità del dovere di tutela della personalità morale del lavoratore, garantito dalla carta costituzionale e consacrato nell’articolo 2087 cod. civ. E’ certamente questo l’approccio preferibile con la norma, poiché il problema vero «è quello di dare un contenuto all’obbligo di tutela dell’art. 2087 e di garantirne l’effettività, anticipando quindi le garanzie e sostanzialmente le barriere che l’ordinamento deve opporre alla lesione di diritti fondamentali».

Il rischio è che l’utilizzo massiccio della tutela risarcitoria per i danni alla personalità ed alla dignità del lavoratore comporti la strisciante sostituzione della garanzia di effettività dei diritti con misure puramente compensative[3], proprio all’interno di un rapporto di durata, come quello di lavoro, che coinvolge beni di rango costituzionale[4], che dovrebbero invece indurre gli interpreti, e prima ancora il legislatore, a produrre il massimo sforzo nella direzione di una più intensa (e soprattutto per introdurre nuovi strumenti di) coercizione, talmente dissuasivi da indurre davvero il datore di lavoro a non porre in essere atti o comportamenti che sacrifichino interessi non patrimoniali del lavoratore[5].

Del resto, anticipare la tutela, garantirne l’effettività e dotare il lavoratore anche di strumenti speciali (di tipo cautelare e/o sommario) di accesso al Giudice[6] (ad esempio utilizzando modelli come quelli offerti dall’art. 28, l. n. 300/1970 e art. 15, l. n. 903/1977, e più di recente, dalle norme contro i comportamenti discriminatori, di cui all’art. 44, d.lgs. n. 268/1998, ripreso dai d.lgs. nn. 215 e 216 del 2003)[7], è certamente preferibile, e socialmente meno gravoso, di una tutela risarcitoria che, anche a causa delle sempre maggiori sofferenze del processo del lavoro, giunge il più delle  volte tardiva ed insufficiente.

In un mercato del lavoro sempre più flessibile, con il lavoratore più debole, isolato e precario, si moltiplicano certamente le occasioni di conflitto e, per converso, diminuisce la possibilità di ricorrere alle tutele che l’ordinamento appresta a garanzia del lavoratore subordinato a tempo indeterminato (a partire dallo Statuto dei Lavoratori), con il datore di lavoro certamente più libero di attuare strategie dirette alla soluzione sbrigativa di problemi occupazionali o, peggio, di gradimento dei dipendenti[8].

In particolare gli studi sul fenomeno del mobbing, ed i vari progetti di legge in discussione, debbono convincerci ad approfondire la riflessione proprio  sulla necessità di rivolgere, ora che sulle tecniche risarcitorie si sta giungendo ad approdi più sicuri, l’attenzione allo studio di nuove regole e strumenti processuali diretti a proteggere il lavoratore, prevenire i comportamenti lesivi, ripristinare i diritti violati[9].

Senza trascurare un aspetto di grande interesse ed attualità, e cioè le possibili (e per quanto riguarda chi scrive, auspicabili) interferenze tra mobbing e normativa antidiscriminatoria, attuata dai d.lgs. 9 luglio 2003 nn. 216 e 215, recanti rispettivamente “attuazione della direttiva 2000/78/Ce per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” e “attuazione della direttiva 2000/43/Ce per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica”[10].

E’ quindi sugli approdi del dibattito sulle tecniche risarcitorie che questo scritto intende soffermarsi, nella speranza – comunque – che il confronto e lo studio proseguano sulle questioni sin qui brevemente tratteggiate.

 

1. Il mobbing ed il tipo di responsabilità civile, tra art. 2043 e art. 2087 cod. civ. L’opzione prevalente

Nel recente dibattito italiano sul mobbing, vi è stato un notevole impegno sugli aspetti definitori del fenomeno, diretto a darne una descrizione il più precisa e condivisa possibile[11], in assenza, per il momento, di un intervento legislativo.

 In breve, può dirsi che generalmente con il termine mobbing si indica l’insieme coordinato e finalizzato di comportamenti, diretti contro il lavoratore sgradito, di tipo ostile, vessatorio e/o oltraggioso (molestie) posti in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico (mobbing verticale o bossing) o da colleghi (mobbing orizzontale). Tali condotte sono caratterizzate dalla ripetitività e dalla protrazione nel tempo e sono preordinate al raggiungimento dello scopo di danneggiare il lavoratore[12], ledendone la dignità o l’integrità psico-fisica[13], fino alla sua espulsione od il suo allontanamento,  con una perfetta corrispondenza della nozione giuridica rispetto a quella già fornita dagli studi medici, sociologici e psicologici[14]. Alle condotte in questione, unificate da un comune disegno in un dato arco temporale, conseguono (con nesso di causalità diretta) la lesione di diritti primari del lavoratore, costituzionalmente riconosciuti. Infine, nel concreto verificarsi di tali situazioni, i comportamenti mobbizzanti vengono finalizzati, il più delle volte, da atti anche singolarmente di per sé lesivi di diritti del lavoratore (trasferimenti, demansionamenti, licenziamenti, dimissioni indotte), che dunque risultano, al di là della eventuale loro formale legittimità, adottati in violazione dei canoni di correttezza e buona fede[15] contrattuale.

Tutti gli autori mettono in evidenza come il concetto di mobbing resti aperto e idoneo a rappresentare una pluralità di fattispecie (sia per le condotte adottate che per i soggetti attivi dell’azione lesiva), pur mantenendo indefettibilmente gli elementi dell’aggressione, della frequenza  e della ripetitività.

Si è in tal senso affermato, da parte della giurisprudenza di merito, che «(…) il fenomeno del cd. mobbing verticale si configura, allora, come obbligo del datore di lavoro di rispettare la personalità del suo lavoratore evitando ogni comportamento che, pur formalmente corretto, possa risolversi in una forma di pressione, di “accerchiamento” (…). In definitiva si può affermare che nel rapporto lavorativo è vietato ogni comportamento datoriale che realizzi una compromissione della personalità del lavoratore»[16].

E che «il mobbing si identifica in atti e comportamenti ostili, vessatori e di persecuzione psicologica, posti in essere dai colleghi, il cd. mobbing orizzontale, e/o dal datore di lavoro e dai superiori gerarchici, il cd. mobbing verticale, nei confronti di un dipendente, individuato come vittima, atti e comportamenti intenzionalmente volti ad isolarla ed emarginarla nell’ambiente di lavoro, e spesso finalizzati ad ottenerne l’estromissione. Elemento essenziale, dunque, per definire come esistente un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto per un apprezzabile periodo temporale, così da far assumente significatività oggettiva a tali atti, tipici dell’imprenditore o meno, e permettendo di distinguerli dall’indeterminatezza dei rapporti interpersonali ed in particolare dal conflitto puro e semplice»[17].

Altro aspetto che ha da subito coinvolto il dibattito giuridico nel nostro Paese è stata l’individuazione dello strumento legale attraverso il quale riconoscere rilevanza al fenomeno e sanzionarlo all’interno del sistema della responsabilità civile. Non vi è alcun dubbio, infatti, che – anche a prescindere dalla adozione di norme specifiche – il nostro ordinamento offra già, sul piano della reazione ai comportamenti vessatori del datore di lavoro, tutta una serie di strumenti in grado di garantire la sicurezza, la libertà e la dignità umana dei prestatori di lavoro (art. 41 Cost.) che il mobbing lede unitamente ad altri beni, quali la salute (art. 32 Cost.) e la personalità (art. 2 Cost.).

La novità, sotto questo profilo, data dal dibattito sul mobbing e dalla introduzione di questa nuova categoria nel diritto del lavoro, consiste in realtà principalmente nella sua capacità di attrarre a sé, collegandoli tra loro, episodi vessatori che prima potevano sfuggire ad un preciso inquadramento entro le figure note della responsabilità datoriale[18].

Sugli strumenti della responsabilità civile cui attingere per raggiungere la miglior tutela del lavoratore, dottrina e giurisprudenza appaiono in qualche modo divisi, anche se – come vedremo – l’orientamento maggioritario appare ormai consolidato.

