Mobbing: profili civilistici e giuslavoristici

 

L’occasione di questo incontro di studi è offerta dalla pubblicazione del libro di Luigi Battista, «Persona, lavoro e mobbing».

Mi sembra opportuno pertanto esprimere, presumo di poterlo fare anche a nome degli altri relatori, l’apprezzamento per l’opera del Battista soprattutto per aver colto gli stretti nessi tra l’insorgenza del mobbing che è un fenomeno tanto pregiudizievole per le relazioni umane e professionali all’interno delle organizzazioni di lavoro, e la tutela della integrità fisica, morale e professionale del lavoratore, che nel rapporto di lavoro è implicato con la sua persona. Battista ha dedicato al tema una trattazione appassionata e appassionante, con qualche insistenza e ridondanza sui punti centrali dell’indagine, giustificate tuttavia dal forte impegno dello studioso.

1. - La relazione a me affidata concerne i profili civilistici e giuslavoristici del mobbing. Ma mi sia consentito di invertire l’ordine di esposizione: essendo il mobbing un fenomeno tipico del rapporto di lavoro, principalmente del lavoro subordinato, ritengo di dovermi soffermare innanzitutto sulla sua natura e rilevanza giuslavoristica, per procedere in un secondo momento alla considerazione dei profili civilistici. Ciò in base alla considerazione di fondo che il diritto del lavoro è un ramo speciale dell’ordinamento giuridico, in cui allignano fenomeni e normative che non possono essere ricondotti senz’altro negli schemi normativi e concettuali del diritto civile, fermo restando che anche il diritto del lavoro appartiene al diritto dei privati, con le conseguenti implicazioni ed integrazioni entro i principi e le regole del diritto civile.

L’espressione mobbing di lingua inglese evoca l’immagine della aggressione fisica del branco di animali nei confronti di un suo componente rimasto isolato. E si presta ad indicare, con un facile traslato, il fenomeno che si manifesta all’interno di gruppi di persone, legati dalla comunanza di vita ed interessi, a riprova quasi di una tendenza innata, quanto riprovevole, dell’animo umano. Si pensi al «nonnismo» nelle caserme e al «bullismo» nelle scuole per non dire delle tensioni che si manifestano fino ad esplodere non di rado in atti di efferata violenza all’interno delle famiglie.

Nelle aziende, organizzazioni collettive di lavoro, si verificano non di rado forme di persecuzione psicologica, provocate dalla situazione di inferiorità e debolezza del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, che può essere indotto ad abusare della sua posizione di forza ma suscitate anche da condizioni di competitività ed elementi di conflitto che possono verificarsi tra gli stessi lavoratori.

La scoperta del mobbing risale, secondo una diffusa opinione, alle indagini svolte negli anni ’80 dal Leymann, uno studioso tedesco di origine svedese, ed incontra un immediato, largo successo con la pubblicazione di monografie e di saggi di studiosi stranieri ed italiani di psicologia del lavoro, di sociologia e, quel che maggiormente a noi interessa, di diritto del lavoro, nonché con la presa di posizione di alcuni legislatori stranieri e del diritto comunitario, mentre in Italia l’attività legislativa non si spinge al di là della predisposizione di progetti o disegni di legge, non pochi peraltro, non andati per ora a buon fine (incidentalmente la l. 14 marzo 2001 emanata in materia dalla regione Lazio è stata annullata dalla Corte costituzionale per aver invaso la sfera di competenza esclusiva del legislatore nazionale). Tuttavia, anche da noi, il mobbing è entrato a far parte, in tempi brevi, del bagaglio di conoscenze e di apprezzamenti dei mass media e a loro mezzo del gran pubblico, nonché dalla fine degli anni ’90, nelle aule giudiziarie, alle quali pervengono in gran numero ormai ricorsi di lavoratori che si proclamano vittime del mobbing e chiedono cospicui risarcimenti in denaro. Può costituire motivo di sorpresa piuttosto che la scoperta di un fenomeno, così strettamente connesso alla natura umana e che verosimilmente si è manifestata anche in passato all’interno delle organizzazioni di lavoro, sia venuto alla luce della conoscenza scientifica e alla cognizione della giurisprudenza, soltanto da pochi anni. E non si tratta di una considerazione retorica, perché ne potrebbe scaturire il dubbio se il mobbing possegga una specifica consistenza nella realtà economico-sociale ed un’autonoma rilevanza sul piano del diritto e non si risolva invece, al di là di facili suggestioni, negli inevitabili, forse, disagi e dispiaceri che possono affliggere il dipendente nell’esecuzione della prestazione lavorativa, senza risultare meritevoli di reazione da parte della coscienza sociale e, tanto meno, dell’ordinamento giuridico. Ma ogni perplessità può essere agevolmente superata, ove si rifletta che la coscienza sociale passa nel corso del tempo attraverso fasi diverse ed alterne di sensibilità, e di consapevolezza, per i mali che travagliano gli uomini, che l’ordinamento giuridico insegue, talora con affanno. E l’attuale stadio della nostra civiltà è caratterizzato da una crescente considerazione degli interessi e per la tutela della persona umana, specialmente del lavoratore subordinato, in cui si è inserito, potendo apparire come una vera e propria scoperta, il fenomeno del mobbing.

 

2. - Manca per ora nel nostro ordinamento una legge che definisca e disciplini il mobbing.

Ma, come bene ha rilevato Battista nelle prime pagine della sua opera, un intervento legislativo in materia potrebbe risultare di scarsa utilità se non pregiudizievole, considerando che il nostro ordinamento offre di già sufficienti strumenti di tutela della personalità del lavoratore. E va tenuto conto anche dell’antico ammonimento della dottrina, secondo il quale spetta al legislatore di regolare i fenomeni, piuttosto che dettarne la definizione, compito quest’ultimo al quale meglio possono assolvere la dottrina e la giurisprudenza. All’uopo sembra opportuno, per seguire un corretto metodo di indagine, prendere le mosse dal dato di fatto per il quale, ad onta delle molteplici definizioni fornite da Autori e giudici, si può contare su una significativa convergenza di indicazioni. Gli studiosi di psicologia e sociologia del lavoro che principalmente si sono occupati del fenomeno, definiscono il mobbing una forma di violenza psicologica che si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi, aventi lo scopo di danneggiare i canali di comunicazione, il flusso di informazione, la salute, la reputazione e la personalità della vittima; o anche come un comportamento abusivo che minaccia, con la sua ripetizione e sistematicità, la dignità o l’integrità psico-fisica di una persona, degradando o mettendo in pericolo il suo posto di lavoro; o, in una accezione più comprensiva forse, come una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, perdurante ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Mentre nell’avviso, che io ho avuto modo di esprimere in un saggio sull’argomento, il mobbing può farsi consistere in una sequenza di atti o comportamenti miranti e/o idonei, per le modalità che rivestono, a realizzare una forma di persecuzione psicologica del lavoratore, in cui un peso rilevante assumono i connotati della durata e della frequenza, da valutare di caso in caso, tenendo conto anche della diversa natura e gravità degli atti o comportamenti persecutori.

La definizione proposta dovrebbe bastare a segnare la differenza, ed è il punto forse più delicato dell’indagine, della condotta persecutoria del datore o dei compagni nei confronti del lavoratore, dal caso ben diverso in cui il cosiddetto «male di lavoro» dipende piuttosto dall’eccessiva sensibilità, se non addirittura da comportamenti provocatori o scorretti imputabili al lavoratore che non può dunque dolersi di essere vittima di una persecuzione.

 

3. La rilevanza giuridica del mobbing, in tali termini inteso, trova un aggancio sicuro nelle disposizioni legislative in materia di tutela della integrità fisica e della personalità morale del lavoratore. La norma fondamentale in materia, sul punto la dottrina e la giurisprudenza concordano, è l’art. 2087 c.c., alla cui stregua il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro, all’esperienza e alla tecnica, risultino idonee a proteggere l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, e tanto più deve astenersi da atti e comportamenti, tali da costituire una forma di persecuzione psicologica del lavoratore, e deve adoperarsi per impedire che nell’ambiente di lavoro ciò avvenga.

