Esenzione contributiva e fiscale delle somme risarcitorie dei danni emergenti
 
Sommario: 1. Premessa.  – 2. Riflessi previdenziali e fiscali. – 3. L’imposizione delle somme risarcitorie alla luce dell’art. 32 L. n. 85/95 – 4. Incompatibilità costituzionale della (eventuale) tassazione del “danno emergente” – 5. La correlazione dell’imposizione delle somme risarcitorie (da solo “danno per lucro cessante”) alla «risoluzione del rapporto» nel «decreto Dini» n. 41/95.
 
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            1.Premessa  (*)

Quando un dipendente subisce in corso di rapporto un demansionamento massiccio (per effetto, di norma, di iniziative aziendali vessatorie  strutturanti il  mobbing, la dequalificazione, l'inattività forzata, ecc.), con conseguenze incisive sullo stato di salute (occasionanti danno biologico), talora sfocianti in lesioni personali (implicanti diritto a risarcimento del danno morale, ex art. 2059 c.c.),  accade conseguentemente che egli, prima o poi, si determini in corso di rapporto (o anche successivamente alla cessazione) a rivendicare giudizialmente i danni subiti, nel periodo di servizio, alla professionalità, alla salute, il risarcimento del danno psichico e del danno esistenziale nonché del danno morale costituito dalle sofferenze transeunti patite (c.d. pretium doloris).

Nelle more delle lungaggini giudiziali, il rapporto può venire a cessare per dimissioni, pensionamento, esodo anticipato, e a distanza d’anni dalla risoluzione del rapporto il magistrato può emettere la propria decisione, con il riconoscimento di fondatezza della rivendicazione e con la liquidazione di una somma (che di norma non specifica se lorda o netta, in quanto non rientrante nelle proprie competenze), somma composta – nell’esempio sopra citato -  da  una o più voci risarcitorie,  ad es., una per il danno professionale, la seconda per il danno biologico, la terza per il danno morale.

Può verificarsi che le Aziende soccombenti  – da un lato per “ritorsione” contro la vittoria del lavoratore, dall’altro per stare a posto, quali sostitute  d’imposta, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria – decidano di assoggettare a ritenute fiscali le somme risarcitorie liquidate dal magistrato a favore del lavoratore, onerandolo dell’incombenza di ricorrere successivamente ed eventualmente contro l’indebito versamento al fisco, nei 18 mesi dalla ritenuta operata a favore dell’Amministrazione finanziaria sulla somma risarcitoria loro imposta dal giudice.

Può accadere anche che, dopo la cessazione del rapporto, la vertenza giudiziale (instaurata per i predetti titoli risarcitori a fronte di un danno maturato in corso di rapporto) venga conciliata fra azienda e lavoratore, con identica propensione o determinazione aziendale all’assoggettamento fiscale.

Ci preme esaminare se le somme ottenute per sentenza giudiziale o in via conciliativa siano esenti o meno da imposizione fiscale, alla luce della normativa vigente e, conseguentemente – in caso positivo - se il comportamento aziendale in luogo dell’essere corretto  incorra, invece,  nel divieto dei cd. “atti emulativi”, finalizzati a nuocere al lavoratore, con conseguenti responsabilità risarcitorie da “neminem laedere”, ex art. 2043 c.c.

 

2. Riflessi previdenziali e fiscali

Una volta che la sentenza ha accolto (in tutto o in parte, poco rileva) la richiesta risarcitoria del dipendente (a titolo di danno alla professionalità, biologico e/o morale) – danni che  non va dimenticato rientrano pacificamente nella categoria del “danno emergente” e non già del danno da “lucro cessante” per perdita di redditi [1] -  l’indennizzo erogato è esente da contribuzione previdenziale, per effetto dall’art. 12 L. n. 153/1969 nella modifica apportata alla lett. c) del 4 comma (ad opera dell’art. 6 del d.lgs. 2 settembre 1997, n. 314, in tema di armonizzazione delle disposizioni fiscali e previdenziali concernenti i redditi di lavoro dipendente) che dispone l’esclusione dalla base imponibile (contributiva) de «i proventi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento danni».

Resta da vedere se le somme giudizialmente liquidate o convenute in via conciliativo/transattiva possano considerarsi anche esenti da imposizione fiscale per Irpef da parte del sostituto d’imposta.

A questo riguardo è necessario un  approfondimento della tematica alla luce del Tuir adottato con d. P.R. n. 917/1986.

Il Tuir in questione delinea all’art. 1 e 6 i presupposti per l’imponibilità fiscale che costituiscono i capisaldi portanti dell’intera normativa, vincolante il comportamento dell’Amministrazione finanziaria.  Recita l’art. 1 (Presupposto d’imposta): «Presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6 ». E l’art. 6  (Classificazione dei redditi ) dopo aver elencato al comma 1° i singoli redditi (da capitale, da lavoro, ecc.), dispone al comma 2° che « I proventi conseguiti in sostituzione dei redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti ».

Con riferimento specifico alle erogazioni di natura risarcitoria, la disposizione in questione è stata interpretata – sia dottrinalmente, sia giurisprudenzialmente sia operativamente dall’Amministrazione finanziaria -  nel senso che  tramite di essa il legislatore ha inteso assoggettare ad imposizione i soli redditi risarcitori riposanti su un danno da “lucro cessante” (com’è il caso dell’ opzione per l’indennizzo delle 15 mensilità, ex art. 18 Statuto dei lavoratori, a fronte di rinuncia alla reintegrazione per licenziamento illegittimo, preclusiva della percezione in futuro degli stipendi, in ragione della rinunzia al posto di lavoro) restando estranei all’ambito impositivo i risarcimenti da “danno emergente” che ristorano, in via monetaria, una lesione non altrimenti sanabile se non in via alternativa (quali sono pacificamente riconosciuti i risarcimenti del danno alla salute o biologico, del danno morale, del danno alla professionalità, del danno estetico da incidente stradale e così via).