Infatti, l’appassionato dibattito che da anni coinvolge la migliore dottrina civilista, circa gli aspetti della tutela contrattuale (ex art. 1218 c.c.) e della responsabilità extracontrattuale o aquiliana (ex art. 2043 c.c.) – con tutte le varie e differenti conseguenze in tema di nesso causale, prova, prescrizione, competenza[19] –, trova proprio nel diritto del lavoro una indicazione pressoché univoca, in ragione delle particolari modalità con le quali la responsabilità contrattuale qui si atteggia. E’, infatti, determinante, per un corretto approccio al problema del tipo di responsabilità giuridica del datore di lavoro nelle ipotesi di molestie sul luogo di lavoro, il riconoscimento della specificità del tema della danno alla persona nel diritto del lavoro, a ragione dell’esistenza della norma di cui all’art. 2087 c.c., per la quale «L’imprenditore è tenuto a adottare nell’esercizio dell’impresa  le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (…)».

Ciò consente di ricondurre in tale ambito normativo non solo il generale principio del neminem laedere, ma ogni altro elemento che porti al generale obbligo del datore di lavoro di comportarsi nei confronti dell’altra parte contrattuale secondo il generale principio di correttezza previsto dall’art. 1175 c.c.[20]

Cosicché l’alternativa che in concreto si pone non è di scelta tra le due tipologie di responsabilità (contrattuale e aquiliana), ma al più (per alcuni) di concorso tra le stesse.

La quasi totalità della dottrina[21] e della giurisprudenza[22] considera, quindi, che la responsabilità del datore di lavoro nelle ipotesi di mobbing sia di natura contrattuale ed individua lo strumento giuridico applicabile  proprio nella norma di cui all’art. 2087 cod. civ. che – già di per sé efficacemente esaustiva e sorprendentemente “moderna”[23], in rapporto alla garanzia dei beni immateriali del prestatore di lavoro – viene interpretata alla luce dei principi costituzionali innanzi richiamati, così costituendo uno strumento diretto di tutela che impone al datore di lavoro di attuare tutte le misure di prudenza e diligenza che garantiscano la salute, la personalità morale e la dignità del lavoratore, in modo che mai l’ambiente o le condizioni di lavoro ne pregiudichino beni e diritti costituzionalmente garantiti.

Si è giustamente osservato, in proposito, che, riferendosi alla personalità morale, l’art. 2087 c.c. richiama un concetto del tutto diverso da quello dell’integrità psico-fisica, cosicché l’obbligo di rispettare la personalità morale non si esaurisce nel solo evitare che la sua salute ne risulti danneggiata, ma consiste (anche qualora non sia rilevabile una compromissione) nel proteggere la condizione esistenziale dell’individuo, consentendo al destinatario della molestia di «reagire anche a fronte di una forma di aggressione che non abbia l’effetto di cagionare un pregiudizio permanente»[24]. Un siffatto inquadramento della fattispecie rende così concretamente possibile la protezione dei beni della personalità dell’individuo, che sfuggono normalmente alle nozioni tradizionali di danno patrimoniale o di danno alla salute.

Infatti, con particolare riferimento al mobbing, si è ritenuto che il carattere generale, ma non generico dell’art. 2087 c.c. consenta di sanzionare comportamenti lesivi della sfera psichica della persona non rispondenti alle consuete tipizzazioni e di ricostruire in prospettiva unitaria comportamenti altrimenti già sanzionati da singole norme[25].

Cosicché risulta addirittura controproducente il diffondersi della querelle definitoria tecnico-giuridica, quando appare chiaro che (al di là della evidente necessità di predisporre strumenti preventivi e repressivi del fenomeno del mobbing, specialmente, come abbiamo visto, di tipo processuale) dal punto di vista dell’individuazione della responsabilità, il nostro ordinamento offre già uno strumento efficace (quello, appunto, della tutela della personalità morale del lavoratore)[26].

Anzi, mentre sino all’apparire del dibattito sul mobbing si registrava una forte consapevolezza nella giurisprudenza in tema di tutela dei beni immateriali del lavoratore (in primo luogo quello della professionalità, con la tutela apprestata dall’art. 2103 c.c.), da qualche tempo possiamo registrare pericolose oscillazioni nelle sentenze di merito, che spesso finiscono – in una specie di ansia “sistematica” e mutuando concetti e terminologie da altre scienze – per giungere ad esiti addirittura negativi per il lavoratore, sulla base di valutazioni che smarriscono la rotta principale della tutela contrattuale ex lege, perdendosi nel mare incerto delle dottrine scientifiche[27]. Non appare perciò così assurda la provocazione di chi vorrebbe «abbandonare ogni riferimento al mobbing e cominciare a parlare, almeno fra gli operatori del diritto, di pregiudizio alla personalità morale»[28] essendo tale categoria già idonea a sanzionare comportamenti materiali atipici, come quelli in cui normalmente si concretizzano le vessazioni sul lavoro[29].

Si può, dunque, affermare che l’elaborazione sul mobbing rappresenti una risorsa per l’interprete, ma non già finalizzandola alla individuazione di una nuova fattispecie (specie se mutuata erroneamente da altre scienze che l’hanno elaborata a fini del tutto diversi), bensì, come punto di vista, e cioè come concetto tecnico-giuridico che consenta di unificare condotte (già) lesive (ex art. 2087 c.c.) di diritti fondamentali dell’individuo, ed adottate in violazione dei generali criteri di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.) nel rapporto di lavoro.

Quanto al contenuto dell’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c., una importante pronunzia della Corte di Cassazione ha chiarito che esso «non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il datore di lavoro, di porre in essere nell’ambito aziendale, comportamenti che siano lesivi del diritto all’integrità psicofisica del lavoratore»[30].

Si è sottolineato, inoltre, che la tutela dei due beni citati dalla norma è autonoma, nel senso che la personalità morale va preservata e protetta indipendente dall’intergità psico-fisica[31].

Ancora la Cassazione, ha poi, con una singolare capacità definitoria, affermato che la responsabilità contrattuale deriva «dall’inosservanza di un obbligo preesistente del datore di lavoro previsto dalla Costituzione come limite al diritto di libertà dell’iniziativa privata nell’esercizio dell’impresa (art. 41, 1° e 2° c., Cost.). Tale limite si sostanzia nell’obbligo di non recare danno alla sicurezza, alla libertà  e alla dignità umana e, posto in relazione all’art. 32, 1° co., Cost. e all’art. 2087 c.c., nell’obbligo del datore di lavoro (…) di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisio-psichica del lavoratore (…). Una volta dimostrata la sussistenza dell’inadempimento, non occorre, a norma dell’art. 1218 c.c., che il lavoratore dimostri, come invece nella responsabilità aquiliana, anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente»[32].

La opzione per una responsabilità integralmente di tipo contrattuale, comporta, perciò, anche un più favorevole regime di tutela per il lavoratore, nei confronti del datore di lavoro inadempiente.

In primo luogo, e fondamentalmente,  in tema di onere della prova.

Infatti, secondo la generale previsione di cui all’art. 1218 c.c., nel caso di responsabilità contrattuale il lavoratore deve provare, al fine di ottenere il risarcimento del danno, l’inadempimento (e quindi l’esistenza del fatto dannoso); il danno in concreto patito; il nesso di causalità tra inadempimento e danno. Nel caso della responsabilità aquiliana, invece, il lavoratore avrebbe altresì l’obbligo di provare la sussistenza del dolo o della colpa del datore di lavoro.

Anche riguardo alla prescrizione, il regime della responsabilità contrattuale risulta più favorevole, in quanto prevede il termine ordinario decennale in luogo di quello quinquennale, previsto per la responsabilità ex art. 2043 c.c.