Ma nello stesso senso militano anche, ed offrono elementi o spunti suggestivi, talune disposizioni della Carta costituzionale: tra i principi fondamentali l’art. 2, alla cui stregua «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo [...]» e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; l’art. 3 che afferma la pari dignità sociale di tutti i cittadini e vincola la «Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale [...] che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»; e tra le norme che rientrano nel titolo II, o dei rapporti etico-sociali, l’art. 32 che impegna la Repubblica, e, secondo il principio della Drittwirkung anche gli altri soggetti, pubblici e privati, dell’ordinamento, a tutelare la salute dei cittadini; ed ancora, tra le norme che rientrano nel titolo III, dei rapporti economici, l’art. 41, co. 2, che non consente alla iniziativa economica privata di svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o con modalità tali da cagionare danni alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Ma allo stesso effetto vanno tenute in conto altresì le norme sulla sicurezza nell’espletamento delle attività  lavorative: il d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277 e il d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, modificato ed integrato dal d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242, che stabiliscono le misure da adottare nei luoghi di lavoro, a tutela dell’integrità fisica e della salute dei lavoratori, offrendo altre, importanti suggestioni a sostegno del leit-motiv dell’ordinamento giuridico di privilegiare, rispetto agli oneri e alle esigenze dell’azienda, l’integrità e lo stato di salute del lavoratore. Su un diverso versante, poi, l’art. 15 della l. n. 300/1970, e successive modifiche, stabilendo l’illiceità di qualsiasi patto o atto diretto a discriminare il lavoratore per le causali ivi specificate, riafferma la volontà del legislatore che la personalità e la professionalità dei lavoratori, beni-interessi strettamente inerenti all’esecuzione del rapporto di lavoro, siano tutelate avverso ogni eventuale abuso del datore.

E di recente il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, percorrendo la via tracciata dalla direttiva 2000/78/Ce sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, indica all’art. 1 l’oggetto del decreto nella «attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro»; fa divieto all’art. 2 di praticare forme di discriminazione diretta, che si verificano quando una persona sia trattata, per causali ritenute ingiuste o illegittime, meno favorevolmente di un’altra in una situazione analoga e forme di discriminazione indiretta, che si verificano quando «una disposizione, un criterio, una prassi un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone»; ed al successivo co. 3 include significativamente tra le discriminazioni «anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo», nonché, ai sensi del co. 4, l’ordine di discriminare un lavoratore per le cause suddette.

Anche il diritto comunitario si volge verso l’obiettivo di garantire la sicurezza, la libertà e la dignità dei lavoratori, con particolare riguardo ai luoghi di lavoro.

La Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, dal Consiglio, dalla Commissione e dal Parlamento dell’Unione europea stabilisce e/o ribadisce i principi fondamentali della tutela della dignità umana e dell’integrità fisica e psichica della persona con il conseguente risarcimento del danno in caso di lesione, della parità di trattamento tra uomo e donna e del divieto dell’abuso dei diritti. Ed una particolare importanza assume infine la risoluzione del Parlamento europeo a50283/2001, che ha per oggetto specifico il mobbing sul posto di lavoro. Il Parlamento europeo, rilevata la gravità dei fenomeni di violenza e molestie nel contesto della vita professionale, auspica interventi della Commissione ed esorta gli Stati membri ad adottare misure dirette anche alla prevenzione del mobbing.

 

4. - La sequenza persecutoria del mobbing può includere anche atti o comportamenti del datore di lavoro, che costituiscano altrettanti illeciti, specificamente sanzionati dalla legge. Cosicché il lavoratore può, o agire subito per la contestazione e la repressione di tali illeciti, o riservarsi di agire in seguito nei confronti di una condotta risultata nel suo complesso di mobbing. Ma l’esperienza giurisprudenziale ci fa vedere anche che singoli atti o comportamenti illeciti — l’esercizio illegittimo dello jus variandi, con lo spostamento a mansioni non equivalenti o lo svuotamento di mansioni, il trasferimento della sede di lavoro, la comminatoria di sanzioni in violazione delle norme di legge, il licenziamento illegittimo — vengono denunziati dal lavoratore come una forma di mobbing.

Si manifesta in tali casi una confusione, o peggio ancora una sovrapposizione di concetti e normative, a fronte delle quali va considerato che il lavoratore può reagire contro il singolo atto o comportamento illecito mediante un’azione/denunzia anche per i danni che produce, ed è un altro discorso che questo atto o comportamento possa costituire, inserendosi in una sequenza caratterizzata da un intento persecutorio, un elemento del mobbing. E ciò anche, giova ribadirlo, per quel che concerne lo spostamento a mansioni non equivalenti o lo svuotamento di mansioni che con particolare frequenza vengono qualificati nei ricorsi dei lavoratori come forme di mobbing.

E ritengo opportuno ribadire che, contro quel che si legge di frequente nei ricorsi al giudice del lavoro lo spostamento a mansioni non equivalenti e lo svuotamento di mansioni non bastano a costituire in se e isolatamente considerati forme del mobbing, che consiste invece in una sequenza di atti o comportamenti, anche non (tutti) rilevanti come illeciti che nel loro insieme realizzano una forma di oppressione persecutoria con la progressiva esclusione del lavoratore dalla realtà aziendale.

 

5. Ad integrazione della nozione che se ne è prospettata, conviene spendere qualche cenno sugli elementi costitutivi del mobbing: i soggetti attivo e passivo e il contenuto o oggetto.

Il soggetto attivo si identifica principalmente con il datore di lavoro, dal quale promana la sequenza di atti o comportamenti che realizzano la persecuzione psicologica, per cui viene adottata anche l’espressione, più brutta di bossing.

Ma soggetti attivi possono essere anche gli altri lavoratori di livello gerarchico superiore, uguale o inferiore, in forma individuale e non necessariamente collettiva, per cui si propongono le definizioni di mobbing discendente, orizzontale e ascendente.

È materia di discussione se per la configurazione del mobbing sia richiesto un connotato soggettivo: la volontà generica di attuare la persecuzione psicologica del lavoratore o addirittura quella specifica di nuocergli isolandolo nell’ambiente di lavoro, ed è la concezione c.d. soggettiva, o sia sufficiente la sequela di atti o comportamenti idonei a produrre tali effetti, pure a prescindere dall’intenzione di chi li ponga in essere, ed è la concezione c.d. oggettiva. A mio avviso, la teoria che attribuisce rilevanza all’elemento soggettivo si espone all’obiezione, e fa correre il rischio, di restringere l’ambito di operatività del mobbing, implicando la difficile verifica della intenzione del trasgressore. Laddove appare sufficiente per la ricorrenza, e la rilevanza, del fenomeno che la sequenza di atti e comportamenti contrastanti con gli interessi e le esigenze del lavoratore assuma una valenza persecutoria, in cui risulta implicito, per tagliare corto alla questione, il perseguimento di una finalità illecita.

 

6. - Il soggetto passivo del mobbing è il lavoratore subordinato, vittima predestinata, per così dire, degli atti o comportamenti vessatori che possono germinare all’interno di un’organizzazione aziendale. Mentre risultano prive di rilevanza, sul piano del diritto le indagini e le affermazioni dei sociologi, a cui avviso il fenomeno del mobbing colpirebbe con maggiore frequenza i pubblici impiegati, piuttosto che gli impiegati privati, in quanto sottoposti ad una più restrittiva organizzazione burocratica; le donne piuttosto che gli uomini, per la ritenuta debolezza del sesso e la possibile incidenza di molestie sessuali; gli impiegati piuttosto che gli operai per il vincolo più stretto di collaborazione che li avvince al datore di lavoro. Ci si deve chiedere piuttosto, e si deve propendere per la risposta affermativa, se il mobbing possa colpire anche i lavoratori c.d. para subordinati, i quali, pur non operando sotto il vincolo della subordinazione, prestano una attività personale o prevalentemente tale nell’ambito di un rapporto di collaborazione continuativa e coordinata ai sensi dell’art. 409, n. 3, c.p.c., ed ora ai sensi dell’art. 61 del d.lgs. n. 276/2003 in base ad un contratto di lavoro a progetto.

 

7. - Sotto il profilo oggettivo o del contenuto il mobbing si identifica, come già ho avuto modo di stabilire, in una sequenza di atti o comportamenti idonei per la durata e la frequenza a realizzare la persecuzione psicologica del lavoratore, fino a determinarne eventualmente l’estromissione dall’ambiente di lavoro. Psicologi e sociologi si sono interrogati sui dati quantitativi che il fenomeno deve assumere per la sua rilevanza, che proprio il Leyman, ha individuato in un periodo di sei mesi e in almeno una volta alla settimana. Ma si tratta a tutta evidenza di dati empirici, quanto generici ed approssimativi, rientrando piuttosto nel potere del giudice di verificare se la sequenza di atti o comportamenti persecutori abbia assunto una consistenza tale da pregiudicare interessi ed esigenze del lavoratore, meritevoli di tutela giuridica.

 

8. - E passo a considerare i profili di diritto civile del mobbing che, vertendosi in materia di illecito, incidono sulla natura della responsabilità in cui incorre l’autore della condotta, sugli effetti giuridici e in particolare sui provvedimenti sanzionatori che valgano a restaurare il diritto leso ma anche sulle misure di prevenzione, che si possono adottare, tralasciando di occuparmi del tema dell’onere della prova sul quale si intratterrà specificamente, secondo il programma dei lavori, il collega Vallebona. La responsabilità in cui incorre il datore di lavoro, che pone in essere la condotta c.d. mobbizzante, si fonda consiste nell’inadempimento alla obbligazione di sicurezza dei lavoratori ai sensi principalmente dell’art. 2087 c.c., ed assume pertanto natura contrattuale, restando assoggettata alla relativa disciplina. Mentre non sembrano ricorrere i presupposti e gli elementi di un concorso, pure astrattamente ammissibile, tra responsabilità contrattuale ed extra contrattuale. Ad una diversa conclusione si deve pervenire riguardo alla condotta persecutoria posta in essere da altri dipendenti i quali, non essendo legati al lavoratore leso da alcuna obbligazione legale o contrattuale, incorrono esclusivamente nella responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c.

