Dopo il Patto per l’Italia, via libera agli scorpori (senza articolo 18!)

 

1.          Il c.d. “Patto per l’Italia” – che abbiamo letto anche con la qualificazione  di “patto del tradimento e della capitolazione” assegnatagli da dissenzienti estensori di un volantino  della sinistra Cgil (lavoro e società - cambiare rotta) Rai Milano -  è stato raggiunto il 5 luglio 2002 tra il governo Berlusconi e le associazioni del mondo del lavoro ma con l’assenza della maggiore Organizzazione sindacale rappresentativa dei lavoratori, dopo la manifestazione generale a Roma del 23 marzo ed uno sciopero generale del 16 aprile che le aveva viste marciare all’insegna dell’unitarietà e della difesa  dei diritti dei lavoratori, per lo stralcio dal testo della delega governativa dell’art. 18 e delle norme sull’arbitrato.

Ci asterremo da un’analisi dei singoli punti del “Patto”, non sottraendoci però dall’esternare la convinzione che  la “montagna ha partorito il topolino”, ove il giudizio è formulato tenendo a mente sia l’ampiezza del progetto governativo di controriforma delineato nel “libro bianco” sia i propositi di “estensione dei diritti a chi non ne ha” pubblicamente manifestati dai leaders sindacali. Il braccio di ferro attivato dal governo per fini di  restaurazione e  di controriforma (non già di riforma, che è sostantivo a connotazione positiva), determinato ad infliggere una sconfitta  al mondo del lavoro ed al sindacato, all’insegna dell’introduzione di sistemi di  liberismo di matrice statunitense,  insensibili ed indifferenti ai diritti di civiltà giuridica ed alle conquiste dello stato sociale, si è ora concluso, lasciando per strada vittime dello stato di tensione imprudentemente innescato dai promotori della controriforma e barbaramente strumentalizzato dai nuovi e vecchi terroristi armati.

Ci limiteremo, espressamente, a quanto definito e pattuito sul tema “simbolico” dell’abolizione delle garanzie approntate dall’art. 18 Statuto dei lavoratori, che – notoriamente – consente la reintegrazione (a scelta del lavoratore), ingiustificatamente licenziato. Tutto era partito dall’idea “balzana” che questa forma di tutela fondata su concreti principi di civiltà giuridica – secondo cui quod nullum est nullum effectum producit, con la naturale conseguenza del ripristino della situazione quo ante (cioè la reintegrazione del licenziato ingiustificatamente) - impedisse la crescita dimensionale delle imprese, indotte  dal timore di perdere la facoltà di “licenziare” ad libitum una volta raggiunta la soglia fatidica dei 15 dipendenti. Ipotesi mai provata statisticamente quando, all’opposto e secondo noi,  le ragioni del “nanismo” delle nostre aziende risiede in una mentalità ostile e refrattaria alla crescita, per il timore di perdere da parte dei titolari a gestione familiare il controllo gestionale dell’azienda (per doverlo trasferire a dei manager esterni al nucleo familiare) ovvero per non aver alcuna concreta convenienza ad uscire dal sommerso che per essi è garanzia di intassabilità, di sotto remunerazione del fattore lavoro, di impunità per la disapplicazione corrente di normative fiscali, amministrative, prevenzionali, lavoristiche, ecc. Ma il governo (spintonato dalla Confindustria e dalle altre associazioni datoriali) ed i suoi consiglieri si erano convinti che bisognasse sostituire la reintegrazione con un sistema di “monetizzazione” del licenziamento ingiustificato e avevano contrabbandato questo provvedimento come misura per “l’incremento occupazionale e l’emersione dal sommerso”. Tant’è che nell’originario d.d.l. n. 848 del 15 novembre 2001 (“delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro”, figlia del famoso “libro bianco” dell’ottobre ),  all’art. 10, comma 1, il governo si era prefisso di “emanare uno o più decreti legislativi per introdurre in via sperimentale…disposizioni relative alle conseguenze sanzionatorie a carico del datore di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato …, in deroga all’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, prevedendo in alternativa il risarcimento alla reintegrazione…”, facendo salvi, al comma 2, i divieti (implicanti la reintegrazione) in atto per i licenziamenti discriminatori (per motivi politici, sindacali, etnici, di sesso, ecc.) e  per quelli della lavoratrice per causa di matrimonio, maternità o per malattia ex art. 2110 c.c. Il tutto in via sperimentale, per la durata di 4 anni “fatta salva la possibilità di proroghe in relazione agli effetti registrati sul piano occupazionale”. Al punto c)  del comma 1° dell’art. 10 del precitato d.d.l. n. 848/2001, venne altresì prevista la “identificazione delle ragioni oggettive connesse a misure di riemersione, stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato, politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per il primo biennio, che giustifichino la deroga all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300”.

