No a ingiustificate diversificazioni in tema di oneri probatori del “danno non patrimoniale”

 

1. Il 24 marzo 2006 le Sezioni unite della Cassazione  hanno emesso la sentenza n. 6572 in tema di oneri probatori per il danno da demansionamento, aderendo all’indirizzo minoritario formatosi all’interno della sezione lavoro, fornendo un inequivoco riconoscimento al danno non patrimoniale nella fattispecie del “danno esistenziale” rinvenuto nella  “modificazione peggiorativa delle abitudini di vita”, bilanciando il riconoscimento (o, potremo dire, ritorcendone la legittimazione) con il gravare l’utente debole del servizio giustizia (individuabile nei “lavoratori subordinati”) di una nutrita esemplificazione di oneri probatori, giustificandoli strumentalmente con la differenza ontologica del danno esistenziale dal danno morale soggettivo, consistente in una mera sofferenza interiore transeunte interiorizzata. Se, invece, - affermano le sezioni unite nella sentenza n. 6572 – il danno esistenziale da mortificazione viene dai suoi sostenitori configurato come  una modificazione peggiorativa della qualità della vita, in quanto tale  esteriorizzabile e percepibile dai consociati, non se ne vede la ragione per cui non possa essere provato, attraverso le testimonianze dei congiunti o dei colleghi di lavoro (notoriamente omertosi per timore di ritorsioni sulla carriera), o con tutti gli altri mezzi di prova, ivi incluse  le presunzioni ex art. 2729 c.c.

Coloro che hanno accolto – a differenza di noi – con favore la decisione in questione hanno focalizzato l’attenzione eminentemente sul riconoscimento di legittimità della categoria del “danno esistenziale” senza soffermarsi e considerare l’operazione regressiva compiuta dalla S. corte in termini di oneri probatori a carico del demansionato, che secondo la prevalente giurisprudenza della sezione lavoro della Cassazione sinora formatasi, era riscontrabile dal magistrato (non in quanto in re ipsa o conseguente al danno evento della dequalificazione, ma), secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit,  cioè a dire secondo presunzioni semplici, valorizzanti la natura della dequalificazione, l’intensità  ed il dislivello tra le mansioni a quo e quelle (deteriori) ad quem, addirittura inesistenti in caso di confinamento in forzata inattività, la negazione del pregresso ruolo rivestito (con relativa sottrazione di poteri di spesa o di coordinamento di risorse) in raffronto all’assegnazione di mansioni da disimpegnare uti singulus, nel plateale discredito interno all’azienda, occasionante in soggetti normali che nel lavoro tendono ad una autorealizzazione, effetti negativi in termini di autostima ed eterostima (cfr. per tutte Cass. n. 10157/04).

All’apparire della decisione gli rivolgemmo le seguenti considerazioni critiche che tuttora riscontriamo attualissime e meritevoli di riproposizione, specialmente dopo la lettura di Cass. 3° sez. civ. 12 giugno 2006 n. 13546, su cui esprimeremo in seguito il nostro punto di vista.

Come in precedenza accennato, nella decisione delle sezioni unite n. 6572/2006 non  si è tenuto in alcun conto dell’orientamento prevalente (rinvenibile più recentemente in forma emblematica in  Cass. n. 10157/04 definita “fulgida pagina della nostra giurisprudenza” da Trib. Forlì 19.5.2005) che riscontrava quali conseguenze intuitive del demansionamento, la perdita di autostima e di eterostima, lo stato di mortificazione immanente, la caduta di prestigio endo ed extraziendale per la scontata cognizione sul mercato del lavoro delle privazioni di ruolo e degli incarichi pregressi, sostituiti dal  deliberato confinamento in protratta inattività o in compiti fittizi di  cd. “ricerche di mercato”, “analisi economiche di settore”,  “assistenza o staff” a questo a quel dirigente e così via.

