Gli oneri probatori del danno da demansionamento e da mobbing

 

Si fa il punto -  per il danno da demansionamento e da mobbing – sul c.d. riparto in sede processuale degli oneri probatori, alla luce dell’ orientamento inequivocamente espresso dalle sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 13533 del 2001, e delle posizioni dottrinali che di essa fanno coerente e non distorta applicazione.

 

1. I diritti di cui sono creditori il lavoratore e il datore di lavoro nel rapporto

Il rapporto di lavoro subordinato  - intercorrente sia con datore di lavoro privato che pubblico - è inquadrabile nella fattispecie civilistica del contratto con obbligazioni corrispettive, in cui a fronte della prestazione intellettuale o manuale del  lavoratore (tutelato da norme di diritto positivo e costituzionali) corrisponde una controprestazione retributiva  da parte del datore di lavoro che  di essa fruisce. Il rapporto di lavoro dà quindi vita ad  un contratto caratterizzato da obbligazioni  in capo alle due parti, che  si trovano, a secondo dei casi, in  posizione di creditori e debitori rispettivamente di determinati diritti ed obblighi.

Il lavoratore è, esemplificativamente, creditore oltreché del diritto alla retribuzione quale compenso dell’opera prestata, del diritto al disimpegno della prestazione, con pienezza ed effettività, secondo la qualifica e le mansioni di assunzione o quelle successivamente acquisite (art. 2103 c.c.),  del diritto alla autorealizzazione della propria personalità  nel lavoro  che svolge  nell’impresa intesa come formazione sociale (art. 2 e  3, comma 2 Cost.), del diritto a non essere discriminato  per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali (artt. 3 Cost., comma 1, e 37 Cost., poi specificati in leggi ordinarie), del diritto alla tutela della immagine professionale e della dignità (art. 2, 3, 41 Cost.),  del diritto alla salvaguardia della integrità fisica e della personalità morale, da parte del datore di lavoro (ex art. 2087 c.c.) che versa in  posizione di debitore, nonché del diritto, in un rapporto a tempo indeterminato, alla continuità del medesimo (che può essere interrotta solo da licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, ex art. 1, l. n. 604/66, con dimostrazione della ricorrenza delle causali rescissorie da parte del datore di lavoro, ex art. 5 della stessa legge).

Il datore di lavoro è  invece creditore del diritto a comportamenti del lavoratore improntati a diligenza (art. 2104 c.c.) – costituenti obblighi di fare in positivo per il debitore  – e ad obblighi di non fare del lavoratore in veste di debitore, quali  quelli codificati nell’art. 2105 c.c.  afferente all’obbligo di fedeltà ( specificati nel “non  trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore, non divulgare notizie attinenti all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da recare ad essa pregiudizio”).

Vi sono comunque tutta una serie di altre obbligazioni intercorrenti tra le parti, ma per l’esame che ci siamo ripromessi, quelle sopracitate  ci appaiono – seppur incomplete – del tutto necessarie e vengono quindi riferite a titolo non esaustivo ma  meramente esemplificativo.

Per la tematica che  andiamo ad approfondire, va focalizzata l’attenzione sulle obbligazioni di fare del datore di lavoro, in forma di impegno/dovere di garantire  al lavoratore creditore :

a)     pienezza ed effettività della prestazione (salvo ricorrenza di causa  non imputabile al datore, da  documentare ex art. 1218 c.c.);

b)      il disimpegno della prestazione secondo la qualifica e le mansioni d’assunzione o quelle  corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita (art. 2103 c.c.);

c)      il diritto ad un trattamento paritario con i  suoi simili, non in senso assoluto, ma indipendente dalle diversità di sesso, razza, lingua ecc., diritto che rifluisce nel corrispondente divieto, per il datore di lavoro in veste di debitore, di discriminare per motivi c.d. “pravi” o “riprovevoli” per la coscienza sociale;

d)      il diritto di essere pienamente ed attivamente tutelato dal datore di lavoro nella sfera dell’integrità della salute psico-fisica e dell’integrità  della propria  personalità morale (ricomprendente, dignità, immagine, reputazione e similari valori  riconducibili nel novero degli inviolabili, di cui all’art. 2 Cost. comma 1).

