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Con ricorso depositato il 31.5.2002, TOTA Riccardo conveniva in
giudizio l’ex datore di
lavoro Centro Ricerche e Sperimentazioni (C.R.& S.) Srl. Il
ricorrente deduceva: di aver lavorato per la società sin dal
29.6.1989; di aver svolto numerose mansioni di rilievo (tra cui
l’assistenza ed avviamento produzione, tempi e metodi presso
importanti clienti, anche all’estero, e il compito di responsabile
dell’officina) nell’ambito di una carriera interna che, secondo
quanto promessogli, avrebbe dovuto condurlo a ricoprire ulteriori, più
gratificanti, incarichi; che il suo sviluppo di carriera subì una
brusca ed inspiegabile interruzione a far tempo dal ritorno da una
missione di alcuni mesi presso lo stabilimento di Melfi (febbraio
2000); che, da allora, l’ambiente di lavoro divenne ostile nei suoi
confronti, sicché fu costretto a subire umiliazioni e pressioni
psicologiche che gli provocarono sofferenze morali, danni alla vita di
relazione e un esaurimento nervoso; che gli furono conseguentemente
assegnate mansioni di scarsa importanza e, nell’ultimo periodo, che
fu quasi del tutto privato di compiti; che, dopo aver rifiutato di
rassegnare le dimissioni richieste dall’azienda a fronte del
riconoscimento di un incentivo di 90 milioni di lire e della minaccia
del licenziamento in caso di mancata adesione alla richiesta del
datore di lavoro, fu effettivamente licenziato il 6.12.2001 per
asserito giustificato motivo soggettivo. Lamentando la violazione
degli artt. 2087 e 2103 c.c. per le condotte (definite quali azioni di
mobbing) inadempienti e
lesive poste in essere a far tempo dal rientro del ricorrente dalla
missione a Melfi e sfociate nel licenziamento, di cui si allegava
l’illegittimità anche per la mancata adibizione del TOTA, tenendo
conto del suo ampio bagaglio professionale, a mansioni diverse, presso
la C.R.& S. o presso la capogruppo Commerfin, ove sarebbe stato
spostato lo svolgimento dell’attività disimpegnata dal lavoratore
al momento del recesso, la difesa del ricorrente rassegnava le
conclusioni in epigrafe trascritte.
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Costituendosi ritualmente in giudizio, resisteva la C.R.&
S. (le cui quote – si spiega in memoria - appartengono
integralmente, dal settembre 1999, alla Commer Spa, società del
Gruppo Commerfin), allegando: la cattiva situazione finanziaria della
società, a seguito di un consistente calo di commesse verificatosi
sin dal 1998, con conseguente necessità di riduzione del personale in
tutti i settori dell’azienda; un riassetto organizzativo operato da
Commer Spa a far tempo dal marzo 2000, con un progressivo inserimento
del personale di quest’ultima società nelle funzioni aziendali di
C.R.& S.; l’attribuzione, in quest’ottica, delle funzioni di
“utilizzo fattori”, cui era assegnato il ricorrente, alla
Direzione Acquisti della Commer, con conseguente soppressione del
posto di lavoro di TOTA all’interno della C.R.& S. e
giustificazione del licenziamento intimato. Quanto alla situazione
lavorativa del ricorrente, la convenuta contestava: che TOTA avesse
mai ricoperto la mansione di responsabile dell’officina; che fosse
stato demansionato o privato di mansioni; che gli fosse stata promessa
la futura attribuzione di più gratificanti incarichi; che fosse stato
oggetto di una condotta mobbizzante quale quella descritta in ricorso;
che fosse stato minacciato il licenziamento in caso di mancata
presentazione di dimissioni volontarie. La difesa di parte convenuta
chiedeva pertanto la reiezione di tutte le domande proposte,
eccependo, in via pregiudiziale, l’improcedibilità della domanda di
cui al capo B del ricorso (quella relativa alla richiesta di
risarcimento dei danni non patrimoniali) per mancato esperimento
dell’obbligatorio tentativo di conciliazione.
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Fallita la conciliazione avanti al Tribunale, in accoglimento
dell’eccezione sollevata da parte convenuta, il giudice sospendeva
il giudizio (anche in relazione alla domanda di cui al capo A, stante
la stretta connessione delle due cause) assegnando termine di giorni
60 per promuovere tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 412-bis
c.p.c. Espletato, senza successo, l’incombente, il giudizio era
quindi riassunto ed entrambe le parti richiamavano le precedenti
allegazioni, deduzioni e conclusioni.
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Fallita nuovamente la conciliazione tentata dal giudice,
espletato l’interrogatorio libero delle parti, acquisititi i
documenti prodotti ed escussi numerosi testimoni, all’udienza del
3.3.2004 i procuratori discutevano la causa richiamando le conclusioni
in atti e il giudice pronunciava sentenza dando lettura del
dispositivo.
- Motivi della decisione
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Le due azioni, quella volta ad ottenere la declaratoria
d’illegittimità del licenziamento e quella di risarcimento danni,
sono intimamente connesse e si fondano su un’unica causa petendi, quella relativa al mobbing. Da qui conviene pertanto muovere nella disamina dei fatti.
- Il mobbing.
Si tratta di un fenomeno – da tempo oggetto di studio da parte delle
scienze sociologiche e psicologiche – che è approdato nelle aule di
giustizia italiane nel 1999. Costituisce oramai fatto notorio che –
sia pur con una certa approssimazione – esso consiste in una
condotta vessatoria, reiterata e duratura, individuale o collettiva,
rivolta nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori
gerarchici (mobbing
verticale) e/o colleghi (mobbing
orizzontale), oppure anche da parte di sottoposti nei confronti di un
superiore (mobbing ascendente); in alcuni casi si tratta di una precisa
strategia aziendale finalizzata all’estromissione del lavoratore
dall’azienda (bossing). I numerosi progetti di legge presentati in
Parlamento, nella trascorsa e nell’attuale legislatura, per
disciplinare il mobbing e le
sue conseguenze non hanno sortito esito. L’unica indicazione
normativa era contenuta nella L.R. Lazio, 11 luglio 2002, n. 16,
rubricata Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del “mobbing”
nei luoghi di lavoro che, all’art. 2, comma 1, affermava che
<<per “mobbing”
s’intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori
protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori
dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da
soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e
che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione
psicologica o di violenza morale>>. La legge, tuttavia, è stata
recentemente dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (sent.
19.12.2003, n. 359) che ne ha ritenuto il carattere invasivo della
potestà legislativa concorrente riservata allo Stato in materia di
principi fondamentali.
- Da alcuni precedenti
giurisprudenziali di merito che hanno esaminato funditus il problema e che hanno fatto ricorso, in sede di CTU, a
cognizioni scientifiche, si apprende che, secondo la psicologia del
lavoro, il modello italiano di mobbing
consterebbe di uno stadio iniziale e di sei fasi successive che sono
state così descritte: <<dopo la c.d. condizione zero, di
conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla prima fase
del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa
si dirige la conflittualità generale…la seconda fase è il vero e
proprio inizio del mobbing,
nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio…La
terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare
i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute…La
quarta fase del mobbing è
quella caratterizzata da errori e abusi dell’amministrazione del
personale…La quinta fase del mobbing
è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica
del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una
situazione di vera e propria prostrazione…la sesta fase, peraltro
indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing
ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli
altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in
licenziamenti>> (così, Trib. Forlì, sent. 15.3.2001).
- Se questo è il mobbing,
certamente il caso di specie vi rientra a pieno titolo. Reputa,
tuttavia, il Tribunale che, al di là della questione delle
“etichette” e in assenza di una disciplina normativa che
ricolleghi ad un fenomeno chiamato “mobbing”
certe, determinate, conseguenze giuridiche, non metta conto
soffermarsi ulteriormente sulla questione definitoria, né abbia
importanza appurare quale considerazione meriti il caso in esame
nell’ambito della psicologia del lavoro. Per questa ragione – non
essendovi stata, peraltro, richiesta di parte – questo giudice non
ha ritenuto rilevante disporre un’apposita consulenza tecnica
d’ufficio. Ciò che rileva, invece, è analizzare se le condotte
vessatorie lamentate in ricorso – che, anche per comodità
lessicale, ben possiamo definire mobbing
- e i pregiudizi che si allega esserne derivati abbiano fondamento e
se possano condurre all’accoglimento delle domande avanzate. Così
posta, la questione è eminentemente giuridica e dev’essere valutata
alla luce delle disposizioni del codice civile giustamente evocate in
ricorso: l’art. 2087 e l’art. 2103 (letti anche alla stregua degli
artt. 1175 e 1375). Occorre, dunque, verificare se nei fatti lamentati
dal ricorrente siano ravvisabili, da un lato, inadempimenti
contrattuali e, d’altro lato – quale conseguenza – dei danni
risarcibili.