La logica che sta alla base della criticata decisione delle sezioni unite (emessa con il parere difforme del Pm e da un collegio che brilla per l’assenza dei più valenti giuslavoristi), è in soldoni quella secondo cui: “è vero, ti ho demansionato, ma ti ho corrisposto la retribuzione, se accampi danni da frustrazione, mortificazione, alterazione della qualità della vita, ecc., vai in giudizio e dimostrali!”. Insomma la decisione poggia su una concezione oscurantista del rapporto di lavoro, in cui non c’è spazio per considerare la prestazione pretesa ed offerta dal lavoratore come mezzo di estrinsecazione  e autorealizzazione della propria personalità nel lavoro e tramite di esso. In cui l’irriducibilità retributiva garantita dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori è considerata (erroneamente) di per sé il compenso primario della dequalificazione, ritenuta risiedere – come in realtà non è, e quindi da astratti magistrati che sembra ignorino la vita d’azienda – nella “sottoremunerazione”. Talché,  inibita dal legislatore ex art. 2103 c.c., la “sottoremunerazione” – e quindi in quest’ottica distorta, considerandosi precompensato l’astratto danno primario – il danno ulteriore ed addizionale (della mortificazione, dell’immmiserimento professionale da inesercizio di mansioni, del pregiudizio all’identità personale e all’immagine interno/esterna) va allegato e dimostrato, secondo le sezioni unite.

 

2. Questa costruzione “intellettualistica” facente perno su una dequalificazione strutturata da due livelli (quello “astratto” della sottoremunerazione e l’altro reale ed il solo ed unico nello strutturare la dequalificazione in ragione di privazione ed erosione di compiti ad invarianza retributiva legislativamente assicurata), la si ritrova per la prima volta in Cass. sez. lav. n. 16792/03 ed ha evidentemente preso piede tra gli addetti ai lavori, interessati a trovare una modalità qualsiasi per veicolare ed accreditare un messaggio restrittivo. Cass. n. 16792/03 sembrò confondere l'assegnazione (spesso deliberata e quindi vessatoria) in incombenze deteriori o addirittura in inattività completa (che come ha, recentemente, osservato Corte cost. n. 113/2004, non è affatto ipotesi di scuola!) con l'abbattimento del livello retributivo, che come realisticamente rileva ancora Corte cost. n. 113/2004, non si verifica in concreto, continuando l'azienda di norma a corrispondere al prestatore, anche del tutto inattivo, la pregressa retribuzione. Scambiò cioè l'essenza del demansionamento con una "sotto remunerazione" vietata dall'art. 2103 c.c. e quindi la considerò già “precompensata” dall'inibitoria legislativa. Eppure già l'aveva detto Cass. sez. lav. 14 novembre 2001, n. 14199 che : ...«il danno da dequalificazione professionale..., non si identifica con il danno derivante dalla mancata corresponsione del trattamento retributivo dovuto in relazione alle mansioni...ma può consistere semplicemente nel mancato aggiornamento e nella mancata pratica della propria professione».

Quella soprariferita appare intuitivamente  una “costruzione a tavolino”, che non sta in piedi, ma che è stata infelicemente recepita dalla decisione delle sezioni unite.

Sorprendente e quale  inconfutabile testimonianza di una concezione incondivisibile del rapporto di lavoro è il seguente passo: «… va data la prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore». Seguito dall’analogo: « Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del datore ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire». Come si possa al tempo d’oggi affermare che la salvaguardia della cosiddetta “sfera patrimoniale” (invarianza retributiva) possa escludere o sanare le frustrazioni o le mortificazioni di un protratto demansionamento, è questione che fa restare allibiti, a meno che non si viva in una realtà virtuale (quella che pare ovattare il Collegio che così si è espresso).

Altro concetto – stavolta desunto dalla precedente Cass. n. 6992/02 – è quello per cui il “mero inadempimento” datoriale, cioè la sostanziosa inosservanza dell’art. 2103 c.c. a danno dei demansionati, non può dar luogo a risarcimento di danno di per sé stessa in quanto si risolverebbe in un’ applicazione dei cd. “punitives damages” estranei al nostro ordinamento, e quindi in quella che viene altrimenti qualificata “somma-castigo”.

