Suicidi tra responsabilità di incapacità gestionali e bossing strategico

 

L'azienda dei suicidi che sconvolge la Francia

di MICHELA MARZANO

 

Sono ormai ventiquattro i suicidi a France Télécom. Ventiquattro in diciotto mesi, l'ultimo dei quali il 28 settembre. Un macabro bilancio per un'azienda che, appena una decina di anni fa, prometteva mare e monti ai propri lavoratori. Ma anche un vero e proprio trauma per tutto un Paese che non riesce a capire come sia possibile morire a causa del proprio lavoro. Tanto più che il dramma di France Télécom non è affatto un caso isolato. Anche se le statistiche non sono ufficiali, sarebbero in media 400 l'anno i lavoratori che, in Francia, si danno la morte sul luogo di lavoro. Perché suicidarsi? E perché farlo proprio sul luogo di lavoro?

Le dichiarazioni rilasciate dagli amministratori delegati delle aziende colpite da questo flagello non soddisfano più nessuno. Come pensare ancora che si tratti solo di persone particolarmente fragili e piene di problemi personali, la cui morte non ha un legame diretto con quello che possono vivere al lavoro? Non è più un segreto per nessuno: coloro che soffrono a causa del proprio lavoro sono sempre più numerosi. Anche se le condizioni lavorative non hanno niente a che vedere con quelle del Diciannovesimo secolo, il nuovo management crea un malessere psicofisico (dal semplice stress al burning out, passando per la depressione) che svuota progressivamente gli individui.

Perché non interrogarsi allora una buona volta sulle reali conseguenze di questo management contemporaneo che, arrivato in Europa negli anni Ottanta, esorta gli individui a credere che esista un legame di causa-effetto tra la realizzazione professionale e il benessere personale, come affermano i codici etici di alcune aziende?

Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, i metodi di management adottati per il buon funzionamento delle aziende si irrigidiscono. Le decisioni di riassetto, declassamento, accantonamento o licenziamento si moltiplicano, mentre coloro che conservano il posto di lavoro vengono sottoposti a oneri sempre più impegnativi. Le scadenze si ravvicinano. Le valutazioni si moltiplicano. Le analisi dei risultati si intensificano. Al tempo stesso, il linguaggio evolve e spinge i lavoratori a un coinvolgimento personale sempre più grande. Qualunque sia il settore di attività, si sente sempre più parlare di «autonomia» e «responsabilità». L'azienda cambia look e ostentala volontà di farsi carico della piena realizzazione dei suoi dipendenti: ognuno deve sentirsi libero di agire come vuole, di portare alla propria azienda idee nuove e di trovare al suo interno il proprio benessere. Consegnati alla loro creatività e alla loro inventiva; i lavoratori – si sostiene – devono saper creare le condizioni del loro successo. Prendendo atto delle competenze di cui dispongono, devono essere polivalenti e flessibili. Mostrando di avere fiducia in se stessi, devono essere in grado di superare ogni difficoltà.

Al tempo stesso, però, gli obiettivi da raggiungere restano fissati dalla direzione, e i margini di manovra di cui dispone il lavoratore sono sempre più ristretti. La competizione e la globalizzazione non transigono: chi non si adatta non sopravvive. Come illustra l'americano Stephen Covey, autorevole consulente aziendale, «la nuova era esige la grandeur, pretende che ognuno abbia la certezza di realizzarsi lavorando con passione e che sia pronto a pagare in prima persona». Per dirla più semplicemente, ognuno di noi deve ormai credere alla propria mission. Tutto dipende da noi. Basta volerlo. Anche se, in questa corsa forsennata verso il successo, si deve essere pronti al sacrificio estremo: pagare in prima persona.

Non è forse quello che sta accadendo proprio oggi? Se tutto dipende dalla propria volontà, quando qualcosa va storto o si commette un errore si pensa di trovarsi di fronte alla prova irrefutabile che non si è stati all'altezza delle aspettative. In un universo in cui ognuno può (e deve) diventare «imprenditore della propria vita», la mutazione forzata viene vissuta come una sanzione alla propria mancanza di impegno. A forza di pretendere che i lavoratori siano «autonomi» e «responsabili» senza dar loro i mezzi per diventarlo realmente, il risultato più efficace che si ottiene è quello di colpevolizzarli. È il loro «saper essere»che è direttamente in causa e non più solo il caro e vecchio «saper fare». Errori, sviste, stanchezza… tutto diventa inaccettabile; tutto rinvia all'incapacità del singolo di adattarsi alle esigenze del Mercato. È allora che il senso di colpa aumenta e, talvolta, diventa insopportabile. Per non parlare poi di quanto sta succedendo in questi ultimi mesi, a causa della crisi economica. Ormai i licenziamenti e le mutazioni forzate sono il pane quotidiano di molte aziende. Per alcune si tratta di una necessità. Ma, per i lavoratori, questa necessità si trasforma in un incubo. Come sopportare una mutazione forzata o un licenziamento quando ci si è dati corpo e anima alla propria azienda? Come accettare il fatto di non essere più «utili» all'azienda, quando si è sempre stati pronti a lavorare con «passione», fino al limite estremo della propria resistenza fisica e psichica?

