Osservazioni in tema di mobbing

 

In molti paesi europei è presente una puntuale regolamentazione del fenomeno mobbing. In Italia, l'approfondimento giuslavoristico delle questioni attinenti la qualità del rapporto di lavoro e la salute del lavoratore surroga le deficienze della normativa nazionale. Il datore di lavoro è tenuto al rispetto sia del generale obbligo di neminem laedere (ex art. 2043 c.c.), la cui violazione è fonte di responsabilità extra-contrattuale, sia del più specifico obbligo contrattuale di protezione dell'integrità psicofisica del lavoratore (art. 2087 c.c.).

 

IL MOBBING: DA FENOMENO SOCIALE A REALTÀ GIURIDICA

L'espressione anglofona "mobbing", sviluppatasi solo di recente nella pratica giudiziaria, ("to mob" significa "assalire o aggredire in gruppo") è stata utilizzata per la prima volta dall'etologo Konrad Lorenz, poi ripresa negli studi di Heinz Leymann, Harald Ege, Tim Field e Marie France Hirigoyen, per descrivere il comportamento con cui più animali isolano e allontanano un altro dal gruppo o dal territorio cui questi appartiene.

Non esiste in ambito internazionale una nozione di "mobbing" univocamente recepita ed accettata per qualificare la violenza psicologica sul luogo di lavoro.

Il termine è fungibile con altre espressioni attraverso cui si rappresentano i comportamenti vessatori di un soggetto nei confronti di altri soggetti più deboli.

Si parla di "bossing" (o mobbing verticale) per indicare le pressioni psicologiche esercitate dall'azienda, e dai preposti di essa, nei confronti di uno o più dipendenti, al fine di ottenerne le dimissioni o l'accettazione di una dequalificazione.

Essa è un'azione persecutoria funzionale ad una politica di organizzazione o di riorganizzazione aziendale, finalizzata alla riduzione del personale o all'esclusione di lavoratori "scomodi".

Con l'espressione "bullying" (bullismo) si indicano le forme di terrorismo psicologico esercitate non solo sul luogo di lavoro, ma anche in casa, a scuola, nelle caserme, nelle carceri, che si sostanziano in atti di prevaricazione e di prepotenza tra soggetti, non necessariamente ordinati per via gerarchica.

Anche in Italia, la condotta di "mobbing", varcando gli ambiti originari dell'etologia, della sociologia, della psicologia del lavoro, progressivamente acquista dignità giuridica.

L'approfondimento giuslavoristico delle questioni attinenti la qualità del rapporto di lavoro e la salute del lavoratore surroga le deficienze della normativa nazionale.

Il mobbing, spesso risultante da un insieme di atti che, presi singolarmente, sono formalmente legittimi e sostanzialmente inoffensivi, produce l'effetto di ledere, infastidire, svilire, allontanare un collega di lavoro.

I contenuti della condotta di mobbing vengono determinati in base ai requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro nazionale ed internazionale.

In psicologia, sebbene le modalità di persecuzione siano inesauribili, i comportamenti persecutori e vessatori, per essere qualificati mobbing, oltre a presentare carattere di frequenza e di ripetitività, devono essere inseriti in una strategia globale che mira all'"eliminazione della vittima", o anche al solo isolamento del lavoratore.

Alcune decisioni di merito hanno negato l'esistenza del mobbing in quei casi in cui il ricorrente non aveva provato l'intento persecutorio del mobber, il c.d. animus nocendi.

Tale orientamento non può essere condiviso.

Il riscontro dell'elemento teleologico, della finalizzazione degli atti persecutori o vessatori, non è necessario, essendo sufficiente a strutturare la fattispecie non già il fine, quanto l'idoneità a ledere oggettivamente la dignità, l'immagine e la reputazione professionale del lavoratore.

Per qualificare "dolosi" i comportamenti lamentati, non è necessario indagare nella loro interezza i motivi dell'intento persecutorio, essendo sufficiente attenersi ai caratteri oggettivi della condotta: ripetitiva, emulativa, pretestuosa, pertanto, vessatoria e discriminatoria.