Cosicché come si poteva (e si può) “precarizzare” in virtù della cd. “legge Biagi”, ora si può impunemente “demansionare” per licenza delle sezioni unite. Sembra un’affermazione forte, ma è la fotografia della realtà prossima ventura in seno alle aziende, se non si ha l’accortezza di adottare da parte della magistratura, nei confronti delle rigide affermazioni di principio delle sezioni unite, dei correttivi applicativi di buon senso pratico.

Quando si erige a danno degli utenti più deboli del servizio giustizia una tale serie di ostacoli probatori, pressoché insormontabili in quanto diabolici, si indirizza ai datori di lavoro un messaggio di licenza di “emarginare e dequalificare”. Poi se la vedranno i malcapitati con i cavilli probatori e con il percorso ad ostacoli costruitogli dalla magistratura di vertice, aggravati dalla congenita lentezza della giustizia del nostro Paese. E’ anche probabile che si sia data la stura a “transazioni al ribasso” da parte dei danneggiati, a tutto vantaggio di una “pseudo-giustizia” stragiudiziale.

Perché, per essere più chiari, le aperture al ricorso alle prove presuntive e a tutta la serie delle prove dell’ordinamento, appaiono pressochè fittizie: se si vuole dimostrare una modificazione alterativa delle abitudini di vita (cd. danno esistenziale, oggettivabile ed esteriorizzabile a differenza del danno morale soggettivo interiorizzato), si dovranno portare le testimonianze dei congiunti o dei colleghi (dicono le sezioni unite). Insomma la frustrazione e la mortificazione dovrà essere esternata in azienda e resa percepibile (attraverso decise prese di posizione - anche a livello fisico, come si meriterebbero coloro che demansionano strategicamente? - del demansionato verso il superiore mobber o i colleghi side mobbers). In buona sostanza il demansionato non dovrà macerarsi interiormente ma “dar segni di essere andato fuori di testa”, per tal via potendosi testimoniare da qualche “volenteroso” collega l’alterazione del di lui pregresso stile di vita. Quanto al ricorso (legittimato e suggerito) ai congiunti, si attualizzerà  traducendo a teste il coniuge per attestare la caduta verticale dei rapporti sessuali o affettivi in senso lato, gli sgarbi verso i figli, l’indisponibilità allo shopping e alle ricreazioni del tempo libero, l’abulia verso cinema, teatri, cene a ristorante, verso scampagnate fuori porta o nei confronti della fruizione delle vacanze, et similia.

Ma c’era bisogno della richiesta di queste prove per dedurre – come avevano fatto sinora i magistrati secondo l’id quod plerumque accidit – che il demansionato e il frustrato, il leso nell’autostima ed eterostima dalle incisive iniziative vessatorie, non poteva che comportarsi secondo quel quadro sintomatico e generalizzato di anomalie, eccezion fatta per i rari casi in cui ci si trova di fronte ad uno cui tutto scivola addosso (ma allora questo non adisce neppure la magistratura per ottenere di essere rinfrancato nella propria insicurezza da una sentenza  di condanna datoriale). Non si è forse imbrigliato oltre misura, con queste linee guida, il libero convincimento del magistrato che opera per affermare una giustizia sostanziale, al di là dei formalismi, piuttosto che per negarla in omaggio al detto popolare secondo cui essa è “forte con i deboli, debole con i forti”?