Sul punto la giurisprudenza della S. corte è pacificamente consolidata nell’affermazione: «In tema di imposte sui redditi, alla stregua del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, le somme percepite dal contribuente a titolo di risarcimento vanno considerate reddito assoggettabile ad Irpef soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione  o perdita di redditi (delle retribuzioni che sarebbero state percepite nell’ipotesi di prosecuzione del rapporto di lavoro)» (Cass. 2.2.2001, n. 1467 a proposito  dell’indennità supplementare per i dirigenti d’azienda);  ancora « In tema di imposte sui redditi, l’art. 6 comma 2°, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nella parte in cui dispone che “le indennità conseguite…a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli…perduti ” comporta  che “le somme percepite, anche in via transattiva, dal contribuente a titolo di risarcimento costituiscono reddito imponibile solo se – e nei limiti in cui – siano destinate a reintegrare il danno subito dalla mancata percezione di redditi» (Cass. 11.10.1997, n. 9893,  a proposito di integrazione transattiva delle spettanze di trattamento di fine rapporto per accettazione di licenziamento da parte del lavoratore).

Nello stesso orientamento si colloca Cass, sez 1° civ., 26.5.1999 n. 5081 [1 bis]  secondo cui: “ In tema di imposte sui redditi, non ogni somma corrisposta in dipendenza del rapporto di lavoro deve considerarsi retributiva e pertanto, ai sensi dell’art. 48 d.p.r. n. 917, assoggettabile...; infatti a monte della definizione di reddito dettata dal citato art. 48...deve porsi la distinzione  tra prestazioni reddituali e risarcitorie...”, secondo cui non vi è reddito se l’erogazione non dà luogo ad un arricchimento del soggetto (cioè a nuova ricchezza imponibile) ma vi è solo la reintegrazione del patrimonio dello stesso da una decurtazione o danno subito (principio espresso in fattispecie di rimborso forfettario volto a riportare la retribuzione alla normalità e non a determinare un suo aumento generalizzato). Alle stesse conclusioni di principio perviene Cass., sezione tributaria, 20 giugno 2002, n. 9101  secondo la quale: «L'art. 6, comma 2, del d. P. R. n. 917 del 1986 nella parte in cui stabilisce che «le indennità conseguite ... a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti», compie la sussunzione - nelle categorie di reddito nominate dal primo comma - di tutte quelle somme riscosse a titolo di risarcimento danni, basandosi non già sul titolo dell'erogazione ma sulla circostanza che il risarcimento sia diretto a compensare la perdita di redditi e non a reintegrare il patrimonio del contribuente. Essa, in conclusione, assoggetta a tributo solo quelle somme percepite dal contribuente, anche in via transattiva, a titolo di risarcimento del danno (da lucro cessante), che siano destinate a reintegrare il danno da mancata percezione dei redditi (e in questo novero compie un'ulteriore esclusione, con riguardo ai redditi non percepiti a causa dell'invalidità permanente o da morte) e non, come nella specie, le energie psicofisiche spese oltre quello che, dai giudici di merito, è stato ritenuto l'orario massimo di lavoro esigibile, in base al criterio di ragionevolezza (che sono risarcitorie di danno emergente)».

Parimenti Cass., sezione tributaria, 3 settembre 2002, n. 12798, che ha asserito – in relazione alla percezione di somme risarcitorie di danno all’immagine professionale (danno emergente):« In tema di imposte sui redditi, alla stregua del dettato dell'art. 6, secondo comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (applicabile nella specie "ratione temporis"), secondo il quale i proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti, le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non costituisce reddito imponibile (anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 32, comma primo, lett. a, del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito in legge 22 marzo 1995, n. 85) ogni risarcimento inteso a riparare un pregiudizio di natura diversa (nella specie, con valutazione del giudice di merito adeguamente motivata, insindacabile in sede di legittimità, e' stata attribuita natura risarcitoria alla somma corrisposta al dipendente per il pregiudizio, costituente danno emergente, all'immagine professionale in conseguenza dell'anticipata risoluzione del rapporto di lavoro, escludendosene, pertanto, l'assoggettabilità  ad IRPEF)».

 

3. L’imposizione delle somme risarcitorie alla luce dell’art. 32 L. n. 85/95

Resta  ancora da esaminare se tale situazione si sia modificata (ed eventualmente per quali limitate fattispecie) con l’entrata in vigore dell’art. 32 del “decreto Dini” [D.L. n. 41/1995, convertito nell’art. 32 (Transazioni e somme risarcitorie) della L. n. 85/1995].

E’ bene fare chiarezza, per quanto possibile, sulla reale portata innovativa dell’art 32 in questione che ha integrato l’art. 16 (Tassazione separata), comma 1°, lett. a) del Tuir disponendo che l’imposta si applica separatamente anche «…alle somme ed i valori comunque percepiti al netto delle spese legali sostenute, anche se a titolo risarcitorio o nel contesto di procedure esecutive, a seguito di provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavoro».

E’ stato condivisibilmente affermato: «Anche prima dell'entrata in vigore del «decreto Dini», sulla scorta del Testo unico citato, ad avviso di chi scrive, non era possibile titolare l'erogazione in sede transattiva con l'indicazione «a titolo di risarcimento del danno», ed esser certi di non incorrere  nell'imposizione fiscale.

Anche allora, doveva considerarsi soggetto ad imposta, a mente dell'art. 6 citato del Testo unico, l'esborso che andasse effettivamente a ristorare un lucro cessante, cioè a risarcire la perdita di un reddito futuro, e doveva reputarsi esente solo quello volto a risarcire un danno emergente, quindi a reintegrare un patrimonio depauperato (a prescindere dalle titolature nei verbali di conciliazione), secondo la nota ed antica suddivisione istituzionale e sistematica delle diverse categorie di danno. Chi scrive, non considera oggetto di transazione esente da imposta le erogazioni effettuate ai sensi dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori o le indennità supplementari per i dirigenti licenziati, apparendo evidente la natura sostitutiva di reddito, o il ristoro di un lucro cessante, delle somme pagate in quelle fattispecie.