Tutti questi diritti concretizzano obbligazioni di fare di cui il lavoratore è creditore nei confronti del  datore di lavoro debitore e solo  una incondivisibile lettura nella forma del divieto – che è il rovescio della medaglia di ogni diritto del creditore – può farle prospettare piuttosto come frutto di un originario divieto, cioè a dire di una obbligazione di non fare per il datore di lavoro debitore, per occasionare la conseguenza di un accollo sul lavoratore dell’onere probatorio [(così, per il mobbing discendente, suppostamente individuandone la fonte in un divieto e non già un obbligo datoriale in positivo discendente dall’art. 2087 c.c., Vallebona, Il mobbing senza veli, in Dir. rel. ind. n. 4/2005, 1 e ss., che a supporto  non convincente richiama, R. Del Punta, ne Il mobbing: l’illecito e il danno, in P.Tosi ( a cura di), Il mobbing (quaderno Cesifin n. 16) Giappichelli 2004, secondo cui sarebbe insito nell’art. 2087, norma statuente un’obbligazione positiva, “un implicito divieto legislativo” di vessare il lavoratore)].

 

2. Il riparto probatorio nelle obbligazioni sinallagmatiche

La precisazione sopra effettuata è, secondo noi, importante giacché  l’individuazione di appartenenza al novero delle obbligazioni di fare (positive) o di non fare (negative) influisce sul riparto dell’onere probatorio sul creditore ed il debitore, come ha avuto modo di precisare opportunamente Cass. sez. un. 30 ottobre 2001, n. 13533 (in Foro it. 2002, I, 769 n. Lanzetta).

La massima di questa fondamentale decisione – che ha così risolto un contrasto interno alla Cassazione tra un orientamento maggioritario ed uno minoritario, aderendo a quest’ultimo – così recita: « Il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di scadenza), limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento». E nella motivazione, più diffusamente, si  afferma: «Dall’art. 2697 c.c., che richiede all’attore la prova del diritto fatto valere ed al convenuto la prova della modificazione o dell’estinzione del diritto stesso, si desume il principio della presunzione di persistenza del diritto. Ed il principio - pacificamente applicabile all’ipotesi della domanda di adempimento, in relazione alla quale il creditore deve provare l’esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, del termine di scadenza, in quanto si tratta di fatti costitutivi del diritto di credito, ma non l’inadempimento, giacché è il debitore a dover provare l’adempimento, fatto estintivo dell’obbligazione -, deve trovare applicazione anche alle ipotesi in cui il creditore agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno da inadempimento richiesto in via autonoma (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99). Siffatta estensione trova giustificazione nella considerazione che, dovendo le norme essere interpretate secondo un criterio di ragionevolezza, appare irrazionale che di fronte ad una identica situazione probatoria della ragione del credito, e cioè dell’esistenza dell’obbligazione contrattuale e del diritto ad ottenerne l’adempimento, vi sia una diversa disciplina dell’onere probatorio, solo perché il creditore sceglie di chiedere (la risoluzione o) il risarcimento in denaro del danno determinato dall’inadempimento in luogo dell’adempimento, se ancora possibile, o del risarcimento in forma specifica (sent. n. 973/96).

L’esenzione del creditore dall’onere di provare il fatto negativo dell’inadempimento in tutte le ipotesi di cui all’art. 1453 c.c. (e non soltanto nel caso di domanda di adempimento), con correlativo spostamento sul debitore convenuto dell’onere di fornire la prova del fatto positivo dell’avvenuto adempimento, è conforme al principio di riferibilità o di vicinanza della prova. In virtù di tale principio, che muove dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione, l’onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Ed appare coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell’adempimento, fatto estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99).