Dopo questo primo testo, il Consiglio dei Ministri in data 14 marzo 2002, sdoppiava il punto c) soprariferito sostituendolo con i punti c) e d)  - contenenti le famose tre ipotesi di inapplicabilità dell’art. 18 – ove si prevedeva la sottrazione della tutela reintegratoria stabilita dall’art. 18: 1) per le imprese minori che intendessero uscire dal sommerso nonché, 2) per quelle che si determinassero alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro in nero (in entrambi i casi 1. e 2. garantendo loro, per il primo biennio, il non computo dei nuovi assunti ai fini dell’art. 18 S.d.L), e 3)  per quelle aziende che procedessero alla trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato (limitatamente  ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro privati ed enti pubblici economici operanti nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), incorrendo con questa delimitazione territoriale, tanto virtualmente quanto pacificamente, in vizi di incostituzionalità per violazione del principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (ex art. 3 Cost.).

 

2.        Dopo la riuscita  dello sciopero generale unitario delle OO.SS. del 16 aprile 2002 (contro il terrorismo, dopo la tragica uccisione del consulente ministeriale, e congiuntamente per la difesa dei diritti dei lavoratori), tra incontri formali ed informali, interviste ai “media” e quanto si usa fare (di scoperto e di coperto) nelle grandi trattative, sta di fatto che la Cgil rifiuta con coerenza di sedersi al tavolo del confronto con il governo, mentre si siedono le altre organizzazioni in rappresentanza del lavoro e dell’impresa e raggiungono, il 5 luglio, la “mini intesa”, pomposamente denominata Patto per l’Italia.

Le OO.SS.  firmatarie raccolgono appena 700 milioni di € per la riforma degli ammortizzatori sociali (avevano ritenuto necessari 5.500 mld, sic!), e, di conseguenza, gli incrementi dell’indennità di disoccupazione  risultano poco significativi sia in termini di  durata (passando da 6 mesi a 12 mesi, con un max. di 24 e di 30 al Sud) sia  in termini di entità (che sale al 60%  ma solo per i primi 6 mesi, per poi scendere al 40% per i successivi 3 mesi e poi al 30% per i restanti 3 mesi). Le OO.SS. firmatarie consentono alle agenzie di lavoro interinale di estendere il proprio campo di operatività mediante l’eliminazione del requisito dell’oggetto sociale esclusivo (potendo così svolgere, a determinate condizioni, tutte le tipologie di servizio al mercato del lavoro, quali esemplificativamente, incontro tra domanda ed offerta, selezione, formazione, ricollocazione, lavoro interinale, ecc) ma al tempo stesso ottengono garanzie di “compartecipazione”  quali “parti sociali” nella “gestione di questi servizi” per l’impiego (definiti al punto 2.1. del Patto, “per l’incontro tra  domanda e offerta di lavoro”), nonché negli “organismi bilaterali” per la gestione delle prestazioni di base ed integrative dell’indennità di disoccupazione. Concambio che ha fatto sorgere il non peregrino sospetto che la “tecnica” di ricerca del consenso da parte del governo sia stata (anche) quella dell’addomesticamento del sindacato tramite la “corporativizzazione” o la “burocratizzazione”, che è  un abusato e tradizionale metodo per “narcotizzarne” il ruolo antagonista e di contrapposizione,  da assolvere in funzione cristallinamente difensiva dei lavoratori. Ma sul punto il governo ha ratificato una realtà effettuale, perché già ora non pochi ex sindacalisti e politici già zavorrati dallo sfaldamento del partito craxiano rigalleggiano e si sono riciclati nel ruolo di amministratori delegati di agenzie interinali.

Secondo il Patto, i settori produttivi che non godono a tutt’oggi di ammortizzatori sociali (né di base né integrativi) ne resteranno privi e, per fruirne, dovranno (rectius, potranno) provvedere in proprio  attraverso accordi collettivi e con organismi a “gestione bilaterale”, compensati in qualche modo da incentivazioni governative a fronte dei contributi versati dalle imprese. Come è stato osservato, il punto debole di tale aspetto della riforma risiede tutto nell’aver ridisciplinato l’attuale indennità di disoccupazione, senza dilatarla a tutela di “nuovi soggetti deboli” del mercato del lavoro. Ne restano fuori tutti i lavoratori temporanei  e i parasubordinati che già ora ne sono privi e vengono mantenuti nello status quo.