Tuttavia un cospicuo orientamento giurisprudenziale, formatosi soprattutto in materia di indennità supplementare per i dirigenti, aveva escluso la tassazione delle somme erogate per quei titoli, e - ciò costituisce addirittura fatto notorio - prima dell'entrata in vigore del D.L. n. 41/1995 gli uffici delle Preture erano quotidianamente affollati per la formale stipulazione di accordi conciliativi in mera prevenzione di cause di impugnazione di licenziamento, dove le somme erogate a fronte della rinuncia alla prosecuzione del rapporto erano pressoché sempre, di fatto, considerate esenti da imposta dai datori di lavoro. Nessuno, invece, ha allora mai dubitato che avessero natura di mera reintegrazione del patrimonio (inteso nell'ampia accezione del compendio dei diritti suscettibili di valutazione economica che fanno capo alla persona), e quindi di danno emergente, come tale esente da imposizione fiscale, le somme volte a risarcire il lavoratore del danno all'immagine nel caso di licenziamento ingiurioso (titolo ben differente, eventuale, e separato dalle provvidenze di cui al citato art. 18), del danno alla salute che al lavoratore può conseguire casualmente da qualunque comportamento illecito o illegittimo del datore, del danno all'immagine nelle interrelazioni professionali e quello costituito dalla perdita della professionalità pregressamente acquisita discendente da una dequalificazione del dipendente, ecc.

E’ ora opinione che l'art. 32 del D.L. n. 41/1995 abbia innovato nel senso dell'obbligo di sottoporre a tassazione non solo le somme pagate per risarcire un lucro cessante ma anche quelle volte a ristorare un danno emergente: ciò sarebbe avvalorato – secondo i sostenitori - soprattutto dall'ampiezza del tenore letterale della disposizione dove in modo assolutamente generico si parla di «titolo risarcitorio», senza alcun riferimento distintivo alle già citate diverse categorie di danno.

Ad avviso di chi scrive tale opinione merita una sostanziale critica.

Anzitutto la tesi importerebbe un vero e proprio stravolgimento della teoria generale del danno nel diritto civile, e chi la sostiene non ha saputo finora spiegare le ragioni per le quali, e solo nella materia di lavoro, non in ogni altra, un titolo che ontologicamente non costituisce reddito, dovrebbe invece essere considerato tale al solo esclusivo scopo di assoggettarlo a imposta. Nessuno ha pensato di tassare il risarcimento del danno all'automobile conseguito ad un sinistro stradale e, per quanto ci riguarda, gli assertori della imponibilità fiscale del danno emergente non danno in alcun modo conto delle ragioni per le quali il legislatore avrebbe, solo nel caso che ci occupa, derogato alle generalissime regole in tema.

Oltretutto nella materia giuslavoristica, particolarmente assistita anche su questo versante, semmai è patrimonio acquisito alla legislazione vigente un intento opposto: basti pensare che gli atti processuali sono qui esenti tanto da imposta sul bollo, quanto da tassa di registro» [2].

L’opinione della pretesa imponibilità del risarcimento del  “danno emergente” non è soddisfacente perché – quand’anche l’intenzione del legislatore fosse stata quella di non distinguere tra risarcimento di “danno per lucro cessante” da  quello per “danno emergente” - ciò non risulta dalla tecnica legislativa usata.

Infatti, a fronte dell’aggiunta dell’art. 16, primo comma lett. a) del Tuir, il legislatore non ha provveduto ad analoghe modifiche degli altri articoli del Tuir e relativi alla stessa problematica. E’ di tutta evidenza che  l’art. 16 del d.P.R. 917/1986 – all’interno del quale è stata inserita l’aggiunta ad opera del D. L. 23 febbraio 1995 n. 41 (manovra Dini) - fa riferimento ed è intitolato “Tassazione separata”; fa quindi riferimento ad una “particolare modalità” di effettuazione operativa dell’imposizione, lasciando inalterati i presupposti del tributo che, come già evidenziato, risiedono negli immutati artt. 1 e 6.

Il tutto pone sul tappeto la necessità di verificare se sia intervenuta ad opera della novella citata una abrogazione (evidentemente tacita) delle due “disposizioni coposaldo”, sopra indicate. Rifacendosi alle disposizioni sulla legge in generale, in merito all’abrogazione delle leggi, l’art. 15 statuisce che «le leggi non sono abrogate che da legge posteriore per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore». Da esso si può escludere a priori  sia il caso della abrogazione espressa che della regolamentazione dell’intera materia, già regolata dalla legge anteriore; mentre resta da riesaminare se la fattispecie esaminata possa essere ricompresa nel caso di incompatibilità delle nuove disposizioni con le precedenti.

Ad un’ attenta analisi non appare accoglibile neppure quest'ultima ipotesi, dato che, proprio la sedes materiae in cui è stata collocata la novella, non appare possa indurre ad una soluzione in tal senso.

Infatti, come già si è accennato, appare dubbio che una modifica legislativa inserita in una norma concernente le modalità di tassazione - nella specie "tassazione separata" - possa abrogare delle disposizioni contenute in altri articoli e che costituiscono i princìpi fondamentali di tutto il testo legislativo, tali dovendo essere considerate le disposizioni che hanno ad oggetto i presupposti dell'imposta (artt. 1 e 6, d.P.R. 917/1986).

Per cui si può concludere nel senso che l'art. 16 indica  solo la determinazione di una modalità di imposizione relativa a taluni emolumenti o indennità, mentre è in altre disposizioni  che si individuano i presupposti della loro imponibilità.

Infatti è l'art. 1 cit., che pone espressamente il principio fondamentale per cui, presupposto dell'imposta sul reddito, è il possesso di redditi in denaro o in natura, in quanto rientranti nelle categorie reddituali dell'art. 6, dalla cui analisi si può certamente escludere l'imponibilità delle somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno, e qualificabili all'interno della categoria del “danno emergente”.

 

4. Incompatibilità costituzionale della (eventuale) tassazione del “danno emergente”

Le considerazioni finora svolte, rivengono dall'analisi interpretativa dei testi normativi nel d.P.R. 917/1986 e nel D.L. 41/1995, implicanti, quindi, valutazioni di ordine formale-interpretativo.

Mentre ben altre considerazioni sarebbero state ingenerate nel caso in cui, il legislatore avesse correttamente operato il proprio intervento da un punto di vista tecnico-legislativo, essendo ben evidenti le conseguenze che si sarebbero avute sul versante della compatibilità costituzionale, nel caso in cui fosse stata correttamente attuata una tal sorta di imposizione.

In tal caso la valutazione del contegno del legislatore si sarebbe spostata da un punto di vista formale ad uno prettamente sostanziale, quale è quello del rispetto dei princìpi stabiliti dalla nostra Carta costituzionale.

La Costituzione della Repubblica, allorquando statuisce all'interno dell'art. 53, primo comma, che «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», statuisce un fondamentale principio di equità e solidarietà sociale, in ossequio a quanto sancito, tra l'altro dall'art. 2 Cost., con cui è in stretta relazione.