E nella responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2049 c.c. — la responsabilità per fatto altrui — incorre il datore di lavoro per la condotta illecita posta in essere dai suoi dipendenti.

 

9. - Il profilo degli effetti giuridici si intreccia strettamente, come sopra anticipato, con quello dei rimedi e specificamente delle sanzioni che possono colpire l’autore del mobbing anche al fine di restaurare i diritti lesi del lavoratore.

Il primo, e generale, rimedio consiste nel diritto e nell’azione giudiziaria del lavoratore avente ad oggetto l’accertamento del mobbing e l’ordine della sua cessazione. Una azione di tipo inibitoria che può sortire i suoi effetti, qualora il datore di lavoro o il lavoratore colpito dalla condanna si astenga, almeno per qualche tempo come per lo più avviene, da altri atti o comportamenti persecutori.

E pare indubbio che il lavoratore possa proporre, sussistendo il periculum in mora e il fumus boni juris, un ricorso di urgenza onde ottenere un sollecito ordine di cessazione della condotta persecutoria. Rimane da considerare l’opportunità di un rimedio processuale, specificamente rivolto alla immediata repressione del mobbing secondo i modelli offerti dall’art. 28 della l. n. 300/1970 in tema di condotta antisindacale e dell’art. 15 l. n. 903/1977 in tema di parità di trattamento tra uomo-donna nel lavoro. E vale la pena forse di ricordare che un progetto di legge prevedeva una procedura straordinaria a mezzo della quale il giudice, esaminato il ricorso e valutandone l’attendibilità, convocava nei 5 giorni successivi le parti e, assunte sommarie informazioni, con un decreto immediatamente esecutivo ordinava la cessazione degli atti o comportamenti pregiudizievoli. Ma la risposta sulla validità e/o opportunità del rimedio può avvenire soltanto dalla prassi giudiziaria, ed è il caso forse di ricordare che mentre il ricorso ex art. 28 per la repressione della condotta sindacale ha conosciuto un grande ed immediato successo e tutt’ora viene proposto non di rado, una sorte ben diversa e direi di un sostanziale insuccesso ha incontrato il ricorso ex art. 15 sulle trasgressioni alla parità di trattamento uomo/donna. Si è avvertita anche la possibilità, e/o l’opportunità, di colpire il mobbing con una sanzione penale, con la sua forza dissuasiva, disposta, a quanto mi risulta, soltanto da una legge francese del 17 gennaio 2002, n. 78 e prevista anche da progetti legislativi italiani. Ma va condivisa l’obiezione che l’incriminazione del mobbing, una fattispecie a maglie larghe, male si concilia con i principi di tassatività e sussidiarietà che devono caratterizzare la sanzione penale. Ferma restando, ma è un altro discorso, l’eventualità che nell’ambito della condotta persecutoria ricorrano anche fattispecie criminose, quali le lesioni colpose, l’ingiuria e la diffamazione.

Si possono immaginare anche sanzioni di tipo amministrativo, ad esempio il versamento di una somma al Fondo pensioni, di cui esistono precedenti per altre violazioni di norme di diritto del lavoro. Ma misure siffatte, che anche possono esercitare un effetto dissuasivo sul c.d. mobber, non offrono a ben vedere alcuna riparazione per il torto subito dal lavoratore. Passando alla disamina di altre sanzioni di diritto civile, aventi natura ben diversa, va segnalato che la legge francese, un progetto di legge italiano e una corrente dottrinale affermano l’invalidità, la nullità o l’annullabilità degli atti persecutori, che costituiscono però forme di reazione avverso i vizi che possono inficiare l’attività negoziale. Laddove va tenuto sempre presente che qui si tratta di una sequenza di atti e comportamenti, che costituiscono nell’insieme il torto del mobbing e non di uno o più negozi giuridici. Salvo a considerare, ma è un altro discorso, che singoli atti unilaterali o accordi possono essere colpiti da nullità, alla stregua di specifiche disposizioni di legge come avviene per l’esercizio illegittimo dello ius variandi, di cui sopra, in forza dell’art. 2103 c.c.

 

10. Ma gli effetti perversi del mobbing consistono soprattutto nei danni che possono colpire beni-interessi giuridicamente rilevanti dei lavoratori, per cui la tutela del leso assume la forma tipica, e maggiormente adeguata, del risarcimento. I danni da mobbing possono colpire, come l’esperienza dimostra, la salute fisica e psichica e la dignità, beni-interessi che appartengano ad ogni persona, ed in particolare la professionalità e la carriera, beni-interessi che appartengono a titolo specifico ai lavoratori, fino a poter provocare, ed è la conseguenza più grave, la cessazione del rapporto di lavoro. Il primo, e fondamentale, problema che al riguardo occorre affrontare è quello della delimitazione dell’area del risarcimento alla stregua del vigente diritto.

Si riteneva, in un passato ormai abbastanza lontano, che fossero risarcibili soltanto i danni recati a beni-interessi patrimoniali, risarcibili per equivalente mediante l’attribuzione di una somma di denaro. Ma fin dagli anni ’50 ho rilevato, mi sia consentita una auto citazione, che l’art. 2043 c.c. sancisce la risarcibilità del danno ingiusto senza chiedere l’ulteriore requisito della patrimonialità, cosicché alla sua stregua si deve ritenere risarcibile, purché ingiusto secondo i principi e le norme dell’ordinamento giuridico, anche il danno recato al bene-interesse della persona, anche in mancanza di conseguenze economiche. L’art. 2059 c.c., che sancisce la risarcibilità del danno non patrimoniale, si riferisce, invece, alla figura tradizionale del danno morale, consistente nei patemi e sofferenze d’animo, che possono trovare in compensazione una somma di denaro, il c.d. pretium doloris, ma, come dispone lo stesso art. 2059, nei soli casi previsti dalla legge che nel nostro ordinamento consistono negli atti o comportamenti criminosi come risulta dall’art. 185 c.p. Diversi anni dopo, il Tribunale di Genova con due sentenze del maggio 1974 e ottobre 1975 e sulle sue orme il Tribunale di Pisa, riconoscevano il diritto del leso al risarcimento del danno che aveva colpito l’integrità fisica della persona, il c.d. danno biologico, e la scoperta doveva trovare poi la sua consacrazione nella sentenza della Corte costituzionale n. 184/1986, che all’uopo si fondava principalmente sul disposto dell’art. 32 Cost. sul riconoscimento del diritto alla salute, e doveva entrare ben presto a vele spiegate nelle decisioni della giurisprudenza di legittimità e di merito e nelle elaborazioni dottrinali.

Una volta aperta la via, si è andata affermando poi la risarcibilità di altri danni recati alla personalità dell’uomo e specificamente del lavoratore: danni alla dignità, alla vita di relazione nelle sue diverse manifestazioni, alla professionalità. Mentre un altro indirizzo dottrinale, che ha avuto un successo a mio avviso ingiustificato, ha ritenuto di configurare, a fianco del danno biologico, il cui ambito non può estendersi al di là del danno alla salute o all’integrità fisica, un danno esistenziale riferibile a tutti i pregiudizi recati a beni-interessi inerenti alla vita individuale e sociale dell’uomo, così proponendo una sorta di artificioso doppione, privo di sicuri riscontri nella realtà socio-economica e in quella giuridica, del danno alla persona. Ma a questo punto occorre affrontare un’altra questione che divide da tempo la dottrina e soprattutto la giurisprudenza anche di legittimità, per cui si profila un intervento delle Sezioni Unite.

Il mobbing, come la dequalificazione per citare il caso in cui la questione si pone con maggiore frequenza, costituisce un torto, in quanto tale potenzialmente produttivo di un danno che rimane però il presupposto indispensabile per l’esperimento dell’azione risarcitoria. Ci si chiede allora se il danno, nel caso del mobbing come in quello della dequalificazione, costituisce la conseguenza inevitabile o automatica del torto oppure occorre provare che si sia effettivamente verificato e l’onere in tal caso non può che incombere sul lavoratore.

A mio avviso va tenuto fermo il principio che il torto non costituisce di per sé un danno, e dunque, ai fini del risarcimento, occorre dare la prova dell’effettività del danno che può realizzarsi però nei diversi modi previsti dalla legge, in particolare il danno alla salute, mediante consulenza medica di ufficio, e gli altri danni ai beni-interessi della persona a mezzo di presunzioni, che risultino gravi, precise e concordanti.

