IL NUOVO CORSO DEGLI INDUSTRIALI

 

IL CAMBIO di stagione era annunciato da tempo. Ma ieri mattina, nel palazzone dell'Eur tirato a lucido e stracolmo di invitati, Luca di Montezemolo, neopresidente incoronato quasi all'unanimità, non ha deluso l'attesa di un segno forte: Confindustria ritrova la sua collocazione a un vertice del triangolo che ha agli altri estremi governo e sindacati. E, senza ovviamente schierarsi contro l'esecutivo, abbandona lo schiacciamento sulle posizioni berlusconiane che aveva caratterizzato l'epoca di D’Amato e riconosce esplicitamente il sindacato come interlocutore.

IL CAPO del governo non ha apprezzato. Certo non si può parlare di frattura, ma si è dissolto il feeling degli ultimi anni tra Palazzo Chigi e la presidenza della maggiore organizzazione imprenditoriale, sempre influentissima come voce del padronato e del mondo economico. Già la mattina, annusata l'aria, di fronte a un uditorio che non si è certo spellato le mani per applaudirlo, Berlusconi aveva preferito glissare, rifugiandosi negli auguri di rito e nei ringraziamenti all’ “amico Antonio” (il "Masaniello di Arzano", n.d.r.). Più tardi ad Assago, nella sede più sicura del congresso di Forza Italia, ha dato la stura al suo malcontento, riproponendo il taglio delle tasse e non riservando a Montezemolo una sola parola. Prova evidente che l'analisi critica dell'Eur non gli era piaciuta, né per le cose dette né per quelle taciute. Un altro segnale è arrivato in serata: il ministro Maroni si era lamentato per il silenzio su Marco Biagi, a Marco Biagi la platea forzitaliota ha tributato una standing ovation.

Tanta freddezza spicca nella generale approvazione espressa dai politici della maggioranza, Fini, Casini e Follini in testa (con l'eccezione della Lega e di Storace) , e dell'opposizione, dai sindacati e dagli imprenditori. Montezemolo ha insistito sulla necessità di costruire un nuovo clima complessivo: c'è voglia di ripresa, occorre fiducia, bisogna rifiutare la logica del declino. Per riuscirci, ha detto, ricevendo i più calorosi tra i venti applausi che hanno interrotto la sua relazione, ci vuole stabilità e credibilità: "l'alternanza politica non è e non può essere un ribaltone istituzionalizzato, dove ogni cinque anni si cambia tutto per non cambiare mai nulla nella sostanza", "vogliamo chiudere la stagione dei dissidi e delle incomprensioni... dare un segnale al Paese tuttora scosso da troppe divisioni", "mettere in discussione le istituzioni significa tagliare il ramo su cui si è seduti".

Nessun nome di politici, ma un tributo a Ciampi che aveva fatto giungere il suo augurio e la sua benedizione per "una scossa" necessaria, evidentemente soddisfatto del richiamo alla logica della concertazione, che "non è consociativismo ma senso di responsabilità nei confronti dei cittadini". "Fare sistema" e "innovazione" sono state le parole-chiave usate da Montezemolo. Innovare è l'obiettivo, e il tono generale, di una sfida che si gioca sull'attesa di cambiamento: è una richiesta dell'Italia, che ha bisogno, come il nuovo leader degli industriali aveva detto prima dell'elezione, di una classe dirigente più matura e consapevole; un'esigenza dell'impresa, colpita al cuore nella sua immagine da vicende come Cirio e Parmalat e sempre più incapace di concorrenza; una necessità del "made in Italy" per tornare a essere competitivo.

Considerazioni evidentemente non gradite da Berlusconi, ancora impegnato a vendere il suo sogno e a sostenere che l'economia non va poi male. Ma per ora ha preferito non scontrarsi direttamente con l'uomo della Ferrari, che aveva cercato d'imbarcare nel governo come simbolo di un mito italiano.

Alla politica la nuova Confindustria chiede di saper costruire il consenso per progredire, ma non tende il piattino per le elemosine. Le domande sono precise: pensare al futuro, innanzitutto investendo nella ricerca, spostare a suo beneficio risorse immense, un punto di Pil, rinunciando all'Irap; e non immiserirsi nel localismo. Bene la riforma Moratti, ma il federalismo sarà giudicato positivamente solo se ridurrà la spesa pubblica e accelererà le decisioni. Quanto alla riduzione delle tasse, vantato cavallo di battaglia berlusconiano, perplessità e critiche: gioca in questo, ovviamente, l'ostilità del mondo confindustriale ai tagli degli incentivi statali dai quali dovrebbero provenire almeno in parte le risorse per il regalo fiscale; ma anche la convinzione che, nelle attuali condizioni di indebitamento, questo non sia praticabile.