 

LA CODIFICAZIONE

In molti paesi europei già da diverso tempo è presente una puntuale regolamentazione del fenomeno.

In Svezia è stata promulgata dall'Ente Nazionale per la Salute e la Sicurezza l'ordinanza AFS 1993/17 del 21 settembre 1993.

L'ordinanza impone ai datori di lavoro di "organizzare il lavoro in modo da prevenire ogni forma di persecuzione morale; [...) apprestare idonei strumenti diretti a stigmatizzare e impedire tali condotte; [...] prevedere forme di intervento a favore delle vittime del mobbing".

In Norvegia, la l. 24 giugno 1994, n. 1, supportata da un consolidato orientamento giurisprudenziale, dispone: "I lavoratori non devono essere esposti a molestie o ad altri comportamenti sconvenienti [...]".

In Austria il "Piano di azione per la parità uomo-donna" approvato il 16 maggio 1998 dispone che "[...] tra i comportamenti che ledono la dignità della donna e degli uomini nel luogo di lavoro vanno annoverati, in particolare, le espressioni denigratorie, il mobbing e le molestie sessuali".

In Germania la tutela contro il mobbing, già dal 1996, è assicurata dalla previsione generale degli artt. 1-2-3 Cost., i quali garantiscono il rispetto della dignità personale, lo sviluppo della persona e l'uguaglianza.

Con l'"Arbeits Schutzgesets", approvata il 7 giugno 1996, si affronta, con finalità di tutela preventiva della salute, e di reazione verso le condizioni di mobbing, la problematica dell'organizzazione del lavoro e del deficit dei rapporti aziendali.

Questa norma recepisce nell'ordinamento tedesco la direttiva CEE 1989 n. 89/391, diretta a tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori sul posto di lavoro.

Il "Betriebsverfassungsgeset", approvato il 23 dicembre 1988 (sinteticamente: B.V.G.), agli artt. 75 e 80 impone: al datore di lavoro, di promuovere la libera espressione della personalità dei dipendenti nell'azienda, garantendone l'effettività anche a mezzo di colloqui mensili con il consiglio di azienda; al consiglio d'azienda, di proporre al datore di lavoro le misure che esso è tenuto ad adottare.

L'art. 104 del B.V.G., nell'intento di prevenire forme di "mobbing orizzontale", prevede che il consiglio di azienda possa disporre l'allontanamento temporaneo o il licenziamento del lavoratore che, consapevolmente e reiteratamente, ponga in essere turbative dell'ambiente di lavoro.

L'ordinamento inglese sanziona il mobbing ("bullying at work", tiranneggiamento sul lavoro) attraverso la "Protection from Harassment Act" del 21 marzo 1997.

La norma all'art. 1 dispone che "una persona non deve porre in essere una condotta molesta (di cui conosca o debba conoscere il carattere molesto) nei confronti di un'altra persona".

Non è richiesto che la condotta, reiterata per almeno due volte, sia caratterizzata dall'intenzione di pregiudicare la salute psichica della vittima, essendo sufficiente, quale condizione minima, la ragionevole presunzione del carattere molesto della condotta.

La condotta illecita è sanzionata con la reclusione fino a sei mesi o con una multa.

Il giudice, inoltre, se richiesto dalle circostanze del caso, può emettere un "protection order" a tutela della vittima, sottoponendo l'imputato a misure di sicurezza, tramite una serie di proibizioni e divieti.

L'ordinamento francese contrasta il fenomeno del mobbing (definito "harcelement moral") con uno strumento legislativo specifico, la "loi de modernisation sociale" n. 73/2002.

La normativa indicata, superando la resistenza della lobby economica ed industriale verso l'introduzione di tale disciplina, inserendo l'art. 122.49 nel Code du Travail, offre una puntuale nozione dell'"harcelement moral": "atti ripetuti di molestia morale che hanno per oggetto o per effetto un degrado delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i diritti e la dignità del lavoratore, di alterare la sua salute fisica o mentale, o di compromettere il suo avvenire professionale".

La legge reprime sia il mobbing orizzontale sia quello verticale (c.d. bossing).