Un cenno ulteriore va dedicato al caso che il mobbing, portando a conclusione per così dire il processo di allontanamento del lavoratore dalla azienda, trovi il suo sbocco nel licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo con la imputazione al lavoratore di inadempienze inesistenti o comunque non così gravi da giustificare il recesso dal rapporto di lavoro financo per giustificato motivo oggettivo, per la ritenuta incompatibilità del lavoratore con l’ambiente di lavoro, o induca lo stesso lavoratore a rassegnare le dimissioni per la situazione insopportabile che si è creata nell’ambiente di lavoro.

Nel primo caso il lavoratore può impugnare il licenziamento e chiedere a mio avviso anche il risarcimento dei maggiori danni sopportati per la cessazione del rapporto di lavoro a cagione del mobbing. Nel secondo caso il lavoratore può eccepire l’invalidità delle dimissioni, in quanto determinate dalla condotta illecita del datore o di altri lavoratori e non sorrette pertanto dalla libera volontà di recedere dal rapporto di lavoro oppure invocare la giusta causa di dimissioni, con il conseguente diritto all’indennità sostitutiva del preavviso, salvo il risarcimento nell’uno e nell’altro caso dei maggiori danni sopportati anche qui per la cessazione del rapporto di lavoro provocata dal comportamento illecito del datore di lavoro. Per quel che riguarda infine la quantificazione del risarcimento dei danni il giudice può procedere per il danno alla salute o biologico applicando le comuni tabelle sui punti di invalidità all’uopo avvalendosi della collaborazione della consulenza tecnica di ufficio, salvo ad integrarne l’ammontare secondo considerazioni di equità, mentre per i danni alla persona di natura diversa come il danno all’immagine, alla professionalità, alla carriera o secondo una formula oggi di moda, tendenzialmente comprensiva il c.d. danno esistenziale, il giudice potrà procedere soltanto secondo una valutazione equitativa, tenendo conto degli elementi risultanti e provati riguardo al caso di specie.

 

11. - Ma la lotta al mobbing richiede, secondo un diffuso giudizio anche, se non principalmente, il ricorso a rimedi preventivi, che valgono ad evitare il male. Un significativo dato di riferimento può ravvisarsi nella normativa emanata dall’Ente nazionale per la salute e la sicurezza svedese il 2 settembre 1993, alla cui stregua il datore di lavoro deve pianificare ed organizzare il lavoro in modo da prevenire, per quanto possibile, forme di persecuzione psicologica nei luoghi di lavoro, comunicare in modo inequivocabile che queste forme di persecuzione non saranno assolutamente tollerate e prevedere procedure che consentano di individuare i sintomi di condizioni di lavoro persecutorie e l’esistenza di problemi e carenze organizzativi che possano favorirne l’insorgere ed immediatamente adottare ed applicare efficaci contromisure.

Per quel che concerne le nostre esperienze ed aspettative, l’art. 6 dell’accordo del 12 giugno 2003 per il personale del comparto Ministeri, prevede l’istituzione di Comitati paritetici presso ciascuna amministrazione, incaricati di formulare proposte e di valutare l’opportunità di interventi formativi e di aggiornamento del personale, finalizzati ad affermare una cultura organizzativa e a favorire la coesione e la solidarietà dell’ambiente di lavoro, onde contenere l’insorgenza e l’espansione di forme persecutorie nei confronti di singoli lavoratori; e recenti progetti o disegni di legge impegnano i datori di lavoro, pubblici e privati, e le rappresentanze sindacali alla ricerca, e alla predisposizione, di misure idonee, comprese iniziative di informazione, al fine di prevenire l’insorgenza, e la diffusione, negli ambienti di lavoro di manifestazioni di violenza psicologica nei confronti dei lavoratori; ed un progetto riconosce anche ai lavoratori il diritto a riunirsi in assemblea per 2 o 5 ore all’anno fuori dell’orario di lavoro per discutere i problemi insorti in materia.

Merita un cenno infine la risoluzione del Parlamento europeo A 5-02831 nella parte in cui — dando conto della preoccupante diffusione del fenomeno — richiama l’attenzione della Commissione sulla importanza di combattere il mobbing e di interventi legislativi a tale fine degli Stati membri. Ed in tale contesto raccomanda «la messa a punto di una informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che nel settore pubblico», con «la possibilità di nominare sul luogo di lavoro una persona di fiducia alla quale i lavoratori possono eventualmente rivolgersi». Mi sia consentita una riflessione finale non priva di connessioni forse con il nostro dibattito. Viviamo in un epoca, mi riferisco principalmente ai Paesi che appartengono alla nostra civiltà, di forte sensibilizzazione della coscienza sociale e giuridica alla sorte personale e agli interessi dell’uomo lavoratore, ed in tale contesto sono germinate da ultimo la configurazione del mobbing e l’esigenza di difendere i lavoratori da questa forma, sofisticata per così dire, di oppressione. Ma è anche un epoca in cui si assiste a forme di sfruttamento dei lavoratori che appaiono ai nostri occhi insopportabili, anche se sembrano trovare una giustificazione nel travolgente progresso di Paesi che fino a qualche decennio fa versavano in condizioni di grave arretratezza economica e sociale o peggio ancora a situazioni di perdurante grave miseria che incide pesantemente sulle stesse possibilità di vita. E mi sembra evidente che in questi Paesi, quelli emergenti e gli altri neppure in grado di emergere, la stessa idea del mobbing e l’esigenza di combatterlo appaiono addirittura inconcepibili.

Si tratta della contraddizione tra la tendenza alla giustizia sociale e l’immanenza di una insuperabile ingiustizia, in cui si avvolge da sempre la condizione umana, e dalla quale riesce difficile se non impossibile districarsi.

Rimane la speranza, valore essenziale anche nel pensiero della Chiesa cristiana, del cammino ascensionale dell’umanità verso un assetto sociale di maggiori benessere e giustizia.

 

Renato Scognamiglio

Professore Emerito Università di Roma «La Sapienza» - Accademico dei Lincei

 

(fonte: Mass. giur. lav. - rivista della Confindustria - Il sole-24 Ore - n. 1-2/2006 p. 2 e ss.)

 

Mobbing: qualificazione,oneri probatori e   rimedi

 

1.- Definizione e qualificazione. — Da qualche anno si parla di mobbing (1), riferendosi a vessazioni di vario tipo sofferte dal lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro.

La scelta di Luigi Battista di dedicare il proprio tempo, con passione e sacrificio, allo studio dei profili giuridici di questo fenomeno è pienamente giustificata, perché il mobbing è come un prisma che riflette tutti gli aspetti più problematici dell’attuale ordinamento del lavoro, nel bene, che è tanto, e nel male, che non è poco.

La parola straniera (2) è ormai entrata, come tante altre, nel gergo corrente e dai lavori parlamentari sembra che lo stesso legislatore non abbia pudori, intendendo legiferare sul «mobbing», di cui del resto discettano già da tempo le sentenze nazionali nonostante la prescrizione dell’art. 122 c.p.c. sull’uso obbligatorio della lingua italiana. Sicché è opportuno adeguarsi, ma solo per la convenzione linguistica, allo spirito del tempo e considerare la parola mobbing ormai entrata nel vocabolario italiano, così almeno eliminando il fastidio del puntiglioso corsivo. Il mobbing consiste, dunque, in maltrattamenti, vessazioni, offese, aggressioni, umiliazioni, intimidazioni, persecuzioni, mortificazioni nei confronti di un lavoratore subordinato. Se la persecuzione proviene dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici che lo rappresentano e la cui condotta è automaticamente imputata al medesimo datore di lavoro, si parla di mobbing discendente. Se i persecutori sono semplici colleghi del lavoratore si parla di mobbing orizzontale. Se, infine, le vessazioni provengono dai sottoposti, che si coalizzano contro il superiore si parla di mobbing ascendente (3).

Qualsiasi tentativo di definire specificamente il fenomeno è destinato a sicuro insuccesso, poiché rischierebbe di escludere qualcuna delle multiformi modalità persecutorie possibili nei casi della vita. L’idea di valorizzare a fini definitori l’elemento soggettivo della condotta lesiva non solo, come si vedrà, è incompatibile col diritto vigente, ma condizionerebbe ogni tutela alla difficile prova di tale elemento. Quello che conta, invece, è la oggettività della condotta, come è stato già chiarito per le discriminazioni e per il comportamento antisindacale (4). Il mobbing si caratterizza per la sistematicità e durata della condotta persecutoria (5), che può consentire la configurazione di un illecito anche se non sono tali i singoli atti in sé considerati (6). Il che non esclude, ovviamente, l’eventuale illiceità, per contrasto con la disposizione dell’art. 2087 c.c. o con altra disposizione specifica, anche di un atto persecutorio isolato e istantaneo, seppur con altra denominazione. Nell’ordinamento vigente le numerose disposizioni specifiche di protezione del lavoratore (ad esempio in materia di mansioni, di controlli, di sanzioni disciplinari, di trasferimenti, di discriminazioni) convivono con una norma generale, che impone al datore di lavoro di adottare le misure «necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (art. 2087 c.c.), così precorrendo ed inverando il principio per cui l’iniziativa economica non può ledere la libertà e la dignità del lavoratore (art. 41 Cost.). Le condotte comunemente ricomprese nel fenomeno del mobbing possono essere illecite per violazione di una specifica disposizione di tutela oppure per contrasto con la ricordata norma generale dell’art. 2087 c.c. (7).

