Gli oneri probatori di non aver dequalificato o confinato in inattività  incombono sul datore di lavoro, debitore  dell’obbligo di esatto adempimento della prestazione lavorativa

 

Corte di Cassazione, sez. lav., 6 marzo 2006 n. 4766 – Pres. Senese – Rel. Nobile  - Calcagno (avv. Capriolo, Di Majo) c. RCS Quotidiani SpA (avv.  Trifirò e partners)

 

Asserita dequalificazione  da parte del lavoratore – Affermazione  della Corte d’appello di carenza di prova da parte del lavoratore – Errore di  diritto – La prova di non aver dequalificato grava sul datore di lavoro, debitore nelle obbligazioni corrispettive dell’obbligo di garantire al lavoratore una prestazione piena, effettiva e confacente con i requisiti di cui all’art. 2103 c.c.

 

Sulla autonoma domanda risarcitoria per asserita dequalificazione avanzata dal ricorrente, la Corte di Appello ha ritenuto semplicemente "non raggiunta la prova circa l'avvenuta dequalificazione", rilevando un "contrasto non ragionevolmente risolvibile" tra le testimonianze Parodi e Cavalera, e concludendo che "deve quindi trovare applicazione la regola residuale di giudizio dell'onere della prova, che gioca a danno dell'attore ai sensi dell'art. 2697, comma 1°, cod civ.".

In tal modo la Corte territoriale ha sostanzialmente ignorato l'obbligo che specificamente incombe sul datore di lavoro ex art. 2103 c.c. (come novellato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori) ed ha, altresì, disatteso il principio generale affermato in materia di prova dell'inadempimento e di riparto dell'onere probatorio anche in ipotesi di obbligazioni corrispettive.

La questione in esame, ovviamente, precede la successiva questione riguardante la prova del danno conseguente a dequalificazione o demansionamento (sulla quale è sorto anche un contrasto in sede di legittimità), prescindendo dalla stessa ed investendo una problematica diversa.

Orbene in particolare, come affermato da questa Corte con la sentenza 3-6-1995 n. 6265, «il lavoratore (cui l'art. 13 della legge n. 300 del 1970 riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione) ha altresì diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni mansione, cioè il diritto all'esecuzione della prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro (tradizionalmente creditore esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di applicarlo, restandogli consentita la possibilità dì trasferirlo solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.  La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l'inattività del lavoratore sia riconducibìle ad un lecito comportamento del datore dì lavoro medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri imprenditoriali,  garantiti dall'art. 41  Cost., o dall'esercizio dei poteri disciplinari».

Così configurato un diritto del lavoratore ed un corrispettivo obbligo del datore di lavoro, anche in materia di dequalificazione deve, quindi, affermarsi  la applicabilità del principio affermato in generale dalle Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. S.U. 30-10-2001 n. 13533) secondo cui «in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed uguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, perché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento».

Pertanto, allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell'obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 c.c., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile).

Nella fattispecie la Corte territoriale, addossando sul lavoratore la mancata prova della allegata dequalificazione, ha disatteso tali principi e pertanto va cassata con rinvio alla stessa Corte d’Appello in diversa composizione.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 20-6/19-7-2001 il Giudice de Lavoro del Tribunale di Milano rigettava le domande proposte da Paolo Calcagno nei confronti della s.p.a. RCS EDITORI, dirette ad ottenere la condanna della società a risarcirgli il danno, biologico, morale, alla dignità personale e alla professionalità causato da privazione delle sue mansioni, a far accertare che la clausola di esclusiva del contratto individuale tra le parti limitava le sue collaborazioni con le agenzie d'informazione, e altri quotidiani e periodici, ad impugnare il licenziamento disciplinare intimatogli il 20 giugno 2000 per aver violato il patto di esclusiva, l'obbligo di fedeltà e i doveri legali e contrattuali alla corretta esecuzione del rapporto di lavoro.

Contro la sentenza proponeva appello il Calcagno sostenendo, in sintesi, che:

il licenziamento era nullo per mancata affissione del codice disciplinare, per modifica dei fatti alla base del medesimo rispetto a quelli contestati e per genericità egli addebiti;

il patto d'esclusiva non comprendeva i programmi televisivi, questi ultimo oggetto delle contestazioni;

egli non aveva mai violato l'obbligo di fedeltà e, in particolare, solo per mero errore involontario si era indicato presente in azienda quando non lo era;

la assoluta inattività, dopo che aveva ottenuto giudizialmente il riconoscimento dell'inquadramento come inviato speciale, risultava dalle stesse difese in primo grado della società.