L’orientamento minoritario riceve l’approvazione di larga parte della dottrina, che svolge analoghe argomentazioni. Il contrasto va composto aderendo all’indirizzo minoritario.

L’identità del regime probatorio, per i tre rimedi previsti dall’art. 1453, merita di essere affermata anche per palesi esigenze di ordine pratico.

La difficoltà per il creditore di fornire la prova di non aver ricevuto la prestazione, e cioè di fornire la prova di un fatto negativo (salvo che si tratti di inadempimento di obbligazioni negative), è superata dai sostenitori dell’orientamento maggioritario con l’affermazione che nel vigente ordinamento non vige la regola secondo la quale "negativa non sunt probanda", ma opera il principio secondo cui la prova dei fatti negativi può essere data mediante la prova dei fatti positivi contrari. Si tratta tuttavia di una tecnica probatoria non agevolmente praticabile: il creditore che deduce di non essere stato pagato avrà serie difficoltà ad individuare, come oggetto di prova, fatti positivi contrari idonei a dimostrare tale fatto negativo; al contrario, la prova dell’adempimento, ove sia avvenuto, sarà estremamente agevole per il debitore, che di regola sarà in possesso di una quietanza (al rilascio della quale ha diritto: art. 1199 c.c.) o di altro documento relativo al mezzo di pagamento utilizzato.

Si rivela quindi conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta all’adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno, fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento.

In conclusione, deve affermarsi che il creditore, sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento».

 

3. Applicazione in concreto e nel rapporto di lavoro dei principi sanciti dalle sezioni unite

Nel caso di violazione sia dell’art. 2103  c.c. -  cioè di un obbligazione di fare del debitore datore di lavoro, rifluente nel diritto del lavoratore creditore ad una  prestazione da essere resa con pienezza ed effettività e conforme alle mansioni in suo possesso per contratto d’assunzione o successivamente acquisite in relazione alla superiore categoria  (senza erosioni, sottrazioni non corrisposte da addizioni  equivalenti né tantomeno di essere confinato in forzata inattività), così  come  nel caso  di violazione dell’art. 2087 c.c. per effetto di inflizione di  vessazioni persecutorie per mobbing, implicante violazione dell’obbligazione datoriale di fare, inteso come prevenzionale ed  impeditivo dell’altrui sottoposizione a vessazioni persecutorie, l’inadempimento datoriale è pacificamente attinente ad obbligazioni contrattuali, con il regime di responsabilità per inadempimento di cui all’art. 1218 c.c., nel senso specificato dalle sezioni unite.

L’art. 1218 c.c. così dispone: « Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile». Per inciso va ricordato come – per il mobbing e le sue iniziative vessatorie – la natura contrattuale dell’inadempimento è stata recentemente confermata da Cass.  sez. un. civ. 4 maggio 2004 n. 8438, in http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_sezioniunite.html ).

In termini di oneri probatori spetterà, quindi, nell’ipotesi del demansionamento (con sottrazione o avocazione di compiti a danno del lavoratore e, solitamente, a favore di altri privilegiati o preferiti) sul lavoratore ricorrente l’onere di allegare l’inadempimento del datore di lavoro, documentare i fatti costitutivi dell’inadempimento (naturalmente quelli costituiti da condotte  attive datoriali, strutturanti le sottrazioni di incombenze di pertinenza del ricorrente), mentre graverà indiscutibilmente sul datore di lavoro debitore l’onere di dimostrare di non aver demansionato o dequalificato  tramite la sottrazione qualitativo/quantitativa di sfere di competenza e relative funzioni, documentando, in tale ottica, i lavori resi dal lavoratore, dimostrando per converso la pienezza della prestazione, l’impegno desumibile da quanto da egli prodotto e pacificamente in possesso datoriale, che,  nel caso si tratti eminentemente di produzione intellettuale (progetti, relazioni, pareri, studi, e simili), è solitamente conservata in originale negli archivi  aziendali. Qualora poi il lavoratore sia stato confinato in forzata inattività, al lavoratore creditore di una prestazione effettiva e piena incomberà solo l’onere di allegare l’inadempimento (cioè, la non assegnazione di lavoro) non già di provarlo (trattandosi di fatto negativo, cioè di un non fare irragionevolmente non documentabile, secondo Cass. sez. un.  n. 13533/2001) mentre incomberà sul datore di lavoro la prova di dimostrare, a contrario, di averlo impegnato con pienezza ed assiduità, allegando e documentando in giudizio i prodotti dell’operato del lavoratore creditore, essendo tale onere ragionevolmente assolvibile dall’azienda che resta detentrice dell’intera produzione del lavoratore. Nel caso in cui l’esibizione da parte aziendale dei prodotti atti a documentare la pienezza e l’effettività della prestazione di un lavoratore che alleghi la sostanziale inattività forzata, si riveli insufficiente o inconsistente, il magistrato dovrà trarre le debite conclusioni in ordine all’insufficienza o  al non assolvimento dell’onere probatorio dell’azienda convenuta.