La norma costituzionale nel delineare i princìpi di contribuzione a cui è ispirata, indica, al legislatore ordinario, anche quello di solidarietà economica e sociale, attraverso la contribuzione alle spese pubbliche in base alla capacità economica riferibile a ciascun contribuente .

Chiaramente la Carta costituzione pone due limiti al potere di imposizione.

L'uno è di carattere sostanziale, ed è posto dallo stesso art. 53, il quale è, allo stesso tempo, fondamento e limite all'attività impositiva. Fondamento, in quanto non è possibile dare corso ad una imposizione - costituzionalmente legittima - senza che esista capacità contributiva; limite, in quanto, non è possibile esigere da un soggetto un concorso, superiore a quello che appaia ragionevolmente richiedibile, alla sua capacità contributiva.

L'ulteriore limite evincibile dalla Costituzione è di carattere formale, ed è posto dall'art. 23 Cost., stabilendo il principio di "legalità" per quanto concerne le prestazioni patrimoniali, di cui chiaramente i tributi fanno parte, e più specificamente attraverso la previsione di una riserva relativa di legge, secondo la quale, l'imposta deve essere prevista dalla legge, anche se non in tutti i suoi elementi - essendo sufficiente che ne indichi gli elementi fondamentali - potendo esserne gli altri rimessi ad una normazione secondaria.

Si vuole cioè affermare che, il principio di capacità contributiva esige che vi sia un nesso eziologico tra imposizione e il relativo presupposto economico, la cui sola esistenza giustifica l'obbligo di contribuzione.

Si condivide in pieno la posizione secondo cui: «Tale collegamento esige prima di tutto che la somma sia parte della ricchezza considerata e che vi sia proporzionalità inoltre fra l'una e l'altra: il collegamento non deve essere distorto per effetto di una dilatazione del carico tributario, con alterazione in eccesso del risultato quantitativo» (Corte cost. n. 92 del 1972).

Tutto quanto previsto dall'art. 53 Cost. impone la considerazione che non è costituzionalmente legittimo imporre tributi, se non in relazione ad un fatto che sia espressivo di capacità contributiva.

Esso garantisce, quindi, i singoli, dalla possibilità di essere assoggettati ad imposizione in modo arbitrario ed irrazionale, ma di esserlo solo in presenza di fatti e situazioni che li rendano soggiacenti ai propri obblighi contributivi [3].

Dalle considerazioni sin qui svolte, che accomunano coralmente la dottrina sul punto, si evince chiaramente che, nel caso di specie, relativo al trattamento fiscale del risarcimento del danno, non è possibile - nel rispetto dei princìpi costituzionali - sottoporre a tassazione, un elemento, quale il "danno emergente" che, avendo funzione reintegratoria di un bene giuridico irrimediabilmente leso dal comportamento illecito datoriale, non è valutabile e qualificabile come "novella ricchezza", come tale, sottoponibile a tassazione.

Se ciò fosse, la lesione dell'art. 53 Cost. sarebbe inevitabile, apparendo lapalissiano che non può essere considerato "indice di capacità contributiva" un elemento che ha funzione reintegratoria, sostitutiva, di un bene giuridico che, essendo stato leso, e non esistendo forme di tutela che consentano una reintegrazione in forma specifica del medesimo bene sacrificato, viene reintegrato attraverso una sua quantificazione monetaria in funzione risarcitoria, ma senza che ciò possa giustificare - in base ai corretti princìpi di dommatica giuridica - una loro qualificazione quale "novella ricchezza" sottoponibile,  per ciò stesso, ad imposizione.

Tale presa di posizione sul punto abbraccia, come è evidente, considerazioni plurime, di ordine sia pubblicistico che privatistico, ma senza che in nessuna delle due "branche" del diritto si siano mai posti in dubbio - nei settori di varia competenza: costituzionale, tributario, civilistico, giuslavoristico - i princìpi che informano tale costruzione giuridica.

Si ricorda A.D. Giannini, «Non vi è ricchezza nuova se il beneficio economico che taluno realizza in determinate circostanze, rappresenta soltanto la reintegrazione di una perdita sofferta o di un danno subito» [4]; Nicola D'Amati, «Non ha carattere di reddito la ricchezza affluita al soggetto per indennizzare un danno o per reintegrare una perdita subita» [5]; Oberti Becchi, «Non ha carattere di reddito la ricchezza pervenuta nel patrimonio del soggetto per indennizzare un danno o per reintegrare una perdita subita»[6];conf. anche Giua: “ si deve ammettere che le somme aventi natura risarcitoria sono escluse dal reddito di lavoro dipendente in virtù della stessa nozione di reddito che è a fondamento del sistema, vale a dire per assoluta carenza dell'indefettibile requisito rappresentato dalla esistenza ed emersione di una nuova ricchezza” [7].

 

5. La correlazione dell’imposizione delle somme risarcitorie (da solo “danno per lucro cessante”) alla “risoluzione del rapporto” nel “decreto Dini” n. 41/95

Assodato, a nostro avviso, che  i presupposti impositivi (ex artt. 1 e 6 Tuir) delle somme risarcitorie di “danno emergente”- erogate per provvedimento giudiziale o convenute in via conciliativa o transattiva – non possono essere mutati, ne consegue che, ad avviso di chi scrive, la portata innovativa della “manovra Dini” è modesta ma poiché bisogna giocoforza riconoscerla, essa va individuata  esclusivamente nella (implicita) adesione del legislatore del 1995 all’interpretazione giurisprudenziale che, prima di allora, e per le norme precedenti, considerava esenti da imposta le somme erogate a fronte della rinuncia del dipendente al posto di lavoro [8]. La nuova normativa   ha, così, effetto di sanatoria per il passato, e di definitiva imposizione – in senso diametralmente opposto – per il futuro.