Quest'ultima si costituiva resistendo al gravame.

La Corte d'Appello di Milano, con sentenza depositata il 10-7-2002, confermava la sentenza appellata e condannava l'appellante alle spese del grado.

La Corte, in sintesi, affermava che:

non era necessaria la affissione del codice disciplinare in presenza di violazione di norme di legge e di doveri fondamentali del lavoratore;

le contestazioni non risultavano affatto generiche;

il fatto che il Calcagno in data 11-10-99 si trovasse al festival "Incontri di Sorrento", quando invece risultava indicato presente in azienda, era pacifico e la tesi dell'errore involontario era scarsamente attendibile, mentre il fatto stesso in base alle circostanze era "sufficiente a ritenere realizzata la giusta causa di recesso";

la violazione della clausola di esclusiva, da interpretarsi nel senso esteso al mezzo televisivo in base al comportamento successivo delle parti, posta in essere nelle circostanze oggettive e soggettive emerse, rafforzava la "conclusione prima raggiunta";

sulla domanda risarcitoria, infine, non era stata raggiunta la prova circa la avvenuta dequalificazione.

Avverso la detta sentenza ha proposto ricorso il Calcagno, con sei motivi.

La RCS QUOTIDIANI s.p.a (già RCS EDITORI s.p.a) ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1362 e segg. c.c. e degli artt. 112 e 115, comma 2, e 116 c.p.c, con errata interpretazione della portata della clausola di esclusiva nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di essa, in relazione ai n.ri 3 e 5 dell'art. 360 c.p.c, in sintesi, deduce che la detta clausola "recante una significativa limitazione dell'attività del dipendente, andava interpretata in senso restrittivo, ed in ogni caso, non certamente al di là del senso fatto palese dalle espressioni usate", potendo farsi ricorso ad altri canoni interpretativi, di natura oggettiva, soltanto quando la lettera del contratto (criterio principale) si riveli ambìgua e/o insufficiente.

Al riguardo evidenzia il ricorrente, che, nel caso di specie "il limite della clausola di esclusiva era chiaramente riferito alla carta stampata et similia", e che, peraltro, la estensione al mezzo televisivo neppure poteva trarsi dal comportamento successivo delle parti (avendo egli richiesto le autorizzazioni soltanto nei casi in cui "sarebbe comparso nella veste di giornalista del Corriere della Sera ").

In tal modo, quindi, contesta espressamente la tesi della impugnata sentenza, secondo la quale (peraltro incorrendo anche in vizio di extrapetizione) vi sarebbe stato "un allargamento dell'originario ambito dell'obbligo" e rileva, inoltre, che la stessa sentenza (considerando che "il contratto fu stipulato l'anno 1975, quando la televisione era agli albori") ha posto alla base della decisione una "inesatta nozione del notorio", essendo innegabile che la "televisione esisteva già nel 1955" (e da tempo più remoto la radio).

Con il secondo motivo il Calcagno, denunciando violazione delle norme sull’interpretazione della clausola di esclusiva e sul suo inadempimento nonché vizio di motivazione sul punto, in sostanza contesta la decisione della Corte territoriale in ordine alla ritenuta "partecipazione alla realizzazione del programma Italia allo specchio", avendo egli soltanto partecipato come ospite.

Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione dell'ari 2105 c.c. e vizio dì motivazione, deduce che con l'atto di appello egli aveva negato che, nella fattispecie, vi fosse stata una violazione dell'obbligo di fedeltà, tra l'altro, neppure essendo stato indicato dalla società "quale pregiudizio sarebbe derivato alla datrice di lavoro", né essendo risultata "provata la circostanza di uno specifico interesse (del Calcagno) nell'attività della società Alphaville" (interesse, peraltro, "non idoneo a legittimare il licenziamento ", e di per sé non "in conflitto con  l'interesse dell 'Editore del Corriere della Sera " ) e lamenta che "tale complesso e articolato motivo di appello" non sarebbe stato "minimamente esaminato dalla Corte di merito".

