Molestie sessuali sul luogo di lavoro

 

Cass. sez. lav. , 17 luglio 1995, n. 7768  - Pres.  Taddeucci – Est. Prestipino - P.M. Ceniccola (concl. conf.) - R. ed altri c. F..

 

Tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore - Art. 2087 c.c. - Violazione da parte del datore di lavoro - Responsabilità contrattuale - Fattispecie in tema di molestie sessuali sul luogo di lavoro.

 

L'obbligo previsto dall’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, determinandosi in caso di violazione di esso, una responsabilità contrattuale - rientrante nella competenza per materia del giudice del lavoro - che concorre con quella extracontrattuale originato dalla violazione di diritti soggettivi primaria non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma (come si evince da un'interpretazione della norma in aderenza ai principi costituzionali e comunitari) implica anche il divieto di comportamenti commissivi lesivi dell'integrità psicofisica del lavoratore,- che, in quanto caratterizzati da colpa o dolo (come le molestie sessuali o veri e propri atti di libidine violenti) ed attuati durante l'orario dell'attività lavorativa, sono perciò fonte di responsabilità contrattuale per inosservanza della norma anzidetta, oltre a integrare violazione del doveri di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cc.

 

Fatto. - Con separati ricorsi Barbara R., Elena P. e Orietta M. convenivano davanti al Pretore del lavoro di Montepulciano Claudio F. ed esponevano che, avendo prestato attività di lavoro subordinato alle dipendenze di quest'ultimo, erano state costrette a dimettersi nel mese di settembre 1991 per essere state oggetto, durante l'orario di lavoro, di molestie sessuali e di veri e propri atti di libidine violenti da parte del medesimo (il quale, sottoposto a processo penale davanti al Tribunale di Montepulciano, a seguito di patteggiamento era stato condannato alla pena di anni uno di reclusione); le ricorrenti chiedevano, quindi, che il convenuto fosse condannato a risarcire loro il danno (patrimoniale, morale e biologico) e a corrispondere loro varie somme di danaro a titolo di spettanze salariali.

Costituitosi in giudizio, il F. eccepiva l'incompetenza per materia dei Pretore quale giudice del lavoro e contestava nel merito la fondatezza delle pretese avversarie, di cui chiedeva il rigetto.

Il Pretore, riunite le tre cause, con ordinanza emessa all'udienza dei 16 marzo 1994 affermava che, non essendo applicabile alla fattispecie l'art. 2087 c.c. ed essendo la domanda di risarcimento dei danni fondata sulla responsabilità extracontrattuale dei F., tale domanda esulava dalla competenza per materia dei giudice dei lavoro; ragion per cui, previa separazione della causa avente per oggetto le spettanze salariali, dichiarava la propria incompetenza per materia relativamente alla causa di risarcimento dei danno e rimetteva le parti davanti al Tribunale di Montepulciano.

Contro questa sentenza hanno proposto ricorso per regolamento di competenza la R., la P. e la M..

Il F. ha resistito con memoria difensiva.

Il P.M. ha concluso come in epigrafe.

Diritto. - Va preliminarmente rilevato, come bene osserva il P.M., che la pronuncia sulla competenza, benché emessa dal Pretore nella forma di ordinanza, ha la sostanza di una vera e propria sentenza dichiarativa della incompetenza e ammissibile deve essere, quindi, ritenuto, ai sensi dell'art. 42 c.p.c., il ricorso per regolamento proposto dalla R., dalla P. e dalla M..

