La nuova normativa sul distacco
Si svolgono considerazioni sulla nuova disciplina del distacco con mutamento di mansioni, introdotta dall’art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, attuativo della “riforma del mercato del lavoro”.
 
La nozione di “fungibilità” tra le mansioni
1. Per comprendere appieno la nuova disciplina  dell’istituto del “distacco” – quale regolato dall’art. 30 del d. lgs. 10 settembre 2003 n. 276 (di attuazione della cd. “riforma Biagi”) – ci sembra necessario partire dalla nozione di “fungibilità” tra le mansioni.
La “fungibilità”, sorta nel settore del credito ed ivi consacrata – grazie anche a cedimenti delle variegate  e plurime OO.SS. -  all’art. 67 del ccnl 11.7.1999/23.4.2001 (ove è, peraltro, circoscritta alle mansioni del 2 e 1 livello retributivo e, rispettivamente del 4 e 3 livello retributivo della stessa categoria dei quadri direttivi), è quella nozione di “mutamento” convenzionale delle (e tra le) mansioni di due categorie, qualifiche o livelli, giustificata in tale settore da esigenze di “conseguire conoscenze quanto più complete del lavoro, con interscambio nei compiti in azienda”, tra lavoratori di diverso inquadramento.
La “fungibilità”, col consentire il disimpegno di compiti di qualifiche o livelli diversi (tra l’altro senza la remora del disimpegno in via marginale o comunque non prevalente e quindi senza il divieto dell’espletamento anche o prevalentemente continuativo di compiti di qualifiche o livelli inferiori, anche se della stessa area di inquadramento), si scontra sull’astratto piano logico e giuridico – nell’ipotesi sopra formulata – con il divieto rinvenibile nell’ultimo comma dell’art. 13 dello Statuto dei lavoratori di pattuire (sia  individualmente sia da parte dell’autonomia collettiva) variazioni di mansioni in peius, cioè a dire rifluenti in dequalificazione e non riconducibili nell’alveo della nozione di equivalenza.
Nonostante che in dottrina e giurisprudenza si sia da tempo raggiunta, con unanimità, l’acquisizione per cui lo spostamento temporaneo o definitivo tra mansioni (c.d. “ius variandi”) è legittimo e praticabile solo alla condizione che avvenga tra mansioni equivalenti - per esse intendendosi quelle che “consentono il mantenimento del livello di professionalità acquisito, favorendone l’accrescimento ed il perfezionamento...” (1) - a livello contrattuale ci si è mossi controcorrente e senza remore o condizionamenti espliciti, nell’ottica di favorire  la richiesta datoriale di “flessibilità” (foriera di quei danni per i diritti dei lavoratori che verranno resi tangibili, da qui a breve, dalla cd. “riforma Biagi”). Si è,  invero,  proceduto obliterando l’elaborazione giurisprudenziale ed anteponendole impostazioni suggerite dalla “praticaccia” degli agenti contrattuali contrapposti. Così è stato legittimato – dietro la formula della “fungibilità” – il lavoratore “tuttofare” o “polivalente”, in omaggio ad una ostilità datoriale preconcetta verso una presunta rigidità dell’art. 2103 c.c., che se sussiste trova la sua giustificazione nell’esigenza di salvaguardia del lavoratore da dequalificazioni e demansionamenti illegittimi.
Solo nel ccnl delle Poste italiane ci sembra di aver reperito  una apertura similare a quella del credito verso lo “scorrimento” convenzionale tra le mansioni, cioè a dire un’analoga legittimazione della “fungibilità”. Ma ciò e per noi del tutto spiegabile e comprensibile quando si ponga mente al fatto che  molti operatori della Direzione Risorse umane e relazioni sindacali dell’ex Ente Poste si sono abbeverati alla “stessa fonte” ed erano e sono portatori della stessa cultura, per essere diversi di loro “fuoriusciti” dall’Assicredito o dalle Direzioni del personale di banche che li rivelavano in esubero o senza sbocchi di carriera, a seguito di fusioni o aggregazioni.
