MOBBING
NEL PUBBLICO IMPIEGO
E DANNO ESISTENZIALE
Tribunale di
Tempio Pausania (sez. lav. 1° grado) – 10 luglio 2003 – Giud. Ponassi – Fideli
Angela Natalia (avv. Mastino) c. Comune di Loiri Porto San Paolo (avv. Arasa).
Mobbing da demansionamento, persecuzione disciplinare, impedimento
al conseguimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza, isolamento
logistico dai colleghi e da comportamento vessatorio posto in essere dal
Sindaco (con abuso di autorità) a carico di un agente femmina, protrattosi per
18 mesi – Risarcimento sia del danno patrimoniale, correlato alla perdita di
indennità connesse alle mansioni sottratte sia del danno esistenziale (per
demansionamento, perdita di immagine,
vessazioni, sofferenze da ambiente
ostile, ecc.) - Spettanza.
- La
nozione di mobbing, come noto, trae origine dall'elaborazione della sociologia
e psicologia del lavoro. Tra gli studiosi di maggior rilievo internazionale, si
ricorda Leymann e la sua definizione di mobbing come quella forma “di
comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno o più
individui (mobber o gruppo di mobber) verso un altro individuo (mobbizzato) che
si viene a trovare in una posizione di mancata difesa”; mentre, citando uno
studioso italiano, va ricordata la definizione di Ege, secondo cui
costituirebbe mobbing “un processo di comunicazioni e di azioni conflittuali
tra colleghi o tra superiori in cui la persona attaccata è messa in una
posizione di debolezza e mancanza di difese, aggredita direttamente e
indirettamente, da una o più persone con aggressioni sistematiche, frequenti e
protratte nel tempo il cui fine consiste nell'estromissione, reale o virtuale,
della vittima dal luogo di lavoro.”
- In ogni
caso, l'elemento evidenziato è quello dell'aggressione psicologica in campo
lavorativo, protratta per un lasso di tempo significativo (si è parlato, da
parte di alcuni studiosi, di un periodo minimo di sei mesi) che produce, sulla
vittima, uno stato di profondo disagio (nonché, talvolta, la compromissione
dello stato di salute, con sintomi analoghi a quelli del disturbo postraumatico
da stress) ed, in ogni caso, una lesione della sua personalità morale.
- Pur non
potendosi qui ripercorrere i vari orientamenti consolidatisi nel tempo, ciò che
va, riassuntivamente rilevato è che le fonti della responsabilità del datore di
lavoro sono state individuate sia nel generale obbligo del neminem laedere,
espresso dall'art. 2043 c.c., la cui violazione è fonte di responsabilità
extracontrattuale, sia nel più specifico obbligo di protezione dell'integrità
psico-fisica del lavoratore sancito dall'art. 2087 c.c. ad integrazione, ex
lege, delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, la cui violazione è
fonte di responsabilità contrattuale.
- Si è,
inoltre, rilevato che l'art. 2087 c.c., obbligando il datore di lavoro a
tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro, si presta a tutelare
il lavoratore anche da tutta una serie di pregiudizi, conseguenti all'attività
mobbizzante, ulteriori rispetto alle tradizionali voci del danno patrimoniale e
del danno biologico (si pensi, ad esempio, al danno da demansionamento).
- Come
noto, la giurisprudenza ha da tempo superato la ripartizione del danno non
patrimoniale nelle categorie del danno biologico e del danno morale, elaborando
la categoria del danno esistenziale che comprende qualsiasi danno che
l'individuo subisce alle attività realizzatrici della propria persona (Cass.
7713/00). Vanno richiamate, a questo riguardo, le recenti sentenze della S.C.
(8827/03 e 8828/03) con le quali si afferma che la tradizionale restrittiva
lettura dell'art. 2059 c.c., in relazione all'art. 185 c.p., come diretto ad
assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza
contingente, al turbamento dell'animo transeunte determinati da fatto illecito
integrante reato, non può essere ulteriormente condivisa. In tali sentenze si
afferma, infatti, che deve intendersi ormai acquisito all'ordinamento positivo
il riconoscimento della lata estensione della nozione di danno non patrimoniale
inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona e non più solo
come danno morale soggettivo.