- Occorre premettere che
l’istruttoria espletata ha dimostrato come, sino al febbraio 2000
– quando il ricorrente rientrò nella sede di Frossasco dalla
trasferta a Melfi – TOTA conobbe, in C.R.& S., una carriera
interna progressivamente crescente, che gli
guadagnò la stima e la fiducia degli amministratori (e
proprietari) della società, sì dall’indurre costoro ad
attribuirgli mansioni e responsabilità superiori al formale livello
d’inquadramento che da ultimo aveva (il 7° livello impiegatizio).
Ed invero:
- la prova degli ultimi
riconoscimenti dell’apprezzata attività del ricorrente in azienda
si ricava dai documenti prodotti da parte convenuta sub
16 (passaggio di categoria dal 6° al 7° livello d’inquadramento a
far tempo dal 1°.2.1998) e 17 (aumento del superminimo già in
godimento di £. 500.000 lorde dal 1°.7.1999) e, inoltre,
dall’entità del premio ricevuto alla fine del 1999, ben 9 milioni
di lire (teste MOLINO);
- i riconoscimenti
economici da ultimo richiamati debbono essere messi in correlazione
allo svolgimento di mansioni superiori affidate al ricorrente sin dal
luglio 1998, quando cessò il rapporto con il capofficina BERMANI; in
conformità a quanto allegato in ricorso e contrariamente a quanto
sostenuto dalla convenuta, TOTA sostituì infatti BERMANI dal 2.7.1998
(cfr. documento acquisito all’udienza del 12.3.03) sino al settembre
1999, quando fu inviato in trasferta a Melfi: cfr. le chiare e
univoche deposizioni dei testi MOLINO, FERRANTE, CORBELLETTI, RAVERA,
ALONGE, CASTELLARO, FRANCESE, MURTAS; non attendibili, dunque, le
parzialmente difformi deposizioni di SPAGNUOLO (dei cui pessimi
rapporti con TOTA di seguito si dirà), D’ALOIA (che aveva interesse
a negare la circostanza, posto che l’azienda, nel maggio 2001,
attribuì a lui, piuttosto che al ricorrente, l’incarico di
capofficina) e CESANO (che sul punto è stato stranamente vago, pur
essendo egli all’epoca uno dei due amministratori e proprietari
della C.R.& S., per smemoratezza o, forse, perché il suo rapporto
con la convenuta continua tuttora in regime di consulenza);
- che le mansioni di
capofficina fossero superiori all’inquadramento del ricorrente (7°
livello impiegatizio), lo si ricava – pur essendo mancata la
produzione del CCNL contenente le declaratorie contrattuali –
dall’importanza di tale ruolo, che presupponeva anche il
coordinamento e la direzione di numerosi addetti (una ventina, secondo
quanto dichiarato dai testi MOLINO e FERRANTE) e che prima del
ricorrente era svolto da persona con inquadramento di dirigente (cfr.
libro matricola prodotto dalla convenuta);
- nel settembre 1999,
con il suo consenso, TOTA fu inviato in trasferta a Melfi, in uno
stabilimento FIAT a cui la C.R.& S. aveva venduto macchinari e
stampi per produrre interni di autovetture; si trattava di un compito
delicato per risolvere gravi problemi di funzionamento dei prodotti
venduti ad un importante cliente e per questo fu prescelto il
ricorrente: <<Tota fu poi mandato a Melfi, anche perché in quel
momento forse era l’unico che aveva le capacità per risolvere quel
problema. A Melfi avevano infatti una elevata percentuale di scarto su
stampi da noi forniti>> (teste RAVERA).
- Questa brillante
carriera conobbe un improvviso arresto quando TOTA, nel febbraio 2000,
rientrò da Melfi e, non a caso, la circostanza coincise (e dipese)
dal cambiamento del vertice aziendale che si verificò in C.R.& S.
alla fine del 1999 a seguito dell’acquisizione da parte della COMMER
Spa dell’integrale proprietà delle quote della convenuta, sicché i
vecchi amministratori (e proprietari) CESANO e RAVERA dovettero cedere
la gestione dell’azienda alla nuova dirigenza. E accadde quanto
segue:
- invece di attendere
l’imminente rientro di TOTA per riassegnargli il suo ultimo incarico
di capofficina, svolto per oltre un anno, la C.R.& S. assunse per
tale mansione, a far tempo dal 3.1.2000, FERRANTE Teresio (al quale,
peraltro, la stessa convenuta non riconobbe particolari qualità
specialistiche posto che – cfr. libro matricola – questi
fu inquadrato nello stesso livello del ricorrente);
- tornato a Frossasco,
il ricorrente fu quindi inquadrato in un ufficio di nuova
costituzione, chiamato “utilizzo fattori”, al quale furono adibiti
l’ex amministratore RAVERA (con mansioni di responsabile) e il TOTA
(in funzione di aiuto);
- l’ufficio in
questione – che, come ricorda la convenuta in memoria (sub capo 22) fu da subito sottoposto al coordinamento della
controllante COMMER - si occupava, sostanzialmente,
dell’elaborazione di preventivi e di tempi e metodi;
- rispetto all’ultimo
incarico ricoperto per oltre un anno – che comportava la gestione di
20 persone e di un settore strategico per l’azienda, come
l’officina – TOTA fu dunque palesemente demansionato con
l’attribuzione di compiti (che pure aveva svolto in passato) in
regime di subordine e mero aiuto a RAVERA;
- egli non fu più
inviato in trasferta per seguire l’avviamento o la messa a punto di
attrezzature e stampi presso clienti, come in precedenza più volte
aveva fatto;
- fu privato dei compiti
di “tecnologo”, che pure in passato aveva svolto e che
consistevano nella preparazione e prova (anche in officina) di nuovi
tessuti e materiali (cfr., in particolare, deposizioni CESANO e RAVERA)
e di industrializzazione degli stampi (mansioni che poi furono
affidate a Collino, Ferrante e agli aggiustatori, come riferito dal
teste FRANCESE);
- gli fu addirittura
impedito l’accesso all’officina (cfr. deposizioni testi MOLINO,
FERRANTE, CORBELLETTI, ALONGE, CESANO, dello stesso DEZANI, in quel
periodo responsabile industriale della C.R.& S.);
- all’emarginazione
del ricorrente dal principale settore operativo dell’azienda (che
per oltre un anno aveva diretto e che era fondamentale per lo
svolgimento delle mansioni di tecnologo – le quali postulano prove
su stampi e macchinari – e pure per le funzioni di preventivazione e
tempi e metodi che in quel periodo comunque gli furono conservate) si
aggiunse poi un ulteriore isolamento quando, nell’aprile 2001,
RAVERA cessò la collaborazione con C.R.& S.: invece di affidare
al ricorrente l’integrale gestione dell’ufficio “utilizzo
fattori” (creato soltanto l’anno precedente), la convenuta lo
soppresse e collocò TOTA nell’ufficio tecnico, alle dirette
dipendenze di SPAGNUOLO, sottraendogli peraltro alcune mansioni che
prima svolgeva insieme a RAVERA, come quelle di raccogliere le
informazioni per i preventivi e trasmetterle a Milano, che furono
affidate ai neo-istituiti “capi-progetto” (cfr. dichiarazioni
PARINI);
- da allora, i compiti
attribuiti al ricorrente furono pressoché nulli (come la stessa
convenuta sostanzialmente riconosce, sia pur addebitando tale
circostanza al calo di commesse e alla mancanza di ordini);
- a ciò si accompagnò
anche un tentativo di emarginare il ricorrente sul piano dei rapporti
umani: <<visto che, in ditta, io ero (uno) di quelli che che
parlava di più con Tota, il sig. Spagnuolo, che all’interno della
società era una specie di vicedirettore, e il sig. D’Aloia, che
assunse il posto di Ferrante…mi dissero di non parlare più con Tota.
Alle mie rimostranze, loro mi dissero che non era proibito parlare con
il ricorrente, ma mi fecero capire che era meglio se non lo avessi
fatto>> (dep. teste MOLINO, smentita, sul punto, con assai poca
convinzione da SPAGNUOLO: <<non mi risulta di aver detto a
Molino di non parlare con Tota anche perché uno lavorava da una parte
l’altro dall’altra parte>>).