Quanto sopra va adeguatamente rimarcato, giacchè non va taciuto il convincimento che la pretesa probatoria delle sezioni unite in ordine al danno esistenziale da parte del demansionato, se può indiscutibilmente risultare esiziale per i ricorsi pendenti, può risultare sostanzialmente superflua e rischia addirittura di risolversi  invece  in un onere burocratico a connotazione “farisaica” per i futuri ricorrenti, stante la non  infondatezza del rilievo avanzato in dottrina (cfr. Vallebona, L’edonismo d’assalto di fronte alle Sezioni unite:il danno alla persona del lavoratore, in MGL  n.6/2006, p. 486) – secondo cui «…non sarà difficile d’ora in poi per il lavoratore dedurre tempestivamente e, poi, comprovare più o meno veritiere alterazioni delle proprie abitudini di vita conseguite all’illecito datoriale. Tanto più che si tratta di circostanze inerenti alla sfera privata del lavoratore medesimo, su cui la difesa del datore di lavoro riesce difficilmente a contraddire».

Ciò evidenziato, non resta che sperare, eminentemente (ma non solo) per i ricorsi pendenti, in una ragionevole prassi applicativa di buon senso da parte della magistratura inferiore, pur nel rispetto dei vincoli ad essa frapposti dall’organo di nomofilachia, che si traducono in pressoché insormontabili ostacoli eretti nei confronti degli utenti più deboli (i lavoratori) che hanno avanzato richieste in epoca in cui l’onere probatorio del danno esistenziale  non era stato ancora introdotto, in maniera così formalistica e restrittiva, dall’orientamento delle sezioni unite palesato nel marzo del 2006. Sembra che per i lavoratori abbia giocato contro una impostazione conservatrice a favore dell’imprenditoria ovvero il pregiudizio che gli stessi – come si usa dire – “ci marcino” e tendano ad “arricchirsi” attraverso gli indennizzi (che invero sono andati via via riducendosi di valore dai primi anni novanta, come testimoniano le sentenze in materia, nelle quali alla liquidazione equitativa di una mensilità intera per ogni mese di demansionamento si è sostituita una frazione pari in media  al 30-40% della stessa). Invero va evidenziato che nella realtà i lavoratori – dati i tempi  biblici delle attuali decisioni giudiziarie – utilizzano come extrema ratio il ricorso giudiziale e solo se  spinti dall’umana esigenza di rafforzare il senso di identità sottrattogli da un incisivo demansionamento e per cercare di compensare in parte (con l’adire il magistrato  nella speranza di una accertamento giudiziale ricognitivo delle ingiustizie subite) le mortificazioni conseguentemente sofferte o, per meglio dire, inflittegli da un patrigno datore di lavoro,  nella stragrande parte dei casi del tutto deliberatamente e strategicamente in vista dell’espulsione dal posto di lavoro, per insostenibilità psicologica della situazione aziendale emarginante e vessatoria creatagli ad hoc, solitamente ad una certa età critica dopo che si è già dato il meglio di se.

 

3. Per contiguità in tema di oneri probatori a fini di risarcimento del “danno non patrimoniale”, merita evidenziare la posizione assunta dalla giurisprudenza della Cassazione  a seguito delle 4 decisioni del 26 gennaio 2004,  n. 1338 (Balzini), n. 1339 (Lepore), n. 1340 (Corbo) , n. 1341 (Lepore), tramite le quali è stato affermato consolidatamene che :

«Non è … accettabile la tesi del cd. danno evento, e cioè del danno non patrimoniale insito nella violazione della durata ragionevole del processo. Il danno non patrimoniale, anche secondo la CEDU, costituisce una conseguenza della detta violazione, la quale, però, a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa. Ed invero è normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d'animo, un'ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l'id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso.

Possono, però, aversi situazioni concrete in cui tali conseguenze normali della pendenza del processo vanno escluse, perché il protrarsi del giudizio risponde ad un interesse della parte o è comunque destinato a produrre conseguenze che la parte percepisce a sé favorevoli.

