Il preavviso nel rapporto di lavoro

 

 

A. Soldi (1844 - 1877) - I pattinatori al Valentino

 

Sommario:

1.      Il preavviso come istituto nell’interesse della parte che subisce il recesso

2.      Efficacia “reale” del preavviso. Conseguenze

3.      Rinunziabilità al preavviso lavorato solo dalla parte che subisce l’iniziativa del recesso

4.      Intimazione del preavviso solo dopo il conseguimento dell’età pensionabile

5.      Sospensione del decorso del preavviso per intervenuta malattia

 

*****

 

1. Il preavviso come istituto nell'interesse della parte che subisce il recesso

La nostra legislazione lavoristica ha previsto che la maggior parte dei casi di risoluzione del rapporto di lavoro sia accompagnata dall'istituto del preavviso. Infatti ad eccezione delle ipotesi di:

a) recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c. (cioè per evento o comportamento che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto e che, pertanto, non ammette preavviso);

b) risoluzione consensuale o convenuta ad una certa data o età, quest'ultime funzionanti quali cause di risoluzione automatica del rapporto ed, al tempo stesso, garanti di una stabilità relativa (alle quali non sono assimilabili, pacificamente, le ipotesi di libero recesso, ex art. 4, 2° co., L. n 108/'90 a carico del lavoratore ultrasessantenne, in possesso dei requisiti pensionistici, che non si sia avvalso del diritto di opzione a norma della legislazione in tema di prosecuzione del rapporto);

tutte le altre forme di recesso, sia ad nutum (ex art. 2118 c.c. e art. 4, comma 2, L. n. 108/'90) sia per giustificato motivo (ex art. 3 L. n. 604/'66) debbono essere caratterizzate dall'intimazione del preavviso, ad iniziativa della parte recedente.  Il preavviso assolve ad una specifica funzione: quella di "attenuare le conseguenze pregiudizievoli dell'improvvisa cessazione dei rapporto per la parte che subisce l'iniziativa del recesso" (così, per tutte, Cass. 22 luglio 1977, n. 2897).  Sebbene sia stata massicciamente affacciato, nella passata giurisprudenza, la tesi secondo la quale il preavviso dovrebbe assolvere ad una funzione contemporaneamente bilaterale e, quindi, dovrebbe soddisfare congiuntamente gli interessi di entrambe le parti del rapporto, prevale esattamente (in dottrina e nella più recente ed autorevole giurisprudenza) l'opinione per cui l'istituto in questione è "imposto nel solo interesse di colui che subisce il recesso, a tutela delle sue legittime aspettative: esso consente al lavoratore licenziato di disporre del tempo necessario per trovare un nuovo lavoro (tant'è che a livello dei principali ccnl sono stati previsti appositi permessi orari, n.d.r.) ed all'imprenditore di evitare che le dimissioni di un dipendente abbiano a turbare l'organizzazione dei lavoro, permettendogli di rimpiazzare adeguatamente e tempestivamente il lavoratore licenziatosi" (rectius, dimessosi, n.d.r.; così, ancora, Cass. n. 2897/1977, cit.).

 

2. Efficacia "reale" del preavviso - Conseguenze

Pertanto essendo finalizzato ad evitare che l'estinzione del rapporto di lavoro, determinata da un atto discrezionale di una sola delle parti, si traduca in eccessivo pregiudizio per l'altra, il preavviso si pone come condizione di liceità del recesso.  Nel senso, tuttavia, che in difetto sorge l'obbligo - a carico della parte recedente senza preavviso - di corrispondere (ex art. 2118 c.c.) all'altra “una indennità equivalente alla retribuzione che gli sarebbe spettata per il periodo di preavviso" non lavorato.  Chiaramente il vocabolo "retribuzione" è stato usato dal legislatore atecnicamente, in via parametrica, e, quindi, per determinare sia la misura dell'indennità spettante sia al lavoratore che al datore di lavoro, cui sia stato intimato il recesso senza preavviso.