Altro che estensione di diritti (anche di tipo assistenziale/esistenziale) a coloro che non ne fruivano, estensione che era divenuta uno degli slogan sindacali, letti negli striscioni degli scioperanti ed uditi nelle esternazioni dei  leaders  delle OO.SS.

Si è anche convenuto che:“le collaborazioni coordinate e continuative saranno riformate in termini tali da valorizzare le prestazioni ‘a progetto’ ed in modo da confermare, in ogni caso, la loro riconducibilità all’area del lavoro autonomo (incrementandone il prelievo contributivo, fermo restando l’impegno ad arginare con adeguata strumentazione il fenomeno delle collaborazioni fittizie, che andranno, invece, correttamente ricondotte, anche in virtù di un potenziamento dei servizi ispettivi, a fattispecie di lavoro subordinato sulla base di criteri oggettivi”.E’ questa è veramente una scommessa: i servizi ispettivi sono sempre gli stessi, i metodi degli imprenditori  per tentare di condizionarli sono sempre gli stessi (come evidenziano le cronache di stampa nei pochi casi in cui vengono in emersione le “punte degli iceberg”), i lavoratori compensati con collaborazioni fittizie non reagiranno e non denunceranno in quanto sotto ricatto psicologico, e così via.

Per la copertura degli “scoperti” dalle garanzie di una moderna legislazione del lavoro (quelli che il libro bianco voleva tutelare attraverso uno Statuto dei nuovi lavori, i c.d “outsiders” contrapposti ai beneficiati “insiders”, stabilizzati e garantiti) si fa rinvio ai lavori di una costituenda “Commissione di alto profilo scientifico” idonea a predisporre i materiali di discussione. Il governo e le parti sociali s’impegnano altresì a dar corso ad una riforma del processo del lavoro e a produrre “un avviso comune su forme condivise di conciliazione e di arbitrato”. Niente di più che delle tradizionali affermazioni ed impegni generici e programmatici; comunque i sistemi di gestione privata delle controversie, se destinati alla attualizzazione, sono notoriamente caratterizzati (stante l’intrinseco carattere transattivo) da minori garanzie di “imparzialità” delle giustizia statale (che va potenziata per renderla funzionale al cittadino, non già marginalizzata con soluzioni concorrenziali privatistiche).

 

3.          Ma - nell’ottica di evidenziare le insufficienze del contenuto di questo Patto - ci siamo fatti distrarre dal trattare il “pasticciaccio” raggiunto sulle deroghe all’art. 18.

L’allegato 2 che ne disciplina il contenuto, premette che: “ai fini di sostegno della occupazione regolare e della crescita dimensionale delle imprese il governo è delegato ad emanare in via sperimentale uno o più decreti legislativi…nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi”, implicanti il non computo “nel numero dei dipendenti occupati   delle nuove assunzioni mediante rapporti di lavoro a tempo indeterminato, anche a part-time, o con contratto di formazione e  lavoro instaurati nell’arco di 3 anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi”.

Si utilizza il tradizionale criterio del non computo dei nuovi assunti, peraltro non più (come nel d.d.l. n. 848/2001 per il primo biennio, ma per il triennio, così peggiorando la situazione di partenza). Ma ciò che rileva è a nostro avviso chiedersi cosa succede nel caso di nuova costituzione di azienda dopo l’approvazione dei decreti legislativi attuativi di questi criteri.

Se in pochi mesi l’azienda di nuova costituzione  passa da 1 a 100 (o 200) dipendenti, tutti quanti i lavoratori si trovano – quali neo assunti – in franchigia, cioè senza la tutela ex art. 18, mentre prima, superata la soglia dei 15 addetti, fruivano della reintegrazione. Ma l’esempio è di scuola, anche se in 3 anni qualche azienda di nuova costituzione riesce pacificamente a strutturare un organico di una cinquantina (o più) di dipendenti.

Non è invece per niente un’ipotesi di scuola la costituzione, per outsourcing o scorporo di un ramo aziendale, di una nuova società composta da lavoratori in forza in precedenza nella Casa madre o Capogruppo, e riassunti ex novo nell’azienda di nuova costituzione (di cui la Capogruppo potrà detenere il controllo societario nei termini di cui all’art. 2359 c.c., che ad es. nel settore del credito implica l’applicazione del ccnl e nient’altro, in altri settori neppure questo!).