- L’emarginazione –
professionale e umana – del ricorrente in azienda fu percepita da
tutti e il principale artefice di questa condotta fu il dirigente
SPAGNUOLO Orlando. Si considerino, oltre alla dichiarazione del teste
MOLINO da ultimo riportata, le seguenti, eloquenti, affermazioni rese
da numerosi testimoni, che in azienda avevano ruoli e mansioni
diversificati:
- <<parlai con il
sig. Baudino Piero e lui convenne con me sul fatto che Tota era stato
messo da parte: era una cosa evidente, questa, in officina>>
(MOLINO, operaio);
- il ricorrente
<<in azienda era stato messo abbastanza da parte. Dico questo
perché gli era stato proibito di entrare in officina e c’era un
po’ di astio nei suoi confronti…in particolare da parte di
Spagnuolo – e questo era evidente – e poi da parte di altri, perché
era una situazione che si era venuta a creare. Si vedeva che, anziché
interperllarlo sulle offerte e sui preventivi, le cose andavano avanti
senza coinvolgerlo…Tra i colleghi c’era una fazione che seguiva
Spagnuolo e costoro seguivano le indicazioni del loro capo e quindi
emarginavano il Tota (Tota non serve più, Tota qui, Tota là…),
mentre altri non lo facevano>> (CORBELLETTI,
dirigente);
- <<si vedeva che
Tota non veniva più considerato come prima dalla direzione>>
(FRANCESE, operaio);
- <<quello che
sembrava che ce l’avesse con Tota
in una maniera pazzesca fu Spagnuolo,che dopo il ritorno da Melfi del
ricorrente, sembra che avesse un potere enorme in ditta>>
(MOLINO);
- <<penso che i
contrasti tra Tota e Spagnuolo – che già c’erano stati sotto la
mia direzione tanto che dovetti anche intervenire – si acuirono in
quel periodo. Erano problemi caratteriali. Poi quando Spagnuolo ebbe
più potere, probabilmente si vendicò>> (RAVERA, dirigente ed ex
amministratore).
- L’evidente strategia
di SPAGNUOLO – che gli altri dirigenti della C.R.& S., che
formalmente avevano maggiori responsabilità, non seppero o non
vollero arrestare (ci si riferisce a DEZANI, PARINI o
l’amministratore MANGIAROTTI, i quali non risulta che avessero
cattivi rapporti personali con il ricorrente ed è per questo, deve
ritenersi, che nel 2001 fu accolta la sua richiesta di poter
beneficiare di un finanziamento a tasso zero, rimborsabile con
prelievi sullo stipendio) – finì quindi con l’annichilire,
professionalmente e umanamente, il TOTA, e culminò, alla fine del
2001, nell’unilaterale determinazione aziendale di cessare il
rapporto di lavoro. Anche in questo si intravvede, tempo prima che ciò
poi avvenisse (DEZZANI lasciò la C.R.& S. nel febbraio 2001), la
“mano” di SPAGNUOLO: <<un giorno in ufficio, la mattina,
Spagnuolo disse che la direzione, in quel momento rappresentata da
Mangiarotti, non voleva che Tota continuasse a rimanere in C.R.S.
Questo Spagnuolo lo disse a Tota, me presente e presente il sig.
Dezzani, il quale disse che lui non era a conoscenza di questa
circostanza e che secondo lui non era vero>> (teste MOLINO).
Nell’autunno del 2001, la C.R.& S. propose a TOTA dimissioni
incentivate (PORTOGALLO, MANGIAROTTI, PARINI), che il ricorrente non
accettò, e – benché non sia stata provata l’allegazione di cui
al capo 14, ultima parte, del ricorso – è un fatto che subito dopo
egli fu licenziato.
- A fronte della
strategia di SPAGNUOLO – certamente riconducibile, in termini
descrittivi, al fenomeno del mobbing
verticale di cui sopra si è detto – appare evidente
l’inadempimento della C.R.& S. rispetto agli specifici obblighi
contrattuali evocati in ricorso. Innanzitutto, rispetto alla provata
lesione della personalità morale del TOTA progressivamente attuata
dal febbraio 2000 al licenziamento, la C.R.& S. non ha assolto
all’onere della prova, che le incombeva, di aver fatto tutto il
possibile per adempiere all’obbligazione di tutela del dipendente
consacrata nell’art. 2087, ult. parte, c.c. Anzi, a tutti, in
azienda, era chiara la volontà punitiva di SPAGNUOLO nei confronti di
TOTA, salvo (a quanto pare), ai dirigenti e agli amministratori che,
invece di tutelare il dipendente vessato, pensarono bene di porre il
ricorrente alla dirette dipendenze del mobber (pur conoscendo i pessimi rapporti personali che c’erano
tra i due: cfr. dichiarazioni dell’amministratore MANGIAROTTI;
l’unico che ha dichiarato di ignorare la circostanza, il che la dice
lunga sulla diligenza e l’accortezza con cui espletava il proprio
incarico, era, paradossalmente, il direttore del personale PORTOGALLO).
- Del pari evidente,
come si è detto, è la violazione dell’art. 2103 c.c. Quanto
all’assegnazione di mansioni indubbiamente inferiori a quelle da
ultimo svolte (capofficina) a far tempo dal febbraio 2000, la
convenuta si è limitata a negare che TOTA avesse ricoperto tale
mansione (e i dirigenti escussi nella fase istruttoria – PARINI,
PORTOGALLO, MANGIAROTTI – hanno sostenuto che questa circostanza, a
loro, non risultava; DEZANI, che nel febbraio 2000, era responsabile
industriale, ha invece seraficamente ammesso di non sapere, segno che
non se ne era neanche preoccupato, quali erano state le precedenti
mansioni di TOTA), ma la tesi è stata radicalmente smentita dai
numerosi testimoni più sopra indicati. Quanto, poi, al successivo
e progressivo svuotamento di mansioni, la convenuta si è
limitata a sostenere che ciò dipese dalla diminuzione di lavoro che
C.R.& S. conobbe a far tempo dal 1998, quando vennero a mancare le
commesse del maggiore cliente, la Johnson Control. La circostanza
relativa al calo di lavoro è indubbiamente corretta – ed è stata
provata, anche documentalmente sulla base dei bilanci societari
depositati – ma essa non vale a giustificare la condotta
tenuta da C.R.& S. nei confronti di TOTA, anzi, in qualche
modo la aggrava.
- Posto che il calo di
commesse – consistente, come allega parte convenuta – si apprezzò
a partire dalla seconda metà del 1998 e si consolidò nel 1999, la
decisione, nei primi mesi del 2000, di creare ex
novo un ufficio “utilizzo
fattori”, cui attribuire compiti specificamente rivolti alla
predisposizione di preventivi per nuovi ordini, è decisione che
appare, ex ante,
poco comprensibile. La conseguente determinazione di assegnare a
quell’ufficio – che sin dall’inizio aveva segnato il proprio
destino, tanto che dopo nemmeno un anno fu soppresso – proprio il
ricorrente, peraltro con mansioni di mera collaborazione subordinata
nei confronti di RAVERA, benché egli (pur avendo fatto in passato
preventivi) avesse svolto negli ultimi due anni ben altre mansioni (più
complesse, gratificanti ed importanti), non può certo essere
sfruttata dalla convenuta per far ricadere in danno del TOTA gli
effetti di una decisione illegittima per violazione dell’art. 2103
c.c. L’obbligo di comportarsi secondo le regole di buona fede
nell’esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.) osta a che un
contraente possa avvantaggiarsi della propria condotta inadempiente
per arrecare nocumento alla controparte.
- La stessa ragione
costituisce il primo, chiaro, motivo dell’illegittimità del
licenziamento intimato a TOTA. L’unilaterale recesso dal rapporto
effettuato ad opera del datore di lavoro si configura, per quanto si
è sopra detto, come l’ultimo atto della complessiva condotta di mobbing,
la quale si completa così anche sul piano degli elementi costitutivi
e tipici della fattispecie quale descritta dalla psicologia del
lavoro: l’espulsione dal contesto aziendale del lavoratore vessato.
Il licenziamento per soppressione del posto di lavoro di un dipendente
che è stato ivi collocato in modo illegittimo (e probabilmente “mirato”) a
seguito della modificazione in
pejus delle mansioni da ultimo svolte, non può certo dirsi
“giustificato”, posto che il giudizio di giustificatezza non può
essere avulso dalla verifica che il comportamento tenuto dal datore di
lavoro sia stato improntato al rispetto principi di correttezza e
buona fede che presiedono all’esecuzione del rapporto.
-
D’altronde, che C.R.& S. fosse ben poco convinta di poter
legittimamente licenziare TOTA lo si desume anche dal notevole importo
offertogli per rassegnare le dimissioni, 90 milioni di lire (la
circostanza non è stata specificamente contestata in memoria e, pur
non avendo menzionato cifre, PARINI, PORTOGALLO e MANGIAROTTI
l’hanno confermata). La trattativa non si concluse perché TOTA –
consapevole della difficoltà che avrebbe incontrato a reperire
un’altra occupazione e confidando nell’impossibilità della
convenuta di poterlo legittimamente licenziare – richiese 200
milioni di lire per rinunciare al posto di lavoro, sicché l’azienda
decise di licenziarlo.