Merita spendere ancora qualche considerazione sugli oneri probatori in vertenze per mobbing. Alcune decisioni di merito, sempre più relegate nell’eccezione alla regola, sono giunte a negare il mobbing, non già per la carenza del riscontro delle vessazioni reiterate in un arco temporale consistente e comunque non inferiore ai 6 mesi (arco temporale considerato dagli psicologi del lavoro indispensabile a caratterizzare la fattispecie), quanto per il fatto che il ricorrente non aveva dimostrato l’intento persecutorio del mobber, cioè a dire il c.d. “animus nocendi”  o elemento soggettivo intenzionale (cfr. per tutte Trib. Como 22.5.2001, in Lav. giur. 2002, 73 e ss., che si ripete in Trib. Como 22.2.2003; Trib. Bari, 23 marzo 2004, in D&G n. 15/2004).

A parte la considerazione che si verte in materia civilistica e non penalistica (ove si richiede la dimostrazione dell’elemento soggettivo del reato),  ed in particolare in tema di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., va evidenziato nettamente che il lavoratore non può essere onerato - se non errando da chi lo pretende - di tale dimostrazione, stante l’impossibilità di provare un fatto o un intento che risiede nella sfera volitiva altrui. Con la conseguenza ragionevole che tale intento – qualora richiedibile, ma anticipiamo subito che non è affatto necessario per strutturare la fattispecie vessatoria – deve essere desumibile dal magistrato per effetto dell’oggettività dei fatti emersi in istruttoria, secondo un ragionamento fondato su presunzioni gravi, precise e concordanti ex art. 2729 c.c. Molti datori di lavoro, imputati direttamente o per fatto della linea gerarchica aziendale, di mobbing verticale (o discendente)  pretendono nelle loro memorie difensive che il magistrato impronti l’istruttoria secondo gli schemi penalistici, volti ad evidenziare il dolo specifico, ma è istruttivo portare a conoscenza come la pretesa sia stata giudicata del tutto errata. Sul punto specifico - tra le diverse decisioni conformi – si è pronunciato recentemente Tar del Lazio, III sez. bis, 12-1/5-4-2004 (in http://dirittolavoro.altervista.org/tarlazio_fossatelli.pdf), che ha opposto ad una simile pretesa tali condivisibili argomentazioni: « Al riguardo va precisato che questo intento persecutorio non va configurato in termini eccessivamente soggettivistici: il Tribunale, discostandosi da un orientamento giurisprudenziale (Trib. Como, 22 febbraio 2003), ritiene che non sia comunque necessario indagare nella loro interezza i motivi che sono a base dell'intento persecutorio, essendo sufficiente attenersi ai caratteri oggettivi della condotta (ripetitiva, emulativa, pretestuosa e quindi oggettivamente vessatoria e discriminatoria), ai fini di poter considerare dolosi i comportamenti lamentati (in questo senso cfr. Trib. Milano, 20 maggio 2000).