Questi “neo assunti” dalla società nata per “scorporo di ramo d’azienda” (sia essa una società informatica, di trasporto, di servizi, di carattere commerciale, finanziario, un call center, ecc.) sono tutti quanti privi – proprio in quanto l’azienda è composta da “neo assunti” fantasma, non computabili ai fini della riconduzione dell’azienda  sotto l’art. 18 S.d.L – della tutela dell’art. 18, anche se lo scorporo avesse, per ipotesi dato luogo ad una (nuova) società con organico oltre i 50 o i 100 dipendenti.

Ne consegue che vi sarà una corsa agli “scorpori” e alla costituzione di “nuove aziende” (con personale proveniente dal ramo d’azienda scorporato) in cui i lavoratori perderanno il beneficio della tutela dell’art. 18, con licenziabilità discrezionale, monetizzata, posti in condizioni di estrema ricattabilità.

Nel settore del credito gli scorpori sono una realtà  ricorrente (tutt’altro che episodica) e quindi i firmatari del Patto hanno lasciato aperta la strada ad una vistosa “sottrazione” datoriale delle precedenti tutele.

Le OO.SS. firmatarie hanno solo tamponato la grossolana manovra governativa – anticipata nel d.d.l. n. 848 in ordine alla c.d. “irrilevanza del consenso del lavoratore ceduto ed alla (eliminazione della) penalizzazione discendente dal requisito dell’autonomia funzionale preesistente” del ramo di azienda – usando l’accortezza di vietare che gli scorpori per trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c. potessero farsi dai datori di lavoro senza la sussistenza dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto (requisito ora pattuito ed accertabile non come “preesistente” ma “nel momento del suo trasferimento”), evitando così che i reparti o settori da trasferire possano essere artificiosamente selezionati o prescelti (anche in base alla “tipologia” dei lavoratori in essi operanti) senza alcun collegamento con le esigenze di funzionalità economica e di autosufficienza sul mercato. Requisiti che, invece, sono stati apprezzabilmente riaffermati.

Le OO.SS. firmatarie hanno poi evitato il c.d. strumento fraudolento dell’effetto “fisarmonica” da parte delle aziende –  tramite la contrazione strumentale aldisotto dei 15 e la ricrescita successiva aldisopra dei 15 addetti  onde fruire del beneficio della non sottoposizione all’art. 18 dell’intera azienda – stabilendo che all’art. 18 le aziende restano comunque soggette se nei 12 mesi precedenti hanno occupato mediamente un numero di dipendenti corrispondente alle soglie indicate dallo stesso art. 18.

Infine le OO.SS. firmatarie hanno stabilito che  per una particolare ipotesi  (a quanto consta riguardante normalmente gli appalti dei servizi di pulizia  ove cessando l’appalto il subentrante è contrattualmente obbligato all’assunzione dei dipendenti della ditta  esercente in precedenza l’appalto stesso,  operanti presso e per conto dell’azienda committente), non si considerano  "nuovi assunti" i dipendenti presi in carico ed in organico dalla ditta subentrante, i quali vanno quindi computati come lavoratori “normali” a tutti gli effetti.

Ma resta la innanzi evidenziata “falla” dello scorporo – con  trasferimento del ramo d’azienda ad una preesistente dimensionata sotto i 15 dipendenti o peggio seguito da costituzione di nuova azienda (controllata, consociata o del tutto autonoma sul mercato) -  ove in capo ai lavoratori  assunti  ex novo si  verificherà la “perdita” del pregresso beneficio dell’art. 18. D’altra parte di fronte ad uno scorporo – per esternalizzazione di attività o outsourcing – il lavoratore non ha difese o alternative se non seguire le sorti del ramo d’azienda scorporato che andrà a strutturare un’azienda di nuova costituzione (il più delle volte statisticamente destinata al fallimento o alla vendita a terzi). Potrà eventualmente intervenire il sindacato per tentare di pattuire in via convenzionale il mantenimento della garanzia della tutela reale ex art. 18, ma di fronte alla (scontata) opposizione dei nuovi gestori aziendali, i lavoratori resteranno inesorabilmente scoperti. Si può sostenere che quanto ipotizzato contrasterebbe con lo spirito del Patto quale risultante nell’all. 2 , comma 1, di un non (ancora) definito articolo, talchè l’ipotesi non sarebbe riconducibile  alla “ratio” e sotto l’ombrello del dichiarato intento del “sostegno dell’occupazione regolare e della crescita dimensionale delle imprese…”; ma si può anche (tentare di) replicare che la costituzione di nuove società per esternalizzazione non è solo una misura di risparmio di costi aziendali (o di politiche gestionali e finanziarie, secondo cui le aziende mantengono in seno solo settori che strutturano il core business dell’azienda e si “disfano”, esternalizzando, dei servizi ausiliari o collaterali non essenziali) ma anche di sostegno all’occupazione, evitando cessazioni d’attività o soppressione di  interi reparti  altrimenti implicanti licenziamenti collettivi.