Nonostante ciò, taluni hanno proposto  una doppia tutela del lavoratore, allo scopo di garantirne la copertura totale[33] (essendo evidentemente ritenuta insufficiente la sola responsabilità da inadempimento). Si è, infatti, sottolineato che, a partire dal comportamento datoriale, è possibile che un comportamento assuma esplicitamente i connotati dell’inadempimento contrattuale (trasferimenti, demansionamenti, perdita di chances per la carriera), vertendosi in tema di violazione del generale principio dell’affidamento nell’esecuzione del contratto; ma anche che tale comportamento venga affiancato da altri al limite della legalità e che non derivano direttamente agli obblighi contrattuali (isolamento, atteggiamenti ostili, piccole privazioni). Per questi ultimi si è ritenuto possa farsi ricorso alla responsabilità extracontrattuale, alla luce dei principi di correttezza e buona fede di cui all’artt. 1175 e 1375 c.c.[34]

Tuttavia, appare preferibile (per le ragioni già dette) la soluzione che vede nell’art. 2087 c.c. una norma di chiusura che, anche attraverso (ma qui in chiave più propriamente contrattuale) i principi generali di correttezza e buona fede ed i connessi principi costituzionali, riesce a tutelare a tutto tondo l’integrità psico-fisica e morale del lavoratore[35]. Si aggiunga che, anche sotto il profilo risarcitorio, si è affermato il rischio di una duplicazione dei danni, poiché, se deve condividersi il principio che tra gli obblighi del datore di lavoro vi sia anche quello di assicurare al lavoratore un ambiente, non soltanto in senso materiale, dignitoso e sicuro, allora tale obbligo genera ogni possibile categoria di danno che al lavoratore stesso possa occorrere a causa della sua violazione. Con la conseguenza che ogni danno sia riconducibile agli obblighi derivanti al datore di lavoro dal contratto, secondo la generale previsione del ridetto art. 2087 c.c. (come integrato da altre fonti di natura contrattuale o legale, quale l’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 626/1994, come modificato dall’art. 21, l. n. 39/2002)[36].

 

2. Le diverse categorie di danno

L’ulteriore direttrice dello studio sul mobbing, una volta raggiunta (in linea di massima) una prima comune definizione e poi una sua sistemazione nel diritto del lavoro entro i confini della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., è certamente quella legata all’individuazione delle più appropriate tecniche risarcitorie, ed in particolare delle categorie di danno che alla commissione di pratiche vessatorie possono conseguire.

Infatti, all’interno della più generale categoria del danno alla persona – che, come si è visto, sin da subito è stato ritenuto come l’ambito risarcitorio specifico del fenomeno che stiamo esaminando – sono stati ormai da tempo elaborate, prima dalla dottrina e poi, soprattutto, dalla giurisprudenza, diverse categorie di danno che, a partire dalla originaria bipartizione (patrimoniale e non patrimoniale), passando per la successiva aggiunta del cd. danno biologico, hanno oramai raggiunto una notevole latitudine protettiva, sino alla configurazione dell’ulteriore danno ai beni immateriali dell’individuo (cd. danno esistenziale), nei confronti del quale – come vedremo – si è rivolto il particolare interesse degli studiosi del mobbing (o, come abbiamo detto, delle lesioni alla personalità morale del lavoratore).

 

3. Il danno patrimoniale

In primo luogo va detto che è assolutamente pacifica la risarcibilità del danno patrimoniale eventualmente subito dal lavoratore, quando questo sia conseguenza diretta della condotta lesiva.

Ciò, ovviamente, sia sotto il  profilo del lucro cessante (come ad es. in occasione di molestie caratterizzate anche da demansionamento o inattività, nel caso di decurtazioni della retribuzione per mancata percezione di indennità connesse alla mansione o alla posizione, premi, gratifiche, ecc.)  che del danno emergente (come nel caso delle spese sostenute per un trasferimento illegittimo o nullo per violazione dei principi di buona fede e correttezza; esborsi per spese mediche; ecc.).

 

4. Il danno non patrimoniale.

Ma diritti e gli interessi lesi dalle molestie subite sul posto di lavoro, come in più occasioni si è ricordato, non riguardano certamente solo la sfera meramente patrimoniale del lavoratore, ma ne colpiscono altresì (e principalmente) l’integrità psico-fisica e la personalità morale. Ciò comporta, sotto il profilo del danno, che si travalichi la sfera patrimoniale per giungere a quella non patrimoniale, ponendosi così l’ulteriore problema di confrontarsi con il dibattuto tema della individuazione di nuove tipologie di danno al persona, come vanno emergendo nell’attuale contesto[37].

Concetti, questi, che nel rapporto di lavoro assumono una valenza del tutto peculiare in riferimento alla possibile compromissione della sfera di realizzazione della persona del lavoratore che possa derivare, in via diretta od occasionale, dal comportamento di cui egli sia vittima; «insomma, la crisi del tradizionale sistema risarcitorio investe, a maggior ragione, l’ambito dei rapporti di lavoro, rendendo evidente la necessità di garantire meglio e più compiutamente i beni più strettamente legati alla persona»[38].

 

4.1. Il danno biologico

Assai complesso ed articolato è il dibattito sul danno biologico, che ormai da decenni coinvolge  la migliore dottrina civilista e la giurisprudenza.

Non mette conto in questo scritto, per i fini individuati nell’introduzione, riferire gli esatti termini dell’annoso dibattito[39] che, partendo dalla constatazione che il risarcimento del danno patrimoniale aveva necessità di uscire dalle strettoie della responsabilità aquiliana (ai sensi degli artt. 2043, 1223 e 1226 c.c.), appena mitigata dall’angusto ambito applicativo sino a quel momento riservato al danno morale ex art. 2059 c.c. (e cioè ai soli casi indicati dalla legge), è giunto agli esiti odierni, attraverso il fondamentale contributo della giurisprudenza, con l’enucleazione della nuova categoria del danno biologico e la sua piena risarcibilità. In estrema sintesi, la Corte Costituzionale[40], partendo dalla considerazione che i danni derivanti da sofferenze o menomazioni indipendenti da conseguenze economiche negative non trovavano alcuna possibilità di essere risarciti, e ritenendo che questi danni esulassero dall’ambito applicativo dell’art. 2059 (limitato ai soli danni morali subiettivi), è giunta ad affermare che il danno biologico deve essere tutelato sulla base dell’art. 2043 c.c., fornendo di tale norma una interpretazione costituzionalizzata[41], estesa cioè «fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma (esclusi per le ragioni già dette, i danni morali subiettivi) di tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana»[42].

Sempre la Corte Costituzionale[43], successivamente, ha riaffermato la risarcibilità assoluta del danno biologico, questa volta riconducendola al danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., e facendola derivare dalla ratio dell’art. 2043 c.c., coordinata con l’esigenza di effettività della tutela dei diritti fondamentali, così determinando la esclusione del danno all’integrità psico-fisica dall’ambito del danno morale (inteso solo  come mero patema d’animo) e dalla riserva di legge, prevista dalla norma del codice civile.

Negli anni, quindi, a partire da questi esiti, si è giunti ad una totale riconsiderazione di tutta la tematica del danno, che ha visto il danno biologico come un vero e proprio “cavallo di Troia” per l’introduzione di una concezione sempre più ampia del danno non patrimoniale, fino a ricomprendere qualunque lesione del “bene uomo” in quanto tale.

Anche dal punto di vista particolare del diritto del lavoro, la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha avuto un ruolo determinante nell’enucleare il concetto, quindi la risarcibilità, del danno biologico, sul presupposto che la menomazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore costituisce danno in sé risarcibile, non limitato alle perdite o riduzioni di reddito ed all’attitudine a svolgere attività lavorative[44], ma esteso a tutte le attività, le situazioni ed i rapporti in cui la personalità si esplica[45].

Da parte della giurisprudenza, peraltro, si è cercato in più occasioni di allargare esageratamente la nozione di danno biologico, con esiti spesso contraddittori e poco convincenti, allo scopo – per la verità apprezzabile – di estendere il risarcimento del danno sino a ricomprendere ogni valore e bene immateriale della persona.

Al fine che questo scritto si è prefisso, appare sufficiente sottolineare come, viceversa – anche a seguito delle novità giurisprudenziali legate all’interpretazione costituzionalizzata dell’art. 2059 c.c., su cui postea – la latitudine del danno biologico risulta ormai ben delineata entro la definizione legale (art. 13 d.lgs. 38/2000), con una evidente semplificazione interpretativa. 

Se la definizione legale è quella de «la lesione all’integrità psicofisica suscettibile di valutazione medico-legale della persona», può ormai dirsi con sufficiente certezza che, per danno biologico, deve intendersi  la menomazione della salute fisica e mentale della persona in quanto tale e, quindi, indipendentemente dall’attitudine a produrre ricchezza e da ogni eventuale conseguenza patrimoniale della lesione[46].