Risultano quindi inconferenti le deduzioni della difesa dell'Amministrazione, secondo cui la vicenda presupporrebbe una ricostruzione in chiave penalistica, con le connesse conseguenze sia in ordine all’interruzione del cd. “nesso di occasionalità necessaria”, sia in ordine alla necessità di rilevare la sussistenza di un disegno criminoso puntualmente preordinato e coordinato in danno dell'odierna ricorrente. Siffatto ordine di idee è del tutto improprio in questa sede ».

Vengono quindi tratte le seguenti conclusioni nel senso che: « Avendo la fattispecie in esame natura al tempo stesso contrattuale (ed extracontrattuale), ne deriva - sul piano processuale - l'applicabilità della disciplina dell'onere probatorio più favorevole al lavoratore ricorrente, ossia quello contrattuale; conseguentemente spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica del dipendente (Trib. Forlì, 15 marzo 2001; cfr. altresì Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003, n. 157): prova che non è stata fornita in questo giudizio, in cui l'Amministrazione ha operato solamente alcune controdeduzioni inidonee - lo si ripete - a scardinare il complesso impianto ricostruttivo della precedente sentenza di questo Tribunale, in relazione alla pluralità degli episodi di cui si compone la fattispecie.

Circostanza, questa, che va valutata in relazione al combinato disposto degli artt. 2087, 1218 e 1228 c.c. (ed altresì dell'art. 2049 c.c. per i profili di responsabilità extracontrattuale); ciò anche ai fini della configurazione dell'elemento soggettivo in capo all'Amministrazione di appartenenza, che deve essere ritenuto sussistente, avuto riguardo, in particolare, all'omessa predisposizione delle misure idonee ad evitare il verificarsi dei danni».

In senso analogo si era espressa in precedenza Cass. sez. lav. n. 5491 del 2 maggio 2000 (in Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, 2002, 495 e in Lav. giur. 2000, 830), seguita – tra le tante -  da Corte App. Torino  21 aprile 2004 (in Lav. giur. 1/2005, 49 e ss.), la quale correttamente riconducendo una vicenda di mobbing nell’alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., conferma che ricade sul lavoratore documentare le violazioni (sub specie di inadempimento dell’obbligo di protezione), il danno  ed il nesso causale tra il secondo e le prime; al datore di lavoro spetta invece di provare di aver garantito la protezione legislativamente richiesta ex art. 2087, direttamente o mediante fattiva vigilanza ed intervento sull’operato dei propri collaboratori. Nello stesso senso - ex plurimis - Trib. Tempio Pausania 10.7.2004 (in http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_tempio_pausania.html ), che ha affermato sul punto come: «L'art. 2087 è sicuramente una norma che ben si attaglia alle fattispecie di mobbing, posto che essa, trasferendo in ambito contrattuale il più generale principio del neminem laedere, ripartisce l'onere della prova così che grava sul datore l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore, mentre grava su quest'ultimo il solo onere di provare la lesione dell'integrità psico-fisica ed il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa (in questo senso, tra le altre: Cass. 12763/1998)». Quanto alla prova del nesso di causalità tra mortificazioni indotte e danno biologico – di norma affidata alle relazioni del CTU – va evitato l’errore in cui talora incorrono taluni magistrati che ne affermano il suo mancato, inequivoco, riscontro, laddove si trovano in presenza di dizioni del medico legale di tal genere « affetto da sindrome ansioso-depressiva (disturbo dell’adattamento), patologia di natura psichiatrica la cui genesi è compatibile con fattori legati al venir meno di gratificazioni lavorative». E’, infatti notorio che  i medici legali quando vogliono escludere il nesso eziologico lo affermano espressamente con diagnosi di “incompatibilità”, mentre invece quando ne riscontrano la sussistenza lo designano con la seguente stereotipata formula di stile: «patologia compatibile con il mobbing o lo stress occupazionale ovvero la costrittività organizzativa» (cfr. www.romacivica.net/ldp/SALUTE/mobbing.htm ). Dizione, implicante un pacifico riconoscimento del nesso eziologico tra stress occupazionale e danno biologico, ma che, al tempo stesso, possiede quel minimo margine prudenziale immanente al fatto che tanto la psichiatria quanto  la medicina legale rientrano tra le cd.  scienze sociali e non già in quelle scientifiche caratterizzate da esattezza matematica di risultanze.