Difficile individuare ed indicare il correttivo, perché attiverebbe immediatamente o a breve la soluzione della cessazione d’attività del ramo d’azienda che si intendeva invece scorporare (in vista della costituzione di una nuova società svincolata dall’assoggettamento all’art. 18), soluzione che – dopotutto ed anche se di norma eticamente (ma non giuridicamente)“fraudolenta” – è un “male minore” rispetto alla cessazione d’attività ed al licenziamento collettivo dei lavoratori. Sta di fatto che non si può che convenire con il giudizio critico formulato a caldo nelle “note della segreteria nazionale della Cgil”(da noi prelevate dal sito Internet in data 8 luglio) che commentando questo specifico punto del patto ha affermato: “Il paragrafo 2.6 descrive l’intervento limitativo dell’applicazione dell’art. 18 e sviluppa le argomentazioni a supporto. L’intervento è grave e di ampia portata: i nuovi assunti, a qualunque titolo, non saranno computati ai fini dell’applicazione dell’art. 18. A questa norma generale è prevista una sola eccezione finalizzata ad evitare che l’impresa che abbia più di 15 dipendenti all’atto di entrata in vigore della nuova norma possa scendere strumentalmente sotto i 15 per poi risalire senza più il vincolo dell’art. 18 .

Ne consegue, dunque, che tutte le imprese di nuova costituzione, quale che sia la dimensione del loro organico, non saranno più vincolate dall’art. 18.

Nel caso di imprese che nascano per trasferimento o cessione del ramo d’azienda hanno convenuto di cambiare la normativa vigente limitando la necessità che sussista il requisito dell’«autonomia funzionale» al momento della cessione.

Si argomenta che già in passato si esclusero dal computo alcune figure di lavoratori, ma è un argomento insostenibile. Infatti quelle precedenti norme erano comunque finalizzate a far fronte ad emergenze specifiche ed eccezionali (i disoccupati di lunga durata, gli LSU) o si riferivano a contratti di lavoro temporaneo (interinali), mentre ora si sancisce una nuova norma generale.

Inoltre non ci sarà affatto decadenza automatica della nuova norma  trascorsi i tre anni ”, o meglio ciò non sta scritto con chiarezza da nessuna parte anche se la decadenza automatica dovrebbe  considerarsi presupposta ed insita nel carattere sperimentale triennale della soluzione pattuita, interpretata secondo i canoni di correttezza e buona fede.

Per mimetizzare poi la vistosa  “crepa” inferta al solido, preesistente, muro delle garanzie dell’art. 18 nei confronti di quelle fasce o percentuali di “neo-assunti” destinati a rimanerne “sperimentalmente” privi (e prevedibilmente  a dilatarsi, grazie alla fantasia creativa delle aziende in corsa nella costituzione di nuove e in gran parte fittizie società), le OO.SS. che si sono sedute a firmare il Patto con il governo hanno rinunciato poi a ridisciplinare per questi lavoratori la c.d. “misura sanzionatoria” del licenziamento ingiustificato (cioé a dire l’entità della monetizzazione per la privazione discrezionale del posto di lavoro). Misure che, quindi, restano – ad onta della smargiassata governativa delle 24 mensilità proferita ai “media” (subito ricondotta a mera esemplificazione, su protesta confindustriale) – quelle “virtuali”e “simboliche” definite nell’art. 2 della L. n. 108/1990 (da un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità, maggiorabili con elevata anzianità). In tal modo hanno ritenuto di poter meglio mascherare la “frittata” fatta (“il pasticciaccio brutto”, come lo ha definito Scalfari in replica al segretario confederale Cisl, Baretta – vedi “la Repubblica” del 17.7.2002, 16) e permettersi di affermare con solennità, nel testo del Patto (contraddetto dalla formulazione dell’All. 2 ), ad uso dell’opinione pubblica e dei lavoratori (che non si dimostrano, però, affatto dei creduloni, tant’è che hanno già iniziato a scioperare!), che “…la norma proposta non modifica in alcun modo le tutele di cui dispongono attualmente i lavoratori italiani né la disciplina che oggi si applica alle diverse categorie d’impresa. Essa, per contro, rappresenta una misura promozionale per incentivare nuove assunzioni regolari a favore di soggetti che attualmente sono esclusi da ogni tutela a partire dal vero bene primario che è il diritto al lavoro”. Il che, come abbiamo evidenziato, purtroppo non è affatto vero!

Roma, 16 luglio 2002

Mario Meucci

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