Comunque, poiché l’equivalenza tra le mansioni è un dato oggettivo e non presunto e poiché la dequalificazione non può essere preclusa da pattuizioni contrattuali di “fungibilità” (non rispettosa dell’equivalenza legale), chi nutrisse la fondata convinzione di essere oggetto di dequalificazione per esercizio – contenuto o smodato – di “fungibilità” contrattuale, non ha che da investire la magistratura per un riscontro, atteso che sulla materia non vi sono oscillazioni di orientamento ma posizioni, fino al momento, consolidate che suonano in questo senso: «l’equivalenza delle mansioni, che ex art. 2103 c.c., condiziona la legittimità dell’esercizio dello ‘ius variandi’ – e che costituisce oggetto di un giudizio di fatto incensurabile in cassazione, ove sorretto da una motivazione logica, coerente e completa – va verificata sia sotto il profilo  oggettivo, cioè in relazione alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sotto il profilo soggettivo, che implica l’affinità professionale delle mansioni, nel senso che le nuove devono armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi» (2).
 
Antecedenti giurisprudenziali e contrattuali sul distacco
2. L’esigenza della “fungibilità” è stata ripresa e fatta propria dal d. lgs. n. 276/2003 di attuazione della “riforma o controriforma Biagi”, giustappunto nel disciplinare il “distacco”.
Non serve a nulla ricordare – a proposito di quest’istituto – l’indifferenza (3) di larga parte della magistratura di legittimità nei confronti di un istituto (“il distacco”) suscettibile di incidere pesantemente sulle condizioni di vita dei lavoratori, stravolgendone le loro libere scelte in ordine al proprio datore di lavoro effettuate all’atto dell’assunzione (ad es. optando per una Fiat SpA o per una Pirelli SpA o per una determinata Banca), con effetti di plateale disconoscimento di questo interesse specifico (tutelato invece a livello comunitario) e di trovarsi, conseguentemente per decisione unilaterale aziendale, spostati e confinati ad operare presso un’azienda dell’indotto dei due sopra citati grossi gruppi industriali o del parabancario, nelle quali le aziende distaccanti hanno un “interesse” (specifico o generico) al distacco di proprio personale dipendente.
Vale la pena, tuttavia, non dimenticare  che nella giurisprudenza di Cassazione si erano delineate talune distinzioni, con l’effetto di riconoscere che il consenso del lavoratore poteva rendersi necessario per qualifiche di elevato livello in azienda (quali quelle del “personale direttivo”) per le quali il rapporto poteva ritenersi talora anche instaurato “intuitu personae” con il datore di lavoro (4). Tuttavia, nonostante queste posizioni che non ritenevano di legittimare indiscriminatamente il “distacco” (riconoscendo non indifferente l’interesse a collaborare con un certo vertice aziendale piuttosto che con un altro o con quello dell’azienda  prescelta in assunzione) - e che, quindi, non ritenevamo automaticamente il “distacco”  mera modalità di esercizio del potere direttivo datoriale - a livello contrattuale del settore credito si convenne di prevenire un ipotetico contenzioso o, com’è più realistico, trattamenti diversificati tra il personale, pattuendo all’art. 15 (“distacco di personale”) del ccnl 11.7.1999, quanto  segue: “Laddove lo richiedano specifiche situazioni, le aziende potranno disporre il distacco di propri dipendenti il cui rapporto di lavoro continuerà ad essere disciplinato dalla normativa nazionale ed aziendale (compresa quella previdenziale) tempo per tempo vigente presso l’azienda distaccante”.
Con questo cedimento – all’insegna di una egualizzazione delle condizioni per tutti indistintamente ed dell’eliminazione di condizioni di favor per talune qualifiche - , si generalizzò il distacco,  senza “concambio” alcuno, prevedendo solo un diritto sindacale di informativa sulle motivazioni e sulle modalità di rientro, qualora il distacco riguardasse non già singoli individui (abbandonati al proprio destino) ma “gruppi” di lavoratori.