Secondo condivisibile dottrina (cfr. Mazzamuto, Il mobbing, Giuffrè 2004, 76-77), nel caso del mobbing «si tratterà, quindi, per il lavoratore di dimostrare gli elementi di fatto che caratterizzano di norma la condotta dei mobbers – quali la durata, la reiterazione, la direzionalità, la pretestuosità – nonchè il collegamento di causalità giuridica con le conseguenze dannose. Lo schema da seguire è quello previsto per le condotte discriminatorie dagli artt. 4, n. 3, d.lgs. 215/2003 e 4, n. 4, d.lgs. 216/2003 i quali prevedono in parallelo: “Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto in termini gravi, precisi e concordanti”. Al datore di lavoro spetterà di provare che gli elementi di fatto addotti non costituiscono, singolarmente considerati, altrettante violazioni dell’obbligo di protezione e, in ogni caso, che tali episodi non sono collegati tra loro da un finalismo orientato a vessare, discriminare ed accerchiare il lavoratore; o, ancora, che, ex art. 1218 c.c., l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione dipendente da causa a lui non imputabile (es. factum principis). Dal quadro così abbozzato, il giudice, in sede di prova critica, potrà maturare il libero convincimento in ordine alla natura vessatoria, discriminatoria, se non, addirittura, persecutoria della condotta».

Infine sul punto  si evidenzia come un’applicazione tanto coerente quanto  progressista dei principi espressi dalla Cassazione a sezioni unite in tema di riparto degli oneri probatori nel nostro Paese, possa essere considerato - nell’ordinamento francese,  in tema di harcèlement moral (molestie morali) - l’art. 122-52 del Code du Travail, secondo cui : «è sufficiente che il lavoratore dipendente interessato adduca elementi di fatto che lascino supporre l’esistenza di una molestia. A partire da tali elementi, incombe alla parte convenuta di provare che il proprio comportamento non è costitutivo di molestia morale e che le proprie decisioni sono giustificate da ragioni obiettive, estranee a qualsiasi forma di vessazione». Principio giuridico che costituisce la corretta applicazione dell’art. 10 della Direttiva 2000/78/CE che prescriveva in tema antidiscriminatorio che «gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che [...] incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento», dal quale si è invece discostato il d.lgs.n. 216/2003, tramite una applicazione edulcorata, non letteralmente aderente o se si preferisce incompleta, la cui compiutezza è recuperabile sostanzialmente in sede interpretativa, come la precitata dottrina suggerisce.

 

4. Irrilevanza nel giudizio civile del riscontro dell’elemento soggettivo: sufficienza dell’idoneità lesiva della condotta

In ordine al riscontro dell’elemento soggettivo o teleologico della finalizzazione degli atti persecutori o vessatori, riteniamo – in contrasto con chi si ostina, anche in sede giudiziale, per tale riscontro o emersione dagli atti istruttori – che non sia affatto necessario, essendo sufficiente  a strutturare la fattispecie non già la finalizzazione quanto l’idoneità dei comportamenti a ledere oggettivamente la dignità, immagine e reputazione professionale del lavoratore. Sul punto non può che convenirsi con quella dottrina  - dalla quale in precedenza ci siamo dissociati – secondo la quale del tutto correttamente:«L’idea di valorizzare l’elemento soggettivo della condotta lesiva, non solo, come si vedrà, è incompatibile col diritto vigente, ma condizionerebbe ogni tutela alla difficile prova di tale elemento. Quello che conta, invece, è la oggettività della condotta, come è stato già chiarito per le discriminazioni e per il comportamento antisindacale » (così Vallebona, op. cit., 2), da Cass. sez. un. n. 5295 del 12.6.1997 (in http://dirittolavoro.altervista.org/condottaantisindacale.html).

