Ulteriori opinioni dottrinali sulla “legge delega per la riforma del mercato del lavoro”

 

 

 

R. Crociara - Testina di ragazza

 

Il disegno di legge delega in materia di mercato del lavoro e la riforma della disciplina del licenziamento individuale

Sommario:

1. Premessa: il progetto di deroga all’art. 18 St. lav.- 2. La sospensione della tutela reale nel caso di emersione dal lavoro sommerso.- 3. La trasformazione dei rapporti di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato.- 4. L’incoraggiamento alla crescita dimensionale delle imprese minori.- 5. La riforma dell’arbitrato e il regime dei licenziamenti.- 6. La riforma della disciplina dei licenziamenti individuali e i principi costituzionali, internazionali e comunitari.

1. Il presente scritto è rivolto ad analizzare le parti del disegno di legge delega in materia di mercato del lavoro - approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 novembre 2001 - che, in modo specifico, toccano l’area del regime sanzionatorio del licenziamento ingiustificato. Anzitutto, l’art. 10 del disegno di legge delega contiene significative modifiche alla disciplina dei licenziamenti individuali. La disposizione è intitolata “delega al Governo in materia di altre misure temporanee e sperimentali a sostegno dell’occupazione regolare, nonché incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato”. Secondo tale previsione, “ai fini di sostegno e incentivazione della occupazione regolare e delle assunzioni a tempo indeterminato, il Governo è delegato a introdurre in via sperimentale, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, disposizioni relative alle conseguenze sanzionatorie a carico del datore di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato ai sensi della legge 15 luglio 1966, n. 604 e successive modifiche, in deroga all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 prevedendo in alternativa il risarcimento alla reintegrazione, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) conferma dei divieti attualmente vigenti in materia di licenziamento discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, licenziamento della lavoratrice in concomitanza con il suo matrimonio a norma degli articoli 1 e 2 della legge 9 gennaio 1963, n. 7 e licenziamento in caso di malattia o maternità a norma dell’articolo 2110 del codice civile; b) applicazione in via sperimentale della disciplina per la durata di quattro anni dall’entrata in vigore dei decreti legislativi, fatta salva la possibilità di proroghe in relazione agli effetti registrati sul piano occupazionale; c) identificazione delle ragioni oggettive connesse a misure di riemersione, stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato, politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per il primo biennio, che giustifichino la deroga all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300”.

Pertanto, l’intenzione sarebbe quella di sospendere, per un periodo provvisorio (ma prorogabile), l’applicazione dell’art. 18 St.lav. in presenza di tre specifiche ragioni. Beninteso, va detto che la sospensione dell’art. 18 St.lav. determinerebbe che nei casi previsti il lavoratore, licenziato senza giusta causa o giustificato motivo, avrebbe diritto solo ad una tutela risarcitoria.

Orbene, va osservato che la suddetta sospensione dovrebbe essere prevista “ai fini di sostegno e incentivazione della occupazione regolare e delle assunzioni a tempo indeterminato”. Pertanto, è evidente l’obiettivo che il Governo intende perseguire attraverso la parziale eliminazione della tutela reale. Il presupposto di tale progetto è quindi la concezione secondo la quale la rigidità della tutela del lavoro comprime la crescita dell’occupazione e di conseguenza un allentamento delle garanzie avrebbe l’effetto di favorire l’espansione della base occupazionale, stimolando le imprese ad effettuare nuove assunzioni. Tuttavia, tale concezione, sebbene alquanto diffusa, non riesce a trovare nessuna valida dimostrazione empirica, benché da parecchio tempo gli economisti si arrovellino nel tentativo di supportarne la base giustificativa. Vero è invece che le ricerche disponibili – come quelle dell’ultraliberista OCSE – segnalano che il grado di rigidità della legislazione a tutela dell’impiego non presenta alcuna evidente correlazione con il tasso di disoccupazione, bensì può influenzare solo la composizione demografica della distribuzione della medesima percentuale di disoccupazione, nonché sembra incidere sul rapporto tra occupazione e popolazione in età lavorativa e sul turnover nel mercato del lavoro.

In altri termini, la crescita della disoccupazione non pare dipendere dalla maggiore o minore rigidità della normativa a tutela dell’impiego, ma la flessibilità di quest’ultima può incidere sulla composizione demografica della disoccupazione - e cioè sui livelli di disoccupazione dei maschi adulti, delle donne e dei giovani –, e tendenzialmente anche sul tasso di occupazione (che è una cosa ben diversa dal tasso di disoccupazione) e sul turnover tra disoccupati e occupati, vale a dire sulla frequenza del passaggio tra stati di occupazione e di disoccupazione. Comunque, dagli studi disponibili si trae il risultato che la deregolazione del mercato del lavoro non rappresenta la ricetta perfetta per creare occupazione ed abbattere i tassi di disoccupazione, ma anzi può produrre effetti opposti a quelli desiderati.

Sotto questo profilo la scelta governativa appare alquanto draconiana nell’adottare una linea di politica del lavoro che non trova adeguato supporto nei dati e nelle ricerche attualmente esistenti. Insomma, la sensazione è quella che si cerchi di mascherare un provvedimento che (sicuramente) abbassa l’attuale livello delle garanzie per molti lavoratori con la giustificazione che esso produrrà in futuro l’effetto (estremamente incerto) di favorire la crescita dell’occupazione.

2. Beninteso, vanno esaminate le tre specifiche “ragioni oggettive” a cui, secondo il Governo, sarebbe connessa la sospensione dell’applicazione dell’art. 18 St. lav.