Sul piano sostanziale, viene disposta la nullità di diritto degli atti modificativi in peius della posizione professionale del dipendente, nonché degli atti risolutivi del rapporto.

Sul piano processuale, si realizza (ma per poco [...]) una più agevole inversione dell'onere probatorio: il lavoratore denuncia i fatti molesti; il datore di lavoro dimostra che i comportamenti assunti non costituiscono violenza psicologica, e che le decisioni sono giustificate da elementi obiettivi estranei alla violenza psicologica.

Dopo solo un mese, con la modifica legislativa del 3 febbraio 2003 (la c.d. Loi "Fillon", dal nome del relatore), l'onere probatorio del ricorrente si aggrava, estendendosi al carattere molesto dei fatti denunciati, fermo restando l'obbligo del convenuto di dimostrare la legittimità dei comportamenti adottati.

"Il fatto di molestare gli altri attraverso comportamenti ripetuti, aventi per oggetto o per effetto una degradazione delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i diritti (del lavoratore) e la sua dignità, di alterare la sua salute fisica o mentale, o di compromettere il suo avvenire professionale", viene sanzionato (con la reclusione fino ad un anno o con la multa) anche dall'art. 222-33-2 del novellato codice penale francese.

Una risoluzione del Parlamento Europeo, approvata il 20 settembre 2001 (A5-0283/2001), raccomanda agli Stati membri di imporre alle imprese, ai pubblici poteri, nonché alle parti sociali, l'attuazione di politiche di prevenzione efficaci a risolvere il problema.

È evidente la necessità di disciplinare la materia attraverso una direttiva comunitaria.

In Italia, sebbene la materia abbia costituito oggetto di numerosi disegni di legge parlamentare, una prima disciplina positiva del fenomeno è stata offerta solo dalla l. reg. Lazio 11 luglio 2002, n. 16.

Tale normativa, disciplinando materie contigue sia alla "giurisdizione civile", oggetto di competenza legislativa esclusiva dello Stato, sia alla "tutela della salute" e alla "tutela e sicurezza sul lavoro", oggetto di competenza legislativa concorrente, è stata dichiarata incostituzionale.

Quando le condotte di mobbing si manifestano in violazioni della norma non sussistono difficoltà significative nel provare l'abuso, purché la condotta presenti i seguenti caratteri: la ripetitività dei comportamenti; lo scopo, o anche solo l'effetto, della persecuzione e della discriminazione; la permanenza degli effetti pregiudizievoli.

La condotta del datore di lavoro che viola la norma manifesta ex se l'abuso (la lontananza dal corretto impiego) di uno strumento di diritto.

Allo stesso modo, la violazione di disposizioni contrattuali (le quali hanno forza di legge fra le parti, ex art. 1326 c.c.) manifesta una condotta di sopraffazione verso la controparte, evidentemente vittima di un abuso.

Maggiori difficoltà si incontrano in quelle forme più sottili di violenza psicologica in cui i provvedimenti assunti nei confronti del lavoratore, apparentemente legittimi, formalmente rispettosi delle disposizioni normative, perseguono finalità diverse da quelle propriamente lecite.

Il carattere psicologico della condotta, formalmente legittima ma sostanzialmente diretta all'attuazione di politiche di mobbing, può essere sintomatico di un eccesso di potere: o nel senso di una scorrettezza nell'esercizio di un potere legittimo, con il perseguimento di finalità illecite, diverse da quelle per cui il potere è stato concesso; o nel senso di un cattivo esercizio del potere discrezionale, con il perseguimento di finalità legittime mediante l'uso di un potere diverso da quello previsto ad hoc dalla norma.

Ricorre la prima ipotesi nel trasferimento che, disposto nei confronti di una persona invisa di cui il datore di lavoro voglia liberarsi, risulti rispettoso dei presupposti di legittimità di cui all'art. 2103 c.c. (comprovate esigenze tecniche, organizzative o produttive).

In tal caso il trasferimento, adottato con la consapevolezza che le insuperabili difficoltà (logistiche, familiari, socio-economiche) indurranno il lavoratore a dimettersi piuttosto che ad accettare di essere trasferito, può configurare una condotta di mobbing.

