MOBBING E RISARCIMENTO DANNI BIOLOGICO E MORALE

 

TRIBUNALE DI PINEROLO, sez. lav. 1° grado, 21 giugno 2004 – Giud. Reynaud - C. L. c. G. F. S.r.l. e c. LA FONDIARIA Assicurazioni S.p.A.

 

Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo - Illegittimità - Riassunzione o pagamento dell’indennità massima di cui all’art. 2 legge n. 108/1990 - Responsabilità ex art. 2087 c.c. per mobbing – Sussistenza – Liquidazione danno biologico temporaneo e, danno morale nella misura del 50% del danno biologico temporaneo e, danno patrimoniale - Responsabilità del terzo chiamato al pagamento del danno biologico temporaneo e patrimoniale.

 

Secondo la psicologia del lavoro, il modello italiano di mobbing consterebbe di uno stadio iniziale e di sei fasi successive che sono state così descritte: «dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale ... la seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing, nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio ... La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute ... La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori e abusi dell'amministrazione del personale ... La quinta fase del mobbing è quella dell'aggravamento delle Condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione ... la sesta fase, peraltro indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti» (v. Trib. Forlì, sent. 15.3.2001).

Se questo è il mobbing, certamente il caso di specie - come si vedrà quando si darà conto delle risultanze istruttorie - può essere ricondotto a pieno titolo a tale fenomenologia. L'istruttoria espletata ha consentito di appurare che, dal 1995, il ricorrente fu "preso di mira" dal dirigente della convenuta C. L. e fu sottoposto ad un lento, ma inesorabile, logorio psico-fisico all'evidente (e dichiarato) scopo di indurlo a rassegnare le proprie dimissioni. Che la condotta persecutoria tenuta dai dirigenti dell'azienda sin dal 1995 e culminata nel licenziamento intimato il 14.2.2000 abbiano provocato un grave danno alla salute del ricorrente è fuori discussione. Risultando rispettati i criteri dell'efficienza causale, della compatibilita cronologica e dell'assenza di cause diverse, per la ricostruzione più sopra operata non v'è dubbio che la depressione accusata dal ricorrente sin dall'ottobre 1999 - quando ebbe il crollo psico-fisico di cui si è detto in concomitanza con l' adibizione al turno notturno ai forni e subito dopo l'apertura di un conflitto conclamato con il datore di lavoro - sia ascrivibile alla, ricevuta violazione degli artt. 2087 e 1375 c.c. da parte dell'azienda. La connotazione patologica di tali disturbi - anche dei secondo - affonda le proprie radici nei vissuti frustranti e stressanti sul luogo di lavoro di cui si è detto e ha determinato un danno alla salute che il CTU definisce «permanente quantificabile in grado di 30%, di cui il 50% ascrivibile alla personalità (distimia 15% + disturbo istrionico di personalità 15%=30%)». La responsabilità contrattuale della società convenuta. Le condotte da ultimo menzionate -poste in essere dai dirigenti della società, con dolo (ritorsivo) nel caso di L. e quanto meno con colpa nel caso di G. (supportato, nelle decisioni da ultimo assunte, dal legale rappresentante G.) - sono certamente ascrivibili alla convenuta e, senza affrontare il tema della responsabilità da fatto illecito (non evocato in ricorso), determinano certamente responsabilità contrattuale della medesima, che non ha assolto all'onere della prova, che le incombeva, di aver fatto tutto il possibile per adempiere al precetto di cui all'ara. 2087 (e 1375) c.c. e di aver fatto legittimo uso del potere di licenziamento. Sul piano risarcitorio, le conseguenze sono di diverso tipo. Quanto all' illegittimo licenziamento, essendo pacifico che si versa nell'ipotesi di stabilità obbligatoria del rapporto di lavoro, le conseguenze sono quelle descritte nell'art. 8 1. 604/1966, come modificato dall'art. 2, comma 3. 1. 108/1990. La società convenuta deve quindi essere condannata a riassumere il ricorrente nel termine di tre giorni o, in difetto, a corrispondergli una indennità che appare equo quantificare nella misura di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Quanto al danno biologico, atteso che la inabilità temporanea parziale era notevole, può trovare equo ristoro, ad avviso del Tribunale, nella somma di 25 Euro al dì, per complessivi 10.925, 00 Euro. Quanto alla richiesta di danno morale avanzata in ricorso pure nel quadro di un'azione risarcitoria per inadempimento contrattuale,  essa è parimenti dovuta, secondo il nuovo "diritto vivente" ricostruibile sulla scorta di recenti, importanti, decisioni delle Supreme Corti.

Si allude alle pronunce della Corte di cassazione (v., in particolare, Cass. 31.5.2003, n. 8827 e Cass. 31.5.2003, n. 8828) e della Corte costituzionale (sent. 11.7.2003, n. 233 e ord. 12.12.2003, n. 356) che hanno rimeditato ex professo la tematica del danno risarcibile nel quadro di un'interpretazione costituzionalmente orientata. Secondo questa impostazione - cui il Tribunale ritiene di doversi attenere -nel concetto di danno non patrimoniale, disciplinato dall'art. 2059 c.c. interpretato in senso conforme ai precetti della Costituzione, rientrano tutti i pregiudizi «di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona» (C. cost, sent. 233/2003).

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorsi rispettivamente depositati il 20 e il 21 giugno 2002 - e poi riuniti - C. L. e la G. F. Srl riassumevano tempestivamente avanti a questo Tribunale il giudizio tra di loro pendente precedentemente incardinato avanti al Tribunale di Torino e da questo definito con sentenza d'incompetenza per territorio del 26.3.2002. Il giudizio qui riassunto riguarda due cause connesse per accessorietà e a suo tempo già riunite dal Tribunale di Torino.

La causa principale fu iniziata con ricorso depositato il 5.2.2001 da C. L. avanti al Tribunale di Torino. Deduceva il ricorrente: di essere stato assunto dalla G. F. Srl, società che gestisce una piccola fabbrica di mattoni, il 17.5.1987; di essere stato addetto a diverse mansioni e di aver imparato a lavorare su tutte le postazioni di lavoro della convenuta, in particolare alla principale macchina del processo produttivo, la mattoniera; di aver goduto, sino alla metà degli anni '90, della fiducia e della stima del datore di lavoro, che gli aveva assegnato in godimento gratuito, per sé e la propria famiglia, un appartamento all'interno del complesso aziendale; di essere successivamente stato vittima di una situazione di mobbing determinata dal direttore di stabilimento della convenuta, C. L.; di essere quindi stato estromesso dalle mansioni di responsabilità che prima gli erano assegnate e di essere stato frequentemente adibito a svolgere faticose mansioni di manovale alla fornace; di aver conseguentemente cominciato ad accusare disturbi di natura nervosa e psicologica che determinarono l'insorgere e l'aggravarsi di una crisi depressiva; di aver subito un "crollo" nervoso all'inizio dell'autunno del 1999, quando, nonostante le sue lamentele di continuare a ricoprire la mansione di addetto forno, fu comunque comandato a svolgere quelle funzioni (e, addirittura, richiamato appositamente dalle ferie qualche giorno prima della scadenza del periodo concordato); di aver avuto dei malori in azienda e di essere conseguentemente caduto in malattia dal 18.10.1999; di essere poi stato licenziato, senza riprendere l'attività lavorativa, con lettera del 14.2.2000 per asserite esigenze di riassetto organizzativo. Ciò premesso, in primo luogo, il ricorrente lamentava l'illegittimità della condotta di mobbing e di demansionamento tenuta nei suoi confronti, allegava esserne derivata una malattia psicologica con danno biologico e chiedeva quindi condannarsi il datore di lavoro al risarcimento di tale danno, del connesso danno morale e del danno patrimoniale per spese e terapie da liquidarsi sino alla data del ricorso, nonché del danno da dequalificazione professionale subito a partire dal 1 .2 1997 (quando fu comandato per un periodo di circa dieci mesi continuativi alla postazione forni). In secondo luogo, il ricorrente impugnava il licenziamento intimato - ritenendo trattarsi di atto ritorsivo e comunque sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo - e concludeva ai sensi dell'ari. 8 1. 606/1966, come modificato dall'ari 2, comma 3, 1. 108/1990. Da ultimo, allegando di aver svolto lavoro straordinario non retribuito, chiedeva la condanna del datore di lavoro al pagamento di differenze retributive.

In tale giudizio si costituì ritualmente la società convenuta, contestando specificamente la narrativa avversaria rispetto a tutte le allegazioni, sia con riguardo al preteso mobbing (in relazione al quale si sottolineavano gli ottimi rapporti personali tra il ricorrente e il dirigente L. e le rispettive famiglie), sia con riguardo alla dedotta dequalificazione (osservandosi che anche le mansioni di addetto forno rientravano nel livello d'inquadramento attribuito al ricorrente), sia con riguardo al lamentato danno biologico e alle richieste differenze retributive (rispetto alle quali si eccepiva altresì l'intervenuta prescrizione). In relazione al licenziamento, la società convenuta sosteneva il giustificato motivo oggettivo (causa riduzione della produzione) e soggettivo (trattandosi di lavoratore non idoneo a ricoprire tutte le mansioni). La difesa della società convenuta chiedeva, pertanto la reiezione delle domande e, in via subordinata, nel caso di riconoscimento del danno biologico ex adverso richiesto, chiedeva di essere autorizzata a citare in giudizio la FONDIARIA ASSICURAZIONI Spa - con qui aveva stipulato polizza relativa anche alle Malattie professionali contratte dai dipendenti - per essere da questa manlevata in caso di denegata condanna.

