Il danno biologico, in particolare le conseguenze del mobbing sull’integrità psicofisica del lavoratore

 

 

S. Ruffolo (1916 - 1989) - Addio

 

Il danno biologico, definito quale “menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sua attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, e aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica”(1) è oggi pacificamente riconosciuto una delle tre voci che costituiscono l’ossatura del sistema del risarcimento del danno alla persona, insieme con il danno patrimoniale e il danno morale (2).

L’affermazione di tale principio da parte della Corte Costituzionale nella storica sentenza n. 184 del 1986 ha posto fine ad una annosa disputa sulla rilevanza ed autonomia della figura del danno biologico, alimentata dalla tralaticia concezione dell’art. 2043 c.c. (3) come clausola generale a tutela esclusivamente della lesione di diritti assoluti -onde, venivano sottratti i diritti di credito, dei quali si ammetteva la compressione solo ad opera del soggetto obbligato, debitore-, in particolare, fra essi solo quelli a contenuto patrimoniale, in quanto, sussistendo nella lettera dell’articolo un preciso referente economico, il concetto di reintegrazione di una sostanza patrimoniale danneggiata mal si sposava con i diritti fondamentali della personalità dell’uomo, privi di contenuto economico. Invero, la ricostruzione del progressivo affermarsi dell’autonomia del danno biologico e dunque la sua autonoma risarcibilità ex art. 2043 c.c., si intreccia con la tematica della tutela dei diritti fondamentali della persona umana, di cui fa parte integrante proprio il diritto alla salute come integrità psicofisica del soggetto, bene su cui incide il c.d. danno biologico.

La tutela dei diritti della persona, pur affermata solennemente in sede costituzionale (4), veniva in tal modo disattesa in pratica, trovando spazio il risarcimento del danno ingiusto solo laddove il fatto illecito civile configurasse una fattispecie di reato. Invero, i “casi determinati dalla legge” in cui, ai sensi dell’art. 2059 c.c. è dato il risarcimento del danno non patrimoniale si riducono in concreto alle ipotesi in cui il danno derivi da reato (5) e ai casi di cui agli articoli 89, secondo comma c.p.c.(6) e 598 c.p. (7).

La circostanza che l’ordinamento prevede la risarcibilità del c.d. danno morale solo in un numero esiguo di ipotesi (8) ha indotto dottrina e giurisprudenza a preferire un’interpretazione restrittiva dell’art. 2059  c.c. - come danno morale in senso soggettivo, ovvero la sofferenza psicofisica transeunte arrecata al soggetto per le perdite subite - contro la lettura più ampia che ricomprende nella sfera di “danno non patrimoniale” qualsiasi pregiudizio arrecato a un bene o un interesse protetto, a prescindere dalle sofferenze psicofisiche, la cui conseguenza non si concreti per il soggetto leso in una perdita di valori patrimoniali, scambiabili con denaro (9).

Soprattutto, l’impegno degli interpreti è stato volto ad allargare le categorie di danno risarcibile al di fuori del ristretto ambito di applicazione dell’art. 2059, puntando sull’applicabilità della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c. Invero, se per le situazioni soggettive costituzionalmente garantite vi è l’obbligo per il legislatore di apprestare una tutela risarcitoria piena (10), laddove una disciplina espressa manchi (11), si impone una lettura costituzionalmente orientata della disciplina vigente.

Pertanto, movendo dall’art. 2 Cost., si è data rilevanza ai singoli “diritti inviolabili dell’uomo”, prima interpretando estensivamente o applicando analogicamente a ciascuno di essi le norme espresse del codice civile, successivamente suggerendo una lettura dell’art. 2 cost. come clausola generale aperta all’evoluzione dell’ordinamento idonea ad apprestare tutela giuridica a quegli attributi dell’essere umano che in un dato momento storico si affermano nella coscienza sociale. Dunque, una teoria monistica (12), che considera la persona umana come valore unitario, seppure nella molteplicità delle sue concrete articolazioni, ciascuna meritevole di tutela, così come si osserva per il diritto di proprietà, diritto unico e unitario, sintesi di varie facoltà autonome, talune espressamente disciplinate, altre non previste, eppure altrettanto pacificamente riconosciute al titolare.