Ricorre la seconda ipotesi quando il trasferimento, in presenza di un illecito disciplinare, e senza ricorrere al procedimento disciplinare (con l'assistenza e le garanzie previste ex lege), viene utilizzato con finalità sanzionatoria, spostando il lavoratore in sede disagiata.

L'eccesso di potere da parte del datore di lavoro si configura con la violazione di quei limiti interni tipici della potestà direttiva imprenditoriale, i quali, pur non essendo tutti esplicitati in norme positive, sono inerenti alla natura del potere direttivo esercitato: al fine di garantire la congruità logica degli atti adottati; al fine di evitare disparità e iniquità nel trattamento dei dipendenti; al fine di modulare l'esercizio dei poteri di direzione imprenditoriale secondo congrui parametri di riferimento.

 

LA RESPONSABILITÀ

Il datore di lavoro è tenuto al rispetto sia del generale obbligo di neminem laedere, espresso dall'art. 2043 c.c., la cui violazione è fonte di responsabilità extra-contrattuale, sia del più specifico obbligo contrattuale di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore (art. 2087 c.c..

La giurisprudenza, soffermandosi sull'art. 2087 c.c., e trasponendo il generico obbligo del neminem laedere in ambito contrattuale, ha riconosciuto l'obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica e morale del lavoratore quale corollario e integrazione di tutte le altre obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

La disposizione di cui all'art. 2087 c.c., la quale rappresenta una norma di chiusura del sistema antinfortunistico, estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora previste dal Legislatore, impone al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità dei dipendenti, sia in forza della previsione costituzionale a garanzia del diritto alla salute, sia in forza dei principi di buona fede e correttezza contrattuale.

La Cassazione ha statuito: "[...] in relazione alla situazione dedotta in giudizio, la domanda va riferita, indipendentemente dalla prospettazione della parte, ad un'azione di responsabilità contrattuale.

Infatti, se il termine mobbing può essere generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, nella fattispecie vengono in rilievo [...] violazioni di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di impiego".

"La fattispecie di responsabilità va ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro, e dai riflessi su situazioni soggettive (quali il diritto alla salute), che trovano la loro tutela specifica nell'ambito del rapporto obbligatorio".

Il rinvio all'art. 2087 c.c., anziché all'art. 2043 c.c., non ha solamente un risvolto logico, ma anche e soprattutto dei vantaggi pratici.

Si ravvisano, in particolare, cinque aspetti degni di riflessione.

- La violazione di norme inerenti la disciplina del rapporto di lavoro fa sì che (ex art. 409 c.p.c.) la causa di mobbing rientri nella competenza del tribunale monocratico, sezione lavoro, e segua il rito speciale (celere ed economico) previsto dall'art. 410 c.p.c. ss., e non quello dinanzi al tribunale civile ordinario.

Anche l'azione risarcitoria, fondata sulla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, deve essere promossa dinanzi al giudice del rapporto, al quale spetta la cognizione della controversia, anche in presenza di cumulo e/o concorso di responsabilità extracontrattuale con quella contrattuale, ovvero, di connessione di cause, essendo il rito del lavoro "speciale" e, quindi, assorbente.

- Il diritto al risarcimento del danno, se considerato di natura contrattuale, decorre nel termine di 10 anni (ex art. 2946 c.c.), se considerato di natura extracontrattuale, decorre nel termine di 5 anni (ex art. 2947 c.c.).

Se, come sembra opportuno, il contegno del mobber viene valutato in maniera unitaria, solo con la cessazione delle condotte incomincerà a decorrere il termine di prescrizione, ancorché l'evento dannoso si sia protratto autonomamente.

Si configura, riguardo alla condotta di mobbing dedotta, una fattispecie di illeciti istantanei con effetti permanenti, rispetto alla quale è opportuno far riferimento non tanto al momento in cui è sorto il danno, ma alla permanenza della condotta illecita, o al momento in cui abbia cessato di essere tale.

- L'onere probatorio, che il lavoratore-ricorrente è tenuto ad assolvere per far valere le proprie pretese in giudizio, è reso più agevole nel processo del lavoro, sia perché al giudice spettano ex lege ampi poteri in ordine alla ricerca d'ufficio della verità materiale, sia perché al lavoratore è concessa un'inversione dell'onere della prova, una sorta di favor in ragione della sua ontologica posizione di debolezza all'interno del rapporto contrattuale.