Nella causa riunita - iniziata con ricorso depositato dalla G. F. Srl avanti al Tribunale di Pinerolo il 12.1.2001 - la società convenne in giudizio l'ex dipendente per sentire dichiarare la legittimità del licenziamento intimatogli (già stragiudizialmente impugnato dal lavoratore) e la conseguente abusiva occupazione da parte sua dell'appartamento aziendale concessogli in comodato nel periodo successivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, con richiesta di condanna del medesimo ad una indennità compensativa da liquidarsi in via equitativa e, in via subordinata, da compensarsi con quanto eventualmente ritenuto dovuto al C. nel denegato caso di ritenuta illegittimità del licenziamento.

Nel costituirsi (tardivamente) in tale causa, C. L. chiese la reiezione delle domande ex adverso azionate e, in via riconvenzionale, rinnovò le deduzioni, allegazioni e conclusioni proposte nel ricorso da lui depositato avanti al Tribunale di Torino, chiedendo che il Tribunale di Pinerolo si spogliasse della causa intentata dalla G. F. Srl per consentirne la riunione a quella pendente avanti al tribunale del capoluogo del distretto.

Il Tribunale di Pinerolo, riconoscendo la accessorietà della causa avanti a sé intentata rispetto a quella pendente avanti al Tribunale di Torino, dichiarò la connessione tra le due cause, in applicazione dell'art. 40 c.p.c., rimettendo le parti avanti a quest'ultimo tribunale, che, come detto, provvide poi alla riunione dei giudizi e si pronunciò nel senso della propria incompetenza per territorio.

A seguito della riassunzione delle cause riunite ad opera di entrambe le parti avanti a questo Tribunale, i separati fascicoli erano quindi riuniti e si autorizzava la chiamata in causa della FONDIARIA ASSICURAZIONI Spa.

Costituendosi ritualmente in giudizio, il terzo chiamato contestava la responsabilità della società convenuta in relazione al preteso danno biologico, nonché l'operatività della garanzia - in particolare perché la malattia non si riferirebbe all'ambito di operatività di cui al D.P.R. 1124/1965 (cui la polizza di assicurazione fa rinvio quale rischio dedotto in contratto), perché non sarebbe comunque imputabile a colpa del datore di lavoro e, in ogni caso, perché riferibile a condotte iniziate in epoca precedente alla stipula del negozio - e concludeva come in epigrafe trascritto, rilevando peraltro come la propria responsabilità potrebbe configurarsi soltanto nel limite del massimale di polizza.

Anche al fine di favorire un'eventuale conciliazione, su richiesta di tutte le parti, il giudice disponeva procedersi a CTU medico-legale per accertare natura ed entità della patologia Lamentata da C. L. e il consulente incaricato, dott. Si. B., provvedeva ad espletare l'incarico depositando relazione scritta.

Fallita la conciliazione, all'udienza del 23.12.2003 il giudice interrogava liberamente le parti e, nelle successive udienze, procedeva poi all'assunzione dei numerosi testimoni indicati.

Terminata l'istruttoria, all'udienza del 21.6.2004 i procuratori discutevano la causa richiamando le conclusioni in atti - salva la domanda relativa alla condanna della società al pagamento delle differenze retributive per lavoro straordinario, domanda esplicitamente rinunciata in corso di causa, con rinuncia accettata dalla convenuta - e il Giudice pronunciava sentenza dando lettura del dispositivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il c.d. mobbing. Prima di esaminare i fatti di causa, considerata l'impostazione e la chiave di lettura date in ricorso, occorre fare qualche premessa sulla nozione e sulla considerazione giuridica del mobbing, un fenomeno - da tempo oggetto di studio da parte delle scienze sociologiche e psicologiche - che è approdato nelle aule di giustizia italiane nel 1999. Costituisce fatto notorio che - sia pur con una certa approssimazione - il fenomeno in parola consiste in una condotta vessatoria, reiterata e duratura, individuale o collettiva, rivolta nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori gerarchici (mobbing verticale) e/o colleghi (mobbing orizzontale), oppure anche da parte di sottoposti nei confronti di un superiore (mobbing ascendente); in alcuni casi si tratta di una precisa strategia aziendale finalizzata all'estromissione del lavoratore dall'azienda (bossing). I numerosi progetti di legge presentati in Parlamento, nella trascorsa e nell'attuale legislatura, per disciplinare il mobbing e le sue conseguenze non hanno sortito esito. Anche l'unica indicazione normativa, contenuta nella L.R. Lazio, 11 luglio 2002, n. 16, rubricata Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del "mobbing" nei luoghi di lavoro - il cui art. 2, comma 1, affermava che «per "mobbing" s'intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, Posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale» - è caduta a seguito della declaratoria d'illegittimità costituzionale della legge per violazione dell'art. 117 Cost. (Corte cost, sent. 10-19.12.2003, n. 359).

Da alcuni precedenti giurisprudenziali di merito che hanno esaminato funditus il problema e che hanno fatto ricorso, in sede di CTU, a cognizioni scientifiche, si apprende che, secondo la psicologia del lavoro, il modello italiano di mobbing consterebbe di uno stadio iniziale e di sei fasi successive che sono state così descritte: «dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale ... la seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing, nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio ... La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute ... La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori e abusi dell'amministrazione del personale ... La quinta fase del mobbing è quella dell'aggravamento delle Condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione ... la sesta fase, peraltro indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti» (v. Trib. Forlì, sent. 15.3.2001).

Se questo è il mobbing, certamente il caso di specie - come si vedrà quando si darà conto delle risultanze istruttorie - può essere ricondotto a pieno titolo a tale fenomenologia. Reputa, tuttavia, il Tribunale che, al di là della questione delle "etichette" e in assenza di una disciplina normativa che ricolleghi ad un fenomeno chiamate "mobbing" certe, determinate, conseguenze giuridiche, non metta conto soffermarsi ulteriormente sulla questione definitoria, né abbia importanza appurare quale considerazione meriti il caso in esame nell'ambito della psicologia del lavoro. Per questa ragione - non essendovi stata, peraltro, richiesta di parte - questo giudice non ha ritenuto rilevante disporre un'apposita consulenza tecnica d'ufficio. Ciò che rileva, invece, è analizzare se le condotte vessatorie lamentate in ricorso e i pregiudizi che si allega esserne derivati abbiano fondamento e se possano condurre all'accoglimento delle domande di risarcimento danni avanzate. Così posta, la questione è eminentemente giuridica e dev'essere valutata alla luce delle disposizioni del codice civile evocate in ricorso, in particolare dell'art. 2087 (letto anche alla stregua degli artt. 1175 e 1375) c.c. sul piano della responsabilità contrattuale. Occorre, dunque, verificare se nei fatti lamentati dal ricorrente siano ravvisabili, da un lato, una situazione d'inadempimento contrattuale e, d'altro lato quale conseguenza - dei danni risarcibili. Sulla scorta delle prove assunte, ad entrambi i quesiti deve darsi risposta affermativa.

2. La violazione dell'art. 2087 c.c. L'istruttoria espletata ha consentito di appurare che, dal 1995, il ricorrente fu "preso di mira" dal dirigente della convenuta C. L. e fu sottoposto ad un lento, ma inesorabile, logorio psico-fisico all'evidente (e dichiarato) scopo di indurlo a rassegnare le proprie dimissioni.

L'episodio scatenante la condotta aggressiva posta in essere da Lo. nei confronti di C. è stato specificamente individuata ed è collocabile nel corso del 1995. Tutto nacque da un forte rimprovero subito dal ricorrente per aver posto in essere una manovra meccanica non proprio ortodossa - ma che, a quanto pare, si faceva con il beneplacito del capoofficina Bo. - vale a dire l'impiego di un martello per correggere, con la forza, il difetto di funzionamento di una nuova macchina. Non si trattò di un banale rimprovero, ma di una "sfuriata" di intensità tale da lasciare il segno, non solo nel ricorrente, che la subì, ma pure nei colleghi di lavoro, che, a distanza di anni, ben ricordavano l'episodio (peraltro rammentato dallo stesso legale rappresentante della convenuta G.). Ciò che suscitò l'ira del Lo. non fu l'episodio in sé, bensì la reazione del C., che, ritenendo di non meritare quel violento rimprovero, reagì e pretese di discutere della questione davanti al legale rappresentante G., cosa che effettivamente avvenne. Di qui la caduta in disgrazia del ricorrente agli occhi del superiore.