Con il quarto motivo il Calcagno, denunciando vizio di motivazione "sull'errore materiale commesso dal ricorrente sul calcolo delle presenze", in sostanza rileva che il giudice di primo grado avrebbe considerato "marginale" il fatto contestato della "assenza dal lavoro il giorno 11 ottobre 1999 nonostante dal foglio di presenze" il lavoratore "risultasse in servizio", e deduce che la società R.C.S. non avendo proposto appello incidentale né avendo riproposto ex art. 346 le sue eccezioni, avrebbe "prestato acquiescenza alla marginalità dell'errore".

Osserva, comunque, che "il peccato in realtà era veniale ed è stato utilizzato ex adverso nell'ambito di un più complesso disegno inteso a distruggere il ricorrente probabilmente perché era rappresentante sindacale degli inviati speciali ".

Con il quinto motivo il ricorrente denunciando violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 e vizio di motivazione sul punto, deduce che il giudice di primo grado, con riferimento alla clausola di esclusiva, si era richiamato anche all'art. 8 del contratto collettivo, per cui, trattandosi, nella specie, non di mera violazione dei doveri fondamentali del lavoratore (come ritenuto dalla Corte di Appello), bensì di violazione di una specifica previsione del contratto collettivo, la stessa avrebbe dovuto "essere pubblicizzata" conia affissione del codice disciplinare.

Con il sesto motivo il ricorrente, denunciando vizio di motivazione in ordine alla lamentata dequalificazione e violazione e falsa applicazione degli obblighi del datore di lavoro, nonché degli artt. 1460, 2103, 2909 c.c. e 116, 324, 345 c.p.c, in sintesi, deduce che erroneamente la impugnata sentenza, sul punto, "se ne esce con la mancata prova" della dequalificazione, rilevando che "sarebbe il Calcagno responsabile " della stessa, "perché non si sarebbe attivato per presentare progetti al suo datore di lavoro".

Al riguardo osserva che "l'argomentazione è viziata in diritto e in fatto", in quanto, in diritto, "la garanzia della qualificazione è tra gli obblighi dello stesso datore" di lavoro e, in fatto, nella specie "la dequalifìcazione è dipesa dalla totale inerzia od omissione del giornale nel destinare il Calcagno ad attività corrispondenti al suo ruolo dì "inviato speciale", né può essere imputato al Calcagno di non essersi attivato in tale direzione, perché ciò equivale ad invertire i ruoli contrattuali".

Peraltro, deduce il ricorrente che "poiché la sentenza di primo grado conteneva la indiscutibile decisione che R.C.S. aveva rifiutato la prestazione e codesto punto non era stato oggetto né di appello incidentale né di rinnovo di eccezione ex ari 346 c.p.c, era ovvio che esso era passato in giudicato e ciò da solo bastava per far dichiarare provato il rifiuto, anche se agli effetti dell'art. 1460 c.c. andava esaminato se effettivamente esso era giustificato per esser stato a sua volta inadempiente il Calcagno dando così spazio a tutte le argomentazioni hic et hìnde sostenute”.

In ogni caso, aggiunge, il Calcagno che l'asserito suo inadempimento "sarebbe solo quello dell'ottobre 1999 (la ormai famosa trasmissione Italia allo specchio) e quindi la provata dequalìficazione almeno a partire dall'ottobre 1998 sino all'ottobre 1999 costituirebbe un enorme danno risarcibile ".

In particolare, riportando, quindi, ampiamente il contenuto del proprio appello relativamente alla istruttoria espletata sulla dequalificazione, il ricorrente deduce che "anche la motivazione della sentenza di secondo grado sulla valutazione delle prove testimoniali è del tutto errata ed illogica", in quanto la deposizione del teste Parodi non sarebbe "così limitativa" ed anche le parti negative "perverrebbero da uno dei soggetti implicati nella dequalifìcazìone ", mentre la "deposizione del teste Cavalera viene sminuita in quanto presenterebbe " ì tratti d'incertezza evidenziati nella memoria costitutiva in appello della società ", tratti peraltro stridenti con la circostanza della "comunanza di stanza tra lui e il Calcagno ".