All'impresa tocca il primo passo: innovare, rischiare e investire, grazie anche a un più efficace rapporto con le banche. Deve diventare, dice a braccio Montezemolo, "il nostro tormentone". Poi torna – lo ha fatto a più riprese - l'uomo della Ferrari: "E se qualcuno ci vince la domenica, sapremo batterlo la domenica dopo". È urgente rispondere alla domanda di trasparenza e aprire le aziende a un efficace sistema di controlli. "Bisogna che sia la nostra etica... separare nettamente le funzioni della proprietà da quelle della gestione, pur se fanno capo necessariamente alla stessa persona nelle imprese famigliari" (nessun applauso). Al leader di una media azienda inserita nella galassia Fiat, consapevole che gran parte dei suoi 117 mila associati sono piccoli, spetta solleticare il loro orgoglio, ma anche sottolineare l'urgenza strategica di far crescere le imprese nazionali, senza scandalizzarsi degli sforzi per difendere le poche grandi.

"Entusiasmo" "fiducia", "in marcia", "consenso", "coesione sociale", "dialogo", "avvenire", "coraggio di cambiare", "fare squadra", "mercato": il lessico del nuovo corso sottolinea il rifiuto del pessimismo (il Sud diventa "la nostra Nuova Frontiera") e la ricerca di soluzioni condivise. La parola " flessibilità", simbolo dell'era damatiana e della guerra dell'articolo 18, è accantonata. Montezemolo è evidentemente preoccupato della stagnazione che chiude in cerchi di difficoltà i gruppi maggiori e tiene in affanno tutte le imprese, malgrado qualche cenno di ripresa. Ma il capo degli industriali deve segnalare le possibilità di vittoria e perseguirla con la stessa tenace determinazione riservata al Cavallino. E' stato scelto per questo. E questo è il motivo per il quale è stato letteralmente sommerso dalle aperture di credito. Qualcuna con eccessi di aspettative miracolistiche. Ma la sfida è difficile. La promessa di restituire al Paese parte di ciò che si è ricevuto è impegnativa. L'irritazione, tutt'altro che secondaria, del premier e dell'alleato leghista, complica la partita. Ma è un fatto che il primo passo di Montezemolo, per tono e stile, segna davvero un corso nuovo.

 

(da “la repubblica” 28.5.2004, p.1 e 16)

Giulio Anselmi

RITORNO ALLA NORMALITA'  

 