Rispetto alla ridda di definizioni del mobbing proposte in varie sedi, la norma dell’art. 2087 c.c. ha il pregio di qualificare la condotta non in base al suo contenuto, ma in considerazione del bene protetto («l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro»), evitando così ogni rischio di incompletezza (8). Il problema, comune a qualsiasi diversa definizione necessariamente aperta, è quello di tutte le clausole generali (9), che lasciano molto spazio alla mediazione giudiziaria, con la conseguente incertezza non rimediabile neppure con la nomofilachia della Cassazione, che opportunmente rifiuta di controllare sotto il profilo della falsa applicazione di legge la sussunzione di irripetibili situazioni specifiche nella norma generale, limitandosi da un lato ad indicazioni di largo principio sul significato di questa e dall’altro alla verifica della logicità della motivazione (10). L’esistenza della disposizione dell’art. 2087 c.c. rende superflua ogni discettazione sulla ricostruibilità di un obbligo di protezione e, quindi, di un divieto di mobbing in base ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (11), oltretutto inutilizzabili in funzione creativa di obblighi (12). Proprio quest’ultima considerazione, insieme alla inesistenza di un principio di pari trattamento nei rapporti interprivati (13), esclude che il divieto di mobbing possa trasformarsi in un obbligo per il datore di lavoro di giustificare qualsiasi suo comportamento. La tutela per giustificazione necessaria, con relativo onere della prova sul datore di lavoro, deve essere appositamente prevista (ad es. licenziamento, trasferimento) ed è completamente diversa dalla tutela antillecito (ad esempio divieto di discriminazioni, divieto di mobbing), che esige la prova della condotta lesiva (14). Questa può essere considerata tale solo quando è oggettivamente persecutoria, mentre onestà e buona fede vogliono che il lavoratore non pretenda nell’ambito del rapporto di lavoro una situazione più facile di quella normalmente sopportata nella vita quotidiana. Pertanto non possono essere considerate illecite condotte avvertite come lesive dal lavoratore solo nell’ambiente di lavoro oppure solo a causa della propria fragilità soggettiva nei rapporti interpersonali. L’azienda non deve essere un luogo di mortificazione, ma non può neppure diventare una casa di cura per lavoratori che sono o si atteggiano come delicati cristalli (15).

La riconduzione del mobbing a norme specifiche di disciplina del rapporto e/o al ricordato obbligo generale di tutela della persona del lavoratore ne impone la qualificazione come inadempimento contrattuale (16). Con tutte le conseguenze in tema di prescrizione (decennale), di contenuto e ripartizione degli oneri probatori (cfr. 2), di competenza del giudice del lavoro. Il mobbing discendente costituisce violazione di un obbligo di non fare (divieto) gravante sul datore di lavoro (17). Nel mobbing orizzontale o ascendente si verifica la violazione di un obbligo di fare da parte del datore di lavoro consistente nella doverosa protezione del lavoratore nei confronti della persecuzione, conosciuta o conoscibile, dei colleghi o dei sottoposti (18), a loro volta responsabili contrattualmente e disciplinarmente verso il datore di lavoro dissenziente (19) ed extracontrattualmente verso il mobbizzato (20).

La responsabilità contrattuale del datore di lavoro è sempre per fatto proprio, sia nel caso del mobbing discendente in cui la condotta dei superiori del mobbizzato è direttamente imputabile al datore di lavoro per effetto della organizzazione gerarchica e del relativo potere di rappresentanza, sia nel caso del mobbing orizzontale o ascendente, in cui l’obbligo di protezione grava proprio sul datore di lavoro. Non occorre, quindi, utilizzare le disposizioni degli artt. 1228 e 2049 c.c. o dell’art. 28 Cost. per affermare la responsabilità del datore di lavoro (21). Con la qualificazione civilistica può concorrere, a volte, una qualificazione penalistica (ad esempio maltrattamenti, lesioni, violenza privata, estorsione, ingiuria, diffamazione), ma questo non esclude la natura contrattuale dell’illecito civile. Anche le lesioni della persona possono rientrare, infatti, nella responsabilità contrattuale, quando la persona è coinvolta nell’esecuzione del contratto. Ovviamente il lavoratore è libero di non coltivare l’azione contrattuale, ma di far valere la responsabilità aquiliana da reato quale parte civile nel giudizio penale o autonomamente innanzi al giudice civile ordinario, sottoponendosi al relativo regime anche per la prescrizione (quinquennale, salvo quella più lunga del reato) e per gli oneri probatori, che qui investono anche l’elemento soggettivo. Non si può escludere neppure la proposizione congiunta delle due connesse azioni innanzi al giudice del lavoro, purché non si confondano i differenti regimi.

 

2. - Gli oneri probatori. — Dalla qualificazione del mobbing quale inadempimento contrattuale consegue la normale ripartizione degli oneri probatori prevista per le azioni fondate su un inadempimento. In proposito le Sezioni Unite (22) hanno stabilito che in tutti i tipi di azione (di adempimento, di risoluzione, di risarcimento) il creditore è tenuto soltanto a provare l’esistenza dell’obbligazione e a dedurre l’inadempimento del debitore, al quale spetta l’onere di provare l’adempimento o l’eventuale impossibilità di adempiere per cause a lui non imputabili. L’unica, ma importantissima, eccezione a questo regime riguarda le obbligazioni negative, dette anche di non fare o divieti, nelle quali l’inadempimento consiste in un fatto positivo compiuto appunto in violazione del divieto (art. 1222 c.c.). Qui è proprio la struttura dell’obbligazione, in base alla quale il diritto del creditore nasce soddisfatto e può essere leso solo dal successivo inadempiente agire del debitore, a capovolgere la conclusione, onerando il creditore dell’onere probatorio dell’altrui inadempimento, cioè del compimento dell’azione vietata da parte del debitore, altrimenti inammissibilmente costretto a fornire un alibi permanente.

Pertanto nel mobbing discendente, che consiste nella violazione di un divieto (cfr. par. 1), grava sul lavoratore dedurre e provare tale violazione ossia la persecuzione da parte del datore di lavoro e/o dei superiori gerarchici, come avviene per i divieti di discriminazione e di atti a motivo illecito (23).

Invece nel mobbing orizzontale o ascendente, dapprima il lavoratore deve provare la persecuzione da parte dei colleghi o dei sottoposti, che da un lato fonda la responsabilità extracontrattuale di costoro e dall’altro determina l’obbligo di intervento protettivo del datore di lavoro ove sia comprovata, altresì, la conoscenza o conoscibilità del mobbing in atto. Solo a questo punto scatta l’onere del datore di lavoro di dimostrare l’adempimento del proprio obbligo positivo di protezione del lavoratore mobbizzato (24).

 

3. - I rimedi. — I rimedi contro il mobbing sono gli stessi utilizzabili contro gli altri illeciti contrattuali del datore di lavoro lesivi della persona del lavoratore (ad esempio demansionamento, controlli vietati, trasferimento illegittimo, discriminazioni).

In proposito il dibattito dottrinale e l’elaborazione giurisprudenziale sono ricchissimi e non c’è nulla di nuovo da aggiungere sul piano dell’ordinamento vigente. Piuttosto l’enfatizzazione mediatica del mobbing sembra aver creato le condizioni per un intervento legislativo, che potrebbe investire anche i rimedi, ma allora opportunamente non solo per il mobbing (cfr. par. 4). Al momento la situazione è in sintesi la seguente:

a) l’azione di adempimento, eventualmente anticipata in via cautelare ove sussista un concreto periculum, è la sola in astratto idonea a garantire una tutela satisfattiva. Tuttavia incontra sia un limite di fatto nei rapporti non resistenti, per il timore del lavoratore di subire un licenziamento non rimuovibile se non con la difficile prova del motivo illecito di ritorsione, sia un generale limite giuridico per la nota incoercibilità degli obblighi di fare o non fare infungibili (25);

b) l’autotutela conservativa del rapporto può essere attuata mediante il rifiuto della prestazione non dovuta, come è anche quella da rendere in un’ambiente mortificante. Questa forma di autotutela è diversa dall’eccezione di inadempimento, in cui viene rifiutata la prestazione dovuta come reazione e in proporzione all’altrui inadempimento (26). L’autotutela conservativa è rischiosa, perché laddove non ne siano accertati i presupposti il lavoratore risulta inadempiente, con tutte le conseguenze risarcitorie e disciplinari fino al licenziamento. Anche per questo l’autotutela non è considerata doverosa, neppure nei rapporti resistenti (27);

