Non diffamatorie le espressioni offensive in ricorsi giudiziari - In fattispecie volte a prospettare al Tar provvedimenti di mobbing da parte di Amministrazione pubblica
 
Cass. pen., sez. V, 20 luglio 2007, n. 29373 - C.V.  c. M.A. Sindaco Comune di ***
 
Espressioni offensive in ricorso giudiziario – Beneficiano dell’esimente di non punibilità ex art. 598 c.p. indipendentemente dalla veridicità e dal rispetto della continenza – In quanto strumentali al diritto di difesa (e nel caso in reazione a provvedimenti mobbizzanti) non concretizzano reato di diffamazione.
 
L'esimente di cui all'art. 598 c.p., (in base alla quale non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunziati dalle parti o dai loro patrocinatori innanzi alla autorità giudiziaria) costituisce applicazione estensiva del più generale principio posto dall'art. 51 c.p., in quanto riconducibile all'art. 24 Cost., e si fonda esclusivamente sul rapporto di strumentalità tra le frasi offensive e le tesi prospettate nell'ambito di una controversia giudiziaria, sicché non si richiede che le offese abbiano una base di veridicità o una particolare continenza espressiva (rv 234008).
Il "rapporto di funzionalità", nel quale la giurisprudenza ha tradotto la locuzione "offese che concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo" contenuta nell'art. 598 c.p., sta a significare, in altri termini, che le offese sono tollerate dall'ordinamento quando sono rilevanti per la esposizione delle ragioni poste a fondamento dell'attività processuale e sono utili quindi a garantire in concreto un libero esercizio del diritto difensivo.
Per tale ragione ai fini della esimente non è richiesto il requisito né della necessità di quelle espressioni (rv 234007), né della verità delle affermazioni in questione, così come, per converso, è ritenuta non scriminabile la locuzione offensiva che si appunti su soggetto del tutto estraneo ai fatti.
E' richiesto, in conclusione, che quelle espressioni concorrano ad illustrare le ragioni difensive perché di esse possa dirsi che "concernono" l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo o, come rilevabile anche dall'art. 89 c.p.c., "riguardano" l'oggetto della causa.
Nel caso di specie quelle locuzioni, sicuramente offensive, sono state formulate nel contesto della deduzione della illegittimità di delibere che, ancora secondo la prospettazione del ricorrente, sarebbero la manifestazione di un comportamento illegittimo dell'Amministrazione riconducibile alla nozione di mobbing. Questa infatti, come insegna la giurisprudenza civile (Cass. civ. n. 4774 del 2006) si può realizzare con comportamenti anche soltanto provvedimentali dotati di idoneità offensiva e può consistere nella sistematicità e durata dell'azione nel tempo, in caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa.
 