La formula della legge nazionale non impedisce, però, di ravvisare una diversità della prova richiesta per la sussistenza dei due tipi di danno, diversità strettamente correlata alle differenti caratteristiche del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale. Mentre l'esistenza del primo, derivando da circostanze esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva dimostrazione, onde l'interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi, secondo l'id quod plerumque accidit. Può, allora, parlarsi, a proposito del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dell'art. 6 della CEDU (nel profilo considerato dalla legge n. 89/2001), non di danno insito nella violazione (danno in re ipsa), ma di prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale. Ma tale consequenzialità, proprio perché normale e non necessaria o automatica, può trovare, nel singolo caso concreto, una positiva smentita qualora risultino circostanze che …dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate (evidenziabili  anche da parte del convenuto che ne abbia interesse, con un procedimento di cd. inversione dell’onere probatorio, n.d.r.).

Siffatta interpretazione, relativa alla prova del danno non patrimoniale richiesto dalla legge n. 89/2001, deve ritenersi consentita dalle disposizioni contenute in detta legge, e va adottata al fine di porla in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sulle conseguenze del mancato rispetto del termine ragionevole, evitandosi così i dubbi di contrasto della stessa legge con la Costituzione italiana».

Queste risultanze – che attengono all’onere probatorio di un “danno morale soggettivo”, da ansia, disagio, frustrazione, senso di ingiustizia, turbamento psicologico, contigui alla mortificazione e alla modificazione peggiorativa della qualità della vita nel quale si attualizza il danno esistenziale – sono state riaffermate recentemente da Cass. civ.  10.1.2005,  n. 297 , Cass. 30.8.2005, n. 17500 (estensione del diritto al risarcimento anche per le persone giuridiche) e da Cass. 13.4.2006,  n. 8716.

 

4. In data 12 giugno 2006  la 3° sezione civile della Cassazione – con la decisione n. 13546 -  si è espressa per la prima volta dopo il riconoscimento della categoria del “danno esistenziale” da parte di Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572, con riferimento ad un’ipotesi di uccisione di stretto congiunto in conseguenza di sinistro stradale.  La Corte di Cassazione, nel fare il punto sugli orientamenti interpretativi maturati all’esito della progressiva evoluzione della disciplina post-codicistica in tema di risarcimento del danno alla persona, riconosce esplicitamente tale autonoma voce di danno, collocandola (nell’ambito del “sistema bipolare” delineato all’esito dell’intervento razionalizzatore di Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass. 31 maggio 2003, n. 8828 ) unitamente al danno morale “soggettivo” ed al danno biologico all’interno della categoria generale del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., quale danno allo stato di benessere e alla salute in senso lato che (pur dovendo -diversamente dal danno morale soggettivo- obiettivarsi, e rimanendo integrata, a differenza del danno biologico, a prescindere dalla relativa accertabilità in sede medico-legale ), in presenza di lesione di interessi essenziali della persona come quelli costituzionalmente garantiti della salute, della reputazione, della libertà di pensiero, della famiglia, ecc. si sostanzia in una modificazione (peggiorativa) della personalità  e della qualità della vita dell’individuo. Modificazione peggiorativa che si obiettivizza socialmente nella negativa incidenza sul relativo modo di rapportarsi con gli altri, sia all’interno del nucleo familiare, che all’esterno del medesimo, nell’ambito dei comuni rapporti della vita relazione, in conseguenza della subìta alterazione, della privazione (oltre che di quello materiale anche) del rapporto personale con lo stretto congiunto nel suo essenziale aspetto affettivo o di assistenza morale (cura, amore). Rapporto cui ciascun componente del nucleo familiare ha diritto nei confronti dell’altro (come per i coniugi in particolare previsto dall’art. 143 c.c., per il genitore dall’art. 147 c.c. e ancor prima da un principio immanente nell’ordinamento fondato sulla responsabilità genitoriale, da considerarsi in combinazione con l’art. 8 L. adoz.; per il figlio nell’art. 315 c.c., valorizzabile secondo tale orientata lettura). Danno non già «di riflesso»  o «di rimbalzo» bensì «diretto» - dagli stretti congiunti del defunto sofferto iure proprio - essendo l’evento morte plurioffensivo nel determinare non solamente l’estinzione della vita della vittima primaria ma anche l’estinzione del rapporto parentale con i congiunti della stessa, lesi nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e alla scambievole solidarietà che connota la vita familiare (v. Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828 ), e pertanto consistente non già nella violazione in sé del rapporto familiare quanto piuttosto nelle conseguenze che dall'irreversibile venir meno del godimento del congiunto e dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali discendono.