- Analogamente,
la Corte Costituzionale (n. 233/03) ha affermato che può dirsi ormai superata
la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale
riguardato dall'art. 2059 c.c. si identificherebbe con il cosiddetto danno
morale soggettivo e – richiamando anch'essa le sentenze della Suprema Corte
sopra indicate (n. 8827/03 e 8828/03) rileva che è stato ricondotto a
razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno
alla persona, con la prospettazione di un'interpretazione costituzionalmente
orientata dall'art. 2059 c.c., tesa a ricomprendere nell'astratta
previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da
lesione di valori inerenti alla persona: dunque sia il danno morale soggettivo,
inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima, sia il
danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse,
costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona,
sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come
esistenziale) derivante dalla lesione di altri interessi di rango
costituzionale inerenti alla persona.
- Sulla
base di tali principi, non v'ha dubbio che nel caso di condotta persecutoria
rientrante nella nozione di mobbing, al lavoratore che provi il nesso causale
tra detta condotta ed una serie di conseguenze pregiudizievoli a lui occorse
(quali, ad esempio, oltre al danno patrimoniale ed al danno biologico, il danno
all'immagine, il danno da demansionamento, le sofferenze per le mortificazioni
subite e, più in generale, la mancata esplicazione della propria personalità
attraverso l'attività lavorativa) compete il risarcimento di tale pregiudizio –
con liquidazione da effettuarsi sulla base di criteri equitativi, vertendosi in
tema di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto tali privi di
contenuto economico (v. analogamente, Cass. 8828/03, in un'ipotesi di danno
morale ed esistenziale conseguente all'uccisione di un congiunto).
- Deve peraltro ricordarsi che, sul punto della liquidazione del danno al lavoratore mobbizzato, la
giurisprudenza di merito tende a considerare tra i parametri cui fare
riferimento, anche quello dell'ammontare dello stipendio.
- Orbene,
nel caso oggetto di esame é dato ravvisare, alla luce delle considerazioni
sin qui svolte, tutte le caratteristiche tipiche dell'attività di mobbing.
Riassuntivamente, possono ricondursi nell'ambito di un'identica strategia mobbizzante i seguenti
episodi: il comportamento tenuto dal Sindaco in relazione alla pratica della
ricorrente, volta al conseguimento della qualifica di agente di pubblica
sicurezza, sfociato nel provvedimento illegittimo con cui chiedeva alla
Prefettura l'archiviazione provvisoria della pratica stessa; l'irrogazione,
alla medesima, della sanzione della censura, con provvedimento emesso in data 6
ottobre 1999; l'assegnazione della ricorrente ai soli compiti di polizia
amministrativa, sottraendole i restanti compiti tipici della mansione di agente
di polizia municipale; l'assegnazione della ricorrente ad un luogo di lavoro
diverso e in condizioni deteriori, rispetto a quello dei suoi colleghi; il
rifiuto, alla richiesta della ricorrente, di poter svolgere lavoro
straordinario per la consegna dei certificati elettorali e l'imposizione, alla
medesima, di svolgere tali mansioni durante il normale orario lavorativo;
l'eccessiva pressione disciplinare esercitata – attraverso una nutrita serie di
richiami scritti, comprendente una scenata fatta alla presenza di altro
personale e la richiesta di sottoporre la ricorrente alla sanzione della multa
– in relazione ad illeciti disciplinari inesistenti o, comunque, di lieve
entità; il tutto nel quadro di un rapporto palesemente conflittuale con
l'autorità apicale del Sindaco, il quale non risparmiava nei numerosissimi
provvedimenti che riguardavano la ricorrente, toni critici al limite
dell'insulto (si pensi, a titolo esemplificativo, alla frase: “Si ha
l'impressione che lei abbia sbagliato professione”, contenuta nella
disposizione di servizio del 1° marzo 2000, nonché al rigetto dell'istanza di
mobilità, nella quale la motivazione è sostituita da una sorta di generico
rimprovero).