Ciò detto va altresì evidenziato come l’obbligazione impositiva sia “condizionata” o “limitata” al fatto dell’essere le somme risarcitorie attribuite (giudizialmente o transattivamente convenute) in relazione alla risoluzione del rapporto (cioè a dire  in relazione a fatti rivenienti nell’atto rescissorio).  E’ questa una evidente “limitazione” per l’art. 32 L. n. 85/95, conseguente al rilievo fattuale che all’atto della cessazione del rapporto (di norma contestualmente) si  usava conveniva tra le parti, in via transattiva sia a prevenzione di qualsiasi contenzioso, sia a fronte di licenziamento ingiustificato sia per incentivazione all’esodo (fattispecie poi disciplinata fiscalmente in via autonoma ex art. 5, d. lgs. 2 settembre 1997, n. 314)  l’erogazione ad integrazione del trattamento di fine rapporto di somme di vario importo per (reali)  titoli retributivi, riconvertiti  e camuffati in “titoli nominalmente risarcitori”, quali il danno biologico, il danno all’immagine e simili. Erano queste soluzioni formalmente elusive, che dietro il “nomen iuris” risarcitorio  celavano erogazioni sostanzialmente retributive, in quanto compensative di “lucro cessante” (per cessazione del rapporto, perdita del posto e della retribuzione).

Pertanto, ricapitolando, perché le somme risarcitorie erogate (giudizialmente o transattivamente) siano imponibili ex art. 32 L. n. 85/95 non solo debbono afferire a danno da “lucro cessante” (e non a danno emergente) ma essere anche correlate o relative all’evento “risoluzione del rapporto” (il che normalmente risalta per il dato temporale della contestualità  di conferimento o per l’inerenza di un licenziamento all’atto  di rescissione del rapporto).

Se così non fosse l’assoggettamento ad imposta – come vorrebbe la tesi criticata – di qualunque somma pagata per sentenza o transazione in una causa in cui comunque si controverta, unitamente all’impugnazione del licenziamento, di altre domande volte ad ottenere il riconoscimento giudiziale dei diritti pretesi o, nella seconda ipotesi, la rinuncia dell’attore a quei diritti a fronte del pagamento di una certa quantità di denaro, condurrebbe ad una macroscopica ingiusta ed ingiustificata incongruità, perché l’imposizione fiscale non colpirebbe invece gli stessi  titoli di danno emergente quando le relative domande fossero fatte valere in un giudizio nel quale non si controvertesse anche della cessazione del rapporto. La criticata opinione, infatti, non tiene in debito conto (o in nessun conto, erroneamente) soprattutto dell’ambito circoscritto in cui l’art. 32 in commento è destinato ad operare: la norma fa riferimento esplicito soltanto alla fattispecie di erogazione di somme «in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro», e non si può ipotizzare, senza solidamente argomentarne le ragioni, che il legislatore abbia voluto estenderne l’applicabilità anche ad ipotesi diverse dalla risoluzione del contratto.

Ciò detto, va pienamente condivisa l’affermazione secondo cui: «Quando in uno stesso giudizio e con uno stesso, unico, ricorso siano state proposte due diverse domande, una di impugnazione del licenziamento, l'altra volta ad ottenere il risarcimento di un danno emergente, connesso o meno al licenziamento stesso: danno alla salute, danno per l'ingiuria che ha accompagnato l'estromissione del lavoratore, danno alla professionalità connesso alla dequalificazione, ecc., è anche oggi possibile, ad avviso di chi scrive - con diverso regime fiscale - transigere entrambe le domande. La somma erogata a fronte della rinuncia all'impugnazione del licenziamento, congrua rispetto all'entità delle provvidenze di cui all'art. 18, legge n. 300/1970 nel caso concreto, o, se si tratti di un dirigente, congrua rispetto alla provvidenze previste dal contratto collettivo - l'incentivazione all'esodo - sarà assoggettata ad imposta con tassazione separata. La somma erogata a fronte della rinunzia alla domanda di danno emergente ed a transazione della medesima, nei limiti economici della quantificazione della relativa pretesa fatta valere in giudizio, sarà esente» [9].

Nelle fattispecie ipotizzate all’inizio del presente scritto – danno alla professionalità, biologico, esistenziale e/o morale subiti in corso di rapporto, rivendicati e riconosciuti giudizialmente sia prima sia dopo la cessazione del rapporto ovvero in atto conciliativo – è riscontrabile una completa estraneità  delle medesime ai requisiti impositivi delineati dal c.d “decreto Dini”, giacché – a parte la natura di “danno emergente” delle somme indennitarie percepite, costituenti ristoro di danno e non “nuova ricchezza” –  i provvedimenti giudiziali o  conciliativo-transattivi non hanno alcuna correlazione con “eventi” relativi alla risoluzione del rapporto. Infatti i danni rivendicati, di norma, si sono realizzati molti anni prima del momento dell’occasionale risoluzione del rapporto, da cui sono totalmente scollegati ed avulsi, con la conseguenza dell’essere totalmente arbitraria qualsiasi operazione di sottoposizione, da parte del sostituto d’imposta, a trattenuta a favore del fisco.

Alle stesse conclusioni non impositive non ci sentiamo, invece, di pervenire - con altrettanta tranquillità -  nel caso in cui la transazione-conciliazione sia contestuale all’atto di risoluzione del rapporto, giacché il dato “temporale” potrebbe venir considerato dall’Amministrazione finanziaria non solo indiziario ma idoneo a  strutturare la “correlazione all’atto di cessazione del rapporto”, cui fa riferimento letterale l’art. 32 del “decreto Dini” n. 41/1995.

 

Mario Meucci

Roma, ottobre 2002

 

Note

 

(*) Nell’esposizione delle presenti considerazioni siamo ampiamente debitori del condivisibile contributo fornito dall’articolo di M. Crucillà, “Il trattamento fiscale delle somme risarcitorie corrisposte al lavoratore dipendente”, pubblicato  nella rivista n. 4/2000 del sito Internet della Guardia di Finanza. Sullo stesso tema, si veda anche S. Canali De Rossi, Conciliazioni in materia di lavoro: aspetti fiscali e previdenziali, in Lav. prev. oggi, n.6/1999, 1086 e ss.

(1)   Nell’improbabile ipotesi che il magistrato (o l’atto conciliativo) operi un’analitica scomposizione dell’indennizzo del danno alla professionalità, va precisato che – se riconosciuto e quantificato – rientra invece nella categoria dei danni da “lucro cessante” (fiscalmente imponibili) quello da perdita di “chance” di progressione di carriera e/o di migliori occasioni di guadagno in impieghi esterni.

(1 bis)    Vedila in Boll. trib. 1999, 1784, con nota di Lovecchio; nonchè in Il fisco 1999, p. 12564; Gazz. giur. 1999, fasc. 29, 96.