Orbene, nel procedere all'esame dei motivi di ricorso non può prescindersi dall'ordine logico che scaturisce dal decisum della sentenza impugnata, la quale ha esaminato per primo il fatto - dedotto nella contestazione disciplinare e risultato pacifico - relativo alla circostanza che "l’11 ottobre 1999 Calcagno si trovava al festival "Incontri di Sorrento" quando invece dai documenti aziendali risultava presente in azienda".

Al riguardo, nel merito, la Corte di Appello, si è così espressa:

"Egli ha imputato l'accaduto a semplice errore materiale, consistito nell'avere indicato come inizio di un periodo di recupero di riposo il 12 anziché l' 11 ottobre.

Tale versione è però solo affermata, e - si badi bene - lo è stato successivamente alla contestazione. Né, a differenza di quanto detto nelle giustificazioni pregiudiziali, vi è profilo alcuno che renda evidente l'errore. Tutt 'altro: l’11 ottobre era anzi una data che doveva attirare l'attenzione di Calcagno in quanto in essa aveva inizio proprio quel festival nel quale ha svolto, a favore dell'azienda facente capo alla moglie, l'altra attività contestata.

Non solo, quindi, la versione fornita dall'attore non è provata, ma è anzi scarsamente attendibile.

L'episodio non appare marginale soprattutto se si da adeguato valore al particolare rapporto fiduciario connesso al tipo d'attività di inviato speciale (nel settore dello spettacolo) svolta da Calcagno: se il fatto non fosse emerso dalle immagini della registrazione di cui postea, egli, non soggetto alle forme di controllo proprie dell'attività di altri lavoratori, avrebbe percepito la retribuzione senza aver reso la prestazione in forza di una sua dichiarazione fatta ali 'azienda.

Il che è sufficiente a ritenere realizzata la giusta causa dì recesso ".

Orbene, così esaminandosi, secondo l'ordine logico, per primo il quarto motivo di ricorso (che concerne l'addebito de quo), lo stesso risulta infondato e va respinto.

A fronte, infatti, della richiamata specifica decisione, che assume chiaramente rilievo preliminare, deve rilevarsi che nella specie il ricorrente, con il motivo in esame, denunciando un vizio di motivazione sul punto, si è limitato da un lato ad eccepire un inesistente giudicato interno in ordine alla pretesa "marginalità" del fatto e dall'altro a ribadire semplicemente che si è trattato di un "peccato veniale", che sarebbe stato utilizzato nell'ambito di un disegno, in sostanza, persecutorio da parte della R.C.S., il tutto senza avanzare censura alcuna in particolare avverso la inequivoca pronuncia di "sufficienza" del solo addebito de quo ai fini della integrazione della giusta causa di licenziamento o, in altre parole, avverso la natura di autonoma ratio decidendi, circa la legittimità del licenziamento stesso, espressa dalla pronuncia della Corte d'Appello.

Orbene, sotto il primo profilo osserva innanzitutto la Corte che, dalla lettura del relativo punto della motivazione della sentenza di primo grado, come riportato nello stesso ricorso, non risulta affatto che il primo giudice abbia considerato "marginale" il fatto in esame. La sentenza di primo grado, infatti, ha affermato che "l'addebito potrebbe sembrare marginale", ma che tale in effetti non è, in quanto "il tono delle giustificazioni date, nelle quali Calcagno insiste sul fatto che si sarebbe trattato di un evidente errore materiale nella compilazione dei fogli presenza - per il che "chiede scusa" e "autorizza"  la  trattenuta  della  relativa  retribuzione  -  la  dice   lunga sull'atteggiamento sottilmente polemico e di sfida che il dipendente ha ormai assunto nei confronti del suo datore di lavoro ".

E' innegabile, quindi, la assoluta infondatezza della stessa premessa della eccezione di giudicato interno avanzata dal ricorrente.

Né potrebbe scindersi, come sembra fare il ricorrente, la valutazione della pretesa marginalità del fatto nella sua mera materialità, dalla valenza disciplinare attribuita piuttosto alle circostanze, giacché oggetto della contestazione, esaminata dal giudice del merito, è comunque lo specifico addebito in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi.

Sotto il secondo profilo, poi, la censura oltre che del tutto generica ed inconsistente, in realtà, senza neppure indicare alcun vizio logico che sia contenuto nella motivazione della sentenza della Corte di Appello, si limita a contestarne la valutazione di merito, sollecitando, in sostanza, questa Corte ad un (inammissibile) riesame del merito stesso.