La prima di queste è quella, assai genericamente individuata, delle “misure di riemersione”. E’ logico ritenere che verrebbe prevista la deroga alla soggezione alla tutela reale per i datori di lavoro che adottano misure di emersione dal lavoro sommerso: in questo modo, i datori di lavoro avrebbero la forte agevolazione ad emergere rappresentata dall’attenuazione del regime di tutela nei confronti del licenziamento ingiustificato. Probabilmente, l’agevolazione verrebbe costruita stabilendo la non applicazione dell’art. 18 St. lav. ai datori di lavoro che applicano le misure di riemersione (che appunto emergono) e superano la fatidica soglia dei quindici dipendenti a livello di ogni unità produttiva o dei sessanta dipendenti nell’ambito dell’organizzazione complessiva. Pertanto, è difficile che l’agevolazione possa essere sfruttata da imprese totalmente in nero: perché molto rari sembrano essere i casi di imprese che superano la soglia dei quindici dipendenti in una unità produttiva e riescono ad operare completamente in sommersione. Più in generale, i dati disponibili non riescono ad offrire una completa radiografia della consistenza occupazionale delle imprese sommerse: e quindi gli effetti dell’incentivo proposto sono valutati senza alcuna base affidabile di riferimento. Anche se non va trascurato che è possibile l’esistenza di datori di lavoro sommersi che abbiano alle proprie dipendenze più di quindici lavoratori distribuiti nel territorio di uno stesso comune: e in questo caso potrebbe prodursi qualche effetto positivo. Comunque, al di là di alcuni casi eclatanti, il sommerso più diffuso è rappresentato da piccolissime unità produttive con pochi addetti, nel settore dei servizi, dell’edilizia, dell’agricoltura, e del tessile. E’ più probabile quindi che l’incentivo sia usufruibile da quelle imprese emerse, ma che utilizzano in nero parte del loro personale la cui regolarizzazione sarebbe ostacolata dal diffuso timore del datore di dovere sopportare in futuro oneri eccessivi.

Va poi osservato che non appare affatto equo scaricare i costi dell’emersione delle imprese – il cui operare in nero provoca danni all’intera società – sui lavoratori da esse impiegati che invece molto spesso si trovano a dovere accettare l’occupazione sommersa come unica alternativa. Forse sarebbe più opportuno prevedere vere misure di sostegno non solo all’emersione, ma soprattutto alla stabilizzazione delle imprese emerse che sovente hanno estrema difficoltà nel reggere i nuovi costi provocati dal rispetto della legalità e dall’operare alla luce del sole. 

Peraltro, va posta adeguata attenzione sul modo con cui è costruita questa parte del provvedimento. In effetti, esso si limita a prevedere un nuovo (seppure discutibile) incentivo a favore delle imprese che usufruiscono di “misure di riemersione”. Attualmente, in Italia, la misura più importante del genere è quella contenuta nella legge n. 383/2001 (che fa parte del pacchetto dei cosiddetti “cento giorni” del Governo). Il sistema da essa previsto è a termine: nel senso che entro una certa data l’impresa deve manifestare la sua volontà di emergere, dichiarando anche il numero dei lavoratori sommersi. Il nuovo incentivo all’emersione, rappresentato dalla sospensione dell’art. 18 St. lav., mira a rendere ancora più favorevole il pacchetto di notevoli benefici contenuto nella legge n. 383/2001. E proprio tutto questo determina la necessità che il termine per l’adesione a tale sistema agevolativo non venga prorogato né riaperto con successivi provvedimenti. Perché altrimenti si creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento a danno delle imprese regolari e un forte stimolo ad operare in modo irregolare, con la sicura certezza dell’arrivo in futuro di un provvedimento di sanatoria.

Sicché, ciò che sembra fortemente deprecabile è l’idea – che risalta da questa parte del provvedimento – che l’emersione delle imprese sia ostacolata dal sistema delle garanzie a favore del lavoro e che quindi sia necessario abbassare il livello delle tutele per ottenere, con effetto immediato, la tendenza alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro. Attendendo smentite da ricerche più recenti, attualmente sembra alquanto difficile dimostrare tale teorema.

Peraltro, come s’è già accennato, la sospensione dell’art. 18 St. lav. non appare un incentivo adatto a colpire quei fenomeni di sommersione particolarmente diffusi nelle zone depresse del Paese, specie nel Mezzogiorno: qui v’è una miriade di piccole e piccolissime imprese che operano in nero o in parziale sommersione, ma che hanno livelli dimensionali ben lontani dalla fatidica soglia dei quindici dipendenti: e che quindi anche nel caso di una loro regolarizzazione resterebbero soggette alla più labile tutela obbligatoria/risarcitoria. Semmai, lo strumento proposto potrà essere adeguatamente utilizzato dalle più solide imprese del Centro-Nord, che hanno livelli dimensionali vicini alla soglia citata e che avrebbero uno stimolo efficace a regolarizzare gli eventuali rapporti di lavoro aggiuntivo che vengono gestiti in modo non corretto (soprattutto utilizzando i lavoratori formalmente a part-time, ma in realtà a tempo pieno, oppure pensionati o cassaintegrati) e che determinerebbero il superamento della suddetta soglia. Ma se fosse veramente così il provvedimento mancherebbe l’obiettivo per cui è stato escogitato: che appunto dovrebbe essere quello di favorire la crescita dell’occupazione regolare. In altre parole, esponenti politici vicini al mondo delle imprese e autorevoli protagonisti delle associazioni rappresentative di queste non perdono occasione di rappresentare tale specifica misura come la chiave di volta per ridurre gli endemici elevati tassi di occupazione sommersa italiana. In verità, questo aspetto del provvedimento corre il rischio di assomigliare ad un forte premio concesso a limitati settori dell’apparato produttivo, vale a dire alle piccole imprese, che con la formale giustificazione di regolarizzare bassissime percentuali di occupazione irregolare (non è escluso l’accesso fraudolento al meccanismo agevolativo) potrebbero varare piani di incremento occupazionale per raggiungere soglie dimensionali vicine a quelle delle imprese medio-grandi che invece resterebbero soggette all’applicazione dell’art. 18 St. lav. In questo modo, con l’avallo del legislatore, si giustificherebbe una sorta di concorrenza sleale – perché basata sulla riduzione dei costi del lavoro – a danno delle imprese medio-grandi che invece hanno sempre operato nella legalità. Di conseguenza, il legislatore avrebbe ulteriormente contribuito alla frantumazione del mercato del lavoro e alla differenziazione delle tutele: e cioè alla balcanizzazione delle garanzie e delle regole della concorrenza: cosa del tutto diversa dalla dichiarata intenzione di volere favorire la crescita economica e occupazionale all’interno di un quadro di regole semplici ed eque.