-
In secondo luogo, deve osservarsi che, anche a prescindere
dall’illegittima assegnazione del ricorrente alle mansioni da ultimo
attribuite – sostanzialmente prive di contenuto, quanto meno
dall’aprile 2001 – il licenziamento non può dirsi giustificato
perché il datore di lavoro non ha assolto all’onere della prova,
che gli incombeva (cfr., ex
plurimis, Cass. 3.6.1994, n. 5401; Cass. 16.5.2003, n.7717), circa
l’impossibilità di attribuire al ricorrente altri compiti.
- Si consideri, in
primis, che pochi mesi avanti il licenziamento (e proprio in
concomitanza con la soppressione dell’ufficio utilizzo fattori) si
liberò in azienda il posto di capofficina: sull’erroneo presupposto
che il ricorrente non avesse mai svolto quella mansione, la dirigenza
nemmeno lo considerò per quell’incarico e attribuì il compito a
D’ALOIA (che pure aveva il suo stesso livello d’inquadramento).
Deve osservarsi, poi, che il bagaglio professionale maturato da TOTA
in oltre 12 anni di attività presso la C.R.& S. (egli fu tra i
primi dipendenti assunti dalla neocostituita azienda e contribuì al
suo successo imprenditoriale) era talmente consistente e variegato da
consentire l’utilizzo del lavoratore, con profitto dell’azienda,
in qualsiasi settore produttivo. Si considerino, a questo proposito,
le eloquenti dichiarazioni rese dal teste RAVERA - socio fondatore
della C.R.& S. e amministratore della società sino al 2000, che
ben conosceva (certamente più della nuova dirigenza, come più volte
si è osservato) il percorso professionale di TOTA e le sue
caratteristiche quale lavoratore: <<Fino a quando rimasi io,
Tota ci fu molto utile...è sostanzialmente un tecnologo...La nostra
tecnologia era unica al mondo e Tota la conosceva bene, sotto il
profilo dei cicli di stampaggio, tempi, metodi e non solo:
temperatura, tessuti in modo tale da ottenere il meglio dal
processo...Tota ha manualità, qualsiasi lavoro che si mette a fare lo
fa, so che adesso l’azienda fa anche produzione e una persona come
Tota, secondo me, è una persona utile>>. Del resto, la stessa
nuova dirigenza della convenuta – al di là dell’affermata
ignoranza circa il precedente percorso professionale di TOTA - ha
mostrato, subito dopo il ritorno da Melfi del ricorrente, di ben
conoscere il valore professionale del dipendente, considerato che gli
fu ventilata la possibilità di ricoprire l’incarico di direttore
della produzione nel caso in cui fosse stata avviata un’attività di
questo tipo (teste PARINI).
- Tenendo conto di ciò,
non può dunque dirsi assolto l’onere della prova
dell’impossibilità del repechage,
anche perché, se è pur vero che nel 2000 e nel 2001 vi fu una chiara
politica aziendale di riduzione del personale, è altrettanto vero che
essa diede buoni frutti in modo indolore (nel senso che, salvi i casi
di MOLINO e TOTA, l’esodo fu volontario), sicché il residuo
personale occupato alla data del dicembre 2001, già consistentemente
ridotto, non poteva certo dirsi eccessivo rispetto alle necessità
aziendali (sino a quando fu capoofficina FERRANTE, come questi ha
dichiarato, il lavoro non mancò; lo stesso dirigente DEZANI ha
dichiarato che ancora al febbraio 2001 non vi erano problemi di
sovradimensionamento occupazionale; FRANCESE ha dichiarato che il calo
di lavoro si verificò nel secondo semestre del 2001; MOLINO ha
riferito di aver sempre svolto lavoro straordinario sino alla
cessazione del rapporto). Del resto, all’epoca del licenziamento, la
crisi – comunque non preoccupante e sino ad allora gestita, come
detto, senza licenziamenti – stava passando, tanto che il lavoro
riprese e nuove commesse furono acquisite soltanto sei mesi dopo (come
riferito da D’ALOIA). Nella stessa relazione dell’amministratore
di accompagnamento al bilancio d’esercizio del 2000 – relazione
verosimilmente stesa, com’è prassi, tra la fine di aprile e la fine
di giugno del 2001 – si legge che <<il calo del fatturato,
alla luce delle prospettive concrete ipotizzabili sulla
base di rapporti commerciali avviati ed intrattenuti con grandi
ed importanti clienti, può ritenersi soltanto di carattere
momentaneo>> e la perdita d’esercizio, in allora pari a 2.328
milioni di lire, fu in effetti pressoché azzerata nell’esercizio
successivo (che si concluse con una perdita di 81 milioni di lire) e
nella cui relazione al bilancio nuovamente si manifesta il
convincimento che <<gli sforzi prodotti sia a livello gestionale
che commerciale sfoceranno nel breve medio periodo in risultati
concreti>>.
-
Da ultimo, deve osservarsi come la convenuta - nonostante
l’espressa allegazione in tal senso contenuta nel ricorso
introduttivo - nemmeno abbia provato a dimostrare che TOTA non poteva
essere utilmente impiegato presso la controllante COMMER (della cui
organizzazione lavorativa, consistenza del personale e variazione del
numero degli occupati nel periodo di causa nulla è stato provato).
Eppure, nonostante la formale distinzione delle due persone
giuridiche, è emerso in modo eclatatante come tra COMMER e C.R.&
S. (controllata, si ricordi, al 100% dalla prima) vi fosse un
ordinario interscambio di forza lavoro, una comune gestione di
numerosi settori di attività, un’unitarietà imprenditoriale di
fondo che faceva della C.R.& S. una sorta di “succursale”
della controllante. Ed invero, si consideri quanto segue:
- che le decisioni
organizzative riguardanti la C.R.& S. fossero prese - piuttosto
che dagli amministratori di questa società - dalla controllante
COMMER e che vi sia stato, in modo consistente, uno scambio di
personale (tutto proteso a ridurre i compiti attribuiti ai dipendenti
formalmente assunti dalla C.R.& S. a vantaggio di quelli
inquadrati nella controllante) è espressamente confessato dalla
convenuta sub capo 20 della
memoria: <<a seguito dell’integrale acquisizione di
C.R.& S. da parte di Commer Spa, quest’ultima dava corso,
nel marzo 2000, ad un riassetto organizzativo conclusosi poi nel
luglio 2001, che vedeva il progressivo inserimento di proprio
personale nelle funzioni aziendali di C.R.& S.>>;
- questo processo di
“svuotamento” dei compiti tipici ed essenziali dell’impresa
gestita dalla C.R.& S. a vantaggio della controllante riguardò,
peraltro, proprio il settore cui era adibito TOTA (e lui soltanto,
dall’aprile 2001), sicché, come espressamente ammesso nel capo 21
della memoria e come risulta chiaramente dall’audizione dei testi
indicati dalla convenuta, quelle mansioni passarono progressivamente al
dott. SICILIANO, che (cfr. organigrammi della C.R.& S. prodotti da
parte convenuta sub docc. 7
e 8) risultava anche formalmente inquadrato nell’organico della C.R.&
S., sin dal 31.3.2000, benché non ne sia mai stato dipendente (o
collaboratore da questa retribuito), essendo invece dipendente, con
inquadramento dirigenziale, della COMMER;
- questo intreccio di
personale e di cointeressenze riguardò molte altre persone e
disparati settori: nell’anno 2000 (cfr. organigramma 31.3.2000)
questo è accertato per la responsabilità del settore personale
(diretto da PORTOGALLO Antonio, dipendente COMMER) e per la
corresponsabilità del settore commerciale (da parte di DISTEFANO,
probabilmente Alfredo, nominato procuratore speciale della C.R.&
S. per rendere l’interrogatorio libero in questa causa, non
dipendente, né diretto collaboratore della C.R.& S., come si
evince dal libro matricola, e dunque verosimilmente inquadrato in
COMMER - non si può trattare, infatti, di Filippo Distefano, assunto
con c.f.l. nel 1998 come impiegato disegnatore, anche perché, come ha
riferito il teste SPAGNUOLO, il dirigente DISTEFANO avrebbe
addirittura svolto mansioni di amministratore della società
nell’anno 2000); tra il 2001 e il 2003 MOLINELLI Fabio (che lo ha
confermato nel suo esame testimoniale), pur essendo dipendente COMMER
con mansioni di supporto tecnico, si recava abitualmente e
frequentemente in C.R.& S. per seguire la produzione e prendeva
ordini dal dirigente della convenuta PARINI; nell’organigramma
dell’11.7.2002, figura, parimenti non menzionato, né tra i
dipendenti né tra i collaboratori, nel libro matricola C.R.& S.,
tale A. Odino;
- quanto
a quest’ultimo - espressamente indicato dal ricorrente,
nell’interrogatorio libero, come persona assunta, sia pur da altra
società del gruppo Commerfin, una settimana prima del suo
licenziamento per sostituirlo - la convenuta non ha chiarito la sua
situazione: mentre il procuratore speciale della società,
nell’interrogatorio libero, ha sostenuto, in prima battuta, che
trattasi di persona assunta come operaio dalla C.R.& S. e che
lavora in officina, e, poi, che egli ricopre invece la qualifica di
tecnico commerciale, altri testi hanno riferito che ODINO si occupa di
lastre ma non specificamente nell’ambito del processo produttivo
della C.R.& S. e mantiene presso la sede di questa società una
postazione di lavoro per fare collaudi e per ragioni di comodità,
abitando egli in zona (SPAGNUOLO, SICILIANO, PORTOGALLO; parzialmente
diverso, sul punto, CESANO) e
altri testi ancora (MOLINO, RAVERA) hanno dichiarato che il bagaglio
professionale di ODINO era molto simile a quello di TOTA; quale che
sia la realtà, è un fatto che nell’organigramma 11.7.2002 Adriano
ODINO, dipendente di un’altra azienda del gruppo COMMER, figura
quale capo progetto della C.R.& S. ed è parimenti un fatto (come
hanno riferito alcuni testimoni indicati dalla stessa convenuta e non
sospettabili di cointeressenze col ricorrente: PARINI, D’ALOIA) che
alcune mansioni prima svolte da TOTA siano passate a costoro;
- vi fu anche qualche
caso di interscambio di dipendenti in senso inverso, da C.R.& S. a
COMMER (o altre aziende del gruppo): cfr. dichiarazioni del teste
PARINI.