Al riguardo deve ribadirsi che "il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 n. 5 c.p.c, non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all'ambito del vizio dì motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte dì procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa", (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789). "Né, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se -confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie -prendesse di ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso "sub specie " di omesso esame di un punto decisivo " (v. fra le altre Cass. 5-3-2002 n. 3161).

Del resto l'art. 360 n. 5 c.p.c. "non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all'uopo, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione " (v. Cass. S.U. 11-6-1998 il 5802), non incontrando, al riguardo, lo stesso giudice, "alcun limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata" (v. fra le altre Cass. 7-8-2003 n. 11933).

Il motivo va, pertanto, respinto e, considerata, come sopra evidenziata, la autonomia della ratio decidendi de qua, circa la affermata legittimità del licenziamento, possono ritenersi assorbiti i motivi riguardanti gli altri addebiti, o direttamente (primo, secondo e terzo) o indirettamente (quinto motivo, concernente la mancata affissione del codice disciplinare, la quale è espressamente riferita dal ricorrente all'obbligo di esclusiva ex art. 8 del ccnl ed è comunque estranea all'addebito di cui al quarto motivo, che costituisce, peraltro, certamente una violazione di un dovere fondamentale del lavoratore, come ritenuto dalla Corte territoriale).

Va accolto, invece, per quanto di ragione, il sesto motivo.

Al riguardo, sulla autonoma domanda risarcitoria avanzata dal Calcagno, la Corte di Appello ha ritenuto semplicemente "non raggiunta la prova circa l'avvenuta dequalificazione", rilevando un "contrasto non ragionevolmente risolvibile" tra le testimonianze Parodi e Cavalera, e concludendo che "deve quindi trovare applicazione la regola residuale di giudizio dell'onere della prova, che gioca a danno dell'attore ai sensi dell'art. 2697, comma 1°, cod civ.".

In tal modo la Corte territoriale ha sostanzialmente ignorato l'obbligo che specificamente incombe sul datore di lavoro ex art. 2103 c.c. (come novellato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori) ed ha, altresì, disatteso il principio generale affermato in materia di prova dell'inadempimento e di riparto dell'onere probatorio anche in ipotesi di obbligazioni corrispettive.

La questione in esame, ovviamente, precede la successiva questione riguardante la prova del danno conseguente a dequalificazione o demansionamento (sulla quale è sorto anche un contrasto in sede di legittimità), prescindendo dalla stessa ed investendo una problematica diversa.

Orbene in particolare, come affermato da questa Corte con la sentenza 3-6-1995 n. 6265, «il lavoratore (cui l'art. 13 della legge n. 300 del 1970 riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione) ha altresì diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni mansione, cioè il diritto all'esecuzione della prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro (tradizionalmente creditore esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di applicarlo, restandogli consentita la possibilità dì trasferirlo solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.  La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l'inattività del lavoratore sia riconducibìle ad un lecito comportamento del datore dì lavoro medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri imprenditoriali,  garantiti dall'art.   41  Cost., o dall'esercizio dei poteri disciplinari».

Così configurato un diritto del lavoratore ed un corrispettivo obbligo del datore di lavoro, anche in materia di dequalificazione deve, quindi, affermarsi  la applicabilità del principio affermato in generale dalle Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. S.U. 30-10-2001 n. 13533) secondo cui «in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed uguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, perché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento».

Pertanto, allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell'obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 c.c., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile).

Nella fattispecie la Corte territoriale, addossando sul lavoratore la mancata prova della allegata dequalificazione, ha disatteso tali principi.

L'impugnata sentenza va, pertanto cassata in relazione alla censura accolta, e la causa va rinviata alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, la quale provvedendo anche sulle spese del  giudizio di legittimità, procederà al riesame relativamente alla domanda risarcitoria de qua, applicando i principi richiamati.

P.Q.M.

La Corte accoglie per quanto di ragione il sesto motivo, rigetta il quarto, assorbiti gli altri, cassa in relazione alla censura accolta la impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione.