Il distacco veniva così riconosciuto – anche pattiziamente – tra le prerogative del datore di lavoro, anche quando questo fosse stato oggetto di scelta oculata tra varie alternative occupazionali all’atto dell’instaurazione del rapporto da parte del dipendente medesimo. Datore di lavoro che poteva pertanto – senza i vincoli del trasferimento -  peggiorare (ancor di più del trasferimento) la condizione del dipendente, destinandolo non già presso una propria unità produttiva decentrata ma (senza il vincolo delle “comprovate esigenze tecniche produttive ed organizzative” di cui all’art. 13 stat. lav.) assegnandolo presso una società terza, ad operare sotto il potere direttivo del terzo prescelto: ciò purchè sussistesse un “interesse” del distaccante verso l’azienda distaccataria (che poteva essere, come normalmente era, una società consociata o collegata per partecipazione azionaria, ma poteva anche essere - come lo sarà d’ora in poi prevalentemente - una società estranea, ad es. un consorzio fornitore di meri servizi) e senza alcuna richiesta di consenso o legittimazione al rifiuto.
 
La nuova disciplina dell’art. 30 d.lgs. n. 276/03 e la circ. ministeriale n. 3/2004
3. Per effettuare il “distacco” era (ed è tuttora)  sufficiente:
    a)      la temporaneità di esso (che può  non coincidere con una precisa data di scadenza, ma durare pressoché indeterminatamente finché dura l’interesse del distaccante (5),
    b)     la sussistenza dell’ “interesse” del distaccante ad allocare il suo dipendente presso l’azienda distaccataria, collegata o meno al distaccante. E a proposito di tale “interesse” la giurisprudenza precisava che  dovesse essere non generico o soggettivo ma specifico (o tecnico) ed oggettivo, cioè a dire   doveva sussistere « uno specifico interesse imprenditoriale che consenta di qualificare il distacco quale atto organizzativo dell’impresa che lo dispone, così determinando una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa ed il conseguente carattere non definitivo del distacco stesso »(6).
L’art. 30 del d. lgs. n. 276/2003 ha innovato non marginalmente nella disciplina del distacco.
Ha riaffermato quali caratteristiche la sua temporaneità, ma ha recepito – e così ci ricolleghiamo al “precedente” del  settore credito – la teorica della “fungibilità” derogativa dell’art. 2103 c.c., legittimando la fattispecie  del “distacco con mutamento di mansioni” (art. 30, comma 3). Il predetto disposto recita che : “il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato”.
A differenza di quanto ritiene e dà per scontato un Autore (7), questo mutamento non è destinato, nelle intenzioni del legislatore, a viaggiare sul binario dell’equivalenza (giacché, se così fosse, l’esercizio dello ius variandi sorretto dall’equivalenza professionale, in quanto immanente al potere direttivo datoriale, non necessiterebbe di consenso alcuno, potendo pacificamente dispiegare effetti in via unilaterale), ma è una soluzione o éscamotage per realizzare una variazione di mansioni legislativamente non consentita, per il caso in cui si attribuiscano al distaccato incombenze eterogenee (e non omogenee) rispetto alle precedenti che  ne strutturavano l’originaria mansione.
In sostanza, con il consenso del lavoratore spostato “extra moenia”, cioè fuori dall’azienda e distaccato presso terzi, il nuovo legislatore si ripropone di realizzare ciò che l’art. 2103 c.c. non gli consente “intra moenia” – cioè in seno all’azienda - e per tutto il tempo di titolarità del rapporto contrattuale : il mutamento di mansioni con attribuzione di posizione lavorativa professionalmente non equivalente o, nella migliore delle ipotesi, di strutturare tramite il “consenso” una remora psicologica corposa, ostativa ad una eventuale protesta o rivendicazione di avvenuta dequalificazione. Il “consenso” per il distacco trova la sua corrispondenza nell’istituto della certificazione, finalizzato ad attestare, auspicabilmente in maniera incontrovertibile per il legislatore che l’ha introdotta, la qualificazione  della reale natura dei rapporti di lavoro (pur sempre disconoscibile ed accertabile in sede giudiziale).