La personalità di C. Lo. emerge in modo chiaro dalle dichiarazioni rese dai numerosi lavoratori escussi come testimoni: il dirigente era e si comportava, presso l'azienda della convenuta, come una sorta di "padre-padrone". Godendo evidentemente dell'assoluta fiducia della società, iI Lo. dirigeva il processo produttivo e tutto il personale, dal quale esigeva, oltre che una dedizione totale al lavoro, un'incondizionata obbedienza e subalternità, facendosi lecito di insultare pressoché quotidianamente i dipendenti. Per contro, a richiesta, il geom. Lo. si manifestava disponibile ad interessarsi delle cose anche private dei "suoi" dipendenti, dando loro consigli, adoperandosi per fare avere loro benefìci (sul piano lavorativo ed extralavorativo), quasi come un modo per consolidare ulteriormente l'enorme potere di cui egli godeva in azienda. La reazione posta in essere da C. di fronte alla mortificazione subita davanti ai colleghi - reazione che si spinse sino a "trascinare" il dirigente avanti al legale rappresentante della società - dovette suonare, per Lo., come un'insubordinazione intollerabile, un attentato al suo incondizionato potere in azienda, da reprimere prima che tale condotta potesse avere un effetto "contagioso" tra i dipendenti. Ben si comprende, allora, come Lo. abbia potuto.dire a C., subito dopo quel fatto: "tu con me hai chiuso; torni a Verona, o vai sul forno". Tale minaccia - in parte udita da qualche testimone (M.) e dal ricorrente riferita nell'immediatezza ai familiari (Bt, N.C.) trova conferma nell'atteggiamento successivamente tenuto dal dirigente.

Si considerino le seguenti, eloquenti, affermazioni dei testi:

- a seguito del diverbio che il ricorrente ebbe con il dirigente «da quel giorno i suoi rapporti con Lo. si guastarono. Lo. lo costringeva spesso a fare il turno sul forno, che per noi era considerato un po' un castigo, anche per via dei turni. Il destino del ricorrente era sempre quello di finire ai forni; C. fu escluso dai lavori di manutenzione che aveva sempre fatto e dalla mattoniera e fu destinato esclusivamente al turno sul forno» teste M.);

-   «quando sono entrato nel 1994, Lo. e C. erano più affiatati. Stavano delle mezze ore a parlare insieme e si vedeva che c'erano buoni rapporti. Questo andò avanti sino ad un anno prima della cessazione del rapporto di lavoro: -l'ultimo anno le cose cambiarono e si vedeva. Si vedeva che non avevano più nessun rapporto: facevano solo scintille; Lo. veniva, insultava C. - credo per ragioni di lavoro - e se ne andava; poi tornava e faceva la stessa cosa» (teste S., che, più sopra, aveva anche dichiarato: «il tappabuchi C. lo fece fino al 1999: quell'anno andò via un fuochista, perché si vede che l'azienda non voleva più fargli fare la mansione che aveva sempre svolto. Quello era il posto più brutto che si poteva fare a tutti i livelli in quella ditta e ci misero C. »); «il geometra Lo. era molto autoritario: su quello che diceva non si doveva discutere, se doveva sgridare sgridava, senza magari pensare di chiamare la persona in disparte e se doveva dare dei titoli li dava, era abbastanza duro. Con C. Lo. caricava un po' di più, forse perché - così penso io - perché abitava lì e quindi ne approfittavano di più. Ad esempio per il lavoro di fuochista - che era comunque rischioso e faticoso - chiamavano sempre lui; gli veniva imposto» (teste F.);

-   «il rapporto tra C. e il geometra Lo.era estremamente critico nel senso che il geometra era aggressivo nei suoi confronti: lo era con tutti ma con C. in modo un po' esagerato. C. si doveva adattare a tutti i tipi di lavoro. Lo. cercava di scaricare sul malfunzionamento degli impianti, specialmente quelli a cui era addetto C. e la colpa veniva quasi sempre scaricata su di lui, anche se, secondo me, in modo immotivato, perché i problemi dipendevano magari dalla scelta dell'argilla. Anche problemi di deterioramento degli impianti venivano scaricati su C.. Direttamente non ho mai sentito Lo. offendere C., ma indirettamente si, nel senso che il geometra mi disse diverse volte che C. era un buono a nulla e un ruba stipendi. Lo diceva un po' di tutti, ma di C. in modo particolare» (teste Bs.);

- «ricordo che nel 1995 o 1996 ci fu un litigio tra il ricorrente e il geometra Lo. in relazione ad un macchinario nuovo che non funzionava bene... Prima i rapporti tra il ricorrente Lo. erano accettabili: da quel giorno i loro rapporti divennero pessimi. Ricordo che Lo. umiliava C., dicendogli: sei un coglione, un parassita, un miserabile. Era una cosa indecente. Da quel periodo in avanti fu messa in atto una strategia per umiliarlo, per stufarlo ...Lo. rimproverava un po' tutti, ma dal momento di quella discussione, pressoché tutti i giorni, il bersaglio principale era C.: gli diceva che sarebbe dovuto tornare a Verona» (teste Gr.).

Le riportate dichiarazioni, precise, assolutamente concordi, rese da persone indifferenti rispetto all'oggetto del contendere, che, per anni, hanno quotidianamente lavorato a fianco del ricorrente, non sono validamente confutate da dichiarazioni apparentemente (e, in qualche caso, sostanzialmente) di opposto segno rese da altri testi. In particolare:

-   quanto dichiarato dal teste Ct. circa il fatto che i rapporti personali tra C. e Lo sarebbero stati buoni quanto meno sino al 1999 non pare attendibile, sia perché C. è genero di Lo. (cui, peraltro, deve l'assunzione presso la convenuta) e lavora tuttora presso la G. con incarichi di responsabilità, sia, soprattutto, perché il teste non lavorava in officina, ma in ufficio, e, dunque, non aveva modo di assistere al trattamento riservato dal dirigente al lavoratore;

-   la deposizione del teste Be. P. è palesemente inattendibile, non solo perché quanto da lui detto circa la normalità tra i rapporti tra C. e Lo. - e tra questi e gli altri, lavoratori - nonché circa il fatto che la mansione di addetto al forno è una mansione ordinaria, non peggiore o più gravosa delle altre, contrasta insanabilmente con quanto riferito da tutti gli altri operai escussi come testimoni, ma soprattutto perché, in quest'ultima parte, la versione dei fatti da lui resa è contraddetta dallo stesso comportamento tenuto dal teste: benché egli abbia riferito (forse per non voluta imprecisione, ciò che esime il giudicante dal trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica) di essere dipendente della convenuta dal 1988, è pacifico, e risulta dal libro matricola acquisito, che Be. si dimise nell'aprile 1995 per poi essere riassunto dal novembre 1997 al dicembre 1998 e, nuovamente, a far tempo dal febbraio 2000; le ragioni di tali cessazioni di rapporto e successive riassunzioni sono state ben spiegate dal teste S.: «quando sono entrato nel 1994 Be. P. faceva il fuochista, rimase lì per 2 o 3 anni e poi si licenziò dalla disperazione, nel senso che chi lavora come fuochista lo fa come ultima spiaggia: sarà per il tipo di lavoro, per la pressione che ti mettono addosso, per il fatto che si lavora di notte da soli, si accumula tensione e paura anche se avevamo la sirena da suonare. Be. P., visto che non trovava altro lavoro, vista anche l'età che aveva - come lui mi disse molte volte - tornò poi a lavorare nell'ultimo anno del mio rapporto di lavoro»; la disponibilità dell'azienda a riassumere, per ben due volte, Be. P. è stata probabilmente ripagata con una deposizione testimoniale assai conciliante con la linea difensiva della convenuta;

-   quanto alla deposizione del teste Bo. - anche questa in evidente dissonanza rispetto alle altre di cui si è sopra dato conto - giova osservare che il dichiarante non è indifferente rispetto alla causa in corso, sia perché egli ha profondi e radicati vincoli di amicizia (e parentela indiretta) con Lo., sia perché, da molti anni, egli è uomo di fiducia dell'azienda e gode dell'assegnazione gratuita dell'appartamento per sé e la sua famiglia, sia, inoltre, perché i rapporti personali tra lui e C., un tempo buonissimi, anche per via della parentela, si sono irrimediabilmente e gravemente guastati (eloquenti, al proposito, le deposizioni delle testi Bt. e D.).

Del resto, deve ancora osservarsi che il chiaro atteggiamento persecutorio posto in essere da Lo. ai danni di C. sul luogo di lavoro non è incompatibile con il mantenimento di rapporti all'apparenza improntati ad una certa cordialità che le rispettive famiglie - prima molto legate - mantennero per qualche tempo ancora. L'affiatamento iniziale, dovuto alla comune provenienza geografica e a vincoli di conoscenza e indiretta parentela tra le famiglie, che, per anni, portò a consolidati rapporti di frequentazione anche extralavorativa, non scomparve del tutto ed immediatamente dopo il litigio di cui si è detto, e, soprattutto da parte della moglie e dei figli del ricorrente - che pure erano a conoscenza del mutato quadro di rapporti tra il padre e il geometra - è comprensibile come vi fosse la speranza che le cose potessero rientrare, essendo peraltro chiaro come essi, che ben conoscevamo il ruolo egemone rivestito da Lo. in azienda, fossero consapevoli che la sorte lavorativa del congiunto (e la stessa possibilità per la famiglia di continuare a vivere nella casa di proprietà della G.) dipendeva soprattutto dalle decisioni del dirigente.