-
Questa commistione tra C.R.& S., COMMER (e altre aziende
del gruppo), del resto, è confermata dalla ottima conoscenza che i
dipendenti di quest’ultima avevano delle cose che succedevano presso
la convenuta (si consideri, ad es., quanto dichiarato dal teste
SICILIANO, che, pur svolgendo per la C.R.& S. un’attività
limitata agli acquisiti e ai preventivi, ha mostrato di conoscere
benissimo la realtà aziendale e il turn-over
dei dipendenti in tutti i settori produttivi) e viceversa (cfr.
dichiarazioni dell’amministratore C.R.& S. MANGIAROTTI circa
l’attività di Odino quale dipendente DIATECH). La commistione in
parola, del resto, va al di là del formale contratto di appalto di
servizi documentato da parte convenuta (docc. 9 e 10), contratto non
avente peraltro data certa e della cui effettività può dubitarsi,
posto che l’amministratore MANGIAROTTI ha dichiarato che per le
attività svolte dal dott. SICILIANO in favore della convenuta questa
non corrisponde alcun corrispettivo alla COMMER! Si consideri,
inoltre, quale ulteriore indice dell’inverosimiglianza di una
effettiva contrapposizione delle parti contraenti, l’inspiegabile e
notevole riduzione dello stesso corrispettivo dovuto da C.R.& S.,
dall’anno 2000 all’anno 2001, pur essendo rimasti immutati i
servizi oggetto di contratto (500 milioni di lire oltre al 5% sul
fatturato nel 2000; soltanto più 225 milioni nel 2001)! In ogni caso,
l’estrema latitudine dello stesso oggetto del documento contrattuale
(che comprende pressoché tutto…) è ulteriore indice del fatto che
la giuridica distinzione delle due società abbia natura
esclusivamente formale.
- Per quanto sopra
osservato, può dirsi accertata l’esistenza di un <<gruppo così
strettamente collegato da costituire unico centro di imputazione di
rapporti giuridici>>, ricorrendone i requisiti, vale a dire:
<<a) l’unicità della struttura organizzativa e produttiva; b)
l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del
gruppo, con correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico
e amministrativo-finanziario, tale da individuare un unico soggetto
direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole
imprese verso uno scopo comune; d) l’utilizzazione contemporanea
della prestazione lavorativa da parte della varie società titolari
delle distinte imprese>> (Cass., sent. 7717/2003).
Ai fini di cui si discute - prova del repechage – l’elemento formale della giuridica distinzione tra
C.R.& s. e COMMER non può dunque essere opposto, come invece ha
sbrigativamente fatto la convenuta in memoria, sicché essa ha
fallito, sul punto, la prova: a ritenere diversamente, si darebbe
piena licenza alla proprietà e alla vera direzione dell’azienda
formalmente gestita dalla C.R.& S., vale a dire alla COMMER, di
licenziare per asserito giustificato motivo oggettivo dipendenti,
magari non graditi, della controllata per attribuire le loro mansioni
a dipendenti, più graditi e magari neo assunti, della controllante.
-
In accoglimento della domanda di cui al capo A del ricorso,
deve dunque dichiararsi l’illegittimità del licenziamento intimato
al ricorrente con lettera del 6.12.2001. Essendo pacifico che ci trova
nell’ambito della c.d. tutela reale, la convenuta deve pertanto
essere condannata a reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro
e - non risultando applicabile l’art. 1227 c.c. (dal libretto di
lavoro di TOTA non risultano altri impieghi successivi al
licenziamento, né, per l’età del lavoratore e le difficili
condizioni del mercato di lavoro, era agevole trovarne) - segue altresì
la condanna alla corresponsione di un’indennità commisurata alla
retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso a quello
dell’effettiva reintegrazione, oltre ad interessi legali e
rivalutazione monetaria da ogni scadenza mensile al saldo e oltre al
versamento dei relativi contributi assistenziali e previdenziali.
-
Quanto alla domanda di cui al capo B del ricorso, deve ora
affrontarsi il tema del risarcimento del danno non patrimoniale
richiesto dal ricorrente. Per delimitare l’oggetto dell’indagine -
quale devoluto al giudice sulla scorta delle conclusioni, integrate
con la narrativa del ricorso - occorre subito dire che è stata
esercitata soltanto l’azione di responsabilità contrattuale (e non
anche, come talvolta accade in casi similari, quella da fatto
illecito), con particolare riguardo alla violazione degli artt. 2087 e
2103 c.c. e al fenomeno del mobbing. I pregiudizi lamentati (definiti nelle conclusioni come
danno biologico da lesione e indebolimento della validità e della
salute, in specie nervosa, e danno alla vita di relazione, e
ulteriormente precisati, a pag. 6 del ricorso, quali sofferenze morali
provocate dalla lesione della dignità del lavoratore) abbracciano
tutte le possibili estrinsecazioni del c.d. “danno non
patrimoniale”, secondo la tripartizione
(biologico/morale/esistenziale) recentemente delineata, con estrema
chiarezza, dalle Corti poste ai vertici del nostro sistema
giudiziario.
-
Si allude alle pronunce della Corte di cassazione (v., in
particolare, Cass. 31.5.2003, n. 8827 e Cass. 31.5.2003, n. 8828) e
della Corte costituzionale (sent. 11.7.2003, n. 233 e ord. 12.12.2003,
n. 356) che, rimeditando ex professo
la tematica del danno risarcibile nel quadro di un’interpretazione
costituzionalmente orientata, hanno dettato le linee del nuovo
“diritto vivente”. Secondo questa impostazione – cui il
Tribunale ritiene di doversi attenere - nel concetto di danno non
patrimoniale, disciplinato dall’art. 2059 c.c. interpretato in senso
conforme ai precetti della Costituzione, rientrano tutti i pregiudizi
<<di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori
inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso
come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il
danno biologico in senso stretto, inteso come lesione
dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità
psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico
(art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed
in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di
(altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona>>
(C. cost., sent. 233/2003).
-
Benché tali affermazioni riguardino, esplicitamente, il tema
della responsabilità aquiliana – oggetto di esame nelle citate
decisioni - non vi è ragione di non farne applicazione nel settore
della responsabilità da inadempimento. Anche alla luce dei principi
appena richiamati, non si può ulteriormente condividere quel
tradizionale orientamento interpretativo che limita al solo danno
patrimoniale emergente e da lucro cessante l’area del pregiudizio
suscettibile di ristoro ai sensi dell’art. 1223 c.c. Deve
osservarsi, innanzitutto, che se è ben vero che la prestazione che
forma oggetto dell’obbligazione dev’essere suscettibile di
valutazione economica ai sensi dell’art. 1174 c.c., la stessa
disposizione espressamente dichiara che la prestazione può
corrispondere anche ad un interesse non patrimoniale del creditore.