Quindi con la nuova configurazione del “distacco” non solo si sradica (come prima) il lavoratore dall’azienda – prescelta secondo le proprie preferenze e scelte individuali come originario e auspicabilmente stabile datore di lavoro – ma si pongono in essere i presupposti per giustificare, con il “consenso” di un lavoratore in situazione di subordinazione anche psicologica e quindi in condizioni di timore riverenziale (o meglio sotto ricatto per rischi ritorsivi), una sua variazione mansionistica irrispettosa dell’equivalenza professionale, sostanzialmente riconducibile alla dequalificazione.
Sul punto specifico – sul quale anche altri in dottrina (8) hanno espresso le loro perplessità, eminentemente chiedendosi come la disposizione de qua si coordini con l’art. 2103 c.c. -  è intervenuto il Ministero dello Welfare con la circolare n. 3 del 15 gennaio 2004, avente ad oggetto il “distacco”.
La prosa usata dal Ministero – per quanto tenti di sottrarsi alle contraddizioni attraverso un equilibrismo lessicale – si rivela inequivoca spia del “pateracchio” legislativo. A giustificare l’éscamotage del consenso, il Ministero dice: « Quanto alla ipotesi disciplinata dall’art. 30, comma 3, prima parte, del d.lgs. 276/2003, il consenso del lavoratore vale a ratificare l’equivalenza delle mansioni laddove il mutamento di esse, pur non comportando un demansionamento, implichi una riduzione e/o specializzazione della attività effettivamente svolta, inerente al patrimonio professionale del lavoratore stesso».
Quindi il consenso costituirebbe “ratifica...di una riduzione e/o specializzazione...inerente al patrimonio professionale del lavoratore stesso”.
Ma cos’è – in parole povere e concretamente – una “riduzione... dell’attività svolta, inerente al patrimonio professionale” se non una dequalificazione “quantitativo-qualitativa” dell’originaria mansione?
Insomma – siccome nella pratica  sarà frequente che il distaccato debba effettuare, presso il distaccatario, mansioni diverse e disimpegnare compiti eterogenei (per qualità e/o quantità) rispetto a quelli svolti in precedenza – si è ipotizzato che tale mutamento in peius di professionalità  (id est, dequalificazione irrispettosa della nozione di equivalenza), possa essere sanata con il “consenso” a monte del lavoratore, che lo condizionerà psicologicamente anche quando successivamente dovesse eccepire  o contestare una dequalificazione.
Come abbiamo già detto l’equivalenza delle mansioni è un requisito oggettivo – i cui criteri sono stati accertati dottrinalmente e giurisprudenzialmente – e se da essa, nel mutamento di mansioni correlato al distacco, ci si discosta (perché, ad es. pur destinando il distaccato presso il terzo a svolgere mansioni collocate nello stesso livello contrattuale, quest’ultime sono difformi soggettivamente in quanto comportano una vanificazione o un azzeramento della professionalità pregressa, con la necessità di impegnarsi ex novo ad apprendere un nuovo mestiere) non c’è consenso individuale che sani l’illegittimità compiuta, perché il consenso (sia dato espressamente sia presunto per acquiescenza alla dequalificazione) si scontra con la norma imperativa, di ordine pubblico in quanto rivolta a salvaguardare la professionalità collettivamente acquisita dalla classe lavoratrice, dell’ultimo comma dell’art. 2103 c.c. che, espressamente dispone che: “Ogni patto contrario è nullo”.