c) l’autotutela estintiva, mediante dimissioni per giusta causa, è davvero utile solo laddove il lavoratore abbia facilità di reperimento di altra confacente occupazione, altrimenti per evitare un danno il lavoratore mobbizzato se ne procura un altro consistente nella perdita del posto, per il quale non può neppure chiedere un risarcimento derivante da fatto proprio, tutto riducendosi alla indennità ex art. 2119 c.c. (28);

d) l’azione risarcitoria è per definizione non satisfattiva, poiché presuppone l’avvenuta lesione del bene così riparata per equivalente. Una volta accertato l’illecito, secondo la ripartizione degli oneri probatori prima ricordata, il lavoratore deve provare il danno di cui chiede il risarcimento ed il nesso causale tra l’illecito e il danno, che ex art. 1223 c.c. deve esserne conseguenza immediata e diretta (29). La prova può essere fornita anche per presunzione, provvista dei requisiti di gravità, precisione e concordanza degli indizi in conformità alla disposizione dell’art. 2729 c.c. (30). Il diffuso orientamento che ricava presuntivamente la prova di alcuni danni dalla gravità dell’illecito (31) è opinabile, ma almeno esclude l’erronea tesi del danno in re ipsa e lascia spazio alle valutazioni del caso concreto nel contraddittorio tra le parti. La liquidazione equitativa del risarcimento ex art. 1226 c.c. presuppone l’avvenuta prova del danno e del nesso causale (32), anche se in molte motivazioni non è affatto limpida la distinzione tra i diversi passaggi logici, proprio a causa della rilevata connessione tra accertamento dell’illecito e presunzione anche quantitativa del danno. La diffusa modalità di esercizio del potere di liquidazione equitativa di alcuni danni mediante aggancio ad una quota della retribuzione mensile per tutta la durata dell’illecito (33) esprime, come ha bene avvertito Battista, un’esigenza di prevedibilità della decisione, che sarebbe meglio soddisfatta mediante l’introduzione di penali (cfr. par. 4). I danni risarcibili sono tutti quelli identificati nella elaborazione civilistica, che agli eventuali danni patrimoniali aggiunge i danni alla persona (34), come quello biologico, quello esistenziale, quello all’immagine e alla reputazione e, infine, anche quello morale soggettivo in caso di reato. Qui va ribadito almeno l’auspicio che la prova di ciascun danno sia seria e si evitino duplicazioni nella liquidazione del risarcimento (35). Per il danno patrimoniale e biologico opera l’assicurazione Inail, ormai estesa anche alle malattie non tabellate, per le quali è richiesta però la prova della eziologia lavorativa, ivi compreso il mobbing (36). In caso di indennizzo da parte dell’Inail il lavoratore può pretendere dal datore di lavoro il risarcimento dell’eventuale danno differenziale, patrimoniale e biologico, e del danno morale da reato (37).

 

4. - Considerazioni de iure condendo. — Le iniziative legislative sul mobbing all’esame del Parlamento (38) impongono di prendere posizione, distinguendo le proposte utili da quelle dannose.

a) No ad una nuova definizione del mobbing, che, per quel che si è detto (cfr. par. 1), sarebbe certamente peggiore di quella vigente, ricavabile dalla disposizione dell’art. 2087 c.c. ed incentrata non sulla condotta, inafferrabile nelle sue multiformi modalità e finalità, bensì sul bene protetto («integrità fisica» e «perso­nalità morale» del lavoratore).

b) No ad una incriminazione penale del mobbing, proprio in ragione della necessaria ampiezza della definizione, che contrasterebbe con il principio costituzionale di precisa predeterminazione della fattispecie incriminatrice (39). Del resto esistono già una serie di reati, nei quali ben possono essere ricomprese di volta in volta le peggiori condotte mobbizzanti (maltrattamenti, lesioni, violenza privata, estorsione, ingiuria, diffamazione). Mentre se l’obiettivo della incriminazione penale è la deterrenza, questo può essere meglio conseguito con le penali civilistiche di cui si dirà appresso.

c) No ad un intervento sulla ripartizione degli oneri probatori, che non può essere che quella derivante dai principi generali (cfr. par. 2).

d) No ad una disposizione di agevolazione dell’onere della prova del mobbing, sulla scia di quanto previ­sto in materia di discriminazioni. Queste ultime, infatti, impongono l’accertamento di una situazioe complessa implicante anche comparazioni e, soprattutto, la lesione anche indiretta del fattore protetto (40). Mentre per il mobbing l’accertamento riguarda fatti più semplici integranti la persecuzione, potendo risultare ardua solo la loro qualificazione, che però è problema di diritto e non di prova. Del resto se il mobbing coincide con una discriminazione vietata, si applicherà il regime probatorio di questa. Senza dire che le agevolazioni probatorie delle discriminazioni si riducono, nella sostanza, ad una mera propaganda per il convincimento mediante presunzioni (41), di cui, comunque, i giudici del lavoro fanno già ampiamente uso in tutti i campi, compreso il mobbing, in applicazione del disposto dell’art. 2729 c.c.

e) No all’introduzione di uno speciale procedimento sommario non cautelare per la repressione del mobbing sul modello di quello previsto per la repressione della condotta antisindacale, poiché allora, per coerenza costituzionalmente imposta (artt. 3 e 24 Cost.), occorrerebbe introdurre un analogo procedimento per tutti gli illeciti del datore di lavoro potenzialmente lesivi della persona del lavoratore, cioè tendenzialmente per tutte le controversie di lavoro ad eccezione di quelle relative ad una retribuzione non alimentare. Il che finirebbe per ritardare anche questo procedimento speciale, restando solo una pericolosa generalizzazione dell’accertamento sommario.

f) Sì all’istituzione, opportunamente caldeggiata da Battista, di comitati paritetici tra r.s.a. o r.s.u. e rappresentanti aziendali, presieduti da un membro esterno affidabile, con il compito di monitorare e prevenire (42) gli illeciti di durata pregiudizievoli della persona del lavoratore, ivi compreso il mobbing, di raccogliere le denunzie dei lavoratori che si ritengono lesi e di istruirle immediatamente, mediante la stesura di verbali che nell’eventuale successivo giudizio, pur non potendo certo sostituire le prove tipiche, possono essere molto utili ai legali per la formulazione dei capitoli di prova testimoniale ed al giudice come fatti indizianti per la costruzione di una presunzione, oltre che per la verifica della attendibilità dei testi.

g) Sì all’introduzione, per tutti gli illeciti di durata pregiudizievoli della persona del lavoratore, ivi compreso il mobbing, di una penale patrimoniale come tale sganciata da un danno da riparare e proporzionata alla permanenza dell’illecito, con la predeterminazione di un importo giornaliero minimo e massimo parame­rato a quote della retribuzione, lasciando al giudice il compito di individuare, entro questi margini invalicabili, l’importo in concreto dovuto in base alle circostanze del caso concreto (43). Detta penale deve assorbire, ovviamente, fino a concorrenza ogni risarcimento, con benefico effetto di certezza, anche perché il giudice che liquida la penale pretenderà una prova assai rigorosa dell’eventuale maggior danno da risarcire, mentre ora è spesso costretto ad accontentarsi di labili presunzioni per poter liquidare un qualche risarcimento (44). Il sistema ne guadagnerà molto in limpidità, poiché la penale, che ha funzione punitiva compulsoria e non riparatoria, spetta indipendentemente dalla prova di un danno, non più da ricercare spasmodicamente con opinabili acrobazie (45).

h) Sì all’applicazione della penale, maggiorata negli importi, anche per il periodo successivo alla condanna ad adempiere, in funzione promozionale di una esecuzione incoercibile. A tal fine occorre prevedere la competenza del medesimo giudice che ha emanato il provvedimento asseritamente ineseguito a conoscere delle vicende del rapporto successive a tale provvedimento per l’eventuale applicazione dell’astreinte e per la sua cessazione in caso di ottemperanza o per altri motivi. Ovviamente sia la penale per il periodo precedente la sentenza, sia l’astreinte per il periodo successivo non sono più dovute e, se già pagate, sono ripetibili in caso di riforma della sentenza accertativa dell’illecito.

i) Sì all’introduzione nei rapporti resistenti, nel corso dei quali già ora decorre la prescrizione ed il lavoratore agisce normalmente in giudizio, di un breve termine di decadenza (ad esempio tre mesi) entro il quale, salvo una incapacità assoluta, il lavoratore deve denunziare l’illecito permanente, ivi compreso il mobbing, al comitato paritetico o introdurre il giudizio se vuole far valere il diritto alla penale (46). Altrimenti per il periodo di asserito illecito per il quale si sia verificata tale decadenza opera il normale regime risarcitorio, nell’ambito del quale, però, il giudice prudente esigerà, a differenza di ora, una prova rigorosissima dell’eventuale danno. Resta salvo, ovviamente, il regime della penale per il periodo di illecito tempestivamente denunziato.

l) Sì all’introduzione di un arbitrato irrituale non obbligatorio che le parti possono concordemente di volta in volta utilizzare in alternativa alla giustizia statale, con lodo espressamente dichiarato non impugnabile per violazione di norme inderogabili di legge o di contratto collettivo (47).