Tale recente interpretazione dell’art. 2 cost. in chiave direttamente precettiva e non meramente programmatica per il legislatore, ha il notevole pregio di condurre all’applicazione diretta e non analogica delle speciali disposizioni del codice civile e leggi speciali, a tutela di situazioni giuridiche soggettive non espressamente disciplinate (13). In particolare, pur alla luce delle nuove opzioni ermeneutiche, si sottolinea come la tutela dei diritti della personalità sia complessivamente inadeguata in sede civile: il rimedio risarcitorio ex art. 2043 c.c., valorizzato oltre i confini angusti tracciati dall’art.  2059 c.c., essendo esperibile solo dopo l’avvenuto evento di danno, soddisfa - salvo pochi casi- tutt’al più l’interesse alla restaurazione patrimoniale, ma non è in grado di ripristinare la situazione lesa, e l’azione inibitoria è espressamente prevista solo in alcuni casi (14).  Tali esigenze sono state riconosciute anche in sede processuale, conducendo, laddove possibile (15) alla applicabilità dell’azione inibitoria volta a far cessare l’evento lesivo o a prevenire o arrestare la condotta che ne è causa. Lungo questo filone, consapevole che l’effettività della tutela è strettamente correlata alla sua tempestività, la dottrina ammette il ricorso in via cautelare all’art. 700 c.p.c., clausola di portata generale, e ai provvedimenti d’urgenza in esso previsti, concessi dal giudice in seguito all’accertamento dell’irreparabilità e imminenza del pregiudizio.

Mentre, per quanto riguarda la risarcibilità, superata la concezione dell’inammissibilità pregiudiziale del ricorso all’art. 2043 c.c. in quanto riferito esclusivamente a situazioni a contenuto economico, si è elaborata dapprima la categoria del c.d. danno patrimoniale indiretto. Essa consentiva di estendere la risarcibilità al pregiudizio arrecato a situazioni che, pur senza una connotazione in sé e per sé economica, producevano riflessi, effetti mediati sul patrimonio del soggetto. Si pensi alla diffamazione di un professionista, lesione alla sua identità personale, causa di danno morale per la vittima, ma con ricadute economiche sulla sua attività in termini di perdita di clientela.  Il passo decisivo è venuto proprio in tema di danno biologico: la Corte Costituzionale con la sentenza n. 184 del 1986 (16) ha sostenuto che l’art.  2043 c.c. trova applicazione in ogni fattispecie di danno ingiusto, prescindere dalla possibilità di qualificare il medesimo in termini di patrimonialità. Tale pronuncia è in linea con la tesi di quella parte della dottrina che, in relazione ai beni costituzionalmente garantiti, invocava l’estensione della norma al danno non patrimoniale, cioè danno non valutabile in denaro, o più in generale, ai valori di scambio, e soprattutto si inserisce in quella tendenza che, allargando la nozione di “danno ingiusto”, ha condotto alla risarcibilità di situazioni giuridiche soggettive in precedenza escluse da qualsiasi tutela risarcitoria (17).  Dunque, l’affermazione che la tutela dei diritti fondamentali della persona umana scaturisce direttamente dall’art. 2043 c.c., per la mera lesione dei medesimi, e prescindere dal danno economico indiretto, si rinviene per la prima volta in una pronuncia della Corte Costituzionale in merito al danno biologico, definito come danno alla salute in sé, consistente nella lesione all’integrità psicosomatica del soggetto, inteso come valore unitario e autonomo: la salute è un diritto fondamentale dell’individuo (previsto espressamente dall’art. 32 Cost.), che merita tutela da qualsiasi tipo di aggressione, indipendentemente da qualsiasi risvolto economico, in particolare dall’attitudine del soggetto a produrre reddito.

La sentenza ha avuto il pregio di distinguere il danno-evento del fatto lesivo del bene salute, momento costitutivo del fatto, danno biologico, dalle conseguenze del fatto ad esso legate dal nesso di causalità: danni-conseguenze sono il danno patrimoniale, risarcito sotto i due profili di danno emergente e lucro cessante ex art. 1223 c.c.(18) e danno morale, ai sensi dell’art. 2059 c.c.