Il lavoratore (ex artt. 1218 e 2087 c.c.) è esonerato dall'onere di dimostrare la presenza della colpa o del dolo del datore di lavoro, ed è tenuto solo a provare: l'esistenza delle cause del danno lamentato, il nocumento per l'effetto subito, e la sussistenza del nesso eziologico tra il comportamento tenuto dal datore di lavoro e la lesione inferta.

Al datore di lavoro spetta l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore, e di aver adottato tutte le misure di tutela idonee ad evitare che quel danno si verificasse, secondo il principio della c.d. "massima sicurezza tecnicamente fattibile".

- Nella responsabilità extracontrattuale è considerata risarcibile solo l'effettiva lesione provocata dall'altrui attività pregiudizievole; nella responsabilità contrattuale, invece, il danno risarcibile è ampliato al danno prevedibile (ex art. 1225 c.c.) al momento in cui è stata posta in essere la condotta illecita.

La responsabilità contrattuale del datore di lavoro è esclusa solo quando le conseguenze che il lavoratore ha patito per le aggressioni subite in azienda sono eccezionali, inevitabili ed assolutamente imprevedibili.

- L'illecito contrattuale non ha natura esclusivamente risarcitoria, ma anche, ed eventualmente, ripristinatoria.

Oltre alla risarcibilità del danno, che deriva direttamente dall'art. 2087 c.c., occorre considerare l'eventuale tutela di reintegra offerta, ad esempio, dall'art. 2103 c.c. in caso di demansionamento, ovvero, per il caso di licenziamento o di recesso del lavoratore.

Qualora risulti in giudizio che le dimissioni sono state rassegnate a seguito di mobbing, può essere riconosciuta la giusta causa, ex art. 2119 c.c..

Nei casi più gravi le dimissioni possono essere anche annullate, in quanto rese in condizioni di incapacità di intendere e volere, oppure, a seguito di violenza morale o di minaccia di far valere un diritto (ex artt. 1434 ss c.c.), con il conseguente ripristino ex tunc del rapporto di lavoro.

Nonostante le precisazioni in premessa, nella pratica giudiziaria è ricorrente il concorso delle azioni di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, indipendentemente dal fatto che gli elementi generatori del danno siano stati posti in essere sul luogo di lavoro.

Quasi mai ci si affida unicamente alla fattispecie di responsabilità contrattuale.

La coesistenza del profilo di responsabilità extracontrattuale e contrattuale costituisce un vantaggio pratico per il danneggiato, in quanto il mancato rispetto della regola contrattuale (ad esempio, l'art. 2087 c.c.) può costituire il profilo di colpa richiesto per la realizzazione della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c., e conseguentemente, può esonerare dalla ricerca dell'elemento psicologico.

Sarà, dunque, sempre utile rilevare, ove sussistente, la presenza del doppio profilo di responsabilità.

Quanto ai profili del danno risarcito, la dottrina ed la giurisprudenza hanno ormai superato la tradizionale dicotomia tra piena risarcibilità dei danni patrimoniali (artt. 2043 e 1218 c.c.) e limitata risarcibilità di quelli c.d. morali (art. 2059 c.c.), essendo maturata la consapevolezza che anche la privazione di serenità dell'individuo, con la conseguente sofferenza psicologica, configura una privazione di beni personalissimi dell'essere umano, oggetto di diritti e di tutela.

In tal senso, la Corte costituzionale ha sancito che, quando siano stati lesi interessi garantiti dalla Costituzione (e tale è anche quello al rispetto della dignità del lavoratore nell'attività di impresa), il danno non patrimoniale può essere risarcito anche se non dipendente da reato.

Le espressioni della personalità del lavoratore riconosciute meritevoli di tutela sono sempre più ampie.