Ciò chiarito, deve quindi osservarsi come la condotta aggressiva e mortificatoria posta in essere, per anni, da Lo. ai danni di C. certamente sia qualificabile come lesiva della personalità morale del dipendente in violazione d ell'art. 2087 c.c. e come, per altri versi, nell'esercizio dei suoi poteri di supremazia gerarchica il dirigente abbia dato esecuzione al contratto di lavoro violando le regole della correttezza e della buona fede (art. 1375 c.c.). La sempre più frequente (e duratura) adibizione del C. al duro lavoro dei forni, sia pur - come meglio si vedrà infra - formalmente legittima aveva una chiara connotazione punitiva nei confronti del lavoratore (così come hanno riferito i colleghi le cui testimonianze sopra si sono riportate) ed era diretta a sfiancarlo sul piano morale e psicologico.

A ciò si aggiunsero altri provvedimenti - pure questi formalmente legittimi - aventi analoga finalità, come la modificazione dell'orario di lavoro con la conseguente, forzata, riduzione delle ore di lavoro straordinario che abitualmente il ricorrente faceva. In sostanza, fu imposto a C. che, da sempre, quale uomo di fiducia dell'azienda che abitava all'interno del complesso aziendale, era il primo ad entrare in fornace la mattina - di cominciare a lavorare alle 9, due ore dopo l'inizio di tutti gli altri operai. Il provvedimento, che sarebbe stato mirato a consentire la presenza di alcuni operai più a lungo nel pomeriggio, dopo lo stacco della maggioranza dei dipendenti, per terminare le lavorazioni ancora in corso (senza far ricorso a lavoro straordinario), avrebbe riguardato, secondo l'azienda, alcune persone, ma il teste Gr. ha dichiarato «C. era l'unico in fornace a cominciare alle 9» e, stranamente, nemmeno i responsabili Bo. e Gu. sono stati in grado di riferire chi, insieme a C., ne fu interessato. Il provvedimento in questione -oltre a determinare, come detto, la riduzione del lavoro straordinario che normalmente il ricorrente prestava - ebbe, per il lavoratore C., l'effetto di un pesante "schiaffo morale": «vedevo con quale faccia mio marito guardava ad andare a lavorare i colleghi, che entravano alle 7, lui che era sempre il primo ad entrare in fornace» (teste Bt); «qualche volta lo prendevamo in giro, dicendogli "fai gli orari da impiegato", anche se per lui era un'umiliazione e una punizione, perché era l'unico operaio che faceva quell'orario » (teste Gr.); «noi ci chiedevamo: ma come mai gli fanno fare il lavoro (rectius, l'orario) d'ufficio? Capivamo - visto che era una punizione perché aveva avuto da dire con Lo. » (teste S.). Inoltre, ciò comportava che, quando C. iniziava a lavorare, il lavoro era già impostato e le principali postazioni già occupate, sicché, da un lato, proseguiva quell'emarginazione del ricorrente rispetto all'organizzazione del lavoro che da qualche tempo era iniziata («ricordo che al mattino, quando si arrivava si parlava delle cose da fare, C. da un certo punto in poi fu escluso, quasi non gli rivolgevano la parola. Questo partiva da Lo.. Io e gli altri operai non abbiamo mai escluso C., anche se Lo. lo avrebbe desiderato» - teste M.) e, d'altro lato, il ricorrente doveva adattarsi a fare piccoli lavoretti («quando arrivava alle 9,.,se tutto era impegnato, doveva scopare, oppure saldare le eliche o dare una mano a qualcuno» - teste Gr.).

Ancora, nel 1999 - dopo circa dieci anni - al ricorrente fu sottratto il compito di pulizia degli uffici, che egli gestiva liberamente al di fuori dell'orario di lavoro di officina e per il quale riceveva un compenso aggiuntivo di 200.000 lire mensili, che gli fu quindi tolto. Al di là della formale giustificazione data in giudizio dall'allora dirigente Gu. («questa mansione gli fu tolta perché il titolare non era contento di come si svolgevano le pulizie», cosa un po' strana, tenuto conto che non consta che C. fosse mai stato ripreso o rimproverato per questa ragione e che svolgeva quell'attività da 10 anni), è significativo il "modo" con cui l'azienda spiegò al lavoratore la decisione: «C. mi chiese per quale ragione gli erano state tolte e io gli dissi che le pulizie non andavano bene e io avevo deciso diversamente» (teste Gu.). Modo che in realtà celava la vera ragione punitiva sottesa al provvedimento, riferita dal teste Ci.: «il ricorrente smise di fare quest'attività a settembre o ottobre 1999 perché Gu. gli disse che, visto che c'erano state quelle discussioni sull'adibizione al forno, ed era un po' mancata la fiducia dell'azienda, che non facesse più le pulizie».

A proposito di Gu., che fu assunto dalla convenuta il 14.2.1999 per sostituire Lo., già formalmente in pensione, giova osservare come, per un verso, il nuovo direttore rimase sotto la pressante "tutela" del predecessore, che continuò a venire regolarmente in azienda, per alcuni mesi (come tutti i testi, e lo stesso Gu., hanno confermato) e come, per altro verso, egli avesse evidentemente "ereditato" da Lo. un rapporto di lavoro - quello con il ricorrente - "in crisi", crisi che con il nuovo direttore si acuì e giunse ad un punto di rottura.

Il ricorrente, dal canto suo, era oramai prostrato dalle continue angherie che da tempo doveva subire. A forza di "portare pazienza e tenere dentro di sé le cose" (teste Bt; «io a C. dicevo di portare pazienza quando lui mi diceva che era stanco di andare al forno» - teste Bo.), "sperando che passasse la buriana" (teste M.), il ricorrente giunse ad un punto tale da modificare il suo comportamento abituale in famiglia (cfr. dichiarazioni teste N. C.) e anche sul lavoro «si vedeva che stava scoppiando, che andava avanti soltanto per la disperazione» (teste S.). Così, a fronte dell'ennesimo ordine di sostituire un fuochista dimissionario, fattogli dall'azienda alla fine di giugno 1999, il ricorrente disse chiaramente a Gu. e al legale rappresentante della convenuta G. che non ce la avrebbe fatta più a fare quel lavoro e che sperava di poter andare in pensione e ricevette assicurazioni dalla dirigenza dalla proprietà che la sostituzione al forno non si sarebbe protratta oltre l'estate (teste Gu. e interrogatorio libero del legale rappresentante G.). C. effettuò dunque la sostituzione del fuochista dimissionario sino alla chiusura dello stabilimento per le ferie estive - chiedendo, peraltro, di assistere alle operazioni di spegnimento del forno per apprendere un 'altra importante mansione del ciclo produttivo (teste Gu.) - e iniziò il periodo di vacanza nella convinzione che, al rientro, sarebbe tornato a svolgere i suoi abituali compiti di addetto alla mattoniera. Si comprende, dunque, come il repentino cambio di idea della dirigenza - che, violando i doveri di correttezza e buona fede, quando ancora il ricorrente era in ferie e si trovava in vacanza in Veneto, gli intimò di rientrare anzitempo dal congedo feriale per essere addetto nuovamente al forno - abbia precipitato il lavoratore in un profondo stato di angoscia.

Al (legittimo, stante anche la violazione degli accordi verbali intercorsi) rifiuto del ricorrente di interrompere le vacanze e di rientrare anzitempo, seguì l'apertura di una fase di aperto conflitto tra azienda e lavoratore. I fatti successivamente accaduti sono stati pacificamente ricostruiti in istruttoria e denotano un oramai conclamato intento persecutorio della G. Srl: rientrato in azienda il giorno previsto, il ricorrente fu, per punizione, immediatamente ricollocato, verbalmente, in ferie; alla sua richiesta di avere un provvedimento scritto di collocamento in congedo - allo scopo di evitare che magari gli si contestasse poi un'assenza ingiustificata - l'azienda mutò repentinamente opinione e gli intimò di riprendere dopo pochi giorni il lavoro, adibendolo ai turno ai forai; diversamente da quanto era sino ad allora, e da anni, accaduto, trattandosi di sostituzioni per un lavoro pesante e stressante richieste a chi era abitualmente addetto a svolgere altra mansione, per la prima volta C. fu inserito anche nei turni notturni, quelli unanimemente indicati come i più disagevoli e pericolosi; di qui il crollo fisico e nervoso che il ricorrente subì, da solo al lavoro, nelle notti tra il 16 e il 18 ottobre 1999 e l'inizio della malattia depressiva reattiva, da subito diagnosticata come "disturbo di adattamento"; nel corso dell'astensione dal lavoro per malattia, la convenuta fece sottoporre il ricorrente a visita medica ex art. 5 Stat. Lav., con esito di idoneità allo svolgimento di lavori in turno fisso diurno e inadeguatezza della mansione di addetto al controllo ed al funzionamento del forno (certificato C.T.O. del 7.12.1999); il 14.2.2000, giorno in cui il ricorrente avrebbe ripreso il lavoro al termine della malattia, fu sottoposto a nuova visita medica dal medico di fabbrica dott. Bl. (che sostanzialmente confermò il giudizio del C.T.O.) e ricevette quindi, in pari data, la lettera di licenziamento per asserito giustificato motivo oggettivo.