Da tale affermazione parte della dottrina ha tratto la ufficiale consacrazione del danno biologico come tertium genus, figura autonoma di danno alla persona umana (19), contro le tesi che sostengono la natura patrimoniale o non dello stesso.

Alla tematica del danno alla salute si è di recente ricondotto il c.d. danno biologico nei luoghi di lavoro. Esso è uno degli effetti del fenomeno di mobbing riscontrato in ambito lavorativo e consistente in una forma di violenza psicologica messa in atto deliberatamente nei confronti di una vittima designata. Si tratta di una forma di persecuzione psicologica perpetrata da un superiore (mobbing verticale) o da più colleghi di lavoro (mobbing orizzontale) ai danni del c.d. mobizzato il quale, bersaglio dei continui attacchi e delle continue vessazioni, è condotto ad una condizione di estremo disagio psicologico, quando non addirittura ad un crollo del suo equilibrio psicofisico.  L’attenzione rivolta a tale fenomeno patologico, nel quadro della normale dialettica delle relazioni in ambito lavorativo ne ha individuato numerose forme di manifestazione, talune già tutelate espressamente nell’ordinamento giuridico (20), altre incidenti su vari aspetti della personalità, taluni a contenuto patrimoniale, altri privi di contenuto squisitamente economico. E’ a tale ultima ipotesi di danno, che ha fatto espresso riferimento la prima sentenza italiana che ha dato ingresso al mobbing nella giurisprudenza del lavoro (21). Il gravissimo stato di depressione, cagionato direttamente dalle relazioni che la lavoratrice ricorrente era costretta a subire in ragione del rapporto di lavoro subordinato cui era vincolata è stato considerato dal magistrato come lesione del diritto soggettivo alla salute, e come tale risarcibile autonomamente, indipendentemente dal pregiudizio economico subito.  Ma la tematica del danno biologico in ambiente lavorativo si rivela più articolata che nel caso di danno ingiusto ad opera di un terzo. Accanto alla generale pretesa erga omnes al neminem laedere del diritto assoluto tutelata dall’art. 2043 c.c., vigono in capo al datore di lavoro specifici obblighi di tutela del prestatore d’opera, consacrati dall’art. 2087 c.c. (22).  Esso impone l’adozione di tutte la misure necessarie a tutelare non solo l’integrità fisica del prestatore di lavoro, ma anche la sua personalità morale. E la portata di tale disposizione è tanto più significativa, se si osserva che l’obbligo non è adempiuto con la mera predisposizione delle misure tassativamente imposte dalla legge, ma di tutte quelle che la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica rendano in concreto necessarie a salvaguardia dell’integrità psicofisica dei soggetti.

L’art. 2087 c.c. è dunque interpretato dalla recente dottrina come clausola generale a protezione del lavoratore, idonea ad estendere la responsabilità dell’imprenditore anche alle ipotesi in cui la lesione della salute del lavoratore sia conseguenza del comportamento di un suo altro dipendente23: in tal modo, accanto alla culpa in eligendo -relativa alla scelta di collaboratori in possesso di idonee capacità professionali- gli sarà addebitata anche la culpa in vigilando per prevenire ed evitare lesioni.

Sebbene sia concorde la risarcibilità del danno biologico sul luogo di lavoro, tuttavia non esiste unanimità in ordine alla natura della responsabilità del datore di lavoro.

L’orientamento che la fonda esclusivamente sull’art. 2043 c.c., configurando un tipo di responsabilità extracontrattuale per l’imprenditore (24), è sconfessato dalla giurisprudenza maggioritaria (25), la quale, richiamandosi all’art. 2087 c.c., concepisce l’articolo in esame come una disposizione di natura contrattuale, in quanto integrativa del contenuto pattizio del contratto di lavoro, ex art. 1374 c.c.