- E’
stata, inoltre, acquisita la prova in ordine al fatto che l'attività mobbizzante
posta in essere nei confronti della ricorrente le abbia procurato una serie di
pregiudizi, tra cui un danno biologico consistente nell'insorgere di una
sindrome depressiva, attestata dalla documentazione versata in atti. Anche se
in passato la ricorrente ha presentato sporadici stati ansiosi, reattivi a
dinamiche conflittuali relazionali, per i quali ha praticato sporadici
controlli di contenimento presso il CIM di Olbia (quattro in tutto tra il 1991
e il 1994) senza necessità di alcuna terapia farmacologica, tale circostanza
non vale, però, a far venir meno il nesso causale tra l'attività di mobbing,
dalla stessa subita, ed il danno biologico per la sindrome ansioso depressiva
derivatane, con conseguente responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art.
2087 c.c.
- Come
rilevato dalla Suprema Corte (5539/03) se sussiste un nesso causale fra una
causa umana imputabile e l'evento dannoso, l'esistenza di una concausa naturale
non imputabile non comporta un parziale esonero di responsabilità per l'autore del
fatto illecito; quest'ultimo deve essere pertanto ritenuto responsabile, per
l'intero, dei danni subiti dalla vittima, in quanto una comparazione del grado
di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra
una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana
imputabile ed una concausa naturale non imputabile (sulla base di tali
principi, la S.C. ha affermato che un dipendente colpito da sindrome
ansioso-depressiva per effetto di un illegittimo licenziamento aveva diritto al
risarcimento del danno subito anche qualora fosse stato fisicamente predisposto
alla malattia).
- Dovendo
ritenersi provato che la condotta di mobbing posta in essere nei confronti
della ricorrente le abbia cagionato un danno, di natura sia patrimoniale che
non patrimoniale, deve conclusivamente rilevarsi, alla luce delle
considerazioni che precedono, che la ricorrente ha assolto l'onere probatorio
sulla stessa gravante (consistente nella prova del nesso di causalità tra gli
eventi dannosi e l'espletamento della prestazione lavorativa) mentre il
resistente non ha dimostrato di aver ottemperato all'obbligo di protezione
dell'integrità psico-fisica del lavoratore – cosicché sussistono i presupposti
di legge per accogliersi, in parte qua, la domanda, fondata sulla tutela
riconosciuta, al lavoratore, dall'art. 2087 c.c.
- Compete
ad essa, pertanto, il risarcimento del danno patrimoniale consistente nella perdita dell’indennità
mensile lorda di vigilanza per 18 mesi (quantificabile in euro 495,95) nonché dello straordinario (per complessivi
euro 206,58). Relativamente al danno non patrimoniale, devono distinguersi, ai
fini della sua liquidazione, il danno biologico e quello che, più in generale,
rientra nella categoria del danno esistenziale – comprendente, dunque, il danno
da demansionamento, il danno all'immagine e, più in generale, le sofferenze
patite dalla ricorrente per aver lavorato, per un lasso di tempo di molti mesi,
in un ambiente ostile, dove ripetutamente venivano emessi nei suoi confronti
provvedimenti, disciplinari e non, aventi natura pregiudizievole. Sulla base di
un criterio equitativo – e tenuto conto, quali parametri ai fini della
quantificazione, anche del lasso di tempo in cui il mobbing si è protratto e
del tipo di patologia insorta a causa di esso (che non ha però comportato, per
quanto risulta in atti, effetti permanenti sulla salute della ricorrente), si
ritiene di liquidare il danno non patrimoniale subito dalla ricorrente nella
complessiva somma di € 10.329,14.