3. L’altra ipotesi in cui dovrebbe operare la sospensione dell’art. 18 St. lav. è quella della “stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato”. In altri termini, il beneficio della non applicazione della tutela reale verrebbe concesso alle imprese che assumono a tempo indeterminato lavoratori già in forza in base a contratti a tempo determinato.

La misura appare alquanto preoccupante per una serie di ragioni. Anzitutto, è evidente che in questo modo anche lo stesso contratto a tempo indeterminato verrebbe precarizzato, in quanto il datore potrebbe licenziare il lavoratore senza alcuna valida giustificazione, con il solo prezzo dell’onere risarcitorio. Peraltro, si innescherebbe un meccanismo di tipo diffusivo, tale per cui i datori sarebbero incentivati ad effettuare tutte le assunzioni a termine, in modo tale che la conversione dei rapporti a tempo indeterminato possa comunque permettere di godere della sospensione dell’art. 18 St. lav. Va ricordato che uno degli effetti più significativi della recente riforma della disciplina del contratto a tempo determinato (con il d.lgs. n. 368/2001) è quello di comprimere fortemente la possibilità per la contrattazione collettiva di fissare dei limiti quantitativi (e cioè di personale) all’utilizzazione del contratto a termine. Pertanto, grazie all’effetto combinato dell’incentivo della sospensione dell’art. 18 St. lav. e della nuova disciplina sul contratto a termine, il legislatore aprirebbe la strada alla diffusione pressoché totale di un nuovo modello di contratto di lavoro a tempo indeterminato del tutto precario, e cioè non garantito da un adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato.

In effetti, sembra evidente che la misura proposta sia contrastante con l’obiettivo che essa dovrebbe perseguire: se infatti il Governo intendesse veramente favorire le assunzioni a tempo indeterminato avrebbe dovuto prevedere appositi benefici per la stipula di tali rapporti. Ma perseguire l’obiettivo della “stabilizzazione dei rapporti di lavoro” attraverso la riduzione delle garanzie tipiche del contratto a tempo indeterminato in verità realizza una situazione del tutto paradossale: e cioè il passaggio da un rapporto a tempo determinato a uno a tempo indeterminato non determinerebbe alcuna “stabilizzazione” del rapporto, bensì manterrebbe una condizione di estrema precarietà dello stesso; a tal punto, che sarebbe più stabile il contratto a tempo determinato, dato che la risoluzione del medesimo sarebbe possibile solo per giusta causa.

I sostenitori della misura in esame sostengono che essa troverebbe il suo precedente in analoghi provvedimenti varati di recente dal Governo spagnolo. Il paragone tuttavia non coglie esattamente i termini della questione. Anzitutto, la Spagna presenta da tempo le più alte percentuali d’Europa quanto all’utilizzazione del contratto a termine. Tale situazione ha provocato grossi problemi sia dal lato dei lavoratori sia delle imprese: gli uni si trovano inseriti in rapporti che non offrono nessuna certezza per il futuro e quindi non permettono di programmare momenti fondamentali della vita personale; le altre, in presenta di una elevata mobilità del personale, si trovano di conseguenza in una condizione di forte instabilità e hanno la difficoltà di predisporre programmi di innovazione tecnologica e organizzativa e di formazione che presuppongono l’esistenza di un nucleo di lavoratori stabili e radicati nell’impresa. Pertanto, il governo spagnolo ha cercato di ridurre le percentuali di utilizzo dei contratti a tempo determinato, favorendo la stipula di contratti a tempo indeterminato. Ciò è stato realizzato abbassando i costi della tutela in caso di licenziamento ingiustificato per i rapporti a tempo indeterminato. In Spagna la tutela reale è confinata in alcuni casi specifici, e la forma di tutela generale è quella risarcitoria sul modello della legge n. 604/1966: e così con le recenti riforme sono state ridotte le indennità spettanti ai lavoratori, assunti a tempo indeterminato, in caso di licenziamento ingiustificato. Ma attenzione: le indennità attualmente previste restano molto più elevate rispetto a quelle previste dal sistema di tutela obbligatoria della legge n. 604/1966. Ciò significa che il lavoratore spagnolo anche se gode di una tutela solo risarcitoria, si trova in una condizione ben differente dal collega italiano cui si applicano le scarne indennità della legge n. 604/1966: e quindi, come si vede, il paragone con il sistema spagnolo per giustificare lo strumento proposto non è per niente adeguato.

4. La terza ipotesi in cui dovrebbe operare la deroga all’art. 18 St. lav. sarebbe quella delle “politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per il primo biennio”. Però, va subito detto che  nel testo della disposizione manca qualsiasi indicazione su che cosa s’intenda per “imprese minori” la cui crescita dimensionale andrebbe incoraggiata con la sospensione dell’art. 18 St. lav. Comunque, un punto di riferimento è nella stessa disposizione che si vorrebbe congelare. Infatti, com’è noto, l’art. 18 St. lav., dopo la riforma operata dalla legge n. 108/1990, prevede l’applicazione della tutela reale da esso regolata allo scattare di una soglia di occupati riferita alla singola unità produttiva (che è di sedici dipendenti o di sei per le imprese agricole) o “in ogni caso” di una soglia che considera il complesso dei prestatori di lavoro occupati (che è di sessantuno dipendenti). Se l’incentivo fornito dall’art. 10 del disegno di legge delega è limitato alle “imprese minori” è logico ritenere che, nell’esercizio della delega, si dovrà elaborare una nozione di impresa minore coordinata con la norma sospesa e con la comune concezione di “impresa minore”. Sembra quindi pensabile – anche in considerazione della storia applicativa della disciplina del campo di applicazione dell’art. 18 St. lav. e tenendo conto le dichiarazioni provenienti dai membri del Governo e degli esperti ad esso vicini – che la programmata sospensione della tutela reale si riferirà ai datori di lavoro che supereranno la soglia dei quindici dipendenti nelle singole unità produttive fino ad arrivare a sessanta occupati nell’organizzazione aziendale complessiva. Quest’ultimo limite dimensionale, cioè quello dei sessanta dipendenti, dovrebbe risultare invalicabile dal legislatore delegato, perché altrimenti verrebbe favorita un’impresa assolutamente non considerabile come “minore” e quindi ci si troverebbe di fronte ad un caso di eccesso di delega che esporrebbe la legislazione delegata al vizio di incostituzionalità per contrasto con l’art. 76 della Costituzione.