Dunque, si afferma, non un riferimento al generale art. 2043, esaminato poco sopra come interpretato alla luce dell’art. 32 Cost., ma una rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2087, fonte di responsabilità contrattuale per l’imprenditore ex art. 1218 c.c.  In altre occasioni la Corte di Cassazione ha affermato la sussistenza del concorso di responsabilità aquiliana e contrattuale, in quanto la lesione incide su due interessi ugualmente protetti giuridicamente: la salute, come articolazione del diritto fondamentale della persona umana, insuscettibile di compressione da parte di chiunque, e l’adempimento dell’obbligo contrattuale descritto dall’art. 2087 c.c..  La scelta fra le differenti opzioni ricostruttive non è irrilevante, dato che l’onere probatorio è particolarmente gravoso nel caso si propenda per la responsabilità extracontrattuale: l’attore deve provare la condotta che ha determinato la lesione, il nesso di causalità che lega la prima alla seconda e il coefficiente psicologico -dolo o colpa- del preteso responsabile, mentre nel caso di responsabilità contrattuale è sufficiente la prova dell’inadempimento: l’art. 1218 c.c. fa carico al debitore la prova della non imputabilità dell’inadempimento. Per cui, solo nel secondo caso il lavoratore prova il danno subito, l’inadempimento degli obblighi relativi all’adozione di misure di sicurezza e il nesso di causalità fra i due (26). Senza contare che i termini di prescrizione dell’azione risarcitoria per fatto illecito sono più brevi -cinque anni- rispetto a quelli propri della responsabilità contrattuale.

Un’ultima considerazione, de iure condendo, riguarda l’entità del risarcimento del danno biologico causato da mobbing.  Quando il danno biologico-psichico è immediata conseguenza dei rapporti sul luogo di lavoro, appare opportuno che la quantificazione del danno sia informata a diversi principi: accanto ai criteri generali di commisurazione del danno psichico subito in quanto uomo (27), si osserva che la misura del risarcimento dovrebbe essere tale da consentire al lavoratore una scelta, anche radicale: laddove la rimozione delle cause del danno -e che le condizioni ambientali, in particolare le relazioni interpersonali in ambito lavorativo- si riveli particolarmente difficoltosa, o difficilmente controllabile, al lavoratore dovrebbe anche spettare un indennizzo per il caso in cui decida di non continuare quel rapporto di lavoro, indennizzo che sarebbe opportuno adeguare nel quantum all’età del lavoratore, in ragione inversamente proporzionale alla stessa.

    Gennaio 2001
    (fonte: www.diritto.it/articoli/civile/ottonello3.html)

    Carla Ottonello

Note

(1)             Così, C. Cass., Sent. 6 Aprile 1983, n. 2396.

(2)             L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale non è rimasta lettera morta in sede legislativa: primo riscontro è dato dall’art. 13 del Decreto Legislativo 38/2000: ivi il danno biologico è definito come la lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona”. Tale definizione, come chiarito dalla stessa disposizione, viene data “in attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento”, acquistando rilevanza ai soli fini dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e della tutela dalle malattie professionali. 

(3)             Secondo l’art. 2043 cc, “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altro un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

(4)             Si veda l’art. 2 Cost: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità”.

(5)             Così, l’art. 185 cp: “Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”. 

(6)             L’art. 89 cpc, facendo divieto alle parti e ai loro difensori di usare espressioni sconvenienti ed offensive negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, dà facoltà al giudice con la sentenza che decide la causa di “assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa”. 

(7)              Ai sensi dell’art. 598 cp, pur non essendo punibili le offese contenute negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti all’Autorità giudiziaria, ovvero a un’Autorità amministrativa quando concernono l’oggetto della causa o del ricorso, il giudice può “assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale”.

(8)             Limitazione di cui la Corte Costituzionale non ha finora riconosciuto la illegittimità costituzionale, ritenendo che rientra nella discrezionalità del legislatore l’adozione di discipline differenziate per la tutela risarcitoria di situazioni diverse. Cfr. C. Cost. 26 Luglio 1974, n. 87, Repertorio del foro Italiano, Danni civili, pg. 62 e più recentemente C.  Cost. 14 Luglio 1986, n. 184, Foro Italiano 86, I, pg. 2053 con note di Ponzanelli e “Nuove Leggi Civili Commentate” 1986, pg. 613 con note di Giusti.