Con tale ricorso, articolato in due distinti motivi, le ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 e 2087 c.c. in relazione agli artt. 32 e 41 della Costituzione esse sostengono che il Pretore, nell'escludere la propria competenza per materia in relazione alla causa di risarcimento del danno, avrebbe dato una lettura ristretta dell'art. 2087 c.c., il quale, viceversa, in aderenza agli interessi presi in considerazione dai due articoli della Costituzione sopra indicati - che tutelano la salute e la libertà e la dignità umana - deve essere interpretato nel senso che il datore di lavoro non deve porre in essere comportamenti che violino l'integrità e il benessere psicofisico del lavoratore.  A detta delle ricorrenti, quindi, essendo stati gli atti di libidine violenti commessi durante l'orario di lavoro e a causa del rapporto di lavoro, il fatto posto in essere dal F. integra una vera e propria responsabilità contrattuale, da esse fatta valere con l'azione promossa davanti al giudice del lavoro, per effetto della violazione, oltre che del suddetto art. 2087 c.c., anche degli artt. 1175 e 1375 stesso codice, in forza dei quali le parti del rapporto obbligatorio hanno il dovere di comportarsi secondo le regole della correttezza e debbono eseguire il contratto secondo buona fede.

Il ricorso è fondato.

In linea di diritto, va in primo luogo osservato che a fronte di un medesimo fatto che integri, contemporaneamente, la violazione di diritti soggettivi primari spettanti alla persona offesa indipendentemente dalla stipulazione di un determinato contratto e la violazione di diritti derivanti a una delle parti da un contratto validamente concluso, può ipotizzarsi in pari tempo l'esistenza della responsabilità extracontrattuale e di quella contrattuale a carico dell'agente, sicché è in potere dell'altro soggetto, stante la concorrenza dell'azione aquiliana con quella contrattuale, di avvalersi, alternativamente, dell'una o dell'altra azione predisposta dalla legge (cfr., fra le tante sentenze, da ultimo Cass., 6 marzo 1995, n. 2577 e Cass., 5 ottobre 1994, n. 8090).

Sempre in linea di diritto, in secondo luogo, deve essere condivisa l'interpretazione che le ricorrenti danno dell'art. 2087 c.c. in relazione ai princìpi costituzionalmente sanciti.

Si deve premettere che l'integrità psicofisica e morale del lavoratore, come di qualsiasi altro soggetto, sono riconosciuti come beni essenziali e primari dalla Costituzione, la quale nell'art. 32 garantisce la salute «come fondamentale diritto dell'individuo», nell'art. 41 pone precisi limiti all'esplicazione dell'iniziativa economica privata con lo stabilire, fra l'altro, che la stessa non può svolgersi «in modo da recare danno ... alla dignità umana» e - conformemente a quanto fa notare il P.M. nelle sue conclusioni - nell'art. 2 tutela i diritti inviolabili dell'uomo anche «nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità» e richiede l'adempimento dei doveri di solidarietà sociale.  Questi princìpi, aventi carattere immediatamente precettivo, debbono essere tenuti presente nell'interpretazione di qualsiasi disposizione di legge o regolamentare e debbono essere osservati, alla stregua di regole inderogabili imposte dall'ordinamento, nello svolgimento di qualunque attività posta in essere sia al di fuori di qualsivoglia vincolo contrattuale, sia nell'esecuzione di un contratto.  Pertanto, come giustamente rilevano le ricorrenti, dell'art. 2087 c.c. deve darsi una interpretazione conforme ai suddetti principi, nessuno escluso, in modo tale che dalla sua formulazione letterale, ai sensi dell'art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale debba ricavarsi un significato corrispondente all'intenzione del legislatore in aderenza al dettato costituzionale (e, come pure bene sostiene il P.M. - che invoca la Risoluzione del Parlamento europeo dell'11 giugno 1986 sulla violenza contro le donne e la Risoluzione dei Consiglio dei Ministri della C.e.e. del 29 maggio 1990 sulla dignità dei lavoratori e delle lavoratrici nel mondo del lavoro - in aderenza ai princìpi tratti dalla normativa comunitaria).