È immediato il richiamo al danno professionale da privazione di mansioni, rilevante non solo sotto il profilo della perdita economica, ma anche sotto il profilo del pregiudizio che il demansionamento arreca alla vita di relazione dell'interessato, influen do sulla sua dignità, sulla sua libertà di scelta, sulle chances di carriera, sul suo inserimento nel contesto sociale, sui suoi rapporti familiari.

Un altro profilo di intervento, in relazione al quale la giurisprudenza di Cassazione pone l'accento sulla connotazione psichica, oltre che fisica, del pregiudizio, è quello che la dottrina più recente individua nel danno personale da soppressione di diritti: il diritto al riposo; il diritto alle ferie.

Le decisioni che hanno affrontato tale materia, evidenziando nella motivazione che la privazione di diritti sviluppa una "maggiore gravosità della prestazione", evidenziano un aspetto fondamentale per la valorizzazione dell'individuo-lavoratore.

Su tali basi la dottrina, in tema di c.d. danno esistenziale, riconoscendo al titolo II della Costituzione, in tema di rapporti etico-sociali, la natura di fonte di diritti soggettivi e non solo di principi programmatici, ha ampliato l'ambito di protezione dell'ordinamento, traendo ad oggetto di tutela privilegiata valori come: la sicurezza, l'integrità psico-fisica, la libertà e la dignità, indipendentemente da ogni profilo economico patrimoniale.

Senza procedere ad un esame minuzioso dell'orientamento dottrinale e giurisprudenziale in tema di danno non patrimoniale, si evidenzia, anche in questa materia, una tripartizione dei danni di natura non economica risarcibili: il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità fisica e psichica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); il danno esistenziale, derivante dalla compromissione di valori costituzionali della persona, pregiudicata nella sua dignità ed integrità morale, nel diritto ad essere rispettata e non umiliata.

Le tre componenti del danno non patrimoniale possono e devono costituire oggetto di ristoro senza correre il rischio di sovrapposizioni.

Nelle condotte illecite di mobbing viene sempre compromessa la personalità morale della vittima, così come si estrinseca nello svolgimento dell'attività lavorativa: l'immagine, l'identità, la dignità dell'individuo-lavoratore mobbizzato.

Pertanto, al lavoratore sarà sempre dovuto il risarcimento del danno esistenziale.

Sovente, però, la sottoposizione continuativa a pratiche vessatorie è tale da pregiudicare la stessa integrità psichica del lavoratore mobbizzato.

In tali casi, quando una malattia venga effettivamente accertata e collegata causalmente alle vessazioni subite, è possibile dar corso al risarcimento anche del danno biologico.

La lesione della dignità del lavoratore determina, in primis, la ricorrenza del danno esistenziale, poi, in quanto si accerti anche la violazione della salute, il concorso anche del danno biologico.

Infatti, è il danno esistenziale da mobbing a prodursi sempre e comunque, mentre quello biologico risulta solo eventuale.

Una condotta vessatoria potrebbe non aver compromesso la salute psichica del lavoratore, ma aver prodotto effetti negativi sulla sua qualità di vita.

Diversamente è stato deciso dalle sentenze dei tribunali di: Milano, Agrigento, Forlì.

In queste sentenze la liquidazione del danno esistenziale risulta sempre agganciata a quella del danno biologico, con una comune motivazione: il danno esistenziale va rapportato ad una frazione di quello biologico.

Non condividendo il percorso logico delle decisioni citate, lo scrivente ritiene che la riparazione del pregiudizio alla salute copra solo il danno strettamente collegato alla malattia, quel danno che viene ad incidere nella sfera della vittima oltre la soglia degli effetti negativi sulla qualità della vita, i quali sono rubricati come danno esistenziale.

Compito del giudice è quello di evitare che tutto o parte del ristoro offerto per il danno esistenziale possa duplicarsi con il ristoro offerto per il danno biologico.

Tale inconveniente si è manifestato nella sentenza del Tribunale di Agrigento, in cui non viene chiarita la natura del ristoro offerto a copertura del danno esistenziale, inteso come "compromissione della relazionalità dell'individuo".

Questo effetto dannoso, che nel caso concreto si è manifestato in un "ripiegamento su sé stesso", sembra piuttosto delineare un disturbo psichico del lavoratore.