 

Antonio Vallebona
Professore ordinario di diritto del lavoro Università di Roma «Tor Vergata»

 

Note

(1) Tra gli Autori italiani, cfr. S. AGRIFOGLIO, Il mobbing nel pubblico impiego, in Il mobbing, a cura di P. Tosi, Atti del Convegno Cesifin di Firenze del 16 maggio 2003, Torino 2004; F. AMATO, V. CASCIANO, L. LAZZERONI, A. LOFFREDO, Il mobbing. Aspetti lavoristici: Nozione, responsabilità, tutele, Milano 2003; L. BATTISTA, Persona, lavoro e mobbing, Roma, 2005; F. CARINCI, Un fantasma si aggira tra le aule giudiziarie: il mobbing, in Il mobbing, a cura di P. Tosi, cit.; M. C. CIMAGLIA, Riflessioni su mobbing e danno esistenziale, in «Riv. giur. lav.», 2002, II, 88; R. DEL PUNTA, Il mobbing: l’illecito e il danno, in Il mobbing, a cura di P. Tosi, cit.; S. MAZZAMUTO, Il mobbing, Milano 2004; M. MEUCCI, Considerazioni sul mobbing. in «Lav. prev. oggi» 1999, 1953; M. MISCIONE, Mobbing, norma giurisprudenziale (la responsabilità da persecuzione nei luoghi di lavoro), in «Lav. giur.» 2003, n. 4, 305; P. G. MONATERI, M. BONA, V. OLIVA, Mobbing, vessazioni sul lavoro, Milano 2000; P. G. MONATERI, I paradossi del mobbing, in Il mobbing, a cura di P. Tosi, cit.; R. NUNIN, Mobbing: onere della prova e risarcimento del danno, in «Lav. giur.» 2000, 835; G. PERA, Angherie e inurbanità negli ambienti di lavoro, in «Riv. it. dir. lav.», 2001, I, 291; R. SCOGNAMIGLIO, A proposito del mobbing, ibidem 2004, I, 489; P. TOSI, Il mobbing, una fattispecie in cerca di autore, in Il mobbing, a cura di P. Tosi, cit.; P. TULLINI, Mobbing e rapporto di lavoro. Una fattispecie emergente di danno alla persona, in «Riv. it. dir. lav.», 2000, I, 251; A. VISCOMI, Il mobbing: alcune questioni su fattispecie ed effetti, in «Lav. dir.» 2002, 45; C. ZOLI, Il mobbing: brevi osservazioni in tema di fattispecie ed effetti, in «Lav. giur.» 2003, 339.

(2) Sulle cui origini, cfr. R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 490-491 ed ivi citazioni.

(3) Per questa tripartizione del fenomeno, cfr. S. MAZZAMUTO, op. cit., 6; R. DEL PUNTA, op. cit., 72; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 501. Solo per il mobbing discendente può essere condivisa l’osservazione secondo cui una della sue cause è la limitazione del potere di licenziamento (S.MAZZAMUTO, op. cit., 5; S. AGRIFOGLIO, op. cit., 142).

(4) Per la disamina della questione, cfr. P. TULLINI, op. cit., 256 ss.; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 503-505.

(5) In senso conforme L. BATTISTA, op. cit., 91-92; S. MAZZAMUTO, op. cit., 57; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 496, 500, 506-507. Contra R. DEL PUNTA, op. cit., 70 e G. PERA, op. cit., 295, i quali ritengono sufficiente anche un singolo episodio.

(6) TOSI P. op. cit., 187. Cfr., anche, S. AGRIFOGLIO, op. cit., 158-161, secondo cui nel lavoro pubblico privatizzato la scomparsa delle posizioni di interesse legittimo e della relativa tutela che copriva qualsiasi atto dell’amministrazione nei confronti del dipendente avrebbe indotto la proposizione di doglianze analoghe sub specie di mobbing.

(7) Per la riconduzione del mobbing alla violazione di questa norma fondamentale, cfr. G. PERA, op. cit., 297, secondo cui, condivisibilmente, «il principio del rispetto della personalità morale del lavoratore posto nell’art. 2087 c.c. è sufficiente a reggere tutto»; F. CARINCI, op. cit., 93; L. BATTISTA, op. cit., 2; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 500-501; S. MAZZAMUTO, op. cit., 53; R. DEL PUNTA, op. cit., 68-69. (8) R. DEL PUNTA, op. cit., 69.

(9) La problematica delle clausole generali è opportunamente richiamata a proposito del mobbing da P. TOSI, op. cit., 180-181.

(10) A. VALLEBONA, Clausole generali e controllo della Cassazione, in «Dir. lav.» 2004, I, 19.

(11) Come quella di S. MAZZAMUTO, op. cit., 24-37, che pure non trascura la disposizione espressa dall’art. 2087 c.c. (pag. 53). (12) Cass. S.U. 17 maggio 1996 n. 4570, in «Foro it.», 1996, I, 1989.

(13) Cass. S.U. 29 maggio 1993 n. 6030, in «Foro it.», 1993, I, 1794.

(14) VALLEBONA A., L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova 1988, 129 e ss., 137 e ss.

(15) L’esigenza di porre un limite oggettivo alla configurabilità di una condotta come persecutoria è generalmente avvertito. E così: P. TOSI, op. cit., 179-180, osserva che esula dall’illecito la mera «insofferenza soggettiva» del lavoratore, rilevando la «sensibilità media dell’uomo comune»; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 505, esclude dal mobbing le «situazioni di malessere o disagio, riferibili esclusivamente alla sfera delle condizioni e delle componenti caratteriali del lavoratore»; G. PERA, op. cit., 300, osserva che «l’abuso di posizione dominante va represso. Ma non la dialettica che è nelle cose, in quel sano conflitto che è la molla del progresso nel senso dell’utile sociale»; R. DEL PUNTA, op. cit., 71-72, rileva «il rischio molto grave della dilatazione incontrollata della fattispecie. Non si può evidentemente pensare che qualsiasi screzio, o inurbanità, o scortesia, o persino qualsiasi maleducazione o offesa, vengano attratte nell’imbuto cieco di una ipertrofia delle tutele risarcitorie. È opportuno riservare la valutazione di illiceità alle situazioni più gravi di patologia dell’organizzazione, al netto delle ipersensibilità soggettive»; S. AGRIFOGLIO, op. cit., 161 e ss., osserva che non esiste un diritto alla felicità, tanto meno nel rapporto di lavoro, sicché non può essere risarcito qualsiasi disagio esistenziale, richiamando i caustici rilievi di GAZZONI (cfr. infra nota 45) e di ROPPO; Tar Lazio, sez. III ter, 11 luglio 2005 n. 5454, in «Giur. lav.» 2005, n. 30, 28, nega un «diritto del lavoratore ad operare in un ambiente professionale asettico, irenico o, comunque, cordiale, al più potendosi pretendere comportamenti di buona fede da tutte le parti del rapporto di lavoro, indipendentemente, quindi, dai dati caratteriali dei singoli attori di quest’ultimo». (16) Cfr. S. MAZZAMUTO, op. cit., 49-53; R. DEL PUNTA, op. cit., 68; F. CARINCI, op. cit., 93; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 500-501, ma solo per il mobbing discendente. Contra P. G. MONATERI, op. cit., 84-85, e P. TOSI, op. cit., 171-172, che parlano di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.

(17) Per la ricostruzione dei limiti ai poteri del datore di lavoro come obblighi di fare o non fare, con il conseguente concorso dell’azione di invalidità con l’azione risarcitoria, cfr. A. VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova 1995, 54. Con specifico riferimento al mobbing, R. DEL PUNTA, op. cit., 69, parla di «implicito divieto legislativo» insito nella disposizione dell’art. 2087 c.c.

(18) G. PERA, op. cit., 297, rileva l’obbligo del datore di lavoro di procedere disciplinarmente contro i responsabili; R. DEL PUNTA, op. cit., 72-73, esclude una responsabilità oggettiva e un dovere di vigilanza onnipervasiva.

(19) S. MAZZAMUTO, op. cit., 60.

(20) R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 501.

(21) Contra S. MAZZAMUTO, op. cit., 57-60; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 501, per il mobbing orizzontale o ascendente. (22) Cass. S.U. 30 ottobre 2001 n. 13533, in «Foro it.», 2002, I, 769.

(23) A. VALLEBONA, Gli oneri di allegazione e di prova nelle azioni fondate sull’inadempimento del datore di lavoro, in «Dir. lav.» 2002, I, 251; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 507-508; L. BATTISTA, op. cit., 123; S. MAZZAMUTO, op. cit., 70-77, ma con un complesso ragionamento diritto a superare una distorta lettura della sentenza delle Sezioni Unite.

(24) A. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, vol. I, Il rapporto di lavoro, Padova 2005, 224.