Va subito precisato che la sostituzione del preavviso con l'indennità corrispondente non è stata ritenuta legittima alternativa (nonostante la piana dizione legislativa) né facoltà azionabile unilateralmente dalla parte recedente: ciò in considerazione del c.d. "carattere reale" e non meramente obbligatorio dell'istituto.  In buona sostanza è stato convincentemente asserito che, essendo il preavviso posto nell'interesse della parte non recedente (c.d. receduta), l'offerta dell'indennità sostitutiva (in alternativa al preavviso lavorabile) non dà luogo alla cessazione del vincolo contrattuale, a meno che la parte receduta non sia consenziente, consenso che può desumersi anche concludentemente per effetto dell'accettazione incondizionata e senza riserve dell'indennità in questione (1).

Qualora la parte receduta non sia disponibile ad accettare la c.d. monetizzazione dei preavviso e la correlativa risoluzione istantanea del rapporto (poiché ha, ad es., interesse alla sua prosecuzione in vista di beneficiare di un maturando scatto di anzianità o dei miglioramenti economici da rinnovo contrattuale), la parte recedente può comunque in ogni caso rifiutare la prestazione offertale per il periodo di preavviso, corrispondendo l'indennità sostitutiva, ma, in tal caso, il rapporto si risolve con l'ultimo giorno di scadenza dei preavviso altrimenti lavorabile. Ne consegue che, considerandosi - agli effetti delle conseguenze indennitarie - fittiziamente in vita il rapporto (per tutto il periodo di preavviso che la parte receduta si è dichiarata interessata ad effettuare in servizio), il lavoratore beneficerà degli attesi miglioramenti medio tenipore sopravvenuti. Essi naturalmente comporteranno un conguaglio dell'indennità "provvisoriamente" corrisposta, la quale verrà quindi integralmente computata nella base per il trattamento di fine rapporto ex art. 2120 (quale novellato dalla L. n. 297/'82), trattandosi di erogazione latamente retributiva, corrisposta, anche se non corrispettivamente, in dipendenza del rapporto di lavoro medesimo o comunque alla retribuzione in tutto assimilabile (per non danneggiare il lavoratore) in quanto prende il posto, in virtù dell'efficacia reale del preavviso, di un trattamento corrispettivo che gli è stato impedito di percepire (2).

Poiché, in costanza di preavviso persistono le reciproche obbligazioni ed i diritti connessi allo svolgimento del rapporto, ne discende che, qualora durante il corso dello stesso (in quanto lavorato) si verifichi un fatto od un comportamento di così rilevante gravità da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto, il datore di lavoro (o il lavoratore, a seconda dei casi) potrà recedere per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. (conf.  Cass. 29 aprile 1976, n. 1650).  Nell'ipotesi delineata si verifica, pertanto, la sostituzione ad una precedente forma estintiva (ad es. al recesso per giustificato motivo con preavviso) di un'altra causale risolutiva (il recesso per giusta causa).  Naturalmente la prospettata teoria dell'efficacia reale del preavviso (in contrapposizione alla tesi che ne sostiene la natura di obbligazione alternativa rispetto all'indennità sostitutiva) non è condivisa pacificamente né in dottrina né in giurisprudenza (3); al momento si può, tuttavia, asserire che sia ancora quella che ottiene adesioni dal più ampio fronte degli operatori del diritto, tanto da poter essere presentata quale posizione dottrinale e giurisprudenziale prevalente.

 

3. Rinunziabilità al preavviso lavorato solo dalla parte che subisce l'iniziativa del recesso.

Una questione molto dibattuta in giurisprudenza è quella che concerne la legittimità o meno di clausole contrattuali contemplanti la dispensa ex post - con indennizzo e non - dal preavviso ad opera della parte che ha subito l'iniziativa del recesso (c.d. receduta).

Dopo un vivace contrasto, intorno agli anni '70, tra magistratura di merito e della S. Corte, si può dire di essere giunti alla conclusione della legittimità di tali clausole sulla base delle argomentazioni di cui alla sentenza n. 1257 dei 13 marzo 1978 (e successive) della Cassazione, secondo la quale: "la normativa del preavviso non è derogabile in favore del recedente, perché ciò comporterebbe nocumento al contrapposto diritto della parte non recedente nel cui interesse la norma è dettata; ben diversa è invece l'ipotesi di una disciplina contrattuale collettiva che, fermo restando l'obbligo del preavviso per la parte ad esso tenuta per legge, preveda la facoltà delle parti contraenti di disciplinare, nel modo da esse ritenuto più conforme ai propri interessi, gli aspetti economici connessi con lo scioglimento del contratto di lavoro e, più particolarmente, preveda la facoltà della parte non recedente di dispensare ex post quella recedente dagli obblighi derivanti dal preavviso.  Pienamente legittima perciò deve ritenersi la clausola contrattuale che non dispensa affatto in via preventiva il recedente dall'obbligo del preavviso, ma prevede la facoltà della parte non recedente di troncare il rapporto senza indennizzo per il periodo di preavviso non compiuto" (ipotesi, esemplificativamente, ricorrente per il caso di dispensa totale o parziale dal preavviso, in caso di dimissioni volontarie ex art. 69, comma 3°, ccnl 22 giugno  1995 per il personale direttivo del credito, ove le parti, con formula di favore, hanno previsto che alla dispensa si coniughi l'indennizzo).