 

Roma 1 dicembre 2005 (depositata il 6.3.2006)

 

IL CONSIGLIERE ESTENSORE

Vittorio Nobile

IL PRESIDENTE

Salvatore Senese

 

La sentenza  conferma tanto autorevolmente quanto letteralmente quanto da noi sostenuto nel nostro articolo "Gli oneri probatori del danno da demansionamento e da mobbing" pubblicato su D&G (Diritto e Giustizia) del 22 ottobre 2005. Costituisce, quindi, per noi un grosso riconoscimento.

 

Conf. Cass. sez. I civ. 9.2.2007 n. 2878 - Pres. Losavio - Rel. Panzani - Pm. Russo (conf.) Ceccon c. Solari Udine srl

 

Dequalificazione - Riparto dell'onere probatorio - Diritto al risarcimento del danno da significativa riduzione quantitativa delle mansioni.

 

Qualora il lavoratore deduca una dequalificazione per rilevante riduzione quantitativa delle mansioni, l'onere di dedurre e provare lo svolgimento di mansioni significative di mancata dequalificazione, ovvero la sussistenza di una causa giustificativa connessa all'esercizio di poteri disciplinari o imprenditoriali garantiti dall'art. 41 della Costituzione, compete al convenuto datore di lavoro che l'eccepisce.

Considerato sia che il rapporto di lavoro subordinato non è di puro scambio, ma coinvolge la persona del lavoratore e che costituisce altresì un contratto di organizzazione, sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell'impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela del lavoratore, a ragione sia del principio di esecuzione di buona fede del contratto di assunzione sia dell'attuale evoluzione del mercato del lavoro che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell'attuale momento storico-economico, valorizza la funzione della prestazione lavorativa in tal senso, non soltanto una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle mansioni, in una misura significativa, può configurare dequalificazione professionale risarcibile.

 

 

Grava sul datore di lavoro l’onere di provare di non aver dequalificato il dipendente

 

Ci sia consentito di richiamare sinteticamente il (o rinviare al) nostro articolo “Gli oneri probatori del danno da  demansionamento e  da mobbing” pubblicato su D&G  (quotidiano) del 22 ottobre 2005, giusto per inquadrare l’argomento.

In esso avevamo sostenuto – richiamando il perspicuo orientamento delle Sezioni unite, manifestato nella decisione n. 13533 del 30.10.2001, afferente il riparto probatorio nelle obbligazioni corrispettive – che il lavoratore demansionato, in quanto creditore del diritto ad una prestazione piena, assidua ed effettiva nonché conforme alle mansioni contrattuali (ex art. 2103 c.c.), una volta allegato (cioè addotto) di essere stato posto in inattività o di essere stato oggetto di dequalificazione a seguito di sottrazione di ruoli ed incombenze, non doveva dimostrare alcunché, spettando semmai al datore di lavoro (debitore dell’esatto adempimento) provare di non averlo demansionato o confinato in inattività. Non solo in ragione della posizione del datore di lavoro, in veste di debitore dell’obbligazione, gravato dell’obbligo di far “effettivamente” lavorare il proprio dipendente, ma anche in considerazione del fatto dell’essere l’onere probatorio sul datore di lavoro più vicino a soddisfare realisticamente la prova richiesta, in considerazione del fatto dell’essere il datore di lavoro detentore della intera produzione del prestatore d’opera, solitamente conservando negli archivi aziendali gli originali degli studi, relazioni, progetti e simili  commissionatigli e richiestigli quale risultanza dell’impegno lavorativo, nel caso si tratti di un lavoratore intellettuale.

In data 6 marzo 2006, la Cassazione con la sentenza n. 4766 (che si riporta nei documenti correlati) ha espresso lo stesso avviso, in maniera chiara ed inequivocabile, richiamandosi anch’essa ai principi di diritto asseriti da Cass. sez. un. 30.10.2001 n. 13533; giungendo a cassare con rinvio alla corte d’Appello di Milano (in diversa composizione) una decisione impugnata da un giornalista ricorrente per la riforma ad opera degli ermellini. Accogliendo il  sesto motivo del ricorso (e rigettando gli altri), la Cassazione si è così espressa:

« Sulla autonoma domanda risarcitoria per asserita dequalificazione avanzata dal ricorrente, la Corte di Appello ha ritenuto semplicemente "non raggiunta la prova circa l'avvenuta dequalificazione", rilevando un “contrasto non ragionevolmente risolvibile” tra le testimonianze Parodi e Cavalera, e concludendo che “deve quindi trovare applicazione la regola residuale di giudizio dell'onere della prova, che gioca a danno dell'attore ai sensi dell'art. 2697, comma 1°, cod civ.”.