(2)   Così Racchi, Il regime fiscale delle transazioni in materia di lavoro, in  Dir. prat. lav. n. 50/1996, 3556 e ss.

(3)   Così Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, I, Parte generale, Cap. 2, sez. III, I principi, Torino, Utet, 1989.

(4)   Così Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Milano 1995, p. 362.

(5)   Così D’Amati, voce Ricchezza mobile, in Nuov. dig. it., XV, 1968, p. 874.

(6)   Così, Oberti Becchi,  Il concetto di reddito mobiliare, in Dir. Prat. Trib. 1975, XLVI, II, p. 694 e ss; cfr. altresì, Illecito e risarcimento del danno: riflessi impositivi, in “Il fisco” 12/94, p. 3214.

(7) Giua, Danno biologico: disciplina fiscale delle somme corrisposte a titolo risarcitorio ad un dipendente, in http://www.filodiritto.com/diritto/pubblico/tributario/discfiscalesommeadipendentigiua.htm.

(8)   Ex plurimis, cfr. Comm. Trib. Centrale 20.1.1999, n.186;  Cass. 14.12.1999, n. 14008; Trib. Varese 19.3.1987, in Or. giur. lav. 1988, 546; Comm. Trib. 1° grado 14.2.1992, ibidem 1992, 515; Pret. Bologna 5.9.1987, in Dir. prat. lav.  1987, 2, 112.

(9)   Così Racchi, cit., 3568.

 

Trattamento fiscale delle somme percepite dal lavoratore in via transattiva e per danno biologico

 

Risarcimento del danno biologico

Trattamento fiscale delle somme

percepite dal lavoratore in via transattiva

 

L'elaborazione della categoria del danno biologico esprime la crescente consapevolezza acquisita da dottrina e giurisprudenza della necessità di garantire una tutela risarcitoria più ampia al soggetto vittima di un illecito aquiliano in modo tale da superare gli angusti limiti posti dall'alternativa risarcitoria tra danno patrimoniale e danno extrapatrimoniale.

Infatti l'impostazione seguita dal codificatore del 1942 opera una netta distinzione tra danni consistenti in una perdita economica e danni che producono un effetto negativo non collegato alla lesione di interessi economici, nel senso di riconoscere una tutela estesa ai primi e di limitare il più possibile la possibilità di risarcimento dei secondi(1), onde i danni non patrimoniali sono risarciti solo nei casi determinati dalla legge, ossia, in linea di massima, esclusivamente laddove la loro lesione sia determinata da una condotta rilevante sotto un profilo penale.

Pertanto, nel sistema del Codice civile, la risarcibilità dei danni non patrimoniali è circoscritta principalmente rispetto a fattispecie costituenti illecito penale, precisamente dall'articolo 185 c.p., e tale categoria di danno si identifica con il cosiddetto danno morale, consistente "nell'ingiusto turbamento dello stato d'animo in conseguenza dell'offesa subita" (Cass. n. 4947 del 1985).

Peraltro, la necessità di estendere l'ambito di tutela risarcitoria del soggetto leso da un comportamento ingiusto ha favorito l'elaborazione giurisprudenziale della nozione del cosiddetto danno biologico il quale, in prima approssimazione, può essere definito come la lesione all'integrità psicofisica e alla salute svincolata da effetti economici negativi.

Tale nuova tipologia di danno, dapprima individuata da alcune pronunce delle corti di merito (prima fra tutte, la nota sentenza del tribunale di Genova del 25/5/1974), è stata definitivamente accolta nel nostro sistema a seguito dell'intervento della Corte costituzionale, la quale, investita della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 2059 c.c., in quanto considerata disposizione preclusiva al riconoscimento del danno biologico, ha statuito, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 184/1986, che "l'art. 2059 attiene esclusivamente ai danni morali subiettivi e non esclude che altre disposizioni prevedano la risarcibilità del danno biologico per sé considerato; il diritto vivente individua nell'art. 2043 c.c. in relazione all'art. 32 Cost. la disposizione che permette la risarcibilità, in ogni caso, di tale pregiudizio, onde è infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c. nella parte in cui prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto alla salute soltanto in conseguenza di un reato in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 32 Cost.".

Sotto questo profilo la Corte costituzionale ha inteso confermare la natura eccezionale della disposizione di cui all'articolo 2059 c.c., ma, nello stesso tempo, ha esteso l'ambito di lesioni suscettibili di risarcimento applicando una lettura per così dire costituzionalmente orientata dell'articolo 2043 c.c. che consente di mantenere il concetto di danno biologico comunque distinto anche dal danno conseguente alla perdita della capacità di produrre reddito(2).

A livello sistematico, il danno biologico viene a costituire una sorta di tertium genus accanto al danno patrimoniale e a quello non patrimoniale(3) che assume una connotazione specifica, anche in sede di valutazione equitativa, in quanto, pur non consistendo in una lesione morale, prescinde dalla capacità della persona di produrre reddito e tende a preservare quello che si potrebbe definire il valore dell'individuo in sé, costituendo un danno evento sempre presente in ogni fatto illecito che causi danno alla persona(4).

Venendo a considerare il trattamento fiscale applicabile alle somme percepite a seguito di risarcimento del danno biologico, si tratta in sostanza di verificare se tali importi siano risarcimenti conseguenti alla perdita di redditi ovvero se possano costituire dei proventi esenti da imposta.

Infatti, in base al disposto dell'articolo 6, II comma, Dpr n. 917/1986, mentre nel primo caso le somme attribuite al soggetto leso, ove siano qualificabili come lucro cessante, sono sottoposte allo stesso regime di tassazione dei redditi sostituiti o perduti, invece nell'ipotesi in cui i valori percepiti siano diretti a ristorare il cosiddetto danno emergente, consistente nella perdita patrimoniale subita dal soggetto, non sono assoggettati a tassazione(5).

Sulla scorta della suesposta nozione di "danno biologico" è evidente che la somma liquidata a tale titolo non costituisce un importo sostitutivo rispetto a un reddito non percepito, poiché la sua attribuzione è determinata dalla lesione della integrità fisica senza che abbia alcun rilievo la capacità reddituale del soggetto leso.