Tale decisione aveva al riguardo risolto una divergenza di opinioni in seno alle sezioni semplici della Cassazione – in tema di condotta antisindacale – in questi termini: «Per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello statuto dei lavoratori (l. n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate perché consistenti nell’illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero».

Nello stesso senso autorevolmente da altra dottrina, secondo cui:«Anche la finalità di allontanare o escludere il lavoratore del posto di lavoro non può considerarsi un requisito presente in ogni pratica di mobbing; non è, in altri termini, necessario, o comunque rilevante, il “dolo specifico (Banchetti, Mobbing, danni alla persona del lavoratore e strumenti di tutela, in www.personaedanno.it, 2005, 5; Banchetti, Il mobbing, in “Trattato breve dei nuovi danni” (a cura di Cendon P.), Cedam, Milano,  2001, 2082; Ege, nota a Trib. Como 22.5.2001, in LG, 2002,76; Gaspari Emergenza mobbing. Le coordinate del problema, in LPO, 2002, 423. Contra: Oliva, Mobbing: quale risarcimento?, in DResp, 2000, 27 - ma, diversamente, Oliva, L’avvocato e i profili giuridici del mobbing, 2003, 332 - Trib. Como 22.5.2001, LG, 2002, 73; OGL, 2002, 277, rimasta peraltro sostanzialmente isolata)» (così Banchetti, cit. 2005, 5. Nello stesso senso Cardarello (Il mobbing e il risarcimento del danno: quando le sentenze anticipano le norme, in D&G, n. 9, 2005, p. 55) secondo cui:«Ancorare la sussistenza del mobbing alla contemporanea esistenza dell'elemento doloso sembra profondamente errato, giacché ciò che deve rilevare, pur in presenza di un comportamento colposo, è l'oggettività del fatto, o dei fatti, costituenti compressione della sfera professionale e personale del lavoratore, dovendosi semmai ritenere che il profilo doloso possa, anzi debba, costituire un elemento aggravante la responsabilità del mobber in termini risarcitori».

Anche nei recentissimi lavori parlamentari per l’eventuale emanazione di una disciplina legislativa del mobbing, si assiste a nutriti emendamenti tesi a sostituire termini teleologici del d.d.l. unificato in discussione quali  “comportamenti finalizzati” o “tesi a”, con terminologia oggettivizzante  espressa dagli aggettivi “idonei” o “atti a” ledere la personalità morale del lavoratore. Perchè – come ha insegnato il precedente delle sezioni unite – quello che rileva è l’idoneità oggettiva ad arrecare pregiudizio e non si vede per quale ragione in tale tematica – caratterizzata da lesioni di diritti maggiormente protetti in quanto riconducibili nell’ambito degli “inviolabili” dell’individuo -  ci si debba discostare, in omaggio a incomprensibile tolleranza, suscettibile di risultare ostativa nei confronti di una auspicabile deterrenza alla reiterazione di una forma patologica di concepire ed affrontare i rapporti interpersonali  nell’ambiente di lavoro.