Se si condivide che quelle poc’anzi esposte siano le modalità necessarie di individuazione dell’impresa minore beneficiata dalla sospensione dell’art. 18 St. lav. – anche se non se ne possono escludere altre, che però esigono operazioni ermeneutiche più complesse e meno giustificabili -, vanno esaminate le ragioni per cui dovrebbe essere introdotta la citata sospensione. In sostanza, è diffusa l’idea che la soglia dei quindici dipendenti costituisca un ostacolo per le scelte di crescita delle imprese e quindi si vorrebbe incoraggiare tale sviluppo con la temporanea non considerazione dei lavoratori neoassunti per un determinato periodo di tempo, in modo tale da congelare (formalmente) il dato dimensionale al di sotto della soglia da cui scatta l’applicazione dell’art. 18 St. lav.

Tuttavia, va detto che diverse ricerche dimostrano come la scelta delle imprese di effettuare nuove assunzioni, e quindi di ampliare le proprie dimensioni, non sia direttamente, o quantomeno esclusivamente, influenzata dal timore di subire l’applicazione di normative lavoristiche più rigide: tra cui in primo luogo viene in rilievo proprio la disciplina in materia di licenziamenti individuali, che determina, all’atto del superamento della soglia dei quindici dipendenti, l’operatività dell’art. 18 St. lav. al posto della più labile tutela risarcitoria di cui all’art. 8 della legge n. 604/1996. Se ciò è vero, o comunque stante l’incertezza dei dati disponibili, ci si sarebbe aspettato maggiore prudenza da parte del Governo che invece ha optato, in modo drastico, per l’idea che l’alleggerimento della rigidità delle tutele dei lavoratori possa automaticamente produrre nuova occupazione. D’altronde, è a tutti noto che i fattori fondamentali dei processi di sviluppo sono costituiti anche da elementi immateriali come la fiducia e la stabilità del quadro economico: perciò, forse sarebbe stato più opportuno limitarsi ad avviare un ampio pacchetto d’interventi volti a creare condizioni favorevoli alle scelte d’investimento, come specifici programmi d’assistenza e misure fiscali ritagliati sulle esigenze delle piccole imprese, ovvero l’effettiva attivazione di quelli già esistenti, come lo sportello unico. Anche qui emerge il sospetto che le esigenze politiche abbiano prevalso sulla ragionevolezza: e che si sia deciso di offrire alle piccole imprese un incentivo il cui costo viene integralmente scaricato sui lavoratori coinvolti.

Peraltro, la misura appare non condivisibile anche sotto il profilo della disparità di trattamento che andrebbe a determinare tra gli stessi datori di lavoro. Infatti, potrebbe verificarsi l’ipotesi in cui alcune imprese raggiungano, in tempi brevi, dimensioni pari a quelle di altre che da tempo operano in quelle condizioni. Le une sarebbero avvantaggiate rispetto dalle altre, perché ovviamente godrebbero di una maggiore flessibilità nella gestione della stessa forza lavoro. Tale elemento critico sarebbe enfatizzato dalla circostanza che la deroga potrebbe operare fino a quando l’impresa, pur partendo nel suo processo di crescita da una sola unità lavorativa, non arrivi a superare i sessanta dipendenti. Anche sotto questo profilo si coglie come l’incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori, per evitare di creare disparità di trattamento, debba essere realizzato in modo equo: e cioè, mediante incentivi diretti agli investimenti, che quindi siano usufruibili, senza produrre discriminazioni, da tutti i soggetti presenti nel mercato, e semmai proporzionalmente al capitale investito ovvero alla capacità innovativa dei progetti avviati.

Infine, un appunto di carattere tecnico. Il nuovo campo di applicazione della tutela reale come risulta regolato dall’at. 18 St. lav., dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 108/1990 si determina, in forza delle esplicite parole del legislatore, con riferimento al numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro “imprenditore e non imprenditore”. La progettata deroga all’art. 18 St. lav., stabilita alla lettera c) dell’art. 10 del disegno di legge delega, considera soltanto le “imprese minori”. Pertanto, anche qui potrebbe essere individuato un limite all’esercizio della delega: e cioè che la deroga all’art. 18 St. lav. andrebbe prevista solo a favore dei datori di lavoro imprenditori, lasciando inalterato il regime preesistente a carico dei datori di lavoro non imprenditori. Ma è evidente che tale soluzione introdurrebbe una nuova differenziazione difficilmente giustificabile.

5. Beninteso, il testo del disegno di legge delega – la cui analisi completa meriterebbe notevole spazio – presenta un altro aspetto profondamente collegato alla tutela nei confronti del licenziamento ingiustificato. Infatti, l’art. 12 del progetto contiene una delega “in materia di arbitrato nelle controversie individuali di lavoro”. Viene così proposta una radicale riforma della disciplina dell’arbitrato in materia di lavoro che contiene alcuni elementi non condivisibili.