Lo stesso effetto di duplicazione si ravvisa nella pronuncia del Tribunale di Milano, la quale finisce per tratteggiare il danno esistenziale troppo genericamente, quale "compromissione della qualità della vita del lavoratore all'interno e all'esterno del posto di lavoro".

Questi profili non vengono adeguatamente differenziati dai pregiudizi oggetto della liquidazione del danno biologico, quali effetti di una patologia psichica.

Più puntuale risulta la liquidazione del danno esistenziale da parte del Tribunale di Forlì.

In tale pronuncia vengono risarciti a titolo di danno esistenziale: la compromissione dell'immagine professionale della vittima e la sua dignità.

La necessità di precisare i profili oggetto di ristoro, al fine di evitare il rischio di duplicazioni, riguarda non solo il rapporto tra danno biologico e danno esistenziale, ma anche il rapporto tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale.

Il Tribunale di Agrigento liquida il danno alla professionalità quale pregiudizio esclusivamente patrimoniale.

La pronuncia del Tribunale di Forlì, al contrario, riconosce al pregiudizio di carattere professionale esclusivamente il carattere di danno esistenziale.

Solo un puntuale esame della fattispecie concreta, e delle risultanze probatorie offerte in giudizio, consente di differenziare i due profili di danno, così da evitare che il ristoro dovuto per il danno all'immagine e/o alla dignità si sovrapponga al ristoro dovuto a seguito di una perdita di carattere patrimoniale.

Per quanto puntuali e minuziose nella ricostruzione dei profili giuridici pregiudicati, le azioni risarcitorie, evidentemente, non sono idonee a svolgere una funzione dissuasiva rispetto alle condotte di mobbing.

L'incerto esito dei processi e la loro durata, combinati al fatto che, soprattutto nelle imprese meglio organizzate, le spese giudiziali costituiscono una costante voce di spesa del bilancio di previsione aziendale, determinano una sensibile limitazione della funzione interdittiva-preventiva dell'azione risarcitoria, la quale finisce per limitare i suoi effetti al mero ristoro dell'offeso.

È opportuna, in conclusione, una riflessione.

Non si può pensare che ogni screzio, o inurbanità, o scortesia, o qualsiasi maleducazione o offesa, costituiscano condotta illecita di mobbing.

Una condotta può essere qualificata mobbing solo quando è oggettivamente persecutoria.

Pertanto, non possono essere considerate illecite condotte avvertite come lesive dal lavoratore solo a causa della propria fragilità nei rapporti interpersonali: nell'ambiente di lavoro si sviluppano continui conflitti e tensioni, a volte non evitabili e non prevenibili.

La Corte di Cassazione ha precisato che sono da evitare le esasperazioni e le accuse infondate: un'accusa non provata di mobbing giustifica la comminazione del licenziamento per giusta causa, per violazione del rapporto di fiducia lavoratore-datore di lavoro.

Muovere un'accusa di mobbing impone al lavoratore di provare gli elementi essenziali della fattispecie, pur non potendosi escludere che il reperimento delle varie fonti di prova possa risultare particolarmente difficoltoso a causa di eventuali condotte omertose.

Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurlo in giudizio anche sulla base di dati statistici, purché gravi, precisi e concordanti.

È sufficiente che il lavoratore dipendente interessato adduca elementi di fatto che lascino supporre fondatamente l'esistenza di una molestia.

A partire da tali elementi, incombe alla parte convenuta di provare che il proprio comportamento non è costitutivo di molestia morale, e che le proprie decisioni sono giustificate da ragioni obiettive, estranee a qualsiasi forma di vessazione.

Vincenzo Di Lembo

 

(pubblicato in Giur.Mer. fasc.n.6-2007, ed. Giuffrè)

 

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P.S. - L'articolo si fa apprezzare in quanto sostanzialmente allineato a quanto (anche) da noi in precedenza espresso nel nostro, Alcuni punti fermi in tema di oneri probatori del demansionamento e del mobbing, nonché confermativo di quanto abbiamo scritto e pubblicato dal 2004 in poi in riviste cartacee sul tema e nel nostro volume "Danni da mobbing e loro risarcibilità". 

 

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