3. Il licenziamento. La giustificazione addotta nella lettera di unilaterale recesso consegnata a C. presenta la decisione come «motivata da esigenze di riassetto organizzativo atte a fronteggiare il perdurante andamento negativo del mercato e il conseguente ridimensionamento produttivo e lavorativo subito dall'azienda, dalla impossibilità di poterLa adibire a mansioni equivalenti a quelle attualmente affidataLe e, comunque, dall'impraticabilità di una Sua utilizzazione in altre posizioni lavorative presenti in azienda, d'altronde già sperimentate».

Benché la convenuta abbia dimostrato - con prove documentali e testimoniali - che la società, al pari delle altre aziende del settore, stava attraversando un momento di difficoltà, a causa del aumento dei costi di produzione (soprattutto quelli legati ali' energia elettrica e al gas metano) e del contestuale abbassamento dei prezzi di vendita dei prodotti finiti, appare evidente come, per diverse ragioni, tale situazione non possa essere posta in correlazione causale con il licenziamento dì C.. Ed invero:

- come ha riferito il teste Ct., la crisi di settore è iniziata «a partire dal 1996 e si è acuita nel 1997 e 1998 e durò fino al 1999-2000», sicché, a febbraio 2000, la situazione critica stava per essere lasciata alle spalle;

- le ragioni di crisi furono soprattutto finanziarie (legate alla differenza tra costi e ricavi) e non già connesse a diminuzione di produzione, posto nessun operaio ha riferito di cali di lavoro e lo stesso direttore di produzione Bo.ha significativamente affermato: «io non posso dire nulla su eventuali flessioni degli ordini...Tutti gli anni ci sono momenti in cui la produzione aumenta e diminuisce. In alcuni casi si lavorava in forza ridotta, mantenendo il personale per poterlo impiegare di nuovo quando aumentavano gli ordini»;

-   gli aggiustamenti della consistenza del forza-lavoro sono stati fatti in modo "indolore", evitando di sostituire gli operai dimissionari e di fare nuove assunzioni, assunzioni che, tuttavia, ripresero addirittura 6 mesi prima del licenziamento di C., per due persone a settembre 1999 (teste Ct.);

-   in particolare, nessun dipendente fu mai licenziato.

Ciò posto sul piano del preteso ridimensionamento organizzativo, deve ora rilevarsi che appaiono del tutto inconsistenti anche le situazioni "soggettive" pure adombrate nella lettera di licenziamento. Ed invero:

- l'accertata inidoneità del lavoratore a ricoprire la mansione di addetto al forno, da un lato, non costituiva un problema al febbraio 2000 (poiché, come riferito da Gu., gli addetti erano allora sufficienti) e, d'altro lato, non poteva certo rilevare posto che pacificamente si trattava di una mansione meramente sostitutiva, essendo stato C. addetto stabilmente allo svolgimento di altre mansioni sin dalla sua assunzione nel 1987;

- a quest'ultimo riguardo, l'istruttoria compiuta ha inequivocabilmente dimostrato come C. fosse l'operaio più anziano, quello che sapeva lavorare su tutte le principali macchine di produzione (così, esplicitamente, tra altri, il teste Ci.), non solo la mattoniera (che era sempre stata la sua principale incombenza e rispetto alla quale, dunque, una sua sostituzione definitiva con altro dipendente assunto in epoca più recente non potrebbe giustificare, sul piano della correttezza, un suo licenziamento).

L'inconsistenza delle formali giustificazioni del licenziamento addotte dall'azienda si spiega agevolmente,peraltro, con le vere (ed inconfessabili) ragioni che determinarono quel provvedimento, quali si ricavano agevolmente dalla ricostruzione del rapporto di lavoro fatta sopra, sub 2. L'epilogo del rapporto, espressamente paventato- in modo perentorio - dal dirigente Lo. sin dal 1995, da questi perseguito e "costruito" con costanza negli anni successivi (allo scopo di indurre il ricorrente a rassegnare le dimissioni), condiviso dalla proprietà quanto meno dalla metà del 1999 (come lo stesso G. ha ammesso in sede d'interrogatorio libero: «gli chiesi perché dovevo dargli un appartamento e pagarlo se la situazione era questa. Lui mi disse che nel giro di tre mesi sarebbe andato in pensione e io gli dissi che se era così in quei tre mesi avrebbe potuto fare quello che voleva in azienda, che non mi interessava»), a partire dall'autunno e dalla aperta crisi di cui si è detto divenne un obiettivo primario dell'azienda e, posto che il dipendente mostrò di non voler recedere dal rapporto (non potendo andare in pensione, né essendo intenzionato a rassegnare le dimissioni), dopo aver vanamente tentato di ottenere un giudizio d'inidoneità medica che potesse giustificare il recesso per ragioni soggettive (si consideri che ancora il 14.2.2000, con la lettera di licenziamento già nel cassetto, la società fece sottoporre C. a visita dal medico di fabbrica, sperando di poter avere qualche elemento oggettivo più consistente per recedere dal rapporto) , la società convenuta licenziò C. cercando di dare una parvenza di legalità al provvedimento. In sostanza, se si vuole -ed è certamente corretto farlo - leggere la storia degli ultimi anni del rapporto di lavoro per cui è causa con la lente del mobbing, si realizzò anche l'ultimo stadio del modello descrittivo in questione, l'estromissione del lavoratore.

Il licenziamento, dunque, dev'essere ritenuto illegittimo.

4. II danno biologico. Che la condotta persecutoria tenuta dai dirigenti dell'azienda sin dal 1995 e culminata nel licenziamento intimato il 14.2.2000 abbiano provocato un grave danno alla salute del ricorrente è fuori discussione. Risultando rispettati i criteri dell'efficienza causale, della compatibilita cronologica e dell'assenza di cause diverse, per la ricostruzione più sopra operata non v'è dubbio che la depressione accusata dal ricorrente sin dall'ottobre 1999 - quando ebbe il crollo psico-fisico di cui si è detto in concomitanza con l' adibizione al turno notturno ai forni e subito dopo l'apertura di un conflitto conclamato con il datore di lavoro - sia ascrivibile alla, ricevuta violazione degli artt. 2087 e 1375 c.c. da parte dell'azienda. Del pari, in una situazione psichica già compromessa come quella in cui versava il ricorrente nel febbraio 2000, l'illegittimo provvedimento di recesso dal rapporto di lavoro con la conseguente richiesta che coinvolgeva anche la famiglia - di lasciare libero l'appartamento concesso in comodato e in cui C. e i suoi congiunti vivevano dal 1987 precipitarono il lavoratore in un gravissimo stato di prostrazione psichica. La situazione è stata ben descritta e analizzata nella relazione del CTU dott. S. Ba., che qui integralmente si richiama. In particolare, il ricorrente è risultato affetto da disturbo distimico - evidenziato sin dal luglio del 1999, in relazione a quanto accaduto sul lavoro nel periodo precedente, e aggravatosi a seguito del licenziamento - e da disturbo istrionico della personalità, formatosi sin dalle prime fasi dello sviluppo psichico del soggetto e palesatosi sin dalla prima età adulta. La connotazione patologica di tali disturbi - anche dei secondo - affonda le proprie radici nei vissuti frustranti e stressanti sul luogo di lavoro di cui si è detto e ha determinato un danno alla salute che il CTU definisce «permanente quantificabile in grado di 30%, di cui il 50% ascrivibile alla personalità (distimia 15% + disturbo istrionico di personalità 15%=30%)».

Nel parere del c.t. della società convenuta, dott. Bi., la contestazione delle conclusioni del CTU in relazione alla diagnosi del disturbo distimico poggiano soprattutto sul fatto che il lavoratore avrebbe avuto «motivazioni consciamente dimostrative e "punitive" nei confronti dell'ambiente lavorativo, sviluppate all'interno di una personalità complessa e "predisposta" sul piano psicopatologico» dando una «lettura dei fatti autenticamente distorsiva e quindi assai meno consapevole dovuta alle preesistenti caratteristiche personologiche». Una tale valutazione - che in astratto potrebbe anche essere corretta - sconta il limite, nel caso di specie, di una situazione di "persecuzione" sul luogo di lavoro che i fatti acclarati in istruttoria (e di cui il dott. Bi. non poteva essere a conoscenza nel luglio 2003) hanno dimostrato essere autentica e grave, sicché il supposto "ingigantimento" distorsivo dei fatti da parte del C. si rivela non aderente alla ricostruzione operata sulla base delle prove assunte dal Tribunale e non vale quindi a incrinare la correttezza del giudizio reso dal CTU. Sul piano del nesso causale, giova invece osservare che anche per il dott. Bi. - a prescindere dalla diagnosi e dalla gravita del danno biologico conseguente - la patologia di cui oggi soffre C. trova causa nelle conflittuali vicende del rapporto di lavoro.

Dal canto suo, il c.t. del terzo chiamato - pur censurando i criteri di valutazione della gravita della patologia utilizzata dal CTU - concorda sulla diagnosi del perito d'ufficio e parimenti sull'eziologia scatenante di origine professionale.

Salvo quanto si dirà più oltre sulla valutazione equitativa del danno in relazione alle domande azionate in ricorso, non v'è quindi dubbio sul fatto che la malattia depressiva riscontrata dai consulenti trovi causa nelle condotte descritte nei precedenti punti 2 e 3.