Anzitutto, tra i principi e criteri direttivi dell’esercizio della delega viene menzionata, alla lettera a) della disposizione, “la natura volontaria della compromissione in arbitri delle controversie individuali di lavoro, direttamente ovvero a opera delle associazioni rappresentative dei datori e prestatori di lavoro cui essi aderiscano o conferiscano mandato”. La norma sembra ribadire il carattere volontario e individuale della scelta della via arbitrale, ma subito dopo pare ammettere la possibilità che l’opzione per la via arbitrale possa essere effettuata anche dall’organizzazione sindacale cui il lavoratore aderisca. Se questo punto non verrà chiarito, si profila il rischio che i datori in futuro possano premere per inserire nei contratti collettivi clausole che prevedono il deferimento delle controversie al giudizio arbitrale; e sulla base di questa previsione arrivare a ritenere obbligato il lavoratore ad accettare la via arbitrale per il solo fatto che il suo rapporto sia  regolato dal medesime contratto collettivo ovvero in quanto egli è iscritto al sindacato che ha accettato quella clausola con la stipula del contratto in questione. E’ evidente che questa parte del progetto fa sorgere il forte dubbio della sua compatibilità con il principio costituzionale della tutela giudiziaria dei diritti e il conseguente divieto di arbitrato obbligatorio.

La convenienza per i datori della scelta della via arbitrale, in effetti, è enfatizzata dai punti successivi del progetto di riforma. Infatti, tra i vari principi e criteri direttivi di attuazione della delega, alla lettera d) della disposizione, si stabilisce il “superamento del divieto di compromettibilità in arbitri delle controversie individuali aventi ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti colletti, affermandosi conseguentemente il lodo secondo equità, nel rispetto dei principi generali del nostro ordinamento”. Il rischio è quello che attraverso la possibilità che l’arbitro decida secondo equità venga del tutto disarticolato il sistema di tutele e di garanzie attualmente previsto dalle disposizione delle leggi e dei contratti collettivi.

Ancora più grave è il criterio indicato dalla lettera f) della disposizione che parla di “alternatività fra risarcimento del danno con quantificazione interamente rimessa al giudizio arbitrale e reintegrazione nel posto di lavoro, a discrezione del collegio arbitrale, in deroga a quanto previsto dall’articolo 18, legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni”. In sostanza, verrebbe consentita l’eventualità che il collegio arbitrale, davanti cui sia impugnato un licenziamento, opti per la tutela risarcitoria invece che per quella reale. E questa alternativa avrebbe una portata generale e non limitata ai tre casi per i quali il precedente art. 10 ipotizza la sospensione dell’applicazione dell’art. 18 St. lav. Peraltro, questa nuova procedura arbitrale  sarebbe operativa anche nell’area del lavoro pubblico, posto che l’art. 11 del progetto si limita a stabilire che “le disposizioni degli articoli da 1 a 10 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate” e quindi non menziona espressamente il successivo art. 12, dov’è contenuta la riforma dell’arbitrato, la cui formulazione è tanto generale da ritenere che l’esercizio concreto della delega ne determinerà l’estensione anche al lavoro pubblico. Inoltre, nell’art. 12 del progetto l’alternatività della scelta tra risarcimento e tutela reale è configurata in termini così ampi da potere essere estesa anche ai casi di licenziamento discriminatorio, per matrimonio, per malattia e maternità, per i quali il precedente art. 10 mantiene il tradizionale regime di divieto di licenziamento e di conseguente nullità. Oppure lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto attraverso la pronuncia del lodo secondo equità, la quale disancora da criteri oggettivi lo spazio di valutazione del collegio arbitrale.

In estrema sintesi, mediante la suggerita riforma del sistema dell’arbitrato è prefigurabile il rischio che la tutela reale venga di fatto espunta dall’ordinamento e che il complesso dei diritti inderogabili dei lavoratori sia reso privo di alcuna effettività.

6. Nella delega contenuta nell’art.10 del progetto in esame, l’attribuzione di potere legislativo al Governo sembra riguardare non solo la possibilità di sospensione dell’art. 18 St. lav. nei casi esaminati, ma anche “le conseguenze sanzionatorie a carico del datore di lavoro in caso di licenziamento giustificato... prevedendo in alternativa il risarcimento alla reintegrazione”. E cioè è possibile che la delega vada a modificare anche la conformazione della tutela risarcitoria rispetto al modo in cui oggi è regolata dalla legge n. 604/1966 e a seguito delle innovazioni apportate dalla legge 108/1990. S’è già accennato che il “nuovo regime” dovrebbe essere introdotto “in via sperimentale” per “la durata di quattro anni” e “fatta salva la possibilità di proroghe in relazione agli effetti registrati sul piano occupazionale”. Ora, si profila l’eventualità che la nuova tutela risarcitoria possa essere prorogata per un tempo illimitato e anche che possa essere estesa a tutti i casi di licenziamento ingiustificato, qualora si dovessero registrare gli auspicati effetti positivi sul piano occupazionale. Perciò, pare importante spendere qualche parola sulle modalità attraverso le quali dovrebbe essere costruita (e quindi riformata) la tutela risarcitoria.

Anzitutto, va detto che la Corte costituzionale (sent. n. 46/2000) ha escluso che la tutela reale di cui all’art. 18 St. lav. rappresenti “l’unico possibile paradigma attuativo” dei principi di cui agli artt. 4 e 35 della Costituzione. E così, dichiarando ammissibile la richiesta di referendum abrogativo dell’art. 18 St. lav., la Consulta ha aggiunto che “l’eventuale abrogazione della cosiddetta tutela reale avrebbe il solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro, che risulta ricondotta, nelle discipline che attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella obbligatoria, al criterio di fondo della necessaria giustificazione del licenziamento”. Peraltro, “una volta rimosso l’art. 18 della legge n. 300/1970” non “verrebbe meno ogni tutela in materia di licenziamenti illegittimi, in quanto resterebbe, comunque, operante nell’ordinamento, anche alla luce dei principi desumibili dalla Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30, la tutela obbligatoria prevista dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, la cui tendenziale generalità deve essere qui sottolineata”. Secondo l’art. 24 della Carta sociale europea, le Parti contraenti, “per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento” si impegnano a riconoscere “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.