Per quanto riguarda il mobbing, di particolare rilevo è certamente il danno psicologico, cioè la lesione dell’integrità psichica della persona del lavoratore. E’ importante sottolineare come tale danno, che fa riferimento (in termini medico legali[47]) alla rottura dell’equilibrio psichico della vittima di un fatto illecito, vada ben distinto dal danno morale, che è invece rappresentato dalla sofferenza psichica che deriva dal torto subito. Si tratta evidentemente non del mero stato di disagio che accompagna l’evento, ma di una lesione (in genere permanente, e comunque rilevante) protratta nel tempo della salute psichica (come tale valutabile in termini medico-legali) della vittima delle molestie. In particolare, se il soggetto che ha subito un’esperienza di mobbing non riesce a ricostruire il proprio equilibrio psicologico ma, al contrario, presenta segni di scompenso persistente della sfera psichica, secondo la scienza medico-legale ci troviamo di fronte ad un danno biologico di carattere psichico, che richiede (e consente) la valutazione del danno permanente alla persona[48].

Peraltro, a seguito della riforma di cui al citato d.lgs. 38/2000, il danno biologico è entrato a far parte dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (gestita dall’INAIL), risultandone parzialmente modificati anche gli assetti relativi alla responsabilità del datore di lavoro.

Quanto al mobbing, non vi è ormai più dubbio che le vittime delle molestie morali sul luogo di lavoro possano ottenere – dal punto di vista della danno alla salute – una prima tutela da parte dell’Istituto pubblico assicuratore, dato che il Consiglio di Amministrazione dell’INAIL[49] ha espressamente ritenuto che le patologie psichiche e psicosomatiche da stress e disagio lavorativi, compreso il mobbing, «possono essere oggetto di tutela assicurativa dell’INAIL se l’assicurato ne prova la causa lavorativa».

In proposito è utile richiamare il d.m. 27 aprile 2004, con le nuove tabelle di cui all’art. 139 del T.U. m. 1124/1965, che indicano particolari voci di riferimento per le infermità di natura psichica.  Nell’Allegato (parte II) è dato rilevare, infatti, lo specifico Gruppo 7 intitolato “Malattie psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”, che indica come malattie correlate il “disturbo dell’adattamento cronico” (con ansia, depressione, razione mista, alterazione della condotta e/o emotività, disturbi somatiformi) ed il “disturbo post-tranumatico cronico da stress”; l’agente di tali alterazioni è definito “Disfunzioni dell’organizzazione del lavoro (costrittività organizzative)”. Nella tabella, poi, vengono specificamente elencate queste “disfunzioni” rilevanti dal punto di vista indennitario (e perciò di grande interesse per il nostro studio), di chiara derivazione giurisprudenziale: « - Marginalizzazione dalla attività lavorativa, svuotamento di mansioni, mancata assegnazione di compiti lavorativi, con inattività forzata, mancata assegnazione degli strumenti di lavoro, ripetuti trasferimenti ingiustificati; - Prolungata attribuzione di compiti dequalificanti o con eccessiva frammentazione esecutiva, rispetto al profilo professionale posseduto; - Prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, anche in relazione ad eventuali condizioni di handicap psico-fisici; - impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie; - Inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro; - Esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale; - Esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo; - Altre assimilabili».

Per concludere, si può dire che l’indennizzo INAIL del danno biologico da mobbing, pur essendo ancora in fase di studio ed elaborazione (ne risultano in effetti solo sporadiche applicazioni sul campo), apre certamente nuovi scenari di tutela per la salute dei prestatori di lavoro vittime di molestie. Ed al contempo apre al giurista ancora nuovi problemi in termini di danno biologico e quantificazione dello stesso, a partire dalla nota questione del cd. danno differenziale[50], che certo vedrà più di una occasione di confronto nelle aule giudiziarie.

 

4.2. Il danno esistenziale e il danno morale. La recente evoluzione interpretativa

Da quanto sin qui esposto, appare chiaro come, negli ultimi anni, sia stata ben individuata l’insufficienza della tradizionale tripartizione tra danno patrimoniale, danno biologico e danno morale derivante da reato (ex art. 2059 c.c.) a coprire ipotesi di danno a diritti e interessi riguardanti la personalità di chi lavora, diversi dalla compromissione medico legale della salute, non portatori di pregiudizi economici e non accompagnati da comportamenti rilevanti dal punto di vista penale.

Anche in questo caso (come per il danno biologico) la giurisprudenza[51] si è incaricata di rompere gli indugi e porre definitivamente all’attenzione degli interpreti e degli operatori del diritto la categoria del cd. danno esistenziale, di cui per la verità già da tempo si dibatteva in dottrina[52], alla ricerca di una categoria che scoprisse la zona in ombra ai limiti del danno biologico, per assicurare una salvaguardia risarcitoria  a fronte di ogni modificazione peggiorativa patita dal danneggiato nell’esplicazione della propria personalità, intesa come valore fondamentale dell’individuo[53].

Il ragionamento della giurisprudenza parte dalla depenalizzazione dell’art. 2059 c.c., separando la sussistenza di un reato dal risarcimento del danno morale, riferito ora direttamente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti: «Si deve quindi ritenere ormai acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di “danno non patrimoniale”, inteso come danno  da lesione di valori inerenti alla persona, non più solo come “danno morale soggettivo”. Non sembra tuttavia proficuo ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione al risarcimento, in riferimento all’art. 2059 c.c., è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica»[54].

D’altra parte – sempre secondo la Cassazione – deve escludersi l’operatività del limite di cui alla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. in presenza di valori della persona costituzionalmente garantiti, non fosse altro perché, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale può essere certamente riferito anche alle previsioni della Costituzione medesima.

Lo spazio per il danno morale, quindi, resta limitato al solo ambito strettamente soggettivo, assimilabile al cd. pretium doloris, con riferimento alla sola afflizione dell’animo patita dal soggetto in considerazione delle vessazioni subite.

Il danno esistenziale, quindi, si differenzia dalle tre tradizionali tipologie di danno: da quello biologico in quanto rileva a prescindere da una lesione della salute; da quello morale, in quanto non consiste in una sofferenza ma nella rinuncia ad una attività concreta; dal danno patrimoniale, in quanto non consegue ad una diminuzione economica[55].  In sintesi, «la nozione di danno esistenziale ricomprende qualsiasi evento che, per la sua negativa incidenza sul complesso dei rapporti facenti capo alla persona, è suscettibile di ripercuotersi in maniera consistente e talvolta permanente sull’esistenza di questa»[56].

Dal canto suo, la Sezione Lavoro della Cassazione aveva già in qualche modo consacrato[57] il riconoscimento del danno esistenziale, distinguendolo dalla lesione dell’integrità fisica o psichica (patologia oggettiva che si accerta secondo precisi parametri medico-legali), «poiché non è solo il bene alla salute a ricevere consacrazione costituzionale sulla base dell’art. 32 Cost., ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell’uomo nell’ambito della famiglia o di altra comunità riceve considerazione costituzionale ai sensi degli artt. 2 e 29 Cost., pertanto, tanto i pregiudizi alla salute, quanto quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di natura non patrimoniale, non possono essere lasciati privi di tutela risarcitoria, sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile»[58].

E’ di tutta evidenza, infatti, che proprio il rapporto di lavoro, per i molteplici interessi, prerogative e diritti che esso coinvolge e che ricevono specifica tutela dalla nostra carta costituzionale e dall’ordinamento, è il terreno privilegiato per la verifica della efficacia di una tale categoria del diritto della responsabilità civile.

Una apertura importante è già avvenuta attraverso la tutela degli interessi non patrimoniali legati al cosiddetto demansionamento (cioè l’assegnazione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle di inquadramento, o comunque professionalmente deteriori rispetto a quelle precedentemente svolte; ovvero, nei casi più gravi, la privazione sostanziale o totale di qualsiasi mansione), vietato dall’art. 2013 c.c.

In proposito, infatti, le conseguenze giuridiche di un tale fatto sono state ampiamente studiate dalla dottrina e dalla più recente giurisprudenza di legittimità e di merito, sotto il profilo del danno alla professionalità ed all’immagine giungendosi, oramai, alla consolidata opinione secondo la quale l’attribuzione al lavoratore di mansioni (anche di fatto) di minore qualificazione rispetto a quelle anteriori, o addirittura la privazione delle mansioni, non solo violano lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., ma ridondano nella lesione di un diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore in quanto cittadino, ed avente ad oggetto la libera esplicazione - garantita dagli artt. 1 e 2 Cost. - della sua personalità anche nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha una indubbia dimensione anche patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento[59].