Laddove l’interesse sia noto all’altro contraente e, addirittura,
espressamente dedotto in contratto, non vi è alcuna ragione di
limitare l’area del risarcimento ai danni patrimoniali e la dizione
letterale dell’art. 1223 c.c. non lo esige necessariamente, perché
il concetto di “perdita” utilizzato dalla disposizione ben può
riferirsi (e lo metteva già in evidenza C. cost., sent. 27.10.1994,
n. 372), oltre che al patrimonio, a valori e beni non suscettibili
d’immediata valutazione economica, come la salute, gli altri
interessi esistenziali della persona costituzionalmente garantiti, la
stessa serenità o tranquillità psicologica (per usare le parole di
Cass., sent. 8828/2003, la <<integrità morale, la cui tutela,
agevolmente ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determina una
ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento
del danno morale soggettivo>>).
-
A ben vedere, in particolare nel settore della responsabilità
contrattuale, la conseguenza d’indubbia novità che discende dal
nuovo “diritto vivente” è proprio la possibilità di ottenere il
risarcimento del danno morale in senso stretto, ciò che per lo più
si negava precedentemente al revirement
interpretativo avvenuto nella primavera/estate del 2003, richiedendosi
quale indefettibile presupposto per poter ottenere siffatta tutela
riparatoria l’avvenuta commissione di un illecito penale (ovvero,
l’espressa previsione da parte di una disposizione di legge
integrativa del rinvio operato nell’art. 2059 c.c.). Per il danno
biologico, invece, da anni la giurisprudenza consolidata ne afferma la
risarcibilità anche se il pregiudizio trovi causa soltanto in un
inadempimento contrattuale. Lo stesso dicasi, in ambito
giuslavoristico, per altre tipologie di danno squisitamente non
patrimoniale, quale la lesione della professionalità (e/o
dell’immagine, della dignità) del lavoratore demansionato in
violazione dell’art. 2103 c.c. Più di recente, una giurisprudenza
di merito che va incontrando sempre maggiori consensi – e che è
stata avallata da importanti pronunce della Corte di legittimità
(quanto alla Sezione lavoro, si considerino, per l’estrema chiarezza
e condivisibilità delle argomentazioni, Cass. 3.7.2001, n. 9009 e
Cass. 4.6.2003, n. 8904) – ha riconosciuto il risarcimento dei danni
esistenziali nel caso di lesione da inadempimento di interessi della
persona costituzionalmente garantiti diversi da quello alla salute.
Dunque, sfatato l’errato mito della natura necessariamente
patrimoniale del danno risarcibile per violazione della lex
contractus – quanto meno con riguardo al danno biologico e al
danno esistenziale - non vi è ragione di operare distinzioni, ai fini
del giudizio sull’astratta risarcibilità, tra le tre diverse
tipologie di pregiudizio, dovendosi peraltro osservare come,
<<nell’ottica della concezione unitaria della persona, (che)
la valutazione equitativa di tutti i danni non patrimoniali possa
anche essere unica, senza una distinzione…tra quanto va riconosciuto
a titolo di danno morale soggettivo e quanto a titolo di ristoro dei
pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza psichica>>
(così, Cass., sent. 8828/2003). Come si vedrà più oltre, tale
distinzione, pur non sempre indispensabile, resta tuttavia in molti
casi opportuna (così, Cass., sent. 8827/2003), perché consente d’invidividuare
e di descrivere i danni in concreto derivati e di parametrare ad essi
la liquidazione, necessariamente equitativa.
-
Deve osservarsi, ancora, come nell’ambito del rapporto di
lavoro subordinato, non possa certo dubitarsi del fatto che, in molti
casi, un interesse non patrimoniale è dedotto in contratto e ciò
vale, in particolare, proprio i profili che vengono in rilievo nel
caso di specie: per un verso, la tutela della personalità morale del
lavoratore costituisce oggetto di una specifica obbligazione del
datore di lavoro, che, per il combinato disposto degli artt. 1374 e
2087, 2^ parte, c.c., integra il contenuto del contratto; per altro
verso, alla tutela di interessi (anche) non patrimoniali del
lavoratore è chiaramente finalizzata la previsione dei limiti che
l’art. 2103 c.c. pone allo ius
variandi dell’imprenditore. Come più oltre si vedrà, del
resto, gli interessi sottostanti a tali previsioni godono certamente
della tutela costituzionale riconosciuta ai diritti inviolabili
dell’uomo.
-
Ciò premesso, occorre ora esaminare, partitamente, quali
tipologie di pregiudizio non patrimoniale siano ravvisabili nel caso
di specie, allo scopo, dapprima, di verificare se l’accertata
violazione della lex contractus
abbia effettivamente prodotto dei danni (poiché soltanto la prova
delle conseguenze pregiudizievoli in concreto patite legittima
l’accoglimento della domanda risarcitoria: cfr.: Cass., sent. 9009/2001; Cass., sentt. 8827/2003 e
8828/2003; Cass., sent. 8904/2003) e, poi, di commisurare ad essi
la liquidazione equitativa (cfr., in particolare, C. cost., sent.
372/1994).
- Quanto al danno
biologico, inteso, in senso stretto, quale pregiudizio alla salute
suscettibile di accertamento medico-legale (cfr. anche le definizioni
contenute nell’art. 13 d. lgs. 23.2.2000, n 38 e nell’art. 5, l.
5.3.2001, n. 57), la domanda non può essere accolta. Parte
ricorrente, infatti, non ha provato di aver subito – in conseguenza
delle condotte inadempienti poste in essere dalla convenuta – un
siffatto tipo di danno apprezzabile dal punto di vista medico e
valutabile nelle sue conseguenze. Ed invero:
- non è stato prodotto
alcun certificato medico comprovante la sussistenza e la gravità di
una patologia, né sono stati allegati pareri medici di parte;
- il teste al proposito
indicato – lo psichiatra dell’ASL n. 10 dott. Lezza – ha
riferito che il ricorrente si rivolse a lui, lamentando disturbi
d’ansia, umore triste, sintomatologia da attacchi di panico, in
quattro periodi: con una certa continuità (una volta ogni 30-45
giorni) dal 1994 al 1996; nuovamente nel 1998, per due o tre volte;
una volta nel novembre 2001; una volta nel 2003;
- sin dal 1994, il
ricorrente disse al medico del SSN che la causa del suo malessere era
legata a (non meglio precisati) problemi sul lavoro (aggravatisi nel
2003, quando, ha riferito il dott. Lezza, <<la situazione era
precipitata e c’erano attacchi di panico>>) e la terapia
consigliata fu sempre la medesima: farmaci tranquillanti e
antidepressivi.
- Tali elementi
istruttori giustificano due rilievi: in primo luogo, la patologia fu
di carattere meramente temporaneo e ciclico e può essere ricondotta
alla diagnosi, lato sensu,
di stress; essa, tuttavia, era pregressa ai fatti per cui è causa (i
problemi insorsero e si protrassero per periodi di tempo più lunghi
tra il 1994 e il 1998), mentre nel periodo del mobbing
vi fu una sola visita medica (quando, peraltro, la situazione
lavorativa stava precipitando: fine novembre 2001) e, nel periodo
successivo, una sola visita medica in corso di giudizio (anno 2003).
Utilizzando massime di comune esperienza, può ritenersi che, quanto
meno a livello di concausa, il riacutizzarsi dei precedenti problemi
di stress nelle ultime due
occasioni sia stato dovuto, rispettivamente, alle condotte mobbizzanti
e alla situazione di disagio e di timore per il futuro ingenerata dal
licenziamento, ma l’assenza di elementi di prova circa la gravità e
la durata della patologia hanno indotto il Tribunale a non accogliere,
per irrilevanza, la richiesta di CTU medico-legale avanzata dalla
difesa di parte ricorrente: la CTU, invero, è mezzo di valutazione
della prova, e, in difetto di acquisizioni probatorie sul punto, non
v’era nulla che potesse essere posto a base di un accertamento
valutativo demandabile ad un consulente. E’, pertanto, impossibile
individuare e, soprattutto, quantificare un vero e proprio danno
biologico.
Gli episodi di stress
riferiti dal dott. Lezza nel novembre 2001 e nel 2003, peraltro,
possono invece essere valutati quali elementi indiziari per la prova
della sussistenza degli altri due profili di pregiudizio in cui può
astrattamente scomporsi il danno non patrimoniale, vale a dire il
danno morale e il danno esistenziale.