Sulla base dell’argomentazione della Corte costituzionale è possibile affermare che il legislatore delegato non goda di una illimitata libertà nel riformare anche l’assetto della tutela risarcitoria. Anzi, si potrebbe arrivare a sostenere che indirettamente la Corte costituzionale abbia lasciato intendere che l’attuale assetto della tutela obbligatoria di cui alla legge n. 604/1966 rappresenti un limite invalicabile per l’azione riformatrice del legislatore delegato, nel senso che non potrebbe essere prevista una tutela risarcitoria di entità inferiore a quanto stabilito dall’art. 8 della legge n. 604/1996. D’altra parte, come risulta dalla Carta sociale europea l’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato deve essere “congruo”, a meno che non sia prevista altra “adeguata riparazione”.

Peraltro, il quadro normativo di carattere generale s’è arricchito con la recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000, il cui art. 30 prevede che “ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”; mentre il comma 2 dell’art. 33 stabilisce che “al fine di poter conciliare vita familiare e vita professionale, ogni individuo ha il diritto di essere tutelato contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità”.  Vero è che il rinvio “alla legislazioni e prassi nazionali”, lascia agli Stati membri un ampio ventaglio di opzioni circa le modalità attuative del diritto alla “tutela in caso di licenziamento ingiustificato” di cui all’art. 30 della Carta, tuttavia anche qui lo spazio d’azione non è illimitato. Infatti, l’art. 52 del documento precisa che “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà”. Pertanto, è agevole ritenere che il contenuto essenziale del diritto alla “tutela in caso di licenziamento ingiustificato”, non vada identificato soltanto nel principio di giustificazione sostanziale del licenziamento, ma anche in un principio volto ad imporre la congruità o l’adeguatezza del regime sanzionatorio del licenziamento ingiustificato. Ciò perché la mancanza di una tutela sanzionatoria efficace priverebbe di valore il diritto sostanziale riconosciuto a monte, e quindi lederebbe il contenuto essenziale del diritto di cui all’art. 30. Certo, attualmente il valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali di Nizza resta incerto e ancora da precisare, ma di fatto essa, fin dal momento della sua proclamazione, influenza l’attività degli organi comunitarie e degli Stati membri. E’ consigliabile quindi che il Governo italiano non riponga eccessiva fiducia esclusivamente sul potere conferitole dalla maggioranza parlamentare che lo sostiene, ma tenga conto che la sua azione può legittimamente svolgersi solo entro il quadro delle compatibilità fornito dai principi del diritto costituzionale e del diritto internazionale e comunitario.

 

Alessandro Bellavista

(professore straordinario di Diritto del lavoro nell’Università di Palermo)

Gennaio 2002

 

(fonte: www.di-elle.it/approfondimenti_frameset.htm)

 

DIECI TESI SUL DIRITTO DEL LAVORO AL BIVIO. RIFORMA O RESTAURAZIONE?

 

1.   Il diritto del lavoro al bivio

 

E’evidente che il diritto del lavoro italiano è ormai a un bivio, nel senso che la sua direzione di svolgimento è sottoposta alla scelta tra indirizzi alternativi. Ciò vale peraltro per molte altre cose in quel piccolo orto che si chiama “Italia”: l’assetto costituzionale, il sistema politico, il rapporto con l’Europa.

 

Nessun ragionamento sul diritto del lavoro può essere quindi attendibile se non nell’ambito di una analisi sistemica che consideri i più generali problemi della politica istituzionale. Questo è il limite, ma anche la virtù, del diritto del lavoro. A differenza di altri rami del diritto, il diritto del lavoro obbliga a ragionare immediatamente, e non mediatamente, in termini complessivi. Perché il diritto del lavoro non è una disciplina specifica e settoriale, ma una disciplina trasversale, come abbiamo detto infinite volte.

Basti ripensare l’evoluzione della disciplina giuslavoristica degli ultimi trenta anni (fase statuto, fase emergenza, fase smantellamento automatismi, fase della concertazione e della flessibilità).

Schematizza e critica proposte libro bianco e legge delega. Rispondere a questo progetto in maniera settaria o, al contrario, rapsodica è sbagliato. Occorre contrapporre una alternativa complessiva, un disegno strategico, che abbia chiare le alternative in gioco. Perciò qui si sono usate due parole fortemente simboliche: “ri-forma” allude a un disegno in positivo, “re-staurazione” significa puro e semplice ritorno all’indietro. A questa parola potrebbe aggiungersene forse un’altra, largamente usata, questa volta, dalla destra e non dalla sinistra: “ri-voluzione” è la parola impiegata ripetutamente dal presidente del governo in carica, con cui si allude, a quanto si intende, a un rovesciamento integrale della situazione data.

 

2. Dieci tesi

 

2.1. Diritto nazionale e globalizzazione

 

La globalizzazione è un dato di fatto, come fu una volta il capitalismo. Non ha quindi senso opporsi alla globalizzazione: sarebbe come contrapporsi a una forza della natura, come pretendere di attraversare a nuoto l’oceano. Si può invece provare a contrastarne le forme più negative e aberranti. A questo fine occorre un pensiero critico, che muova da presupposti radicali per convergere su opzioni riformiste credibili. Globalizzazione significa anzitutto competizione su mercati aperti, in base a una legge comune fondata sulla logica di merce. Questa logica va criticata a priori: un mondo che compete solo su valori di merce, e che quindi si identifica solo nella merce-consumo come valore, non solo è invivibile e inaccettabile, ma è destinato all’autodistruzione. Al valore esclusivo delle merci, che riduce a merce anche il lavoro, va contrapposto quindi un altro valore: la supremazia del diritto delle persone contro il vincolo della logica mercantile. Questa è quindi la prima tesi qui sostenuta: “difendere i diritti della persona e i meccanismi della coesione sociale è una regola primaria se si ragiona in termini globali”.