Le inchieste in corso mostrano che molte delle persone che si sono suicidate in questi ultimi mesi erano lavoratori particolarmente impegnati e meticolosi e non individui depressi, fragili e incapaci di adattarsi alle trasformazioni delle aziende. Tutto il contrario, quindi, di quello che si sarebbe potuto pensare. Tutto il contrario, soprattutto, di quello che alcuni dirigenti non smettono di ripetere. Ma i fatti parlano chiaro: le vittime erano impiegati modello, che avevano assunto un certo numero di responsabilità, che non avevano mai esitato a lavorare più del dovuto, senza riposarsi e senza prendere tutte le ferie a loro disposizione. Erano persone che avevano talmente aderito alla «cultura manageriale» delle proprie aziende da non rendersi nemmeno più conto che la propria vita dipendeva dal proprio lavoro e dalle soddisfazioni che potevano trarne. Ma, a partire dal momento in cui tutto dipende dal lavoro, le difficoltà lavorative che si possono incontrare (e che tutti, prima o poi, incontriamo) diventano ostacoli insormontabili. Dopo essersi dati a fondo sul lavoro, come uscire indenni da un declassamento o un licenziamento?

Il management contemporaneo ha fatto di tutto perché l'uomo diventasse la principale fonte degli utili della produttività. È forse venuto il momento di riconoscere che mettere l'uomo al centro delle preoccupazioni dell'azienda non significa ridurlo a una semplice «risorsa umana».

 

(fonte: la repubblica, 1/10/2009, p.1-42)

 

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GIAMPIERO MARTlNOTTl

PARIGI

Un palazzo anti-suicidi, un posto di lavoro con finestre chiuse e parapetti alti, come se bastassero pochi accorgimenti tecnici per mettere fine a un disastro sociale con pochi precedenti. A prima vista, la notizia che France Télécom occuperà da gennaio quell'immobile potrebbe sembrare farsesca, se non s'inserisse in un contesto tragico: ventiquattro suicidi in appena diciotto mesi, decine di migliaia di dipendenti in stato di shock, un management sotto accusa per aver trasformato un'azienda gloriosa in una fabbrica di depressi comandati a bacchetta. La sinistra chiede le dimissioni del presidente e amministratore delegato, Didier Lombard, ma lo Stato, primo azionista della società, forse si limiterà a chiedere la testa del suo vice.

Il palazzo di Saint-Denis, alle porte della capitale, dove in gennaio andranno a lavorare duemila dipendenti dell'operatore telefonico, è diventato cosi il simbolo di un'azienda terrorizzata: finestre chiuse, terrazze e passerelle inaccessibili, parapetti rialzati. La paura paralizza un po' tutti: negli ultimi tempi si è visto un dirigente pugnalarsi davanti ai suoi colleghi durante una riunione, una giovane donna si è lanciata giù dalla finestra del suo ufficio al quarto piano. E chi tra i suicidi ha lasciato qualche spiegazione ha implacabilmente accusato France Télécom, i suoi dirigenti e i loro metodi brutali.

Il messaggio inviato al padre via mail da Stéphanie, 32 anni, è terribile: «Il mio capo non lo sa, ovviamente, ma sarò la ventitreesima dipendente a suicidarmi. Non accetto la nuova riorganizzazione del servizio. Cambio di capo e per avere quel che avrò preferisco morire. Lascio in ufficio la borsa con le chiavi e il telefonino. Porto con me la mia carta di donatrice di organi, non si sa mai. Mi dispiace che tu riceva un messaggio di questo genere, ma sono più che persa. Ti voglio bene, papà». Pochi minuti dopo la ragazza si è buttata dalla finestra del suo ufficio.

Lunedì, a Annecy, un altro dipendente si è lanciato giù da un viadotto. Nella lettera alla moglie si è detto disperato per le condizioni di lavoro. Lombard, arrivato sul posto, ha dovuto affrontare la collera di trecento dipendenti. France Télécom ha deciso di bloccare la mobilità interna dei dipendenti, considerata una delle radici dello stress. Ma si tratta solo di un elemento. Un li-bro appena uscito (Orange stressé, di Ivan du Roy, che si riferisce al marchio commerciale della società e gioca sull'assonanza con l'arancia spremuta) punta il dito contro metodi che hanno un solo obiettivo: spaventare il personale per spingerlo ad andarsene. Ieri sotto tiro c'era soprattutto Louis-Pierre Wenes, il numero due del gruppo, l'uomo incaricato di tagliare i costi: «Una volta ci ha detto: sottomissione o dimissioni», racconta una sindacalista.

Il malessere va però al di là dei metodi di un uomo. France Télécom è passata dal mondo ovattato di una società pubblica monopolista a quella di un'a-zienda costretta a battersi in uno dei settori più concorrenziali di oggi. La transizione era oggettivamente difficile e nessuno dei dirigenti che si sono susseguiti negli ultimi dodici anni ha saputo guardare al di là del rosso e nero dei conti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con la paura che la lunga lista dei suicidi possa ancora allungarsi.

 

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