Al riguardo può dirsi che sia stata operata una sottile (quanto valida) distinzione in tema di disponibilità ed indisponibilità dei diritti, affermando che la regola generale dei conferimento dei preavviso nell'interesse della parte receduta non può essere derogata dalle parti contraenti in via preventiva, atteso che risulterebbero frustate funzionalità e struttura dei preavviso così come configurate dal legislatore.  Tuttavia se l'istituto dei preavviso appartiene al novero dei diritti inderogabili del prestatore sottratti alla disponibilità delle parti, "rientra invece nella libera disponibilità dei contraenti la regolamentazione dei successivi profili economici connessi allo scioglimento del rapporto" (così Cass. n. 1257/1978, cit.).

Alla luce dei sopra riferiti principi della prevalente giurisprudenza, condivisi dalla più autorevole dottrina (4), sono da considerarsi illegittime le clausole - di cui agli artt. 66 e 67 del ccnl 22 giugno 1995 per il personale direttivo dei credito, aderenti rispettivamente alla risoluzione per limiti di età e per giustificato motivo soggettivo e oggettivo - laddove lasciano spazio ad una scelta discrezionale delle aziende circa l'alternativa del preavviso lavorabile o dell'indennità sostitutiva "in difetto", cioè a dire in caso di indisponibilità aziendale verso la soluzione, più favorevole al lavoratore, del preavviso lavorabile.

 

4. Intimazione del preavviso solo dopo il conseguimento dell'età pensionabile

Il preavviso è dovuto, come in precedenza abbiamo visto, in qualsivoglia fattispecie di risoluzione del rapporto, salva la risoluzione per giusta causa ex art. 2119 c.c. e la risoluzione ad epoca o età predeterminate, fungenti da clausole di risoluzione automatica del rapporto ed al tempo stesso da clausole di stabilità relativa, nel senso dell'essere preclusive di iniziative unilaterali e discrezionali di risoluzione del rapporto.

Sul punto specifico la S. Corte ha asserito che solo quando una certa età (normalmente quella pensionabile) garantisca il lavoratore – tramite clausola di stabilità convenzionale preclusiva della risoluzione anticipata del rapporto -  dai rischi del recesso discrezionale, la stessa può fungere  al tempo stesso da condizione di risoluzione automatica del rapporto, senza necessità di intimazione di preavviso (5).

Invero, secondo il condivisibile orientamento della Cassazione, in tale fattispecie si realizza un equo contemperamento degli interessi (o dei sacrifici) delle due parti, in quanto se dal lato del prestatore si verifica la perdita del preavviso o dell'indennità sostitutiva,nonché la perdita della sospensione degli effetti della risoluzione al verificarsi di una delle cause previste dall'art. 2110 c.c., dal lato del datore di lavoro si verifica la compressione temporale (fino a quella determinata età) del diritto di recesso ad nutum, bilanciando il sacrificio dell'altro contraente.  Solo in presenza di queste caratteristiche atte a configurare una clausola di stabilità relativa (alla quale non è equiparabile una prassi aziendale concretizzante solo uso negoziale e non normativo) è ammissibile la risoluzione ipso iure (e senza preavviso) del rapporto al raggiungimento di una data epoca o età (conf., per tutte, Cass. 10 .11. 1981, n. 5964; Cass. 20.3.1998,n. 2986, cit.; cfr. anche  Cass. 2.3.1999, n. 1758 (6).