 

2.2. Diritto nazionale e Europa

 

L'integrazione europea è un meccanismo complesso, che non può essere declinato in termini semplificati. Già Federico Mancini, citando un famoso detto di Madison  (“federate i loro portafogli e la loro mente e il loro cuore vi seguiranno”) aveva svolto una critica essenziale alla dimensione puramente economicista della unificazione europea. In particolare è inaccettabile una declinazione dell’Europa al fine di abbassare il minimo comune denominatore della garanzia dei diritti e delle protezioni sociali. Questa è l’operazione inaccettabile svolta per l’appunto dal “libro bianco del lavoro” del governo Berlusconi. Quella tesi va rovesciata, nei seguenti termini: “il modello sociale europeo costituisce un elemento essenziale di identità del progetto di Unione europea; il modello sociale europeo è complesso e non univoco; esso si fonda tuttavia su un principio di fondo, che ne segna il tratto differenziale indeclinabile rispetto al modello americano: le garanzie, la protezione sociale e le strategie di inclusione sociale sono un elemento strutturale dei sistemi pubblici europei: questo modello va aggiornato, e non liquidato”.

 

2.3. L’articolazione del diritto nazionale (sistema delle fonti) : in specie federalismo e diritto del lavoro

 

L’intera evoluzione del processo di riforme istituzionali svoltosi in Italia nel corso degli anni ’90 va sottoposta a un radicale ripensamento critico. In particolare vanno ripensati i seguenti termini: assetto del sistema politico e elettorale (maggioritario spurio e incompiuto o proporzionale con clausola di sbarramento, sistema di partito o sistema di coalizioni), forma di governo (sistema presidenziale, con formule di elezione diretta del capo dello Stato o del presidente del consiglio, o sistema parlamentare rafforzato, sulla base di un modello di cancellierato), assetto istituzionale interno verso Europa (federalismo cooperativo contro pseudo-federalismo anarcoide). In ogni caso è escluso che attraverso le riforme istituzionali imperfette (quali la legge cost. n.3 del 2001) si possa ipotizzare una differenziazione territoriale dei diritti, a dimensione endonazionale, come ipotizza irresponsabilmente il “libro bianco del lavoro”. “Il federalismo italiano va concepito come federalismo essenzialmente amministrativo, mirato a una più efficace implementazione degli assetti normativi attraverso la articolazione dei modelli organizzativi e gestionali, e non come strumento di differenziazione delle normative. In particolare è escluso che il diritto del lavoro possa essere differenziato a scala regionale: il diritto del lavoro italiano deve restare una disciplina nazionale, orientata alla integrazione virtuosa con un più avanzato modello europeo”.

 

2.4. Il sistema sindacale: attuazione degli artt.39 e 46 della Costituzione

 

Nonostante i cambiamenti del mercato del lavoro e il declino del modello fordista le forme collettive di rappresentanza degli interessi del lavoro dipendente continuano a costituire un elemento vitale e insostituibile della logica democratica. I diritti sindacali e il sistema della rappresentanza collettiva di tipo sindacale vanno quindi sostenuti con una efficace legislazione di sostegno. Parte essenziale di questa legislazione è costituita da una disciplina della rappresentanza, rappresentatività sindacale e delle condizioni di attribuzione di efficacia giuridica generale ai contratti collettivi di lavoro, che può ispirarsi a quanto già realizzato nel pubblico impiego. In proposito, appare necessaria una valutazione degli effetti attuativi della riforma del pubblico impiego, in specie sul versante dei modelli contrattuali e di rappresentanza: questa è una delle principali carenze del “libro bianco del lavoro” del governo Berlusconi. “E’ quindi necessario mettere mano a un intervento legislativo in attuazione della parte seconda dell’art.39 cost. il quale definisca le condizioni giuridiche, in termini di rappresentatività dei soggetti negoziali, ai fini della attribuzione di efficacia giuridica generale ai contratti collettivi. Si dovrebbe anche mettere mano a una attuazione dell’art.46 della cost. dando vita a un serio meccanismo partecipativo sul modello della codeterminazione tedesca”.

 

2.5. La concertazione: rapporti tra sistema sindacale e sistema politico

 

Il metodo della concertazione, nel bene e nel male, ha svolto in Italia una funzione essenziale, dal punto di vita della capacità di combinare innovazione e garanzia della coesione sociale. Basti riandare con la memoria agli accordi triangolari della seconda metà degli anni ’70, negli anni della inflazione a due cifre, che disboscarono il sistema degli automatismi retributivi, semplici e composti (dagli scatti di anzianità alla indennità di liquidazione), fino alla complessa vicenda che portò alla eliminazione della indennità di contingenza, per approdare, con l’accordo del luglio 1993, a una politica di controllo dei salari che ha costituito il vero pilastro, in una fase di grande turbolenza degli assetti politici, delle politiche di ingresso dell’Italia nell’Euro. Ora il governo di centrodestra dice che la concertazione è finita, perché non serve più una politica concertata dei redditi, ma una politica di competitività. Si tratta di un grave errore. Al di là delle forme che essa nelle singole circostanze storiche può assumere, la concertazione infatti è un metodo utile al governo dell’Italia. Un paese diviso e contraddittorio come l’Italia può trovare infatti una forma di identità o di coordinamento nazionale solo attraverso la convergenza di volontà tra grandi rappresentanze di interessi e governo politico. “La concertazione, vale a dire la ricerca di un accordo di fondo tra grandi rappresentanze di interessi e governo politico, per l’Italia costituisce un valore e uno strumento essenziale. Liquidare questo metodo costituisce una scelta avventurista”.

 

2.6. La riforma del diritto (individuale) del lavoro italiano: linee di fondo

 

Il diritto del lavoro italiano deve essere ampiamente riformato. Non nel senso tuttavia della direzione indicata dal “libro bianco del lavoro” del governo Berlusconi, che propone una de-strutturazione nel segno di una americanizzazione “senza radici”, ma nel senso di una ri-forma coerente con i presupposti e l’impianto della tradizione storica del diritto del lavoro italiano, secondo le linee di seguito indicate. “Il diritto (individuale) del lavoro italiano va ri-formato in coerenza con i suoi principi fondativi e con la sua storica tradizione, e non de-stabilizzato attraverso una innovazione dissennata e senza principi”.