5. La responsabilità contrattuale della società convenuta. Le condotte da ultimo menzionate -poste in essere dai dirigenti della società, con dolo (ritorsivo) nel caso di L. e quanto meno con colpa nel caso di G. (supportato, nelle decisioni da ultimo assunte, dal legale rappresentante G.) - sono certamente ascrivibili alla convenuta e, senza affrontare il tema della responsabilità da fatto illecito (non evocato in ricorso), determinano certamente responsabilità contrattuale della medesima, che non ha assolto all'onere della prova, che le incombeva, di aver fatto tutto il possibile per adempiere al precetto di cui all'ara. 2087 (e 1375) c.c. e di aver fatto legittimo uso del potere di licenziamento. Sul piano risarcitorio, le conseguenze sono di diverso tipo.

Quanto all' illegittimo licenziamento, essendo pacifico che si versa nell'ipotesi di stabilità obbligatoria del rapporto di lavoro, le conseguenze sono quelle descritte nell'art. 8 1. 604/1966, come modificato dall'art. 2, comma 3. 1. 108/1990. La società convenuta deve quindi essere condannata a riassumere il ricorrente nel termine di tre giorni o, in difetto, a corrispondergli una indennità che appare equo quantificare nella misura di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Valutata l'anzianità di servizio del lavoratore (addirittura superiore a 10 anni, ciò che avrebbe legittimato la richiesta di una somma anche superiore), il numero dei dipendenti occupati (prossimo alle dimensioni in cui scatta il regime di tutela reale), la particolare riprovevolezza della condotta tenuta dai dirigenti della convenuta in vista della risoluzione del rapporto di lavoro, le precarie condizioni di salute di C. e la sua età (che hanno reso, e tuttora rendono a quattro anni di distanza dal licenziamento, particolarmente difficile il reinserimento nel mondo del lavoro), la richiesta avanzata in ricorso è ampiamente giustificata e merita accoglimento. Non essendo stata contestata la retribuzione indicata dalla controparte, la condanna in via alternativa alla riassunzione deve pertanto avere riguardo alla somma di 6.817,23 Euro netti, oltre a rivalutazione monetaria ed interessi legali dal termine di scadenza dell'obbligazione (24.6.2004) al saldo.

Il danno biologico temporaneo. Consapevole della particolare natura della patologia, la difesa di C. ha espressamente formulato la richiesta risarcitoria per il pregiudizio alla salute subito con riguardo al danno temporaneo, limitando la richiesta alla data del ricorso sottoscritto il 28.12.2000. I confini del petitum esonerano il Tribunale da un approfondimento tecnico medico che, altrimenti, sarebbe stato necessario. Si è rilevato, infarti, come il CTU abbia concluso per la sussistenza di un danno biologico nella misura del 30%, definendo il medesimo "permanente". Che tale termine sia stato utilizzato in un'accezione probabilmente diversa da quella comunemente utilizzata nella medicina legale (e nella prassi giurisprudenziale) risulta però dalla stessa relazione del dott. Ba., laddove si osserva (punto 6 delle conclusioni) come un'appropriata terapia psicofarmacologica con periodici controlli psichiatrici ben potrebbe ridurre gli effetti e sintomi della Distimia (e analoghi rilievi, che il Tribunale condivide, risultano dalle consulenze tecniche di parte).

Sulla scorta del petitum, tuttavia, l'accertamento peritale effettuato è sufficiente per consentire al giudice di decidere la questione sottopostagli. Non v'è dubbio, infatti - e vi è peraltro prova documentale anche nei certificati medici prodotti, relativi a quel periodo - che la patologia accertata si sia protratta quanto meno sino al 28.12.2000. La data di insorgenza, ad avviso di questo Tribunale, va collocata al 17.10.1999, quando C. subì il crollo psicofìsico di cui si è detto: mentre, infatti, al luglio 1999 la situazione lavorativa sembrava aver avuto una certa concorde definizione (sulla base degli accordi intercorsi tra C., G. e Gu.), la crisi del rapporto di lavoro (e le conseguenze che il dipendente subì) sfociò nel settembre 1999 e la prova dell'insorgenza di un vero e proprio danno alla salute deve essere collocata all'episodio del primo malore notturno sul luogo di lavoro, che diede inizio al periodo di malattia. Trattandosi di inabilità temporanea, la valutazione - necessariamente equitativa - deve avere riguardo, sulla scorta di consolidati criteri della giurisprudenza di merito del distretto al numero dei giorni di malattia, pari, per il periodo considerato, a 437.

Si trattò certamente di inabilità parziale. Ai fini di cui si discute non rileva, peraltro, l'imputazione del danno ripartita fatta dal CTU con riguardo alle due patologie evidenziate, una delle quali, il disturbo istrionico di personalità, affonda le proprie radici in situazioni estranee al rapporto di lavoro. Essendo pacifico che C. non ha mai sofferto di patologie depressive e che appariva come persona normale e ben equilibrata, la particolare predisposizione che la propria personalità ha avuto rispetto agli effetti provocati dalla distimia non ha alcun rilievo rispetto all'integrale imputazione degli stessi al debitore responsabile dell'inadempimento. Secondo il particolare criterio di imputazione del danno consacrato nell'art. 1223 c.c., interpretato secondo consolidata giurisprudenza, il debitore risponde di tutti i pregiudizi che trovino causa nell'inadempimento, indipendentemente dal fatto che situazioni preesistenti o sopravvenute - salvo che siano ascrivibili a colpa del creditore (art. 1227 c.c.) ma non è certo questo il caso - possano aver incrementato la misura del danno. Con particolare riguardo al danno biologico del lavoratore, la Cassazione ha di recente affermato che, quando il debitore ha posto in essere un'azione od omissione che costituisca antecedente causale di un certo danno, «l'autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità. In tal caso, infatti, non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravita della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile e duna concausa naturale non imputabile» qual è la "predisposizione fisica" del soggetto danneggiato (Cass. Sez. Lav., sent. 9.4.2003, n. 5539).

Poiché la quantificazione del grado d'invalidità fatta dal CTU nella misura del 30% è avvenuta nella logica del danno permanente - vale a dire, in una logica di stabilizzazione dei postumi, a distanza di circa quattro anni dall'insorgenza della malattia - deve poi tenersi conto che, nel primo anno/anno e mezzo dall'insorgere della patologia (quando la depressione era acuta e i suoi effetti risentivano delle vicende conflittuali ancora in corso, o appena definite con un trauma notevole come quello della perdita del posto di lavoro), la inabilità temporanea parziale era notevole e può trovare equo ristoro, ad avviso del Tribunale, nella somma di 25 Euro al dì, per complessivi 10.925, 00 Euro.

Il danno morale. Tale voce di danno richiesta in ricorso pure nel quadro di un'azione risarcitoria per inadempimento contrattuale, è parimenti dovuta, secondo il nuovo "diritto vivente" ricostruibile sulla scorta di recenti, importanti, decisioni delle Supreme Corti.

Si allude alle pronunce della Corte di cassazione (v., in particolare, Cass. 31.5.2003, n. 8827 e Cass. 31.5.2003, n. 8828) e della Corte costituzionale (sent. 11.7.2003, n. 233 e ord. 12.12.2003, n. 356) che hanno rimeditato ex professo la tematica del danno risarcibile nel quadro di un'interpretazione costituzionalmente orientata. Secondo questa impostazione - cui il Tribunale ritiene di doversi attenere -nel concetto di danno non patrimoniale, disciplinato dall'art. 2059 c.c. interpretato in senso conforme ai precetti della Costituzione, rientrano tutti i pregiudizi «di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona» (C. cost, sent. 233/2003).

Benché tali affermazioni riguardino, esplicitamente, il tema della responsabilità aquiliana - oggetto di esame nelle citate decisioni - non vi è ragione di non farne applicazione nel settore della responsabilità da inadempimento. Anche alla luce dei principi appena richiamati, non si può ulteriormente condividere quel tradizionale orientamento interpretativo che limita al solo danno patrimoniale emergente e da lucro cessante l'area del pregiudizio suscettibile di ristoro ai sensi dell'ari. 1223 c.c. Deve osservarsi, innanzitutto, che se è ben vero che la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione dev'essere suscettibile di valutazione economica ai sensi dell'art. 1174 c.c., la stessa disposizione espressamente dichiara che la prestazione può corrispondere anche ad un interesse non e patrimoniale del creditore. Laddove l'interesse sia noto all'altro contraente e, addirittura, espressamente dedotto in contratto, non vi è alcuna ragione di limitare l'area del risarcimento ai danni patrimoniali e la dizione letterale dell'art. 1223 c.c. non lo esige necessariamente, perché il concetto di "perdita" utilizzato dalla disposizione ben può riferirsi (e lo metteva già in evidenza C.cost., sent. 27.10.1994, n. 372), oltre che al patrimonio, a valori e beni non suscettibili d'immediata valutazione economica, come la salute, gli altri interessi esistenziali della persona costituzionalmente garantiti, la stessa serenità o tranquillità psicologica (per usare le parole di Cass., sent. 8828/2003, la «integrità morale, la cui tutela, agevolmente ricollegabile all'art. 2 Cost., ove sia determina una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo»).