A conclusione va  detto che sono pacificamente condivisibili osservazioni e considerazioni volte ad evitare il  rischio di una dilatazione incontrollata del mobbing. Come è stato correttamente osservato «non si può evidentemente pensare che ogni screzio, o inurbanità, o scortesia, o persino qualsiasi maleducazione o offesa, vengano attratte nell’imbuto cieco di una ipertrofia delle tutele risarcitorie. E’ opportuno riservare la valutazione di illiceità alle situazioni più gravi di patologia dell’organizzazione, al netto delle ipersensibilità soggettive» (Del Punta, op. cit. 71-72). Nello stesso senso Tar del Lazio, sez. III ter, 4 luglio 2005 n. 5454 (in http://dirittolavoro.altervista.org/annullamento_circolare_inail_mobbing.html), nella motivazione di annullamento della circ. Inail n. 71/2003, laddove afferma che «non è legittimo, né possibile ricondurre tutte le dinamiche delle relazioni di lavoro all’interno di un’impresa alla c.d. “costrittività organizzativa”, giacché essa non è certo la garanzia del “diritto” del lavoratore ad operare in un ambiente professionale asettico, irenico o, comunque, cordiale, al più potendosi pretendere comportamenti di buona fede da tutte le parti del rapporto di lavoro, indipendentemente, quindi, dai dati caratteriali dei singoli attori di quest’ultimo». Con la conseguenza, anch’essa condivisibile, che  condotta mobbizzante «può essere considerata tale solo quando è oggettivamente persecutoria, mentre onestà e buona fede vogliono che il lavoratore non pretenda nell’ambito del rapporto di lavoro una situazione più facile di quella normalmente sopportata nella vita quotidiana. Pertanto non possono  essere considerate illecite condotte avvertite come lesive dal lavoratore solo nell’ambiente di lavoro oppure solo a causa della propria fragilità nei rapporti interpersonali» (cfr. Vallebona, op. cit. 3). Senza tuttavia giungere ad aderire, peraltro, a considerazioni  - se non irridenti quanto meno poco sensibili - quali abbiamo altrove letto,  finalizzate a marginalizzare il mobbing o il danno esistenziale in ragione dell’inesistenza per il lavoratore di un preteso “diritto alla felicità, tanto meno nel rapporto di lavoro” (cfr. Agrifoglio, in Vallebona, op. cit. nt. 15)  o  costituite dalla gemella asserzione secondo cui «il prestatore di opere non ha alcun diritto ad essere felice e, anzi, come in ogni altro ambiente basato su relazioni continuative, l’azienda stessa è luogo di continui conflitti e tensioni, in parte inevitabili e prevenibili mercé sfoggio di virtù morali ed umane che non sono oggetto di obbligo giuridico. Il diritto del lavoro non interferisce con questi aspetti dell’organizzazione e tanto meno impone comportamenti corretti dal punto di vista etico. – omissis – . L’illecito non coincide con quanto è sgradevole sul piano morale e, per converso, il datore di lavoro che opera nella legittimità non deve essere di necessità un buon organizzatore dell’azienda ed un attento psicologo nello scrutare nell’animo dei suoi collaboratori. L’azienda è una formazione sociale “necessitata”, proprio perché la convivenza umana è in sua natura poco gradevole ed oggetto di un obbligo, derivante dal contratto di lavoro» (cfr. Gragnoli, rel. al Convegno “Il Mobbing”,  Centro Studi D. Napoletano, Cosenza 12.4.2003).

Giacché ad esse si può agevolmente replicare che nel rapporto di lavoro il prestatore non si illude certamente di  traguardare la  c.d. inesistente “felicità” terrena ed è perfettamente in grado – salvo che non sia o lo si faccia passare da psicolabile - di distinguere la carenza di cordialità dalle  vere e proprie vessazioni. 

In azienda pretendendo solo il rispetto di sé, della sua dignità, della sua immagine e della sua professionalità oltre a ripromettersi (come la Costituzione legittima e riconosce) tentativamente  e secondo una aspettativa  umanamente giustificata, di ricevere - alla pari dei  suoi colleghi - gratificazioni dal proprio impegno produttivo, in una struttura sociale che deve piuttosto essere sede di auspicabile realizzazione (e non già di mortificazione, talora  frutto di studiata strategia  espulsivo-demolitiva o di omessa vigilanza sul rispetto dell’obbligazione legale protettiva) dei valori immanenti all’individuo/persona umana, qualificati inviolabili da un attento e più sensibile Costituente, cui era ben noto che non esiste diritto alcuno senza un’etica che lo supporti e lo legittimi nella coscienza sociale.

 Mario Meucci

Roma 15 ottobre 2005

(pubblicato in D&G, Diritto e Giustizia, 22 ottobre 2005, ed. Giuffrè)

 

 (Torna all'elenco Articoli nel sito)