 

2.7. Gli strumenti di intervento sul mercato del lavoro

 

Abolito il vecchio collocamento pubblico, e superato lo stesso monopolio pubblico delle assunzioni, va avviata una efficace competizione tra strumenti pubblici e privati di gestione e orientamento del mercato del lavoro. Va anzitutto effettuato un serio monitoraggio degli esiti attuativi della riforma e del decentramento del collocamento disposto con la legge n.59 del 1997 e il d. lgs. n.469 del 1998. E’ sbagliato quindi riformare quella riforma, come propone l’art.1 della legge-delega sul mercato del lavoro.  Bisogna prima verificare lo stato di implementazione della precedente riforma. “In ordine agli strumenti di intervento sul mercato del lavoro non si deve procedere a una indiscriminata privatizzazione. Bisogna prima verificare e implementare il grado di attuazione della riforma introdotta con il d. lgs. n.469/1998”.

 

2.8. La tipologia dei lavori flessibili

 

L’idea che il problema in Italia oggi consista nell’incrementare e addirittura inflazionare le forme flessibili di accesso all’impiego è sbagliata in radice. Si tratta di fare esattamente l’inverso, agli antipodi di ciò che propongono il “libro bianco del lavoro” e la legge delega del governo Berlusconi. Tutti gli indicatori mostrano infatti che il problema oggi, per il mercato del lavoro italiano, non consiste in un deficit di forme flessibili dell’impiego, quanto esattamente nel contrario. Almeno per gli italiani (altra cosa è naturalmente il discorso per i lavoratori extracomunitari, che sono il vero corpo “vile” della più brutale flessibilità) tutte le ricerche indicano la necessità di puntare a un lavoro di qualità, a contenuto formativo e orientato alla stabilizzazione. La retorica della flessibilità va quindi rovesciata, almeno per i giovani italiani, a vantaggio di ciò che è stato definito “elogio della stabilità” (Mario Napoli). “Bisogna porre termine alla retorica della flessibilità. La flessibilità non è un valore in sé, salvo il caso –rarissimo- che possa essere governata discrezionalmente dal singolo individuo. La stabilità è invece un valore: chi ha un lavoro stabile può programmare i tempi della sua vita, e ciò è quanto basta. Va perciò promossa una ri-stabilizzazione dei lavori flessibili, riducendo i lavori flessibili ad alcune essenziali figure (lavoro a tempo determinato, lavoro a part-time, lavoro in formazione), lasciando inalterato il nucleo definitorio e normativo del lavoro subordinato classico e promovendo una tutela selettiva per i rapporti di lavoro semi-autonomi o para-subordinati: si deve lavorare a un nuovo statuto di “tutti i lavoratori”, centrato sulla essenzialità della dimensione soggettiva del lavoro, e non a uno “statuto dei nuovi lavori” inteso come proiezione formale della oggettivazione delle forme di lavoro in chiave vetero-corporativa”.

 

2.9. Il nucleo del rapporto individuale di lavoro: licenziamento e dintorni

 

L’aspetto più odioso, ed anche insidioso, delle proposte formulate dal governo di centrodestra, con il “libro bianco” prima, e poi con la legge delega, riguarda la disciplina del licenziamento. Non si ha il coraggio di proporre la pura e semplice abrogazione del sistema di tutela reale contro il licenziamento, stabilito dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Ma si propone quella disciplina di aggirarla e di svuotarla dall’interno. Il tutto in ragione della necessità di promuovere una politica attiva della occupazione. Quella tesi è infondata in radice. Basti muoverle la seguente semplice obiezione: come mai la tutela reale contro il licenziamento ingiustificato non ha impedito la piena occupazione nel Nord, tanto piena che quel mercato del lavoro può funzionare solo attraverso la crescente immissione di lavoratori extracomunitari? Se il tasso di attività è più basso nel Sud, e lì sono addensate le percentuali più alte di disoccupazione, forse che questo dipende dalla disciplina del licenziamento, e non da altre bazzecole quali il problema della legalità e della sicurezza, le scarse infrastrutture, la mancanza di risorse fondamentali, come l’acqua per la Sicilia, la scarsa capacità amministrativa locale ecc.? Da ciò si ricava la seguente conclusione.”La disciplina del licenziamento va lasciata così com’è. Da essa non deriva infatti nessuna conseguenza negativa per l’occupazione. Vanno favoriti invece i mezzi più rapidi di soluzione delle controversie di lavoro, a partire dall’arbitrato volontario, subordinato al rispetto delle discipline inderogabili di legge e contratto collettivo”.

 

2.10. L’idea del diritto del lavoro: diritto/i del lavoro e valori

 

Il diritto  del lavoro è una disciplina laica, nel senso che chiunque la coltiva può farlo a modo suo, senza dover sottomettersi a obblighi di fedeltà personali, e tanto meno a vincoli di obbedienza ideologica. Ciò non impedisce, a chi ha frequentato il diritto del lavoro per lungo tempo, cercando di usare il diritto del lavoro non come disciplina autoconclusa ma come chiave di osservazione del grande mondo, di formulare una tesi ultima. Il diritto del lavoro è una disciplina che nasce nel mercato, e si è persino sviluppata in funzione del mercato. Ma essa è anche una disciplina costituita contro il mercato. Così mi pare che si debba guardare oggi al diritto del lavoro. Questa è quindi la mia ultima tesi. “Il diritto del lavoro serve, in ultima istanza, ad affermare i diritti della persona che lavora anche contro i vincoli della economia data. Nel diritto del lavoro è iscritta quindi una istanza di liberazione indeclinabile, che durerà quanto la storia dell’uomo”.

 

Bologna, febbraio 2002

Luigi Mariucci

(Professore Ordinario di Diritto del lavoro)

(fonte: www.unicz.it/lavoro/NOVITA.htm ove reperibile altresì un articolato e condivisibile saggio, sul «libro bianco» del Ministero del lavoro,  del Prof. M. Rusciano, in formato pdf)

 

 (Ritorna all'elenco Articoli presenti nel sito)