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
 
Propone ricorso per cassazione C.V. avverso la sentenza della Corte di appello di Catanzaro in data 26 gennaio 2006 con la quale è stata confermata quella di primo grado, affermativa della sua penale responsabilità per il reato di diffamazione pluriaggravata ex art. 595 c.p.p., commi 2 e 3, in danno di M. A., Sindaco del Comune di (OMISSIS), e degli amministratori comunali.
Il reato che si assume commesso nel (OMISSIS) è stato ritenuto in relazione al contenuto di un ricorso presentato al Tar Calabria col quale l'imputato ha impugnato due delibere regionali del 1998 che riteneva essere state adottate illegittimamente al fine di garantire il risultato, parimenti illegittimo, perseguito dalla detta Amministrazione di far vincere un concorso pubblico, cui egli aveva partecipato, all'unica altra candidata. Deduce:
1) La violazione dell'art. 124 c.p., per non avere, i giudici di appello, accolto il motivo relativo alla tardività della querela, proposta il 30 marzo 1999, ben oltre il termine di novanta giorni dalla conoscenza del fatto lesivo della reputazione, ossia del contenuto del ricorso al Tar che, come si evince anche dalla delibera dell'8 febbraio 1999 (attributiva all'avvocato La Russa del mandato a sporgere querela), era stato notificato al detto sindaco il 4 dicembre 1998;
2) la violazione delle norme sulla valutazione della prova e in particolare dell'art. 192 c.p.p., per avere, la Corte territoriale omesso di considerare che il testo del ricorso era stato redatto dal legale dell'imputato, dopo che costui gli aveva firmato in bianco il foglio destinato a contenere i motivi di ricorso;
3) violazione dell'art. 24 Cost. che garantisce ad ogni cittadino il diritto di difendersi, evenienza che nel caso di specie si era per l'appunto verificata mediante la redazione di un ricorso il quale, dovendo il lustrare un comportamento dell'Amministrazione che aveva dato luogo ad un atto viziato da eccesso di potere, non poteva non soffermarsi sulle ragioni di siffatto vizio, integrato da una serie di delibere ingiuste che avevano dato luogo ad un vero e proprio mobbing a carico del C..
4) la violazione dell'art. 598 c.p., perché la Corte aveva negato ingiustificatamente la esimente in questione.
In data 6 aprile 2007 il ricorrente ha depositato una memoria nella quale ha insistito per l'accoglimento del primo e secondo motivo, chiedendo in subordine il riconoscimento della prescrizione.
Il ricorso è fondato.
Il primo motivo di ricorso, invero propedeutico rispetto a tutti gli altri, è peraltro infondato.
L'accertamento della conoscenza dei fatti oggetto di querela, da parte della persona offesa implica una valutazione in fatto riservata al giudice del merito e insindacabile da parte della Cassazione se congrua e logica.
Tale è la considerazione del giudice di appello che ha ritenuto non probante, ai fini che qui interessano, la sola data della notifica del ricorso amministrativo contenente le affermazioni offensive:
infatti, ai fini della tempestività della querela rileva la conoscenza effettiva del contenuto dell'atto nella specie non dimostrata- non surrogabile dalla presunzione legale di conoscenza della esistenza dell'atto, connessa alla notifica del medesimo.
Il terzo e quarto motivo di ricorso sono invece fondati e il loro carattere assorbente esime dalla valutazione di quello residuo.
Questa Corte ha avuto modo di osservare più volte che l'esimente di cui all'art. 598 c.p., (in base alla quale non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunziati dalle parti o dai loro patrocinatori innanzi alla autorità giudiziaria) costituisce applicazione estensiva del più generale principio posto dall'art. 51 c.p., in quanto riconducibile all'art. 24 Cost., e si fonda esclusivamente sul rapporto di strumentalità tra le frasi offensive e le tesi prospettate nell'ambito di una controversia giudiziaria, sicché non si richiede che le offese abbiano una base di veridicità o una particolare continenza espressiva (rv 234008).
Il "rapporto di funzionalità", nel quale la giurisprudenza ha tradotto la locuzione "offese che concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo" contenuta nell'art. 598 c.p., sta a significare, in altri termini, che le offese sono tollerate dall'ordinamento quando sono rilevanti per la esposizione delle ragioni poste a fondamento dell'attività processuale e sono utili quindi a garantire in concreto un libero esercizio del diritto difensivo.
Per tale ragione ai fini della esimente non è richiesto il requisito né della necessità di quelle espressioni (rv 234007), né della verità delle affermazioni in questione, così come, per converso, è ritenuta non scriminabile la locuzione offensiva che si appunti su soggetto del tutto estraneo ai fatti.
E' richiesto, in conclusione, che quelle espressioni concorrano ad illustrare le ragioni difensive perché di esse possa dirsi che "concernono" l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo o, come rilevabile anche dall'art. 89 c.p.c., "riguardano" l'oggetto della causa.
Il detto rapporto di strumentalità è già stato ravvisato dalla giurisprudenza nella fattispecie di uso di espressioni offensive in un ricorso al giudice volto a illustrare una situazione di fatto risoltasi in un "mobbing" (rv 232335).
Nella specie, pur trattandosi di ricorso amministrativo, il vizio dell'atto dedotto risulta incontestatamente correlato ai fatti che sono descritti nel capo di imputazione come narrati in spregio della altrui reputazione.
Nel negare ciò, la Corte di merito ha escluso in modo erroneo la applicazione dell'art. 598 c.p., affermando in termini del tutto apodittici che le espressioni di cui all'imputazione hanno dato luogo ad un attacco personale gratuito e privo di collegamento funzionale con la esplicazione del diritto di difesa.
Piuttosto, proprio la lettura delle espressioni riportate nella intestazione della sentenza rende evidente che quelle locuzioni, sicuramente offensive, sono state formulate nel contesto della deduzione della illegittimità di delibere che, ancora secondo la prospettazione del ricorrente, sarebbero la manifestazione di un comportamento illegittimo dell'Amministrazione riconducibile alla nozione di mobbing. Questa infatti, come insegna la giurisprudenza civile (Cass. civ. n. 4774 del 2006) si può realizzare con comportamenti anche soltanto provvedimentali dotati di idoneità offensiva e può consistere nella sistematicità e durata dell'azione nel tempo, in caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa.
L'imputato va pertanto assolto perché la condotta non è punibile ai sensi dell'art. 598 c.p..
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.
 
Roma, 03-05-2007 (depositato il 20-07-2007)
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