-
Quanto al danno esistenziale, deve premettersi che le
richiamate decisioni della Corte di Cassazione e della Corte
costituzionale (cui adde, di
recente, Cass. pen. 22.1.2004, n. 2050) hanno definitivamente
acclarato la sua dignità di paradigma risarcitorio di natura non
patrimoniale, che si affianca alle altre due tradizionali figure. Come
questo Tribunale ha già avuto modo di osservare, esso ha la
caratteristica di abbracciare quelle compromissioni dell’esistenza
quotidiana che siano “naturalisticamente” accertabili e
percepibili, traducendosi in modificazioni peggiorative del normale
svolgimento della vita lavorativa, familiare, culturale, di svago,
laddove il danno morale è un pati
interiore che prescinde da qualsiasi ricaduta sull’agire umano. E’
ben vero che la sofferenza, l’angoscia, il malessere psichico (non
rilevante come patologia medica) possono indurre sostanziali
cambiamenti nell’esistenza quotidiana; occorre tenere conto,
tuttavia, che, per un verso, non sempre ciò accade e, per altro
verso, laddove tale consequenzialità si apprezzi saranno ravvisabili
due distinte “voci” di danno, sicché, sul piano della
liquidazione – necessariamente equitativa - occorrerà valutare
attentamente, e distintamente, la natura e la gravità dei diversi
profili di pregiudizio per indennizzare “tutto” il pregiudizio,
evitando, però, duplicazioni risarcitorie. Dal danno biologico - che,
pure, rientra in una concezione lata di danno esistenziale, posto che,
in tal caso, ciò che si risarcisce non è la lesione psico-fisica in
sé, ma la ricaduta che essa produce sull’agire non reddituale del
danneggiato (cfr. C. cost., sent. 372/1994) - il danno esistenziale
(in senso stretto) si distingue a seconda che, a monte, vi sia una
lesione del bene della salute fisica o psichica (accertabile con una
consulenza medico-legale), ovvero l’iniuria concerna la lesione di altri beni della persona
giuridicamente rilevanti (e costituzionalmente garantiti, secondo le
citate decisioni rese nel 2003 dalla Corte Suprema e della Corte
costituzionale).
- Nel caso di specie, un
danno esistenziale può innanzitutto dirsi accertato nel periodo in
cui il ricorrente fu vittima del demansionamento e della condotta
mobbizzante posta in essere ai suoi danni, in violazione degli artt.
2103 e 2087 c.c., dal febbraio 2000 al momento del licenziamento.
Giustamente, ad avviso del giudicante, in ricorso non si è fatto
richiamo all’equivoco concetto di “danno alla professionalità”,
che pure viene normalmente evocato in giurisprudenza nei casi di
violazione dell’art. 2103 c.c. Come questo Tribunale ha già avuto
modo di osservare, si tratta di una categoria disomogenea, cui sono
stati ricondotti pregiudizi di svariata natura, i quali si fondono (e
si confondono) in un contenitore che, a ben vedere, appare, per un
verso privo di coerenza logica e sistematica e, per altro verso,
foriero di complicazioni processuali, sia quanto al problema della
prova del pregiudizio, sia quanto alla sua liquidazione. La difesa di
parte ricorrente ha invece richiamato il demansionamento quale
“tassello” della più ampia fattispecie del mobbing
e, tra le altre, ha lamentato, quali conseguenze di natura non
patrimoniale, la lesione della dignità del lavoratore e la
compromissione della vita di relazione, vale a dire profili di
pregiudizio che, anche quando dipendono dalla violazione dell’art.
2103 c.c. (cfr. Cass., sent. 8828/2003),
debbono correttamente essere inquadrati nel figura del danno
esistenziale, inteso come sconvolgimento della vita lavorativa – ma
anche familiare e sociale.
- Nel periodo oggetto di
causa, in effetti, TOTA fu costretto a subire indebite, ed
illegittime, compressioni nello svolgimento della sua attività
lavorativa, essendo stato adibito a a svolgere mansioni inferiori a
quelle da ultimo disimpegnate, con il progressivo svuotamento di esse
e la riduzione ad uno stato di pressoché totale inattività, sino
all’estromissione dall’ambiente di lavoro. Della progressiva
diminuzione dell’impegno di lavoro di TOTA hanno riferito molti
testimoni e l’hanno confermata gli stessi responsabili
aziendali, sia pur nell’ottica – della cui inefficacia ai fini di
escludere l’inadempimento dell’azienda più sopra già si è detto
– della oggettiva diminuzione di lavoro in quel settore di attività
(cfr. dichiarazioni del procuratore speciale DISTEFANO e dei testi
PARINI, SICILIANO, PORTOGALLO). Delle ripercussioni che ciò aveva sul
ricorrente ha significativamente riferito il collega che, per ragioni
di amicizia, aveva con lui contatti frequenti (MOLINO): <<il
fatto di essere stato messo da parte ebbe per lui uno scombussolamento
enorme e questo ebbe ripercussioni anche in famiglia, perché non era
più riconoscibile il Tota di una volta>>. Che la preoccupazione
del ricorrente fosse quella di non far ricadere, oltre modo, sulla
famiglia gli effetti delle vessazioni subite sul lavoro ha riferito
anche il teste dott. Lezza.
- Nella complessiva
condotta inadempiente posta in essere dalla convenuta, peraltro, è
agevole scorgere la lesione di numerosi diritti inviolabili della
persona esplicitamente garantiti dalla nostra Costituzione, sicché,
anche per questa ragione, non può dubitarsi della risarcibilità del
corrispondente danno non patrimoniale. Si pensi al diritto a
realizzare se stessi nell’ambiente di lavoro (che, indubbiamente, è
una di quelle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità
e a cui si riferisce l’art. 2 Cost.), alla dignità del prestatore
di lavoro subordinato (che, ai sensi dell’art. 41, comma 2, Cost. è
interesse prevalente rispetto alla libera iniziativa economica
privata), ma anche, a causa dell’illegittimo licenziamento, allo
stesso diritto al lavoro (art. 4 Cost.) e al diritto a percepire una
retribuzione che consenta al lavoratore e alla sua famiglia di
condurre un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, comma 1, Cost.,
norma di cui la Corte di cassazione ha esplicitamente affermato la
finalità di tutela di interessi costituzionalmente garantiti della
persona e che ha indicato, in caso di sua violazione, come possibile
fonte di danni esistenziali: cfr. Cass., sent. 9009/2001).
-
Le medesime condotte, peraltro, hanno determinato nel TOTA
anche un apprezzabile danno morale inteso in senso stretto,
come turbamento psichico. Ciò si ricava, per un verso, dal
riacutizzarsi degli episodi di stress
di cui già si è detto e, per altro verso, dalla particolare
personalità del ricorrente e dall’impiego di massime di comune
esperienza. Molti testi, invero, hanno riferito dell’importanza che
per TOTA rivestiva il proprio lavoro in C.R.& S.: <<Tota era
un tipo che dava tutto all’azienda: se non riusciva a finire
qualcosa rimaneva anche il sabato e la domenica>> (MOLINO);
<<Tota ha sempre dato tutto quello che aveva>> (RAVERA). E
il fatto di essere stato messo emarginato sul luogo di lavoro gli
provocava a tal punto sofferenze morali da risultare percepibili anche
a coloro che lavoravano con lui; si considerino (oltre alle
dichiarazioni di MOLINO, sopra riportate) le seguenti affermazioni;
<<si vedeva che Tota non viveva felicemente, ma non saprei
quanto questo influisse sul suo stato di salute>> (CORBELLETTI);
<<ricordo che quando tornò da Melfi Tota non era contento della
situazione…Quando uscii dall’azienda non mi interessai più di
nulla, e ho saputo qualcosa solo da ex
colleghi e anche da Tota. Mi è stato detto che il ricorrente si
interessò ancora di preventivi, ma so che non era contento ed era un
po’ emarginato>> (RAVERA).
-
Può dunque ritenersi provato che il demansionamento e la più
generale condotta vessatoria commessa in danno di TOTA abbiano
determinato danni morali e, tenendo conto dell’attaccamento al
lavoro del ricorrente, della sua età e della difficoltà di trovare
un posto di lavoro nel settore in cui egli ha sempre operato e ha
conseguito una specifica professionalità (a causa della notoria crisi
del mercato dell’auto), può ritenersi provato, anche ai sensi
dell’art. 2729 c.c., che pure l’illegittimo licenziamento sia
stato un duro colpo per il ricorrente, sicché la condanna al
risarcimento del danno ulteriore rispetto a quello, meramente
patrimoniale, considerato nell’art. 18 Stat. Lav., deve estendersi
anche alla pecunia doloris
(oltre che ad alcuni pregiudizi tipici del danno esistenziale, di cui
più oltre si dirà).
- Nella prospettazione
di parte ricorrente, invero, il licenziamento viene in considerazione
quale ultimo “tassello” della complessiva fattispecie di mobbing, sicché pure alle negative conseguenze di tale atto
illegittimo si è fatto riferimento nella richiesta del danno non
patrimoniale. D’altronde, ciò non è escluso dall’art. 18 Stat.