(25) A. VALLEBONA, Tutele, cit. 9 e ss., 46 e ss.; Cass. 12 maggio 2004, n. 9031, in «Foro it.» 2004, I, 2033; Cass. 4 settembre 1990, n. 9125, in «Giur. lav. - Mass.» 1990, 599; Cass. 19 febbraio 1990, n. 1205, in «Foro it.» 1991, I, 884; Cass. S.U. 13 aprile 1988, n. 2925, ibidem 1988, I, 1493; Cass. S.U. 13 febbraio 1984, n. 1073, in questa rivista 1984, 8; Cass. S.U. 15 marzo 1982, n. 1669, in «Foro it.» 1982, I, 985.

(26) A. VALLEBONA, Tutele, cit., 126 e ss. Invece alcune pronunzie confondono il rifiuto della prestazione non dovuta con l’eccezione di inadempimento: Cass. 1º marzo 2001, n. 2948, in «Foro it.» 2001, I, 1869; Cass. 19 agosto 2003, n. 12161, in «Riv. it. dir. lav.» 2004, II, 378; Cass. 23 dicembre 2003, n. 19689, in «Foro it.» 2004, I, 1111.

(27) A. VALLEBONA, Tutele, cit., 138 e ss.

(28) A. VALLEBONA, Dimissioni per giusta causa e pregiudizi da perdita dell’occupazione, in questa rivista 1998, 687; Cass. 7 novembre 2001, n. 13782, in «Riv. it. dir. lav.» 2002, II, 591. Contra R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 514; Cass. 2 febbraio 1998, n. 1021, in questa rivi­sta 1998, 687.

(29) A. VALLEBONA, Tutele, cit., 102 e ss.; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 515; G. PERA, op. cit., 294, esige una prova rigorosa, poiché «t­lora la vittima è un furbo matricolato che dissimula». Per il danno da demansionamento, cfr. Cass. 28 maggio 2004, n. 10361, in questa rivista 2004, 719; Cass. 4 giugno 2003, n. 8904, in «Giur. lav.» 2003, n. 27, 30; Cass. 4 febbraio 1997, n. 1026, in questa rivista 1997, «Massime Cass.» 22; Cass. 18 aprile 1996, n. 3686, in «Dir. prat. lav.» 1996, 3043; Cass. 26 gennaio 1993, n. 931, in «Riv. it. dir. lav.» 1994, II, 149; Cass. 15 agosto 1991, n. 8835, ibidem 1992, II, 954. Per il danno da inadempimento dell’obbligo di sicurezza, cfr. Cass. S.U. 17 giugno 2004, n. 11353, in questa rivista 2004, 738; Cass. 26 giugno 2004, n. 11932, ibidem 2004, 722; Cass. 1º giugno 2004, n. 10510, ibidem 2004, 719; Cass. 26 ottobre 2002 n. 15133, in «Foro it.» 2003, I, 505; Cass. 7 ottobre 2002, n. 14323, in «Riv. it. dir. lav.» 2003, II, 266, Cass. 5 febbraio 2000 n. 1307, in questa rivista 2000, 1169; Cass. 21 dicembre 1998, n. 12763, ibidem 1999, 287.

(30) R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 515; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2354, in «Giur. lav.» 2004, n. 15, 33; Cass. 8 novembre 2003, n. 16792, in «Riv. it. dir. lav.» 204, II, 334; Cass. 14 maggio 2002, n. 6992, ibidem 2003, II, 326; Cass. 14 novembre 2001, n. 14199, in questa rivista 2002, 30.

(31) Cass. 13 ottobre 2004, n. 2024, in «Giur. lav.» 2004, n. 49, 25; Cass. 29 aprile 2004 n. 8271, in questa rivista 2004, 618; Cass. 1º giugno 2002, n. 7967, ibidem 2002, 604; Cass. 2 novembre 2001, n. 13580, ibidem 2002, 29; Cass. 20 gennaio 2001, n. 835, ibidem 2001, 1014.

(32) R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 516; A. VALLEBONA, Tutele, cit. 106.

(33) Cfr. le sentenze citate in nota 31. F. GAZZONI, Dall’economia del dolore all’economia dell’infelicità, in «Arg. dir. lav.» 2003, 422­423, critica, con riferimento al danno esistenziale, questa parametrazione equitativa, che introduce una discriminazione in ragione della ricchezza per una infelicità uguale per tutti.

(34) S. MAZZAMUTO, op. cit., 65, afferma condivisibilmente la risarcibilità di danni non patrimoniali da responsabilità contrattuale, se l’obbligazione investe anche interessi non patrimoniali; P. TOSI, op. cit., 176, rileva che dal mobbing può derivare qualsiasi tipo di danno. (35) R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 512; DEL PUNTA, op. cit., 75.

(36) Per l’estensione dell’assicurazione Inail alle malattie non tabellate a condizione della prova in concreto della eziologia professionale, cfr. Corte cost. 18 febbraio 1988, n. 179, in «Foro it.» 1988, I, 1031. Per l’annullamento della circolare Inail n. 71 del 2003, che di fatto aveva inserito, senza il dovuto procedimento, tra le malattie tabellate anche quelle psichiche da mobbing, cfr. Tar Lazio, sez. III ter, 11 luglio 2005 n. 5454, in «Giur. lav.» 2005, n. 30, 28.

(37) Corte cost. 17 febbraio 1994, n. 37, in «Foro it.» 1994, I, 1326; Cass. 15 aprile 1996 n. 3516, in «Dir. prev. lav.» 1996, 2964; Cass. 28 gennaio 1997 n. 859, in questa rivista 1997, «Massime Cass.», 21; Cass. 13 settembre 1997 n. 9136, ibidem 1997, «Massime Cass.», 76; Cass. 10 novembre 2000 n. 14638, in «Foro it.» 2001, I, 2308.

(38) Sulla competenza esclusiva del legislatore nazionale a proposito della disciplina del mobbing, in quanto ricompresa nell’ «ordinamento civile», con conseguente dichiarazione di incostituzionalità della legge della regione Lazio n. 16 del 2002, cfr. Corte cost. 19 dicembre 2003, n. 359, in «Foro it.» 2004, I, 1692.

(39) R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 509; S. MAZZAMUTO, op. cit., 22.

(40) Questa differenza tra le discriminazioni e il mobbing è sottolineata da F. CARINCI, op. cit., 96.

(41) A. VALLEBONA, Istituzioni, cit., vol. I, 266-267, rileva che solo per le discriminazioni in ragione del sesso è consentito il convincimento semipieno in presenza di indizi non gravi, con conseguente interesse del datore di lavoro di ribaltare tale convincimento anche con indizi dello stesso livello; P. TOSI, op. cit., 177, parla di parziale inversione dell’onere probatorio.

(42) Sull’importanza della prevenzione, cfr. R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 516-518.

(43) A. VALLEBONA, Tutele, cit., 106-107; ID., Il danno da dequalificazione tra presunzione e risarcimento equitativo, in questa rivista 2001, 1016; ID., Prospettive di disciplina legislativa del danno alla persona del lavoratore, in Atti delle giornate di studio Aidlass di Foggia - Baia delle Zagare del 2001, Milano 2002, 439; G. PERA, op. cit., 298; F. GAZZONI, op. cit., 401, 410, 423, rileva che il risarcimento del danno esistenziale non ha funzione compensativa, ma solo satisfattiva-sanzionatoria analoga a quella della penale. (44) DEL PUNTA, op. cit., 78, osserva che in tal modo la funzione del risarcimento tende a trasformarsi da riparatoria in punitiva. In proposito, cfr. già A. VALLEBONA, Tutele, cit., 106; ID., Il danno, cit., 1016.

(45) Sulle quali, cfr. F. GAZZONI, op. cit., 397 e ss., che ne individua la ragione profonda nel modello edonistico della ricerca della felicità a tutti i costi disgiunta dalla virtù (427-429).

(46) F. CARINCI, op. cit., 93-94, avverte questa esigenza di reazione tempestiva, affermando la irrisarcibilità del danno evitabile con la ordinaria diligenza ex art. 1227, co. 2, c.c. In generale, per la medesima esigenza, cfr. A. VALLEBONA, L’incertezza del diritto del lavoro e i necessari rimedi, in «Riv. it. dir. lav.» 2004, I, 22.

(47) A. VALLEBONA, L’impugnazione del lodo arbitrale irrituale in materia di lavoro, in «Arg. dir. lav.» 2001, 77.

 

(fonte: Mass. giur. lav. – rivista della Confindustria – Il sole-24 ore - n. 1-2/2006 p. 8 e ss.)

 

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P.S. - Per una replica alle argomentazioni in tema di oneri probatori - di cui all'articolo  di Vallebona sopra riportato - vedi in nostro "Gli oneri probatori per demansionamento e mobbing" al link: http://dirittolavoro.altervista.org/oneriprobatori_demansionamento_mobbing.html . Per una replica alle opinioni di Scognamiglio ostili al danno esistenziale si rinvia al nostro: "Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro", al link:http://dirittolavoro.altervista.org/danno_esistenziale_rapporto_lavoro.pdf .

 

Roma 31 gennaio 2006

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