Ma è proprio in riferimento ai comportamenti vessatori ed alla molestie sul posto di lavoro che la categoria del danno esistenziale trova forse il suo campo di azione più naturale, poiché è di tutta evidenza che, anche a prescindere da altri riflessi negativi (di carattere patrimoniale o direttamente incidenti sulla integrità fisica e psichica), la vittima del mobbing subisce un pregiudizio ingiusto, una lesione della dignità, della integrità morale o, come è stato detto, al diritto ad essere rispettato  e non umiliato[60], diritto riconosciuto dal legge e dalla Costituzione.

Il danno esistenziale rappresenta, dunque, il modo più adeguato non solo per risarcire, ma soprattutto per identificare la fattispecie ed unificare sotto una stessa voce i danni alla personalità morale che una persona che lavora può subire[61]; ed il riconoscimento di tale tipologia di danno, nello speciale ambito del rapporto di lavoro, consente di superare l’ostacolo rappresentato dalla mancanza di normative specifiche che individuino le singole fattispecie cui far riferimento. Né può evocarsi in dubbio la riconducibilità (per intero) della categoria in questione, per ciò che riguarda il rapporto di lavoro, nell’ambito più esteso della responsabilità contrattuale, alla luce della riferita costituzionalizzazione dell’art. 2087 c.c., come riaffermato in una recentissima sentenza dalla Cassazione, secondo la quale, in una ipotesi di pratiche vessatorie, «la fattispecie di responsabilità va ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali (…) indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute) che trovano la loro tutela specifica nell’ambito del rapporto obbligatorio»[62].

Un contributo fondamentale a consolidare le opinioni sin qui rappresentate giunge, certamente, dalla giurisprudenza di merito, che, dagli inizi del nuovo millennio, ha intensificato gli sforzi per giungere ad una consapevole (ed almeno tendenziale) conformità di giudizio, dandone concreta applicazione nel vivo dei conflitti di lavoro.

Si è così ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile alla luce degli artt. 2 e 29 Cost. consente di individuare in ipotesi di mobbing un autonomo spazio per il danno non patrimoniale, inteso come danno esistenziale che si aggiunge al danno biologico in senso stretto ove provato, ovvero costituisce da solo l’ambito riparatorio, qualora a carico della vittima non sia ravvisabile l’insorgenza di una psicopatologia apprezzabile sotto il profilo clinico, ma solo una lesione della dignità personale[63].

In merito alla questione della riferibilità delle ipotesi di molestie e lesioni della personalità morale del lavoratore al danno esistenziale, è da segnalarsi anche qui la diffusa sentenza del Tribunale di Forlì, per la quale «la tripartizione danno biologico-danno patrimoniale-danno morale ormai appare riduttiva per l’interprete in quanto lascia troppi spazi privi di adeguata tutela. Un danno subìto da un lavoratore, ad esempio, senza conseguenze patrimoniali dirette (pensiamo ad un demansionamento con mantenimento dello stesso trattamento retributivo) e privo di rilevanza patrimoniale dal quale scaturisca una sofferenza non qualificabile classicamente come malattia non troverebbe nessuna tutela (…). Sul punto oramai è acquisito, seppure recentemente, il concetto di danno esistenziale o danno alla vita di relazione, che si realizza ogni qualvolta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria»[64].

Per concludere sul punto, si richiama una recente pronunzia della giurisprudenza barese[65] che si segnala, in primo luogo, per la chiara opzione sulla rilevanza della categoria del mobbing e del relativo apparato risarcitorio, nel senso che «l’invocazione di siffatta categoria (che trova la sua genesi in altre discipline) può essere utile alla comprensione della dinamica nella quale si è sviluppato un determinato conflitto, ma le questioni di responsabilità (e del suo correlativo accertamento) non possono che dipendere dal sistema delineato dall’art. 2087 c.c. che tutela dei beni specificamente individuati (salute e personalità morale del lavoratore)». In secondo luogo, la sentenza rileva per la particolarità della fattispecie che ha dato origine ad un risarcimento plurimo dei danni, sotto tutti i profili sin qui delineati: il danno esistenziale, sotto il profilo del danno alla professionalità; il danno biologico, come danno alla salute accertato con parametri medico-legali; il danno morale; ed infine il danno patrimoniale, in riferimento alle decurtazioni delle retribuzioni subite dalla lavoratrice. 

 

5. Aspetti del danno esistenziale: la prova del danno e la quantificazione del risarcimento del danno alla personalità morale del lavoratore.

A due aspetti del danno esistenziale (correlato alle molestie sul luogo di lavoro), si deve infine, doverosamente fare (sia pure brevemente) cenno.

Sull’onere della prova del danno esistenziale da demansionamento (cd. danno alla professionalità del lavoratore) si è andato sviluppando un notevole dibattito (rilevante in questa sede quanto al problema della prova dei danni derivanti da molestie sul luogo di lavoro), dove si sono confrontate due diverse opinioni, entrambe espresse dalla Sez. Lav. Cass.: secondo la prima il danno sarebbe ex se risarcibile; per la seconda il lavoratore dovrebbe comunque dedurre di aver subito un danno risarcibile e, soprattutto, offrirne la prova.

In realtà, negli anni è andata assumendo una certa prevalenza la tesi che vede il danno derivare ex sé dal pregiudizio alla personalità morale del lavoratore. Richiamiamo per tutte una recentissima sentenza della Cassazione[66], della quale è utile riportare per intero il passo della motivazione che qui interessa. Orbene, afferma la S.C. che «come si è già rilevato in precedenza, tale danno (quello da dequalificazione professionale) attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 della Costituzione, avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro ed in quello socio-familiare, sia in termine di perdita di chances per futuri lavori di pari livello.

Orbene, secondo la richiamata giurisprudenza di questa Corte, la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può essere effettuata dal giudice che alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali (Cass. n. 8827 del 2003).

A questi principi non si è attenuto il Tribunale di Milano, avendo quel giudice negato il ricorso al criterio equitativo, e preteso dal danneggiato la prova specifica della diminuzione patrimoniale sofferta. Sotto questo profilo le censure del ricorrente si mostrano fondate e vanno accolte».

Di avviso contrario è altra pare della giurisprudenza della stessa sezione lavoro della Suprema Corte, che ha invece ritenuto in più occasioni che, al contrario di quanto sin qui affermato, il lavoratore che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni conseguenti alla lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, «deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa»[67].

La questione non è stata risolta e, con ordinanza del 4 agosto 2004[68], è stata rimessa dalla Sezione Lavoro alle Sezioni Unite per una decisione univoca.

Quanto alla quantificazione del danno alla personalità del lavoratore, al di là della certezza che essa vada rimessa alla valutazione equitativa del giudice, sull’uso di tale potere da parte delle corti si è aperto un serrato confronto, del quale è utile rappresentare come esso si vada sempre di più indirizzando verso il riferimento a dati oggettivi, verificabili (quali la retribuzione percepita, l’età del soggetto, la durata delle vessazioni, ecc.).

Il che permette anche di superare il rischio legato (come nel danno biologico) ad un appiattimento eccessivamente egualitaristico[69] dei risarcimenti, che prescindano dal concreto atteggiarsi, caso per caso, dei diritti non patrimoniali lesi.

In primo luogo è utile richiamare il recente pensiero della Cassazione, per cui, in un caso (anche qui) di demansionamento professionale, il risarcimento del danno immateriale «può avvenire anche in via equitativa, eventualmente con riferimento all’entità della retribuzione risultante dalle buste-paga prodotte in giudizio»[70].

Ed ancora, è stata giudicata insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente motivata, la liquidazione da parte del giudice di merito del risarcimento del danno equitativo alla professionalità sulla base della retribuzione (in quel caso particolare era stata considerata la metà dell’importo mensile) e la durata del periodo di dequalificazione[71].

 Particolare attenzione al tema ha anche dedicato la giurisprudenza di merito.