(9)             Così, Trimarchi, “Istituzioni”, pg. 163 e Bianca, “Diritto Civile”, 5, La Responsabilità, pg. 166 ss., che ricomprende nella nozione di danno non patrimoniale tutte le lesioni dei diritti fondamentali dell’uomo, tutte rilevanti ai fini della risarcibilità.

(10)         Così, C. Cost., sent. N. 88 del 1979.

(11)         Tutela espressa è riservata all’integrità fisica dell’individuo, contro atti di disposizione del proprio corpo (ex. art. 5 cc.), al diritto al nome (art. 6 e 7 cc.) e all’immagine (art. 10 cc.).

(12)         Accolta dalla stessa Corte Cost. nelle pronunce in tema di diritto alla riservatezza.

(13)         Così, C. Cass. N. 978 del 1996 e, implicitamente, C.Cost. n. 13  del 1994.

(14)         Si vedano gli artt. 7, 8, 9, 10 cc. Cfr. Macioce, “Tutela civile della persona e identità personale”; Di Majo, “La tutela civile dei diritti”. 

(15)         Cfr. C.Cass. n. 3769 del 1985, che consente la tutela inibitoria del diritto all’identità personale; si veda anche Rescigno, “Enciclopedia giuridica Treccani”, voce Diritti della Personalità. 

(16)         La sentenza della C. Cost. 14 Luglio 1986, n. 184 si trova anche in “Nuova Giurisprudenza Civile Commentata”, 86, I, pg. 534. Si vedano anche C. Cass. N. 6938 del 1988; Tr. Milano 7 Luglio 1988, in “Giurisprudenza Italiana”, 89, I, pg. 318.

(17)         Solo per citarne qualcuna, la c.d. tutela aquiliana del credito e la recente affermazione della risarcibilità della lesione degli interessi legittimi, siano essi oppositivi o pretesivi, nei confronti della Pubblica Amministrazione.

(18)         Come richiamato dall’art. 2056 cc. in tema di responsabilità extracontrattuale, il danno emergente consiste in ogni perdita di valori economici già esistenti nel patrimonio del danneggiato, il lucro cessante nella mancata acquisizione allo stesso di tali valori. 

(19)         Tesi accolta dalla giurisprudenza: C. Cass. 23 Giugno 1990, n. 6366 e 19 Novembre 1990, n. 11164.

(20)         Si pensi alla tutela apprestata al lavoratore nei casi di discriminazione politica, sindacale, religiosa, di lingua, di sesso, espressa già in sede costituzionale (art. 3, 37, 39) e in sede legislativa :L. 300/70, Statuto dei Lavoratori, art. 15; L. 903/77; L. 125/91.

(21)         Si tratta della famosa sentenza, Tribunale di Torino, Sez. Lavoro, emessa il 16 Novembre 1999.

(22)         Secondo l’art. 2087 cc. “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondala particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. 

(23)         Cfr. C. Cass. n. 7768 del 1995 e C. Cass. Sez. Lavoro, n. 5049 del 18 Aprile 2000  (entrambe in tema di mobbing da "molestie sessuali").

(24)         In tal senso, la sentenza del Tr. di Milano, su cui è stata chiamata a pronunciarsi la C. Cass. con sent. N. 5491 del 2000. 

(25)         Cfr. C. Cass. Sez. Lavoro n. 143 del 2000 e C. Cass. n. 1307 del 2000.

(26)         Ai sensi dell’art. 1218, il debitore, per essere sollevato dalla responsabilità, deve provare che l’inadempimento “è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. 

(27)         Il sistema di calcolo del danno biologico basato sul “triplo della pensione sociale, ideato dal Tribunale di Genova, è stato sostanzialmente abbandonato a favore del c.d. sistema tabellare, avallato prima dai giudici della Corte di Cassazione – si vedano le sentenze 25 Maggio 2000, n. 6873 e C. Cass. 19 Maggio 1999, n. 4852- e accolto poi da interventi legislativi riformatori in materia.

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