Lav., il quale non deroga, se non entro limiti ben circoscritti, alle
ordinarie norme sul risarcimento del danno da inadempimento
contrattuale. La disposizione, invero, si limita a dettare una
presunzione iuris et de iure
di danno (pari a cinque mensilità della retribuzione) e una
presunzione iuris tantum con
riguardo al danno patrimoniale da perdita delle retribuzioni,
consentendo tuttavia, a quest’ultimo proposito, sia al datore di
lavoro di fornire la prova che il danno in concreto subito è stato
minore o addirittura inesistente (cfr., di recente, Cass., S.U.,
3.2.1998, n. 1099), sia, parallelamente, al lavoratore di dimostrare
di aver subito danni maggiori e diversi da quelli che trovano
riparazione nella liquidazione delle retribuzioni perdute (cfr., con
riguardo al danno biologico, Cass. 9.4.2003, n. 5539 e, con riguardo
al danno da dequalificazione professionale, Cass. 13.7.2002, n.
10203).
-
Passando ora alla liquidazione del danno, è evidente che essa
può avvenire soltanto in termini equitativi che debbono avere
riguardo alla natura, all’intensità e alla durata delle
compromissioni esistenziali e delle sofferenze morali che si sono
rilevate. Quanto al danno esistenziale, in assenza di altri parametri
oggettivi – e non apparendo opportuno fare riferimento ad un
criterio di natura patrimoniale come quello della retribuzione per
liquidare il danno alla persona (che colpisce i danneggiati in modo
indipendente dalle loro capacità di reddito) – ritiene il
giudicante che possa seguirsi un metodo in qualche modo analogo a
quello comunemente utilizzato dai giudici di merito per risarcire il
danno biologico temporaneo. Già si è posto in evidenza, infatti, la
similitudine sussistente tra le due “voci” di danno in questione,
entrambe contraddistinte dalle ricadute sul concreto dispiegarsi della
vita del soggetto leso. Se, dunque, una lesione psico-fisica che
annulli del tutto, per un certo tempo, le possibilità del soggetto di
dedicarsi alle normali attività (c.d. inabilità temporanea totale)
trova equo ristoro – secondo canoni di valutazione comunemente
condivisi dalla giurisprudenza di merito del distretto – in una
somma che si aggira sui 50 Euro al dì, la compromissione delle
attività realizzatrici della persona evidenziata nel caso di specie
può essere assimilata alla inabilità temporanea parziale conseguente
a malattia.
Nel caso di specie, il danno esistenziale subito per il
peggioramento della vita lavorativa dev’essere liquidato in
relazione al periodo di tempo dedicato al lavoro (vale a dire,
trattandosi di rapporto a tempo pieno, ripartito su cinque giorni
lavorativi a settimana, 8 ore al giorno per 22 giorni al mese) e si
deve considerare che, sino a quando TOTA rimase a lavorare con RAVERA
nell’ufficio utilizzo fattori (aprile 2001), la sua capacità di
realizzarsi nel mondo del lavoro non fu totalmente compromessa, mentre
la compromissione fu preossoché totale nel periodo successivo.
Occorre, inoltre, tenere conto del fatto – riferito dal ricorrente
in sede d’interrogatorio libero – che successivamente al suo
ritorno da Melfi, come accadde per altri suoi colleghi, in
concomitanza alla riduzione del lavoro della C.R.& S., egli fruì
di ferie arretrate per complessivi sei mesi.
- Dal febbraio 2000 al
licenziamento, dunque, trascorsero 22 mesi, di cui soltanto 16
dedicati concretamente al lavoro, sicché la compromissione della vita
lavorativa può considerarsi parziale per 8 mesi e quasi totale negli
ultimi otto mesi di lavoro, da aprile al licenziamento. Secondo i
criteri più sopra indicati, si stima dunque equo compensare con 15
Euro per ciascun giorno lavorativo il danno esistenziale subito
nell’ultimo periodo, per complessivi 2.640,00 Euro (15x22x8), e con
7,5 Euro al dì il danno subito nel periodo precedente, per
complessivi 1.320,00 Euro (7,5x22x8). Il danno esistenziale da
demansionamento e mobbing
maturato sino al licenziamento ammonta quindi a 3.960,00 Euro.
-
Quanto al danno morale subito nel medesimo periodo, reputa il
giudicante che, anche in questo caso, possa adottarsi il sistema
comunemente seguito in giurisprudenza per liquidare tale “voce” di
pregiudizio quando essa si cumuli con il danno biologico, e ciò sul
presupposto che il grado della sofferenza patita dal danneggiato
dipenda dalla gravità della compromissione esistenziale da lui subita
(sia essa dipendente dalla violazione del diritto alla salute, sia
essa conseguente alla violazione di altri diritti costituzionalmente
protetti). Tenendo conto della situazione di fatto sin qui descritta,
questo giudice stima dunque equo indicare nel 30% del danno
esistenziale l’importo liquidabile a titolo di pecunia doloris, per complessivi 1.188,00 Euro.
-
Quanto al danno non patrimoniale subito in conseguenza
dell’illegittimo licenziamento, occorre considerare, innanzitutto,
il notevole “impatto” emotivo che, in una persona come TOTA (per
il suo attaccamento al lavoro e per la consapevolezza della difficoltà
di trovare un’altra occupazione), l’unilaterale recesso
dell’azienda produsse nel periodo immediatamente successivo alla sua
comunicazione. Si tratta, com’è evidente, di danno psichico puro
che, per la sua gravità, può trovare equo ristoro nella somma di
5.000,00 Euro. In secondo luogo, deve tenersi conto del danno non
patrimoniale (esistenziale e morale) patito nel periodo intercorrente
tra il licenziamento e la data della sentenza, caratterizzato –
secondo massime di comune esperienza, e in assenza di prova di altre,
specifiche, compromissoni (ad esempio a livello familiare) – dalla
necessità di attivarsi nella ricerca di un nuovo posto di lavoro, nel
fastidio e nell’impegno connesso alla tutela dei propri diritti in
fase stragiudiziale e giudiziale, nell’ansia e nello stress
(peraltro confermato dal teste LEZZA) derivanti dalla consapevolezza
di dover trovare una nuova occupazione e dalla frustrazione di non
riuscire nell’intento. Questo giudice reputa equo compensare questi
pregiudizi nella somma forfetaria di 150 Euro al mese. Essendo
trascorsi 27 mesi dal licenziamento alla sentenza, spettano a tal
titolo 4.050,00 Euro.
-
La convenuta deve pertanto essere condannata a risarcire al
ricorrente il danno non patrimoniale nella complessiva misura di
14.198,00 Euro. Trattandosi di somma liquidata a valori attuali, gli
accessori – interessi legali e rivalutazione monetaria – decorrono
dalla data della sentenza al saldo.
-
Alla soccombenza della C.R.& S. segue altresì l’obbligo
di rimborsare al ricorrente le spese di lite. Dalla nota spese
presentata dal procuratore – nota altrimenti congrua, in relazione
al valore e alla difficoltà della causa – debbono essere defalcate
le “voci” relative all’attività (non ripetibile, perché
addebitabile alla parte vittoriosa) di riassunzione del giudizio a
seguito del perfezionamento della condizione di procedibilità in
origine mancante e dev’essere ridotto l’onorario per “assistenza
ai mezzi di prova”, equo essendo l’importo di 300,00 Euro per
ciascuna delle sei udienze in cui si è proceduto agli incombenti
istruttori. Le spese di giudizio devono quindi essere liquidate in
complessivi 8.153,86 Euro, di cui 2.958,31 per diritti, 4.304,83 per
onorari, 38,40 per spese imponibili, 798,94 per rimborso spese
generali e 126.01 per esposti, oltre IVA e CPA su imponibile.
- P.Q.M.
- visto l'art. 429
c.p.c.,
- disattesa ogni altra
istanza,
- accerta e dichiara
l’illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente con
lettera del 6.12.2001 e condanna parte convenuta a reintegrare il
lavoratore nel posto di lavoro e a corrispondergli un’indennità
commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del
licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, oltre
rivalutazione monetaria ed interessi legali da ogni scadenza mensile
al saldo, e a versare i relativi contributi assistenziali e
previdenziali.
- Dichiara altresì
tenuta e condanna la parte convenuta a risarcire al ricorrente il
danno non patrimoniale patito, liquidato in 14.198,00 Euro, oltre
rivalutazione monetaria ed interessi legali da oggi al saldo.
- Condanna
la convenuta a rimborsare al ricorrente le spese di lite, liquidate in
complessivi Euro 8.153,86 – di cui 126,01 per esposti - oltre IVA e
CPA su imponibile.