A ben vedere, in particolare nel settore della responsabilità contrattuale, la conseguenza d'indubbia novità che discende dal nuovo "diritto vivente" è proprio la possibilità di ottenere il risarcimento del danno morale in senso stretto, ciò che per lo più si negava precedentemente al revirement interpretativo avvenuto nella primavera/estate del 2003, richiedendosi quale indefettibile presupposto per poter ottenere siffatta tutela riparatoria l'avvenuta commissione un illecito penale (ovvero, l'espressa previsione da parte di una disposizione di legge integrativa del rinvio operato nell'ari. 2059 c.c.). Quanto al danno biologico, invece, da anni la giurisprudenza consolidata ne afferma la risarcibilità anche se il pregiudizio trovi causa soltanto in un inadempimento contrattuale. Lo stesso dicasi, in ambito giuslavoristico, per altre tipologie di danno squisitamente non patrimoniale, quale la lesione della professionalità (e/o dell'immagine, della dignità) del lavoratore demansionato in violazione dell'art. 2103 c.c. Più di recente, una giurisprudenza di merito che va incontrando sempre maggiori consensi - e che è stata avallata da importanti pronunce della Corte di legittimità (quanto alla Sezione lavoro, si considerino, per l'estrema chiarezza e condivisibilità delle argomentazioni, Cass. 3.7.2001, n. 9009 e Cass. 4.6.2003, n. 8904) - ha riconosciuto il risarcimento dei danni esistenziali nel caso di lesione da inadempimento di interessi della persona costituzionalmente garantiti diversi da quello alla salute. Dunque, sfatato l'errato mito della natura necessariamente patrimoniale del danno risarcibile per violazione della lex contractus - quanto meno con riguardo al danno biologico e al danno esistenziale - non vi è ragione di operare distinzioni, ai fini del giudizio sull'astratta risarcibilità , tra le diverse tipologie di pregiudizio, dovendosi peraltro osservare come, «nell'ottica della concezione unitaria della persona, (che) la valutazione equitativa di tutti i danni non patrimoniali possa anche essere unica, senza una distinzione...tra quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo e quanto a titolo di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza psichica» (così, Cass., sent. 8828/2003), ancorché tale distinzione, pur non copre indispensabile, resta tuttavia in molti casi opportuna (così, Cass., sent. 8827/2003), perché consente d'individuare e di descrivere i danni in concreto derivati e di parametrare ad essi la liquidazione, necessariamente equitativa.

Deve osservarsi, ancora, come nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, non possa certo dubitarsi del fatto che, in molti casi, un interesse non patrimoniale è dedotto in contratto e ciò vale, in particolare, proprio profili che vengono in rilievo nel caso di specie, nonché la tutela della personalità morale del lavoratore una specifica obbligazione datore di lavoro, che, per il combinato disposto degli artt. 1374 e 2087, 2A parte, c.c., integra il contenuto del contratto. Del resto, agli interessi sottostanti a tali previsioni godono certamente della tutela costituzionale riconosciuta ai diritti inviolabili dell'uomo. Nella complessiva condotta inadempiente posta in essere dalla convenuta, peraltro, è agevole scorgere la lesione di numerosi diritti inviolabili della persona esplicitamente garantiti dalla nostra Costituzione (e se ne fa menzione anche in ricorso), sicché, pure per questa ragione, non può dubitarsi della risarcibilità del corrispondente danno morale. Si pensi, oltre alla grave violazione del diritto alla salute protetto dall'ari. 32 Cost., al diritto a realizzare se stessi nell'ambiente di lavoro (che, indubbiamente, è una di quelle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità e a cui si riferisce 1' art. 2 Cost.), alla dignità del prestatore di lavoro subordinato (che, ai sensi dell'ari. 41, comma 2, Cost. è interesse prevalente rispetto alla libera iniziativa economica privata), ma anche, a causa dell'illegittimo licenziamento, e al diritto a percepire una retribuzione che consenta al lavoratore e alla sua famiglia di condurre un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, comma 1, Cost., norma di cui la Corte di cassazione ha esplicitamente affermato la finalità di tutela di tutela di interessi costituzionalmente garantiti della persona e che ha indicato, in caso di sua violazione, come possibile fonte di danni esistenziali: cfr. Cass., sent. 9009/2001).

Circa la quantificazione, secondo consolidati criteri di valutazione diffusi in giurisprudenza, quando la sofferenza morale derivi dalle conseguenze di un danno biologico, la liquidazione equitativa del primo può avvenire in via proporzionale all'entità del secondo. Nel caso di specie, tenendo anche conto che sulla gravita della patologia ha inciso profondamente l'evento licenziamento e le intuibili ripercussioni traumatiche che esso ha ingenerato nella psiche del C. di cui si da peraltro atto nella relazione di CTU -tenendo anche conto dell'attaccamento al lavoro del ricorrente, della sua età e della difficoltà di trovare un posto di lavoro nel settore in cui egli da tempo operava e in cui aveva conseguito una specifica professionalità, la pecunia doloris per il periodo oggetto di pronuncia può trovare equo ristoro in una somma pari al 50% del danno biologico, vale a dire in 5.462,50 Euro.

Il danno patrimoniale. In relazione al danno patrimoniale sofferto sino al 28.12.2000, la difesa di C. ha richiesto la liquidazione delle spese per farmaci e psicoterapie. Quanto ai primi, il ricorrente non ha assolto all'onere della prova - che gli incombeva - circa l'individuazione della natura dei farmaci assunti e dell'eventuale costo sopportato, sicché, tenendo anche conto che il CTU ha evidenziato come molti di questi siano dispensati dal SSN, questo Tribunale non è in grado di accertare se, e in quale misura, un danno patrimoniale vi sia stato. Quanto alle terapie, la parte ricorrente ha invece, prodotto i certificati del terapeuta dott. M. C., il quale da in essi atto della frequenza delle sedute avute con C.. Sulla scorta di tali certificati può prudenzialmente desumersi che nel periodo 15.11-31.12.1999 vi sono state 6 sedute e altre 6 nel periodo 1.1-31.3.2000 (arg. dal certificato del 22.2.2000, nel quale si dice che la terapia è iniziata a novembre 1999, inizialmente per una seduta a settimana, e poi per una ogni 15 giorni). Nel certificato del 26.4.2000 si da invece atto che, a seguito dello sfratto intimato alla fine di marzo, la depressione ha subito un peggioramento, richiedendo l'aumento della frequenza delle sedute di terapia, tornate ad una a settimana, sicché può ritenersi che negli ultimi 8 mesi dell'anno 2000 vi siano state circa 30 sedute. Non avendo C. dimostrato il costo sostenuto, deve prendersi quale riferimento il minimo professionale indicato in perizia dal CTU, vale a dire 42 Euro per seduta. Può quindi ritenersi provato un danno patrimoniale complessivo pari a 1.764,00 Euro.

6. Il preteso danno da dequalificazione professionale. C. L. ha poi chiesto il risarcimento del «danno per la dequalificazione professionale derivante dalla impossibilità di rendere in assoluto la prestazione lavorativa dal 1° luglio 1999 al 14.2000 e, in ragione solo del 50%, per il periodo 1 febbraio 1997/30 giugno 1999, nel quale egli ha svolto alternativamente mansioni di addetto alla mattoniera, ovvero di fuochista, ma è stato privato dei compiti qualificanti di coordinamento, di addetto alla manutenzione e al controllo di qualità ». Tale domanda è infondata.

In fatto, deve osservarsi che dall'istruttoria risulta che C. ha sempre continuato a svolgere, saltuariamente, lavori di manutenzione, mentre non si comprende quali siano le mansioni di coordinamento (ma se si tratta di quelle degli operai durante la pausa pasto, lo stesso ricorrente, nell'interrogatorio libero, ha ammesso di aver continuato a disimpegnare tale attività) o di addetto al controllo qualità. Quanto, poi, alla adibizione alle mansioni di addetto al forno, come più sopra si accennava, l'adibizione a tale compito, in sé considerata, non viola il precetto di cui all'art. 2103 c.c., poiché, secondo la declaratoria del CCNL, si tratta di mansioni equivalenti a quelle di addetto alla mattoniera, rientranti nel profilo d'inquadramento D2 attribuito al ricorrente. Quanto, infine, all'impossibilità di rendere in assoluto la prestazione lavorativa nel periodo di malattia (peraltro iniziato nella seconda metà dell'ottobre 1999 e non al 1 luglio) , posto che non può certo farsi questione di violazione dell'art. 2103 c.c., da un lato si tratta di situazione imposta dalla necessitata sospensione del rapporto - sicché nemmeno viene in rilievo la lesione dei diritti della personalità, mentre il profilo di danno biologico in sé è già stato sopra considerato - e, d'altro lato, il profilo della dedotta perdita di professionalità non può ritenersi fondato per il breve periodo considerato (circa 4 mesi).