Ciò detto la Cassazione ha stabilito che la prova del danno esistenziale da uccisione dello stretto congiunto - che deve essere accertato e liquidato anche quando venga genericamente chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale in assenza di specifiche limitazioni della domanda a solo alcune delle altre voci (danno morale, danno biologico) che tale categoria compongono - è a carico del danneggiato, e può essere data anche a mezzo di presunzioni. Peraltro ha specificato  del tutto opportunamente che una volta provato il fatto-base della sussistenza di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza con il congiunto defunto, è allora da ritenersi che la privazione di tale rapporto presuntivamente determina ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita) sia sull'assetto degli stabiliti ed armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche) all'esterno di esso rispetto ai terzi, nei comuni rapporti della vita di relazione.

Ed ha soggiunto che – come per il “danno morale soggettivo da irragionevole durata del processo - incombe allora alla parte in cui sfavore opera la presunzione dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla (es., situazione di mera convivenza “forzata”, caratterizzata da rapporti deteriorati, contrassegnati da continue tensioni e screzi; coniugi in realtà “separati in casa”, ecc. ).

Non si tratta infatti, diversamente da quanto lamentato dalla odierna ricorrente società di assicurazioni, di un'ipotesi di presunzione iuris et de iure.

Applicati i principi di diritto al caso in esame e risultando incontestato il fatto-base della normale e pacifica convivenza del nucleo familiare costituito dal defunto, dalla consorte e dai due figli maggiorenni, il cui armonico svolgimento trova sintomatica conferma nella circostanza che uno dei figli svolgeva anche attività lavorativa con il padre e che della costituita società faceva parte anche la rispettiva moglie e madre, ed allegata (atteso che, se dispensa la parte che intende avvantaggiarsi dagli effetti favorevoli collegati al fatto dall'onere di provare quest'ultimo, la presunzione non dispensa altresì dall'onere di allegare il medesimo ) dagli odierni controricorrenti la circostanza che la morte del loro stretto congiunto ha per essi comportato un'alterazione dell'equilibrio mentale riflettentesi sotto il profilo della difficoltà di partecipazione all'attività quotidiana e della demotivazione rispetto alla vita futura (come pure delle molteplici difficoltà incontrate nella conduzione della piccola azienda di cui avevano dovuto continuare ad occuparsi da soli), la Cassazione ha affermato che la corte di merito ha ritenuto correttamente provato su base presuntiva ex art. 2729 c.c. il danno esistenziale da essi sofferto.

Era quindi l'odierna ricorrente a dover fornire la prova contraria idonea a vincere la presunzione di sconvolgimento delle abitudini e delle aspettative, o del modo di relazionarsi con il prossimo derivante ai controricorrenti dalla perdita del – rispettivamente - marito e padre.

 

5. La Cassazione nella precitata sentenza n. 13546/2006 ha valorizzato le sezioni unite affermando che le stesse sono recentissimamente giunte ad affermare che il danno esistenziale consiste in «ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno» ( v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ).

Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato che il «danno esistenziale» non consiste in meri «dolori e sofferenze», ma deve aver determinato «concreti cambiamenti, in senso peggiorativo, nella qualità della vita».

Nel sottolineare che, diversamente da quello morale, esso non ha natura meramente emotiva ed interiore ma deve essere oggettivamente accertabile ed aver determinato «scelte di vita» diverse da «quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso», con obiettiva incidenza «in senso negativo» nella sfera del danneggiato, «alterandone l'equilibrio e le abitudini di vita», le Sezioni Unite hanno escluso in particolare che «la lesione degli interessi relazionali connessi al rapporto di lavoro resti sostanzialmente priva di effetti», senza provocare invero «conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l'interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva» ( v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ), ma hanno affermato che le “eventuali conseguenze pregiudizievoli” vanno provate dal danneggiato, con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, ivi incluse le presunzioni.