Tale tipologia di risarcimento è, dunque, diretta a tutelare una sfera patrimoniale del soggetto e non sopperisce alla perdita di un reddito, in quanto, in assenza di lesione, il soggetto non avrebbe posseduto un reddito corrispondente alla voce di danno risarcito.

In particolare, deve dirsi che il danno biologico va ricondotto all'interno del concetto di danno emergente, in quanto è connesso ad un "impoverimento patrimoniale immediato del danneggiato e non prospettico, come nel caso di lucro cessante, la determinazione del quale è effettuata secondo un ragionevole criterio di attendibilità dei guadagni"(6).

In questa prospettiva appare corretto ritenere che qualora sia risarcita una somma a titolo di danno biologico, la stessa vada esente da ritenuta Irpef, in quanto non rientrante nell'ambito di applicazione dell'articolo 6, II comma, del Tuir, che "si configura come una norma in senso lato antielusiva comportante la riconduzione nella base imponibile di quelle somme che, pur avendo natura o funzione sostitutive di redditi che sarebbero stati imponibili, purtuttavia si pretendesse di sradicare dal prelievo tributario attraverso una novazione del titolo in base a cui le stesse sono state erogate"(7).

Qualora, poi, il risarcimento di un danno biologico venga attribuito nell'ambito della risoluzione di una controversia di lavoro, in sede di transazione giudiziale o stragiudiziale, la non imponibilità reddituale degli importi corrisposti deve essere valutata alla luce di specifiche considerazioni.

Infatti, poiché l'articolo 17, I comma, lettera a), Tuir, prevede che l'imposta sui redditi delle persone fisiche si applichi separatamente sulle "somme e i valori comunque percepiti al netto delle spese legali sostenute, anche se a titolo risarcitorio o nel contesto di procedure esecutive, a seguito di provvedimenti dell'autorità giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavoro", si tratta di verificare se la transazione relativa a crediti di lavoro comporti di per sé la sottoposizione a tassazione separata degli emolumenti corrisposti, in virtù di un meccanismo di attrazione alla categoria del reddito di lavoro dipendente di tutte le somme percepite in occasione della prestazione lavorativa, ovvero se le somme che possono qualificarsi come risarcimento del danno emergente restino comunque sottratte a imposizione.

In proposito, preliminarmente, va detto che la disposizione da ultimo menzionata è stata introdotta dal decreto legge 23 febbraio 1995, n. 41, con decorrenza dal 24 febbraio 1995 e che la stessa, come già rilevato trattando del disposto dell'articolo 6, II comma, Tuir, rappresenta una disposizione sostanziale di natura antielusiva diretta a evitare comportamenti consistenti nel porre in essere transazioni fittizie per evitare la tassazione di somme che non siano immediatamente riconducibili al possesso di un reddito.

Anche se da un punto di vista sistematico la norma in esame disciplina esclusivamente una modalità di tassazione, non avendo introdotto nuove fattispecie di redditi imponibili, la cui elencazione resta ancorata al disposto dell'articolo 6 del Tuir(8), permane, comunque, il problema di verificare se la menzionata formulazione dell'articolo 17, I comma, lettera a), Tuir, consenta di estendere la tassazione separata a qualsiasi somma di denaro erogata in seguito a procedura transattiva purché sia connessa alla risoluzione del rapporto di lavoro, ovvero se operi anche in questa ipotesi il principio della non imponibilità degli importi costituenti risarcimento del danno biologico.

In proposito va anzitutto rilevato che, stando al combinato disposto degli articoli 49 e 51 del Tuir(9), il legislatore ha accolto in ambito tributario, un concetto onnicomprensivo nella determinazione del reddito di lavoro dipendente, ove vengono ricompresi tutti i compensi in denaro o in natura che possano essere considerati come "percepiti in relazione al rapporto di lavoro"(10).

Anche se tale disciplina fiscale del reddito di lavoro dipendente sottopone a tassazione tutte le somme e i valori percepiti per il semplice fatto che siano collegati al rapporto di lavoro, occorre però tener presente che anche rispetto a tale principio, opera la previsione di cui all'articolo 6, II comma, Tuir, secondo cui risultano imponibili i proventi e le indennità che "costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti", e che siano, pertanto, qualificabili come lucro cessante; mentre, come rilevato, sono escluse da tassazione le somme erogate le quali siano collegate a una perdita patrimoniale (danno emergente).

Pertanto, poiché l'articolo 17 del Tuir regolamenta solo una particolare modalità di tassazione, si deve ritenere che, anche in caso di transazione, costituiscano reddito solo quelle somme che sono destinate a reintegrare il danno subito a causa della mancata percezione di redditi (in tal senso Cass. 11 ottobre 1997 n. 9893; Cass. 21 ottobre 1998 n. 10419; Cass., sez. trib., 23 maggio 2003 n. 8139)(11).

Tale principio non viene alterato dalla tipologia della transazione, che, come noto, può assumere la configurazione di transazione novativa (quando le parti estinguono interamente il rapporto preesistente sostituendolo con un altro rapporto del tutto diverso), oppure di transazione semplice (quando le parti modificano solo alcuni aspetti del rapporto preesistente che per il resto continua a rimanere inalterato) o, infine, di transazione mista (allorché le parti, con le reciproche concessioni, creano, modificano o estinguono anche rapporti diversi da quelli contestati). Infatti, come puntualmente rilevato da dottrina e giurisprudenza, "il trattamento fiscale delle somme erogate al lavoratore dipenderà dal motivo del risarcimento"(12).

Peraltro, può ritenersi che la tassazione delle somme percepite in seguito a composizione transattiva di una controversia di lavoro assuma un rilievo prevalentemente probatorio ove il contribuente, avendo subito una ritenuta Irpef al momento dell'erogazione dell'importo concordato, presenti istanza di rimborso ex articolo 38 del Dpr n. 602/1973, poiché in tal caso deve essere dimostrato il titolo giuridico in base al quale la somma è stata corrisposta.

Infatti, secondo l'interpretazione della giurisprudenza di legittimità, "alla somma versata al lavoratore, in base ad una definizione transattiva della controversia che tenga ferma la cessazione del rapporto, deve essere presuntivamente attribuita, al di là delle qualificazioni formalmente adottate dalle parti, la natura di ristoro della perdita delle retribuzioni che la prosecuzione del rapporto avrebbe implicato, e quindi di risarcimento di un danno qualificabile come lucro cessante, con conseguente applicabilità dell'art. 6 TUIR, di guisa che alla deduzione di una distinta causale del relativo esborso deve corrispondere un'adeguata prova, il cui onere spetta al contribuente" (Cass., 24 settembre 2003 n. 14167).