«In tal modo la Corte territoriale ha sostanzialmente ignorato l'obbligo che specificamente incombe sul datore di lavoro ex art. 2103 c.c. (come novellato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori) ed ha, altresì, disatteso il principio generale affermato in materia di prova dell'inadempimento e di riparto dell'onere probatorio anche in ipotesi di obbligazioni corrispettive.

«La questione in esame, ovviamente, precede la successiva questione riguardante la prova del danno conseguente a dequalificazione o demansionamento (sulla quale è sorto anche un contrasto in sede di legittimità), prescindendo dalla stessa ed investendo una problematica diversa.

«Orbene in particolare, come affermato da questa Corte con la sentenza 3-6-1995 n. 6265, “il lavoratore (cui l'art. 13 della legge n. 300 del 1970 riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione) ha altresì diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni mansione, cioè il diritto all'esecuzione della prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro (tradizionalmente creditore esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di applicarlo, restandogli consentita la possibilità dì trasferirlo solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.  La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l'inattività del lavoratore sia riconducibìle ad un lecito comportamento del datore dì lavoro medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri imprenditoriali,  garantiti dall'art. 41  Cost., o dall'esercizio dei poteri disciplinari”.

«Così configurato un diritto del lavoratore ed un corrispettivo obbligo del datore di lavoro, anche in materia di dequalificazione deve, quindi, affermarsi  la applicabilità del principio affermato in generale dalle Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. S.U. 30-10-2001 n. 13533) secondo cui “in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed uguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, perché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento”.

«Pertanto, allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell'obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 c.c., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile).

«Nella fattispecie la Corte territoriale, addossando sul lavoratore la mancata prova della allegata dequalificazione, ha disatteso tali principi e pertanto va cassata con rinvio alla stessa Corte d’Appello in diversa composizione».

Così la Corte di Cassazione sta gradualmente assegnando a “Cesare quel che è di Cesare”, muovendosi - peraltro con l’usuale circospezione coniugata ad immanente lentezza - su una strada di sottrazione dei più deboli (i lavoratori risoltisi, come extrema ratio, ad adire la magistratura) dalle varie  “probationes” diaboliche erette da un diritto inteso più in senso formalistico che sostanziale. In questo percorso apprezzabile, la precitata sentenza è stata preceduta recentemente da:

 - Cass. sez. un. n. 141 del 10 gennaio 2006, che ha assegnato al datore di lavoro l’onere di dimostrare il cd. “requisito dimensionale”, cioè la consistenza organica dell’unità produttiva eventualmente preclusiva del diritto  - ex art. 18 stat. lav. - alla reintegrazione del lavoratore ingiustificatamente licenziato, onere da un superato orientamento accollato al lavoratore;

 - Cass. sez. lav. n. 19686 del 10 ottobre 2005 con la quale ha stabilito che “il datore che adibisca il lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni da ultimo espletate, a mansioni di contenuto inferiore, con il consenso del dipendente, ha l’onere di provare, a norma dell’art. 2697 c.c., … l’impossibilità o la non convenienza aziendale di adibire il lavoratore ad altre mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate o a mansioni di livello intermedio”; contrastando così quelle sporadiche sentenze che richiedevano che il lavoratore si attivasse per indicare al datore di lavoro la mansione equivalente o più idonea nella quale poter essere proficuamente impiegato, pena il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel caso in cui  fosse stata carente questa  sua iniziativa  designativa, volta ad agevolarne la ricollocazione che rientra a pieno titolo nei poteri direttvi ed organizzativi  del gestore dell’impresa.

Per approfondimenti su entrambe si rinvia al nostro articolo “Gli oneri  probatori per il “requisito dimensionale” a fini di reintegrazione e per il “patto di dequalificazione”, in Consulenza, Buffetti ed., n5/2006.

 

Mario Meucci

(pubblicato in D&G, Diritto e Giustizia, del 18.3.2006)

 

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