Ed a questo proposito Cass. n. 13546/06  ha sostenuto che le presunzioni semplici - come affermato in giurisprudenza di legittimità (v. Cass., Sez, Un., 24/3/2006, n. 6572) e sostenuto anche in dottrina -  non costituiscono uno strumento probatorio di rango “secondario” nella gerarchia dei mezzi di prova e «più debole» rispetto alla prova diretta o rappresentativa.

Va al riguardo sottolineato come, alla stessa stregua di quella legale la presunzione semplice vale invero nel caso a sostanzialmente facilitare l'assolvimento dell'onere della prova da parte di chi ne è onerato, trasferendo sulla controparte l'onere della prova contraria.

Prosegue Cass. n. 13546/06 asserendo che questa Corte è pervenuta ad affermare che «la presunzione semplice e la presunzione legale iuris tantum si distinguono unicamente in ordine al modo di insorgenza, in quanto mentre il fatto sul quale la prima si fonda dev'essere provato in giudizio, e il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio, la seconda è stabilita dalla legge e, quindi, non abbisogna della prova di un fatto sul quale possa fondarsi e giustificarsi. Una volta, tuttavia, che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata (cioè, una volta che del fatto sul quale si fonda sia stata data o risulti la prova), essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, quando viene rilevata, in quanto l'una e l'altra trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l'onere della prova contraria» (così Cass., 27/11/1999, n. 13291).

Da tale considerazione consegue il ritenere la parte onerata ex art. 2697 c.c. sollevata dal provare il fatto previsto (che, come posto in rilievo anche in dottrina, deve considerarsi provato ove provato il «fatto base»). Ed altresì che, come per quella legale, anche per la presunzione semplice in assenza di prova contraria (quando, come nel caso, ammessa) il giudice è tenuto a ritenere provato il fatto previsto, non essendogli consentita al riguardo la valutazione ai sensi dell'art. 116 c.p.c.

Il prevalente orientamento segnala peraltro che attraverso lo schema logico della presunzione la legge non vuole imporre conclusioni indefettibili ma introduce uno strumento di accertamento dei fatti di causa che può anche presentare qualche margine di opinabilità nell'operata riconduzione, in base a regole (elastiche) di esperienza, del fatto ignoto da quello noto.

Soggiunge poi che - come da questa Corte ripetutamente affermato, in tema di prova per presunzioni semplici nella deduzione dal fatto noto a quello ignoto - il giudice di merito incontra il solo limite del principio di probabilità: non occorre, cioé, che i fatti, su cui la presunzione si fonda, siano tali da far apparire la esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile dei fatti accertati secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (in tal senso v. peraltro Cass., 6/8/1999, n. 8489; Cass., 23/7/1999, n. 7954; Cass., 28/11/1998, n. 12088 ), ma è sufficiente che l'operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di ragionevole probabilità, con riferimento alla connessione degli accadimenti la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza (v. Cass. 23/3/2005, n. 6220; Cass., 16/7/2004, n. 13169; Cass., 13/11/1996, n. 9961; Cass., 18/9/1991, n. 9717; Cass., 20/12/1982, n. 7026 ), basate sull'id quod plerumque accidit (v. Cass., 30/11/2005, n. 6081; Cass., 6/6/1997, n. 5082 ).

La presunzione basata sulla regola di esperienza - che può indurre il giudice ad escludere la necessità di ulteriori prove al riguardo - è, diversamente da quella legale, in realtà rimessa ad una conclusione di tipo argomentativo, nell'ambito del prudente apprezzamento del giudice ex art. 116 c.p.c.