7. L'indennità per l'abusiva occupazione dell'alloggio dato in comodato. Nella causa originariamente instaurata dalla G. Srl contro il lavoratore, la società - oltre a richiedere l'accertamento della giustificatezza del licenziamento - ha chiesto la condanna di C. al pagamento di un'indennità per il periodo di abusiva occupazione dell'alloggio dato in comodato per lo svolgimento delle mansioni e non restituito al termine del rapporto, tanto che essa dovette adire il giudice per ottenere il rilascio dell'immobile. Nel costituirsi (tardivamente) in causa, C. L. non ha preso posizione sui fatti costitutivi del diritto ex adverso azionato.

Osserva il giudicante che dalla documentazione prodotta dalla società risulta che:

- l'alloggio (5 vani + servizi) fu concesso in comodato «per tutto il periodo di vigenza dell'attuale rapporto di lavoro» (scrittura privata 8.10.1998);

- con lettera 27.3.2000, il legale della società, prendendo atto della cessazione del rapporto a seguito del licenziamento del 14.2.2000, intimava a C. la restituzione dell' immobile;

- non avendo il ricorrente aderito alla richiesta, la G. F. Srl intimava a C. sfratto per finita locazione e lo citava avanti al Tribunale di Pinerolo per la convalida;

- nell’ interrogatorio libero, C. ha ammesso che il giudice aveva fissato per il rilascio la data del 30.9.2001 e che egli riconsegnò l'appartamento in quel mese.

Ciò premesso, reputa il giudicante che, pur trattandosi di licenziamento illegittimo, ricadendosi nel regime della stabilità obbligatoria, l'atto unilaterale ha, comunque prodotto immediatamente l'effetto interruttivo del rapporto di lavoro, sicché C. aveva l'obbligo di restituire l'appartamento (come sancito dal Tribunale ordinario adito) . Tenendo conto che il licenziamento fu improvvisamente intimato il 14.2.2000 e che non poteva certo pretendersi dal ricorrente - che ivi viveva con la famiglia - l'immediata restituzione, deve ritenersi che l'occupazione sia stata abusiva dal momento del rifiuto a restituire l'immobile su richiesta del proprietario, richiesta effettuata, trascorso un corretto periodo di tolleranza, circa un mese e mezzo dopo la cessazione del rapporto. Dalla fine di marzo 2000 alla fine di settembre 2001, l'occupazione fu dunque sine titulo e illegittima e la società ha diritto a vedersi riconosciuta un'indennità risarcitoria per 18 mesi. Tenendo conto dell'ampiezza dell'alloggio, da un lato, e, d'altro lato, dell'infelice posizione (all'interno di uno stabilimento produttivo) e dell'ubicazione in un paesino del pinerolese non particolarmente appetibile sul mercato immobiliare, reputa il giudice che l'indennità in questione possa essere equamente determinata in 150 Euro mensili, per complessivi 2.700,00 Euro.

8. La responsabilità del terzo chiamato. La domanda di manleva spiegata, in via subordinata, dalla G. Srl nei confronti della LA FONDIARIA ASSICURAZIONI Spa in ordine al pagamento del danno biologico e patrimoniale che fosse riconosciuto al lavoratore è fondata e dev'essere accolta.

E' pacifico, e documentalmente provato, che le parti abbiano stipulato un contratto d'assicurazione avente ad oggetto, tra l'altro, i rischi per la responsabilità civile dell'azienda verso i prestatori d'opera, compresi i danni per malattia professionale (anche non tabellata) e con estensione della copertura (dal 27.12.1995) anche al danno biologico.

Nel caso di specie, per quanto più sopra si è detto, non può dubitarsi dell'origine professionale della patologia, anche se non si tratta di malattia "tabellata" nel D.P.R. 1124/1965. Del resto, negli ultimi anni lo stesso Istituto Nazionale per la prevenzione degli Infortuni sul Lavoro liquida le prestazioni di cui al D.P.R. 1124/1965 e successive modificazioni anche in relazione a situazioni di mobbìng.

Ciò premesso, deve osservarsi che le eccezioni sollevate dal terzo chiamato ai fini di escludere la propria responsabilità non possano trovare accoglimento. Ed invero:

- nonostante la generica eccezione, il premio di assicurazione è sempre stato pagato;

- la malattia è sicuramente imputabile ad un fatto (quanto meno) colposo, di cui il datore di lavoro deve rispondere;

- benché la malattia non sia conseguenza delle lavorazioni cui C. era addetto, non v'è dubbio che sia stata contratta per causa di lavoro nel senso di cui all'art. 3 D.P.R. 1124/1965, come modificato dalla sent. Corte cost. 18.2.1988, n. 779;

- le condotte lesive sono iniziate a seguito della discussione tra Lo. e C. del 1995 e, tenendo conto della particolare natura della patologia - che ha un periodo d'insorgenza normalmente lungo e diluito nel tempo - e del fatto che essa si manifestò soltanto alla fine del 1999, deve ritenersi che, sostanzialmente, le condotte lesive si siano prodotte in costanza del contratto di assicurazione.

Quanto all'oggetto della garanzia assicurativa, le condizioni generali di contratto (al proposito ribadite nell'allegato AG, al punto 2) Fanno riferimento, per quanto qui interessa, alle «somme eccedenti l'indennità liquidata a norma dell'assicurazione obbligatoria (art. 10 del citato D.P.R.) », clausola che deve intendersi limitata - tenuto anche conto dell'espressa deduzione, con altra apposita pattuizione, anche del rischio per danno biologico - alla sola tipologia di danni considerata nel testo unico del 1964, vale a dire la perdita della capacità lavorativa generica, le spese delle cure mediche. La compagnia di assicurazione, dunque, nei limiti (che qui non rilevano) del massimale di polizza, deve rispondere del danno patrimoniale per le terapie e del danno biologico, e non può invece essere chiamata in manleva per il danno morale (non espressamenre dedotto, a differenza del biologico, nel contratto di assicurazione).

In conclusione, disattesa ogni altra istanza, oltre alla già illustrata pronuncia che discende dall'illegittimo licenziamento, la G. F. Srl dev'essere dichiarata tenuta a risarcire i danni biologici, morali e patrimoniali sopra indicati, per complessivi 18.151,50 Euro e, portato in compensazione il proprio credito di Euro 2.700,00 per l'abusiva occupazione dell'appartamento, dev'essere condannata al .pagare al ricorrente la somma di 15.451,50 Euro, oltre a rivalutazione monetaria ed interessi legali decorrenti, essendosi trattato di liquidazione equitativa effettuata a valori attuali, dalla data della sentenza al saldo.

Con riguardo al danno patrimoniale e biologico, per complessivi 12.689,00 Euro oltre accessori, il terzo chiamato dovrà tenere indenne la società convenuta.

Quanto alle spese, nei rapporti tra C. e la G. Srl la parziale, reciproca, soccombenza (quanto alla posizione del lavoratore, anche quella "virtuale" relativa alla domanda oggetto della rinuncia effettuata in corso di causa) - tenendo conto della misura della stessa e del fasto che, comunque, le domande non accolte (o rinunciate) non hanno comportato un particolare aggravio di istruttoria giustifica la compensazione di esse in misura della metà e la società convenuta deve essere condannata a rimborsare al ricorrente la restante parte delle spese che, per l'intero, valutato il valore della causa in relazione alla domanda definitivamente accolta e tenendo conto della complessità delle questioni trattate, debbono essere liquidate in complessivi 6.600,00 Euro, di cui 2.300 per diritti, 600 per rimborso spese generali e il resto per onorari, oltre IVA e CPA.

Nei rapporti tra la convenuta e il terzo chiamato, posto che nessuno di essi ha dato causa alla lite, ricorrono giusti motivi per disporre l'integrale compensazione delle spese. A tali società deve invece essere definitivamente accollato, in via solidale, il pagamento delle spese di CTU.

P.Q.M.

visto l'art. 429 c.p.c., disattesa ogni altra istanza,

1) accerta e dichiara l'illegittimità del licenziamento intimato ai ricorrente con lettera del 14.2.2000 e condanna parte convenuta a riassumere lavoratore nel posto di lavoro ci termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcirgli il danno versandogli un'indennità di 6.817,23 euro netti, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dal 24.6.2004 al saldo;

2) dichiara inoltre tenuta la società convenuta a risarcire al ricorrente i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti sino al 28.12.2000, liquidati in complessivi 18.151,50 Euro e, previa compensazione con la somma di 2.700,00 Euro quale indennità per occupazione sine titolo dell'alloggio dato in comodato, la condanna al pagamento del residuo debito di 15.451,50 Euro, oltre a rivalutazione monetaria ed interessi legali da oggi al saldo;

3) dichiara tenuto e condanna il terzo chiamato a tenere indenne la società convenuta di quanto sarà chiamata a pagare in forza della statuizione di cui al precedente punto 2) nei limiti dell'importo di 12.689,00 Euro, oltre rivalutazione monetaria da oggi al saldo.

4) Compensa le spese di lite tra la parte ricorrente e la parte convenuta in ragione della metà e condanna quest'ultima a rimborsare alla prima la restante parte delle spese, liquidate, per l'intero, in complessivi 6.600 Euro, oltre IVA e CPF;

5)compensa le spese di lite nei rapporti tra la parte convenuta e il terzo chiamato e pone le spese di CTU a definitivo e solidale carico di tali parti.

Così deciso in Pinerolo, il 21 giugno 2004.

IL GIUDICE

(Gianni Reynaud)

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