Secondo il Tribunale di Milano, la misura del danno deve essere collegata con la retribuzione mensile percepita dal lavoratore e fissata equitativamente in una percentuale di quest’ultima[72], ed inoltre, devono prendersi in considerazione «la qualità e la quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpito, la durata del demansionamento, l’esito finale della dequalificazione»[73].

       Con specifico riferimento al mobbing, si è analogamente affermato che la liquidazione del danno, in via equitativa, deve avvenire utilizzando, quali parametri quantitativi, il lasso di tempo in cui il mobbing si è protratto ed il tipo di patologia insorta a causa dello stesso, anche quando non ne siano derivati effetti permanenti sulla salute del lavoratore[74]; anche in rapporto alla retribuzione percepita dal lavoratore nel medesimo periodo[75].

       In chiusura, merita un cenno la certamente originale sentenza di merito che, in un caso di attribuzione di mansioni dequalificanti, oltre a liquidare in favore del ricorrente il danno da demansionamento, il danno biologico ed il danno morale, ha inteso liquidare altresì il danno esistenziale (qualificato «male di vivere quotidiano», ma inteso come differente ed autonomo rispetto al danno alla professionalità), quantificato «in proporzione al numero di passi che il medesimo [lavoratore] compie ogni giorno dalla fermata dell’autobus al posto di lavoro, attribuendo una piccola somma di denaro a ciascuno di essi»[76].

       Al di là dell’evidente stravaganza della determinazione, si è posto il problema della natura del danno in questione, concludendosi in modo convincente che una siffatta linea interpretativa sembra indicare la strada di una sorta di punitive damage, di origine americana, e cioè una condanna aggiuntiva la cui funzione non è in realtà risarcitoria ma di tipo affittivo (o punitivo), nei confronti del datore di lavoro inadempiente[77]. Funzione, evidentemente, estranea (almeno per ora) al nostro ordinamento.

 

Ettore Sbarra

Avvocato in Bari

 

(*) Relazione al Convegno del Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro D.Napoletano, sezione di Bari, su “Il Mobbing dinanzi al giudice” del 13-14 maggio 2005, i cui atti completi sono in corso di pubblicazione presso l’editore Cacucci.

 

 

 


[1] Con alcune lodevoli eccezioni: v. in proposito, Barbieri, Macario, Trisorio Liuzzi (a cura di), La tutela in forma specifica dei diritti nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 2004, con spunti di notevole interesse sulle questioni legate all’attuazione dei diritti ed alla tutela ripristinatoria.   

[2] Smuraglia, Diritti fondamentali della persona nel rapporto di lavoro (situazioni soggettive emergenti e nuove tecniche di tutela), in Riv. Giur. Lav., 2000, 454.

[3] Montuschi, Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 1994, I, 337.

[4] De Angelis, Interrogativi in tema di danno alla persona del lavoratore, in Foro It., 2000, I, 1566.

[5] De Angelis, op. cit., 1567. Sugli attuali aspetti delle misure sanzionatorie a tutela del lavoratore contro il mobbing, v. Scognamiglio, A proposito del mobbing, in Riv. It. Dir. Lav., 2004, I, 508-510.

[6] Per la verità, la gran parte delle proposte e dei progetti di legge sul mobbing contengono norme di tal genere. Per i dettagli, v. Dis. Legge Senato n. 4265 (Tapparo, De Luca e altri), dal titolo «Tutela della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni psicologiche nell’ambito dell’attività lavorativa»; Dis. Legge Camera n. 6410 (Benvenuto, Ciani e altri) dal titolo «Disposizioni  a tutela dei lavoratori dalla violenza e dalla persecuzioni psicologica». Entrambi agevolmente rintracciabili sui siti web di Senato e Camera.

[7] E’, questa, opinione piuttosto diffusa in dottrina: v. ad es. Scognamiglio, op. cit., 508. Per un interessante approfondimento sui prototipi della tutela processuale nel diritto del lavoro, v. Napoli, La Tutela dei diritti tra diritto sostanziale e processo: interessi protetti e forme di tutela, in Barbieri, Macario, Trisorio Liuzzi (a cura di), op. cit., 53 s.

[8] Analogamente, la Risoluzione del Parlamento Europeo 20 settembre 2001, n. A5-0283/2001 (in www.unicz.it/lavoro/lavoro.htm) colloca nel quadro della diffusa precarizzazione del lavoro dipendente una delle cause principali dell’aumento della frequenza dei fenomeni di violenza e molestie sul luogo di lavoro.  Personalmente, sarei incline ad aggiungere, per il caso italiano, la crescente difficoltà dei lavoratori precari a dotarsi delle tradizionali forme di tutela collettiva, principalmente sindacali.

[9] Circa i riflessi negativi sulla tutela dei diritti dei lavoratori derivanti dalla recente legislazione sulle varie forme di lavoro atipico e precario, v. altresì l’interessante riflessione di Ghera, in Barbieri, Macario, Trisorio Liuzzi (a cura di), op. cit., 385.

[10] Sul tema generale Chieco, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, in Riv. It. Dir. Lav., 2002, I, 75.

[11] Non è certamente questa la sede più appropriata per dar conto dell’amplissimo dibattito che si è sviluppato sugli aspetti definitori, sia in campo giuridico che medico-legale (dal quale, peraltro, sono stati mutuati i principali aspetti). Per un approfondimento generale sul tema (senza pretese esaustive) v.Leymann, The Definition of Mobbing at Work, in Leymann, The Mobbing Encyclopaedia, www.leymann.se; Ege, Cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora, Bologna, 1996; Id., La valutazione del danno peritale del danno da mobbing, Giuffrè, 2002; Hirigoyen, Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, Einaudi, Torino, 2000; Bona, Monateri, Oliva, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, Giuffrè, 2000; Matto, Il mobbing tra danno alla persona e lesione del patrimonio professionale; in Dir. Rel. Ind., 1999; Miscione, I fastidi morali sul lavoro e il mobbing, in ILLeJ, 2000, 2; Nunin, Di cosa parliamo quando parliamo di mobbing, ivi, 2001, 1; Lazzari, Il mobbing tra norme vigenti e prospettive di intervento legislativo, in Riv. Giur. Lav., 2001, I, 59; Mazzamuto, Una rilettura del mobbing: obbligo di protezione e condotte plurime di inadempimento; in Europa e diritto privato, 2003, 629; D. Garofalo, Mobbing e tutela del lavoratore tra fondamento normativo e tecnica risarcitoria, in Scritti in memoria di Massimo D’Antona, vol. 1, parte I, t. II, 822 ss., Milano, 2004. Per la giurisprudenza di merito, si veda la capostipite Trib. Torino, 30 dicembre 1999, (tra l’altro) in Lav. Giur., 2000, 832 ss. (con nota di commento di Nunin).

[12] Ege, La valutazione peritale, cit., 38, ove specificamente si definisce il mobbing come una forma di violenza psicologica, fisica e/o morale che «si esprime attraverso attacchi frequenti duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la personalità della vittima».

[13] Hirigoyen, op. loc. cit.

[14] Boscati, Mobbing e tutela del lavoratore: alla ricerca di una fattispecie vietata, in Dir. Rel. Ind., 2001, 288.

[15] E’ questa un’opinione piuttosto diffusa, che per ragioni di sinteticità viene qui soltanto accennata; in argomento vedi, tra gli altri, Smuraglia, op. cit., 464; Scarpelli, Lazzarini, Il mobbing: aspetti giuridici e strumenti di tutela, in Note Inf., 2000, n. 19, 66.

[16] Trib. Pisa 3 ottobre 2001, in www.unicz.it/lavoro.

[17] Trib. Milano, 31 luglio 2003, in Lav. Giur., 2004, 402; conf. Trib. Milano, 22 agosto 2002, in Orient. Giur. Lav., 2002, I, 536.

[18] Su questo concetto di mobbing v. in particolare Monateri, Bona, Oliva, Il mobbing come «legal framework»: una categoria unitaria per le persecuzioni morali sul lavoro, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2000, 547 ss.;  

[19] Sono consapevole della estrema semplificazione di un lungo e complesso confronto su uno dei temi fondamentale del diritto della responsabilità civile. Mi permetto perciò di richiamare, senza alcuna velleità di completezza, Vincieri, Le responsabilità: alternative e coesistenze, in Pedrazzoli (a cura di), I danni alla persona del lavoratore nella giurisprudenza, CEDAM, Milano, 2004, 95 ss.; Scognamiglio, op. cit., 500 s.; Franzoni, Il danno risarcibile, Giuffrè, Milano, 2004.