In proposito si ritiene che la prova della effettività del titolo giuridico in base al quale è stata corrisposta la somma risarcitoria possa essere fornita sia allegando idonea documentazione attestante la tipologia di danno subito (a titolo esemplificativo, un parere medico legale che certifichi l'esistenza di un danno biologico) sia avendo cura di evidenziare nel testo dell'accordo transattivo, giudiziale o stragiudiziale, in modo chiaro e univoco, le singole voci oggetto di risarcimento(13), così che sia possibile accertare in concreto a quale titolo gli importi siano stati corrisposti.

Marco Adda

(fonte: Fisco Oggi – rivista telematica dell’agenzia dell’Entrate – del 24.6.2004)

NOTE

1. Secondo l'interpretazione di Bianca, Diritto Civile, La responsabilità, vol. 5, pag. 167, tale impostazione "si ispira alla tradizionale concezione del diritto privato come ordinamento costituito a tutela di interessi economici. Gli interessi non economici sarebbero di massima giuridicamente irrilevanti e la loro risarcibilità richiede un controllo normativo volto ad evitare che il diritto al risarcimento diventi occasione di abusi a carico del danneggiante".

2. In proposito cfr. Cassazione n. 6134/1984 secondo cui "il risarcimento del danno per la lesione del bene della salute non può essere limitato dalle conseguenze che incidono sull'attitudine a produrre reddito, ma deve comprendere anche il cosiddetto danno biologico - inteso come menomazione dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata in quanto incidente sul valore uomo - suscettibile di valutazione equitativa e costituente una species di danno ingiusto al pari delle tradizionali categorie del danno patrimoniale, comprendente le menomazioni del complesso dei rapporti giuridici patrimoniali che fanno capo al soggetto e del danno non patrimoniale, ristretto alla nozione classica della somma delle sofferenze fisiche e morali".

3. In senso conforme, Cass. 13 novembre 1990 n. 11164.

4. Si rileva che in tempi recenti anche il legislatore è intervenuto fornendo una prima definizione di danno biologico nell'art. 13 del Decreto Legislativo 23 febbraio 2000 n. 38, in cui viene stabilito che il danno biologico va inteso come "lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona" ed inoltre che "le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato".

5. Cfr. Cass., 5 agosto 2002 n. 11687, secondo cui "in tema di imposte sui redditi, alla stregua del dettato dell'art. 6, II comma DPR 917/1986, le somme percepite dal contribuente a titolo di risarcimento vanno considerate reddito assoggettabile ad Irpef solo se e nei limiti in cui risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi"; Betti, Le indennità risarcitorie nella determinazione del reddito di lavoro dipendente, Il Sole 24ORE, 1994, 12, pag. 911, il quale osserva che "l'art. 6 enuncia un principio: se le somme sono erogate in sostituzione di redditi (ovviamente di redditi fiscalmente imponibili), esse costituiscono redditi (imponibili) della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti".

6. Così in AA.VV., Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi 2003, De Fusco, pag. 55. Sul punto vedi anche Betti, op. cit., secondo cui "la dottrina, oltre alla stessa Amministrazione Finanziaria, è pervenuta a tracciare una linea distintiva fra il risarcimento riguardante una perdita patrimoniale (danno emergente) che non costituisce reddito per mancanza del profilo della nuova ricchezza e il risarcimento riguardante mancati guadagni (lucro cessante) che si configura come acquisizione di nuova ricchezza e pertanto imponibile".

7. Betti, loc. cit., pag. 911.

8. In tal senso si esprime Russo, Il fisco, 29/96, La nuova disciplina fiscale dei redditi di lavoro in materia di risarcimenti e transazioni, pag. 6954 ss, il quale osserva che "anche la collocazione sistematica della disposizione, nel contesto dell'articolo contemplante semplicemente un tipo di modalità di tassazione (tassazione separata) dimostra come la disciplina in esame non abbia, in ogni caso, efficacia di previsione di nuove situazioni imponibili, per cui, in ultima analisi, il solo significato attribuibile all'innovazione legislativa, è quello di avere meramente puntualizzato un particolare regime di tassazione in ordine a determinate fattispecie i cui presupposti di imponibilità trovano invece fondamento in altre prescrizioni normative (art. 6 TUIR)".

9. Mentre l'art. 49 Tuir (redditi di lavoro dipendente) stabilisce che "sono redditi di lavoro dipendente "quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri", il successivo art. 51 prevede che "il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di elaborazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro".

10. Sul concetto di onnicomprensività della retribuzione cfr. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, parte seconda, pag. 56, il quale osserva che "il reddito imponibile non è soltanto quello derivante dal lavoro effettivamente svolto, ma anche quello che si collega al rapporto e prescinde dalle prestazioni effettivamente svolte (indennità di maternità)".

11. In senso conforme senso si esprime Russo, op. cit., il quale rileva "va decisamente escluso che la previsione in esame possa essere interpretata in modo tale da condurre all'affermazione della tassazione delle somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno emergente posto che detto principio, da considerare presupposto del sistema normativo tributario, risulta positivamente postulato dalla stessa disposizione di cui all'art. 6 del testo unico, laddove viene espressamente contemplata l'assimilazione, agli effetti fiscali, dei soli indennizzi risarcitori per perdita di redditi ai redditi perduti di riferimento, con ciò consacrando la rilevanza della distinzione tra risarcimenti da lucro cessante e risarcimenti da danno emergente".

12. Sul punto vedi Fanelli e Marotta, Le transazioni di lavoro, Pratica fiscale e professionale, n. 19 del 10 maggio 2004, IPSOA. In giurisprudenza vedi Cass., 24 settembre 2003 n. 14167.

13. In tal senso cfr. Fanelli e Marotta, op cit.

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Aggiornamento: per la non imponibilità di somme risarcitorie di "danno emergente", recentemente anche Cass. sez. trib. 16 settembre 2005, n. 18369 (che, all'opposto, ha ritenuto assoggettabile a tassazione Irpef l'indennità supplementare del dirigente ingiustificatamente licenziato, in quanto risarcitoria e riconducibile invece a "lucro cessante")

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