Ciò premesso, dalla connessione delle parole contenute nell'articolo di legge in questione - delle quali, come giova ripetere, si impone una lettura corrispondente ai princìpi costituzionali sopra menzionati - deve essere immediatamente ricavato un dato letterale essenziale, consistente nella espressa previsione dell'obbligo del datore di lavoro di «tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».  E poiché tale obbligo - avente, come pacificamente si afferma da parte della dottrina e della giurisprudenza, indubbia natura contrattuale - può essere violato da un comportamento sia commissivo, sia omissivo, è certo che, stante la previsione di legge, sul datore di lavoro incombe il dovere, non solo di adottare, come mezzo al fine, tutte le misure che «secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica» sono atte a conservare i suddetti diritti dei lavoratori, ma anche ad astenersi da quei comportamenti che possono far sorgere o favorire la lesione dei medesimi diritti: in altre parole, proprio dal tenore letterale della disposizione contenuta nel codice civile è agevole desumere a carico del datore di lavoro l'esistenza di un obbligo primario e di un obbligo strumentale, essendo al suddetto datore di lavoro, innanzi tutto, vietato di porre in essere quei comportamenti commissivi dai quali possa derivare la lesione dei beni garantiti (dalla medesima disposizione di legge e dagli articoli della Costituzione sopra indicati) e, inoltre, essendogli fatto obbligo, di predisporre quelle cautele che valgono a tutelare i beni in questione.  Di tal che, contrariamente a quanto è stato affermato nella sentenza impugnata e come giustamente (e testualmente) argomentano le ricorrenti, il contenuto dell'obbligo previsto dall'art. 2087 c.c. non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, cosiddetta protettiva, che statuisce precisi adempimenti positivi tramite l'adozione di misure adatte al caso concreto, ma soprattutto richiede che non venga posto in essere un comportamento che violi il diritto alla integrità psicofisica dei lavoratore; l'esistenza di tale comportamento, infatti, in quanto determinato da dolo o da colpa e attuato nel luogo e durante l'orario e il compimento dell'attività di lavoro, costituisce di per sé fonte di responsabilità contrattuale per il datore di lavoro, integrando lo stesso un inadempimento della suddetta obbligazione primaria prevista dalla legge (oltre che dei doveri di buona fede e di correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., giustamente pure indicati nel ricorso).

Questi rilievi sono da soli sufficienti per ritenere la fondatezza, sotto il profilo giuridico, delle conclusioni svolte, sia dalle ricorrenti, sia dal P.M., per sorreggere la tesi secondo cui anche la causa di risarcimento del danno promossa dalla R. e dalle altre due lavoratrici deve essere attratta nella competenza per materia del giudice del lavoro.

Fermo restando che la competenza deve essere determinata in base alla allegazione dei fatti esposta nell'atto introduttivo del giudizio (ammenoché tale prospettazione non sia artatamente effettuata dall'attore al solo fine di precostituirsi un giudice diverso da quello previsto dalla legge: circostanza, codesta, che peraltro nella specie non ricorre, per non averla, oltre tutto, il resistente nemmeno eccepita), non è dubbio che le molestie sessuali e i veri e propri atti di libidine violenti, indicati dalle ricorrenti come fonte di prostrazione così grave da indurle a recedere dal rapporto di lavoro e come causa del sorgere di un danno patrimoniale, biologico e morale, debbono essere compresi in quel comportamento commissivo di cui si è sopra parlato e che è lesivo, oltre che dei beni essenziali tutelati negli articoli della Costituzione sopra indicati, anche dell'integrità fisica e della personalità morale dei lavoratore menzionati dall'art. 2087 c.c. E poiché è risultata chiara l'intenzione delle lavoratrici - come si ricava dalla esposizione dei fatti e dalle richieste svolte negli atti di citazione e come è dato pure indirettamente desumere dalla instaurazione di tutta la causa davanti al giudice del lavoro - di optare, nell'alternativa resa possibile dalla legge, per l'azione contrattuale nei confronti dei loro datore di lavoro, il ricorso deve essere accolto e deve essere dichiarata la competenza per materia dei Pretore di Montepulciano in funzione di giudice del lavoro. (Omissis).

 

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