[20] In termini, Amato, Casciano, Lazzeroni, Loffredo, Il Mobbing. Aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele, Giuffrè, Milano, 2002, 99.

[21] Per una orginale teorizzazione della applicabilità al mobbing dell’art. 2043 c.c., che determinerebbe un innesto della responsabilità extracontrattuale in uno schema contrattuale, v. però Tosi, Il mobbing: una fattispecie in cerca di autore, in Arg. Dir. Lav., 2003, 656.

[22] Da ultima Cass. sez. un., 4 maggio 2004, in Foro It., 2004, I, 1702, ove perentoriamente si afferma che le pretese relative ad una ipotesi di mobbing devono considerarsi riferite ad un’azione di responsabilità contrattuale. V. anche Cass. 8 novembre 2002, n. 15749, in Foro It. Rep. 2002, voce Lavoro (rapporto di), n. 851; Trib. Pisa 12 ottobre 2001, in Lav. Giur., 2002, 456, con nota di Nunin, Molestie sessuali e risarcimento del danno esistenziale.

[23] La migliore dottrina ha infatti puntualmente ritenuto l’obbligo di protezione globale dell’integrità fisica  e della personalità morale dei lavoratori come uno dei contributi più significativi ed originali del diritto del lavoro al codice civile del 1942: v. Mengoni, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, in Dir, Lav. Rel. Ind., 1990, 17; Montuschi, Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 1994, I, 321.

[24] Nisticò, Mobbing o pregiudizio alla personalità morale?, in Lav. Giur., 2003, 329.

[25] Viscomi, Il mobbing: alcune questioni su fattispecie ed effetti, in Lav. e Dir., 2001, 59.

[26] Nisticò, op. cit., 330. Di identico avviso sono le condivisibili considerazioni di Bona, Mobbing e categorie di danno tra etichette e sostanza, in Lav. Giur, 2003, 311, secondo cui non vi è alcuna necessità di dar luogo ad un danno “speciale” (da mobbing, appunto), poiché per il lavoratore è fondamentale dimostrare la violazione della clausola generale di responsabilità ex art. 2087 c.c. piuttosto che incasellarla, o meno, nella definizione di mobbing.

[27] V. ad es. Trib. Como, 22 maggio 2001, in Lav. Giur., 2002, 73 ss. con nota critica di Ege, secondo cui deve eludersi il mobbing nel caso in cui (con nozione mutuata dalla origine etologica del termine, legata alle dinamiche del branco) le condotte vessatorie non siano collettive. Per Trib. Venezia 26 aprile 2001, in Riv. Giur. Lav., 2002, 88 (con nota di Cimaglia, Riflessioni su mobbing e danno esistenziale), invece, la mancanza nell’ordinamento di una fattispecie legale di mobbing non consente l’unificazione delle varie domande di risarcimento dei danni che possano derivare da una pratica di demansionamento.

[28] Nisticò, op. cit., 331.

[29]  Lazzari, op. cit., 62.

[30] Cass. 2 maggio 2000, n. 5491, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2000, 778.

[31] Bona, op. cit., 310; nello stesso senso Nisticò, op. cit., 329.

[32] Cass. 5 febbraio 2000, n. 1307, in Foro It., 2000, I, 1570.

[33] Cass. 17 luglio 1995, n. 7768, in Giur. It., I, 1110; Cass. 21 dicembre 1998, n. 12763, in Not. Giur. Lav., 1999, 187; Cass. 20 gennaio 2000, n. 602, in Rep. Giust. Civ., 2000, voce Lavoro (rapporto di), n. 1121; Trib. Forlì 15 marzo 2001, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2001, 423

[34] D. Garofalo, op. cit.; in giur., v. Trib. Pinerolo, 14 gennaio 2003, in Giur. Merito, 2003, f. 5.

[35] Secondo Pera (Angherie e inurbanità negli ambienti di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., I, 297), il principio contenuto nell’art. 2087 c.c. «è sufficiente a reggere tutto», proprio in quanto attiene alla personalità morale del lavoratore. Più in generale, sul tema specifico v. A. Lassandari, L’alternativa tra fondamento contrattuale o aquiliano della responsabilità e le sue ripercussioni, in AA.VV., Il danno biologico e oltre, a cura di Pedrazzoli, Torino, 1995, 113 ss.

[36] Gallo, Demansionamento, danno alla salute e procedimento d’urgenza, in Lav. Giur., 2002, 987; ed ivi cit. di Lazzari, Il Mobbing fra norme vigenti e prospettive di intervento legislativo, in Riv. Giur. Lav., 2001, 1.

[37] Tullini, I nuovi danni risarcibili nel rapporto di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 4, 2004, 571.

[38] Smuraglia, op. cit., 459.

[39] Per una sintesi efficace, v. Calderale, il danno biologico, in Curzio (a cura di), Il danno biologico dopo il decreto legislativo 38/2000, Cacucci, Bari, 31 ss. Anche in questo caso può essere utile qualche indicazione bibliografica, per ricostruire l’evoluzione interpretativa sul danno biologico, all’interno della sterminata produzione che contraddistingue il tema. V. in particolare Monateri, La responsabilità civile, in Sacco (diretto da), Trattato di diritto civile. Le Fonti delle  obbligazioni, Torino, 1998; Ponzanelli, La responsabilità civile, Bologna, 1992; Jannarelli, Il danno non patrimoniale: le fortune della “doppiezza”, in Danno e resp., 1999, 723; Petti, Il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale della persona, Torino, 1999; Petrelli, Il danno non patrimoniale, Padova, 1997; Ziviz, La tutela risarcitoria della persona, Milano, 1999; Busnelli, Interessi della persona e risarcimento del danno, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1996, 3; Nogler, Danni personali e rapporto di lavoro: oltre il danno biologico?, in Riv. It. Dir. Lav., 3, 2002, 289; Tursi, Il danno non patrimoniale alla persona nel rapporto di lavoro: profili sistematici, in Riv. It. Dir. Lav., 3, 2003, 283. In giurisprudenza, si veda in primo luogo Trib. Genova, 25 maggio 1974, in Giur. It., 1975, I, 2, 54, che ha aperto di fatto il dibattito sul danno biologico; e, più di recente Cass. 21 dicembre 1998, n. 12763; Cass. 4 marzo 2000, n. 2455;  Cass., 18 aprile 2003, n. 6291; Cass., 6 agosto 2004, n. 15187.

[40] Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, 2053 con nota Ponzanelli, La Corte Costituzionale, il danno non patrimoniale e il danno alla salute.

[41] Così Calderale, op. cit., 33.

[42] Corte Cost., 14 luglio 1986, cit.

[43] Corte Cost. 27 ottobre 1994, n. 372, in Giur. It., 1995, I, 406, con nota di Jannarelli, Il “sistema” della responsabilità civile proposto dalla Corte Costituzionale ed i “problemi” che ne derivano; e la successiva Corte Cost. 22 luglio 1996 (ord.), in Giur. It., 1997, I, 314, con nota di Comandè, L’ordinanza n. 293 del 22 luglio 1996 ed il nodo irrisolto dell’art. 2059 c.c. 

[44] Corte Cost. 18 luglio 1991, n. 356, in Foro It., 1991, I, 2347.

[45] Corte Cost. 27 dicembre 1991, n. 485, in Giur. It., 1992, I, 794. Per una ricostruzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale sul danno alla salute nel rapporto di lavoro, v. Franco, Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro, Milano, 1995, 371 ss.

[46] Si deve sul punto richiamare l’autorevole (ma sostanzialmente isolata) opinione di Scognamiglio (op. cit., 510 ss., e specialmente 512), a parere del quale entro il concetto di danno biologico andrebbero ricompresi non soli i danni alla salute ma anche i danni recati ai “beni-interessi” della persona  giuridicamente rilevanti, al di là delle conseguenze economiche che possono scaturirne. L’A. ritiene perciò “un artificioso doppione” la categoria del danno esistenziale «privo di riscontri nella realtà socio-economica e in quella giuridica dei danni alla persona, da tenere distinti, invece, giova insistere sul punto, in relazione ai beni-interessi che risultano pregiudicati».