Rendendosi conto della valorizzazione conferita alla presunzione semplice – ai fini probatori del danno esistenziale da morte del congiunto  e trovandosi di fronte all’affermazione delle sezioni unite che, per il caso del demansionamento, avevano ipotizzato che il demansionato poteva non subire, in astratto, alcun danno esistenziale una volta soddisfatta dall’invarianza retributiva la sfera patrimoniale – la 3° sez. civ. nella sentenza n. 13546/06 afferma che «pur se anche nell'ambiente familiare è astrattamente possibile che la perdita dello stretto congiunto (coniuge o genitore) possa non determinare conseguenze pregnanti nella sfera soggettiva laddove rimangano garantite quelle economiche, tale conseguenza appare invero nei normali rapporti di vita familiare assolutamente meno probabile e frequente che non nei rapporti di tipo lavorativo, come quello preso in considerazione da Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ».

In buona sostanza la 3° sez. civ. asserisce che l’inversione dell’onere della prova – conseguente all’azionamento della presunzione ex art. 2729 c.c. – ha natura di normalità  per il “danno esistenziale” da perdita del congiunto, in considerazione della pressoché costante alterazione peggiorativa della qualità della vita  subìta dai congiunti privati dell’affetto del deceduto, mentre può essere meno probabile per il danno esistenziale da mortificazione, perdita di autostima ed eterostima conseguente al demansionamento.

Si tratta invero di una considerazione piuttosto opinabile – verosimilmente effettuata per non svalutare platealmente il meno intenso ricorso alle presunzioni per l’indennizzo del demansionato ventilato dalla sentenza n. 6572/2006 delle sezioni unite, presumibilmente per finalità eminentemente deflazionistiche del contenzioso o di matrice conservatrice e di sfavore verso i lavoratori subordinati -  in quanto coloro che hanno dimestichezza della vita aziendale ben sanno quanto sia “normale”  e “scontato” per il dipendente oggetto di una sostanziosa  e protratta dequalificazione (per sorvolare sullo strategico accantonamento o confinamento in inattività forzata) subire una incisiva modificazione peggiorativa della qualità della vita, nei suoi aspetti relazionali e sociali, sovente accompagnata da danno biologico allo stato di salute, acclarato sempre più spesso dalle strutture sanitarie  pubbliche o dai Ctu.

Potremmo allora concludere,  a meno di non voler dar consistenza a differenti ed irragionevoli regimi probatori –  quali esemplificativamente un ricorso attenuato alla presunzione per il lavoratore demansionato, un ricorso incisivo e pregnante per il danno “non patrimoniale” da irragionevole durata del processo e per il “danno esistenziale” pressochè sostanzialmente immanente per uccisione del congiunto – che la prospettiva e l’applicazione del regime della presunzione semplice delineata da Cass. n. 13546/2006 merita di divenire ed imporsi quale prassi generalizzata anche per il risarcimento del danno esistenziale da “demansionamento” (salva la prova contraria di parte convenuta), in applicazione del criterio dell’id quod plerumque accidit, in modo che l’orientamento di buon senso finora in prevalenza praticato  in ambito giudiziario  si sottragga all’imbrigliamento ad opera di formalismi burocratici che rischiano di far atteggiare la nostra giustizia a “soggetto debole con i forti e forte  con i deboli”. Giacchè nessuno può negare fondatamente che, al verificarsi di un demansionamento qualitativamente e temporalmente significativo, sia del tutto “normale”,  reale, fondata e rispondente all’id quod plerumque accidit  ed al fatto notorio la considerazione reperibile nell’orientamento sinora maggioritario della sezione lavoro (ricusato dalle sezioni unite), secondo cui: “Il danno alla professionalità attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall'art. 2 della Costituzione, avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l'immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in termini di autostima e di eterostima nell'ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello, determinando danni riconducibili nell’ambito del danno non patrimoniale” ( v. Cass. n. 10157/04).

 

Mario Meucci

Roma, 19 giugno 2006

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