Nella nuova disciplina che traguarda - come tutta la legge n. 30/2003 e normativa attuativa - l’elasticità, la flessibilità o la “fungibilità” (relativamente alle mansioni), nell’ottica di “favor laboris” si riscontra solo la previsione dell’art. 30, comma 3, laddove per il distacco oltre i 50km. dall’originaria sede di lavoro è richiesta al distaccante la condizione di comprovare le “esigenze tecniche, produttive, organizzative o sostitutive” (formulazione che reitera quella dell’art. 1 d.lgs. n. 368/2001 sulla nuova disciplina del contratto a termine).
Ma, a ben vedere, si tratta di una “guarentigia di facciata” – puramente estetica – perché sappiamo per esperienza che le aziende conoscono “mille e una” possibilità di congegnare “esigenze tecniche..., etc.” giustificative, specie quando la discrezionalità al riguardo gliela si conferisce con una formulazione legislativa tanto ampia quanto generica, talché alla nuova disciplina del distacco non possiamo che  attribuire un giudizio negativo, non disgiunto per i lavoratori da un invito alla  solerte vigilanza.
 
Roma, 25 febbraio 2004 (in pubblicazione su Consulenza, Buffetti ed., 2004)
Mario Meucci
 
NOTE
1)      Così tutte le più recenti decisioni di legittimità in tema di “equivalenza” tra le mansioni.
2)      Così, da ultimo, Cass. 23.1.2003 n. 1012, in Not. giurisp. lav. 2003, 438 ed ivi 440.
3)      In senso conforme al riguardo e sul punto specifico, vedi Magrini, La nuova disciplina del distacco, in Lav. prev. Oggi, 2003, n. 12, 1888.
4)      Dopo essere state messe in minoranza dalla successiva giurisprudenza, si erano espresse per il consenso al distacco: Cass. sez. un. 15.2.1979, n. 982 in Foro it.1979, I, 616 con nota di Barone; Cass. 6 .6.1990, n. 5406, inedita a quanto consta; Cass. 20.7.1990, n. 7431, inedita ; Cass. 12.11.1984, n. 5708, in Not. giurisp. lav. 1985, 109,1; Cass. 23.5. 1984, n. 3159, ibidem 1984, 428, n. 49; Cass. 16.4.1984, n. 2471, ibidem 1984, 560; Cass. 16.7.1983, n. 4918, inedita; Cass. 4.4.1981, n. 1921, ibidem 1981,347; Cass. 21.11.1978, n. 5427, inedita.
5)      Così  Cass. 8 febbraio 1985 n. 1013, in Mass. giur. lav. 1985, 153., secondo cui: “la fattispecie del comando o distacco del lavoratore...non e’ necessariamente caratterizzata dalla brevità, o comunque dalla temporaneità dell’applicazione del dipendente presso il terzo, potendo questa durare, indipendentemente dalla sua minore o maggiore lunghezza, finchè permanga l’interesse del datore di lavoro distaccante a mantenere la situazione di distacco, e conseguentemente anche fino alla cessazione del rapporto di lavoro, ove l’interesse predetto si sia realmente protratto sino a tale data”. Nello stesso senso, Cass. 13 giugno 1995 n. 6657, in Not. giurisp. lav. 1995, 675; Cass. 26 maggio 1993 n. 5907, in Dir. prat. lav. 1993, 2216, ecc.
6)      Così Cass. 7.6.2000 n. 7743 in Not. giurisp. lav. 2000, 769 e ss.
7)    Magrini, op. cit. 1888, ritiene implicito che la nuova disposizione debba imprescindibilmente essere allineata all’art. 2103 c.c. e, proprio per questo, ne ravvisa l’incongruenza o la superfluità quale manifestazione immanente del potere direttivo di “ius variandi” in linea con l’equivalenza tra le mansioni a quo e ad quem.
8)      Così Magnani, La riforma del mercato del lavoro e delle tipologie contrattuali,  par. 3.2. della dispensa, in http://dirittolavoro.altervista.org/attuazione_riforma_biagi_dispensa_magnani.html.

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