[47] Bottazzi, Mobbing: dal riconoscimento alla tutela, in Not. INCA, n. 2/3, 2004, 100.

[48] Guerrieri, Il mobbing in ambito lavorativo, possibile causa di malattia professionale, in Quaderni di medicina legale, all. Not. INCA, n. 4, 2004, 56.

[49] Delibera n. 473 del 26 luglio 2001, avente ad oggetto “Malattie psichiche e psicosomatiche da stress e disagio lavoratovi, compreso il mobbing”.

[50] Non vi è certamente spazio per affrontare questa ennesima e dibattuta questione in materia di danno alla persona, che certamente, però, merita notevole attenzione. Esso attiene, infatti, al problema della esaustività o meno del risarcimento del danno biologico corrisposto dall’INAIL e del permanere (o meno) di una quota di esso (quella che eventualmente esuli dallo specifico ambito delle lesioni alla salute in senso stretto) a carico del datore di lavoro. Si veda, in proposito, Rossi, Indennizzo dell’infortunio sul lavoro e azione di regresso e surroga dopo il D. Lgs. n. 38/2000, in Lav. Giur. 2001, 11 ss.; e Trib. Pinerolo, 27 aprile 2004, inedita.

[51] Al di là di alcune sporadiche pronunzie precedenti, si vedano in particolare la fondamentale Corte Cost. 11 luglio 2003 n. 233;  e, per la Suprema Corte, Cass. 31 maggio 2003 nn. 8827 e 8828, Cass. 19 agosto 2003 n. 12124, nonché, Cass 22 gennaio 2994, n. 2050.  

[52] Anche in questo caso appare improbo fornire una attendibile indicazione bilbiografica. Si vedano perciò, in ordine sparso, Ziviz, Alla scoperta del danno esistenziale, in Scritti in onore di R. Sacco, II, Milano, 1994; Cendon, Esistere o non esistere, in Resp. Civ. e Prev., 2000, 1270; Meucci, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 3, 2004, 421; Parpaglioni, Il danno esistenziale fa il suo ingresso nel diritto del lavoro attraverso il mobbing, in Riv. It. Dir. Lav., 4, 2004, 534 (nota a Tribunale di Forlì 15 marzo 2001).

[53] Ziviz, Il danno non patrimoniale, ne La responsabilità civile, VII, a cura di Cendon, Utet, Torino, 1998, 380.

[54] Cass. 31 maggio 2003, n. 8828, cit.

[55] Meucci, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 2004, I, 428

[56] Cassano, La prima giurisprudenza del danno esistenziale, La Tribuna, Piacenza, 2002, 67.

[57] Così Garofalo, relazione al Convegno Il Mobbing nei rapporti di lavoro, Cosenza, 61, ove altre utili indicazioni giurisprudenziali.

[58] Cass. 3 luglio 2001, n. 909.

[59] Ex multis, Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299, cit.; Cass. 28 marzo 1995, n. 3623 e Cass., 10 aprile 1996, n. 3341; v. inoltre Pret. Bologna, 8 aprile 1997, in Lav. Giur., 1997, 140 e ss. ed ivi nota di Boscati, ove ulteriori richiami; Cass. 6 novembre 2000, n. 14443, secondo cui «il demansionamento professionale di un lavoratore dà luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore; esso, infatti, non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c., ma costituisce una lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione – che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato – va riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell’ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione dell’effettivo pregiudizio patrimoniale» (s.m.), in Lav. Giur., 2001, 372, ove nota di richiami); conf. Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727; nonché Cass. 2 novembre 2001, n. 13580, in Lav. Giur., 2002, 1076, con nota di Rondo; e in Riv. Giur. Lav., 2002, 233, con ampia nota di Milli, secondo cui «Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c., ma comporta anche una lesione del diritto fondamentale del lavoratore all’esplicazione della professionalità nel luogo di lavoro, dando luogo ad un danno che il giudice può dedurre anche in via presuntiva, e che è suscettibile di risarcimento in via equitativa»; v. infine, sempre nello stesso senso, la più recente Cass. 26 maggio 2004, n. 10157.

[60] Monateri, Bona, Oliva, op. cit., 89.

[61] Smuraglia, op. cit., 457; Viscomi, op. cit., 53.

[62] Cass. sez. un., 4 maggio 2004, n. 8438, in Orient. Giur. Lav., 2004, I, 343.

[63] Trib. Milano, 29 febbraio 2003, in D.L. Riv. Crit. Dir. Lav., 2003, 655.

[64] Trib. Forlì 15 marzo 2001, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2001, 421-422; v. altresì Trib. Pistoia 29 giugno 2001, rinvenibile su www.unicz.it/lavoro, secondo cui la lesione della dignità del lavoratore va utilizzata l’ulteriore categoria del danno esistenziale, «relativo alle generiche e generali compromissioni peggiorative della sfera esistenziale della vittima del comportamento illegittimo; un danno non patrimoniale (…) collegato ad un peggioramento oggettivo delle condizioni dell’esistenza». Anche Trib. Pinerolo, 3 marzo 2004, in Giur. Merito, 2004, 1998, afferma che il mobbing da diritto al risarcimento del danno subito, anche non patrimoniale, nelle sue varie componenti (danno biologico, esistenziale e morale); e Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003, in Riv. It. Dir. Lav., 2004, II, 304 (con nota di Cimaglia, Il nuovo danno non patrimoniale fa il suo ingresso nel diritto del lavoro), secondo cui il danno derivante al lavoratore da vessazioni poste in essere contro di lui qualificabili come mobbing può eccedere il danno morale soggettivo tradizionale e il danno biologico, in quanto si tratta di un pregiudizio di natura non patrimoniale conseguente a lesione di valori inerenti alla persona costituzionalmente protetti, e, anche in questo caso, tale ulteriore componente del danno deve essere risarcita.

[65] Trib. Bari, 4 novembre 2004, in Giur. Locale-Bari, 2004.

[66] Cass. 26 maggio 2004, n. 10157. Nello stesso senso v. Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, in Riv. It. Dir. Lav., 2003, II, 58 con nota di Quaranta, ove si afferma che «Il demansionamento ridonda in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato. Tale lesione produce automaticamente un danno rilevante sul piano patrimoniale, anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa. L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, supera l’affermazione per cui la mortificazione della professionalità del lavoratore possa dar luogo a risarcimento solo ove venga fornita la prova dell’effettiva esistenza di un danno patrimoniale. La prova, viceversa, rimane necessaria per quanto riguarda l’eventuale danno materiale».

[67] Cass. 28 maggio 2004, in Lav. Giur., 2004, 12, 1265, con nota di Girardi, Demansionamento; conseguenze ed onere della prova dei danni subiti; v. altresì, tra le recenti, Cass. 14 maggio 2002, n. 6992; Cass. 8 novembre 2003, n. 16792.

[68] Cass. 4 agosto 2004 (ord.), in Lav. Giur., 2005, 335 ss., con nota di commento di Gallo, ove utili richiami.

[69] De Angelis, op. cit., 1562.

[70] Cass. 1° giugno 2002, n. 7967, in Lav. Giur. (s.m.), 2002, 989, con nota. V. anche Cass. 7 luglio 2001, n. 9228, in Riv. Crit. Dir Lav., 2001, 999 ss.

[71] Cass., 20 gennaio 2001, n. 835

[72]Trib. Milano, 24 gennaio 2000, in Lav. Giur., 2000, 569.

[73] Trib. Milano, 10 giugno 2000, in Or. Giur. Lav., I, 367. V. altresì Trib. Milano, 22 dicembre 2001, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2002, 377; analogamente Trib. Roma, 12 ottobre 1998, ivi, 1999, 167; nonché Cass. 17 marzo 1999, n. 2428 e Cass. 10 aprile 1996, n. 3341.

[74] Trib. Tempio Pausania, 10 lugio 2003, in Giur. Merito, 2003, 2539, con nota di Rosa Bian.

[75] Trib. Forlì, 15 marzo 2001, cit., in Riv Giur. Lav., 2002, 103.

[76] Trib. Siena, 28 luglio 2003, in Riv. It. Dir. Lav., 2003, II, 673 ss., con nota L’istituto del “danno punitivo” può essere introdotto nel nostro ordinamento per via giurisprudenziale?

[77] Op. ult. cit., 675.

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