Non fosse altro per il fatto che Luca di Montezemolo è riuscito col suo primo discorso da presidente della Confindustria a far infuriare il ministro Maroni, il governatore Storace e a dividere il governo, il suo esordio andrebbe salutato come un segnale forte di discontinuità rispetto alla gestione berlusconiana di Antonio D'Amato. E già questo è un risultato importante.
Che poi Montezemolo rappresenti davvero «la svolta», «la scossa», per usare le definizioni di cui ieri forse si è abusato, o piuttosto un semplice maquillage per la Confindustria è troppo presto per dirlo Bisognerà attendere i fatti. Ma la novità c'è tutta. A partire da linguaggio, dai toni, dalle parole. Ognuno ha il suo stile, ma c'è una distanza enorme tra Montezemolo che ha elencato e motivato le cose da fare, e D'Amato che, per fare un esempio, schierò all'assemblea dello scorse anno la Confindustria a fianco di Berlusconi contro i giudici italiani, con toni offensivi e livorosi. Niente di tutto questo è successo ieri. Anzi, dopo anni di dannoso collateralismo col governo, il presidente degli industriali ha rivendicato l'autonomia dell'organizzazione e il suo ruolo di classe dirigente non come una semplice affermazione di principio, ma come assunzione di responsabilità nei confronti del Paese. E Montezemolo, non casualmente, ha spazzato subito via il peggio del berlusconismo confindustriale affermando che nei rapporti col mondo del lavoro bisogna tornare alla concertazione, allo spirito del 1993, riproponendo, quasi testualmente, le parole del presidente della Repubblica Ciampi. Coi sindacati si tratta e si fanno gli accordi, con tutti i sindacati, compresa la Cgil che qualcuno immaginava di isolare. Di più: il nuovo leader degli imprenditori ha proposto una via allo sviluppo basata su innovazione e rilancio del Made in Italy, sulla competizione alimentata da ricerca e sviluppo i cui investimenti, ha chiesto, dovrebbero essere esentati dall'Irap. In questa proposta c'è un'inversione completa della linea confindustriale di questi anni che privilegiava il contenimento dei costi e la riduzione dei diritti dei lavoratori come strada principale per difendere l'attitudine competitiva del sistema industriale. Insomma, come hanno spiegato a lungo la Cgil e alcune forze della sinistra in questi anni, c'è bisogno di un modello "alto" di sviluppo dell'economia del Paese e non di scorciatoie come l'attacco all'articolo 18. Montezemolo ha evitato di chiedere libertà di licenziamento, ha fatto arrabbiare Maroni per non aver parlato di Marco Biagi (per il centro destra l'uso della memoria del professore assassinato dalla Brigate Rosse, che il governo lasciò colpevolmente senza scorta e che il ministro Scajola definì "un rompicoglioni", è una clava propagandistica da agitare in ogni occasione, meglio se in prossimità delle elezioni come ha praticato in questi giorni il presidente Cossiga), ha condannato il federalismo ridotto a localismo, ha detto a Tremonti che le tasse si tagliano quando i conti sono a posto, ha chiesto rapporti più sereni e collaborativi col sistema bancario (e pochi giorni fa Alessandro Profumo di Unicredit aveva offerto un assist strepitoso a Montezemolo proponendo un nuovo patto banche-imprese). Insomma, una lunga serie di affermazioni di semplice buon senso, ma che in bocca al presidente della Confindustria appaiono clamorose, dopo la stagione di D'Amato.
Tutto bene, dunque? Diciamo la verità: c'è qualche cosa che non ci convince. Gli imprenditori che hanno eletto Montezemolo sono gli stessi che quattro anni fa decretarono quasi un plebiscito per D'Amato. Il blocco imprenditoriale che stava dietro D'Amato era cementato da una motivata e profonda adesione, almeno di interessi, al berlusconismo che si manifestò clamorosamente alle elezioni politiche del maggio 2001. Quegli industriali, che tributarono ovazioni sudamericane alle Assise di Parma a Berlusconi, hanno condiviso i condoni, le sanatorie, la depenalizzazione del falso in bilancio, l'attacco ai diritti fondamentali dei lavoratori, la delega sulle pensioni, la Tremonti-bis con la quale forse hanno cambiato la Bmw ma senza investire un centesimo e hanno teorizzato e praticato i contratti separati, arrivando nel caso dei metalmeccanici a ritenere valido un accordo con due organizzazioni minoritarie che sommate assieme non raggiungono il numero degli iscritti della Fiom. Aggiungiamo un altro elemento: non c'è stato un solo imprenditore che in questi anni si sia alzato in piedi per denunciare il conflitto d'interessi e la legislazione personalizzata del presidente del Consiglio. Se Berlusconi era il collante dell'elezione di D'Amato, oggi la Confindustria che ha scelto Montezemolo appare preoccupata dalla decadenza economica e dall'incapacità del governo, vive la sindrome della crisi Fiat e degli scandali Parmalat e Cirio, e vorrebbe salvarsi, anche a costo di rinnegare il recente passato, con un manager dall'immagine moderna e vincente come Montezemolo. Il nuovo leader degli industriali ha un compito difficile e per questo, non potendo contare su un governo affidabile e credibile, cerca alleanze altrove, tra i sindacati e le banche, anche nelle forze politiche di opposizione. Si vedrà.
Certo un cosa, infine, va notata. Riproponendo la concertazione e la politica dei redditi, Montezemolo non ha citato una parolina magica: «redistribuzione». Se si torna al 1993, ammesso che sia possibile (bisogna essere in tre: imprese, sindacati e governo, ma Berlusconi e Maroni ci stanno? Pare di no), bisogna ricordare che lavoratori e pensionati hanno già largamente pagato, sia per risanare i conti pubblici sia per agganciare l'Europa. E mentre le imprese italiane negli anni Novanta incassavano i più elevati profitti del dopoguerra, destinati poi a fallimentari operazioni finanziarie o all'ingresso in settori "tariffati" e sicuri, come dice Bersani, come la Telecom e le Autostrade, altri si sobbarcavano il peso del rilancio del Paese.
Ora non vorremmo che, ritrovato il miracoloso spirito del '93 così ben illuminato dalla Confindustria beautiful di Montezemolo, qualcuno pensasse di chiedere a lavoratori e pensionati di pagare ancora per il salvataggio del Paese. La risposta sarebbe: «Abbiamo già dato».
(da “l’Unità” 28.5.2004)

Rinaldo Gianola

(Torna all' elenco Articoli nel sito)