In mancanza di tale clausola contrattuale (inequivocamente espressa) -  irreperibile nel contratto del settore credito innanzi menzionato settore -, il raggiungimento dell'età per il pensionamento di vecchiaia (superati i 55 e 60 anni, rispettivamente per la donna e l'uomo, elevati ex L. n. 724/1994  con una progressione incrementativa di 18 mesi ogni anno, per giungere a 60 e 65 anni nel 2000) non esonera l'azienda dal conferimento del preavviso, salvo che non sia stata esercitata opzione per la prosecuzione ai sensi degli artt. 6 L. n. 54/'82 e n. 407/'90 le quali contemplano espressamente che la cessazione del rapporto prolungato (fino al massimo dei 5 anni, ex art. 1, comma 2°, D.L.vo 30.12.1992, n. 503) per esercizio di opzione, "avviene senza obblighi di preavviso per alcuna delle parti".

La risoluzione del rapporto con preavviso deve pertanto essere intimata e l'intimazione aziendale deve essere manifestata una volta superata la predetta età pensionabile oltre i 60 anni (precisamente 65 nel 2000, per l'uomo), per il lavoratore che abbia i requisiti per fruire del diritto a pensione e non abbia esercitato opzioni per la prosecuzione del rapporto, età superata la quale (in congiunzione con gli innanzi riferiti requisiti) non operano i divieti e gli oneri della legislazione vincolistica del recesso, consistenti nell'obbligo di motivazione e di giustificazione del licenziamento nonché nella sindacabilità giudiziale dello stesso.  Infatti, qualora il licenziamento venga intimato (come praticamente ed erroneamente ancora diverse aziende usano fare) prima dello scadere dei predetti 65 anni (con diritto a pensione e senza esercizio dell'opzione per la prosecuzione del rapporto) seppure con preavviso scadente per l'epoca del compimento dei 65 anni, si verte in fattispecie di licenziamento ingiustificato che rende illegittima l'iniziativa risolutiva e soggetto il datore di lavoro all'annullamento giudiziale dell'atto (con reintegrazione del lavoratore nel rapporto ex art. 18 L. n. 300/'70) ed al concomitante pagamento della penale risarcitoria, non inferiore a 5 mensilità, di cui allo stesso articolo (7).

Giurisprudenza più mite e meno coerente, pur negando la legittimità della risoluzione intimata ante tempus, con preavviso scadente al compimento del 60° anno di età, ritiene tuttavia che "derivi per il lavoratore il (solo, n.d.r.) diritto all'indennità sostitutiva del preavviso", altrimenti negato (8).

 

5. Sospensione del decorso del preavviso per intervenuta malattia

In argomento,un cenno merita anche la questione dell'insorgenza della malattia nel corso dello spiegamento del preavviso.

Ai sensi del comma 2° dell'art. 2110 c.c., la malattia, l'infortunio, la gravidanza ed il puerperio sospendono l'efficacia dell'atto di recesso e la parte se ne riappropria una volta superato l'evento o (se questo si protrae nel tempo) una volta decorso il periodo contrattualmente previsto per la conservazione del posto ovvero definito dagli usi o secondo equità.

Naturalmente l'effetto sospensivo sul decorso del preavviso ad opera di evento morboso (e la conseguente protrazione del rapporto per la durata della malattia) cessa qualora durante la malattia emerga una giusta causa che legittimi, ex art. 2119 c.c., la risoluzione istantanea del rapporto.

Sull'efficacia sospensiva dei preavviso ad opera di malattia, la giurisprudenza della S. Corte è oramai consolidata, mentre sono da registrare in dottrina taluni motivati dissensi in relazione agli effetti di incontrollabile spostamento della data di estinzione del rapporto, in conseguenza dell'evento suddetto.  La S. Corte ha, al riguardo, assunto un orientamento univoco, ripetuto in diverse decisioni ed esplicitato nei seguenti termini: "il comma 2° dell'art. 2110 c.c., riguardante tra l'altro la prosecuzione del rapporto ed il divieto di licenziamento durante il periodo di malattia, è diretto ad assicurare al lavoratore un trattamento economico ed assistenziale durante la malattia, e si estende anche al l'ipotesi in cui sia stata esercitata da una delle parti di facoltà di recesso e penda il periodo di preavviso" (così, per tutte, Cass. n. 4915/1983). “Tale periodo rimane pertanto sospeso fino alla guarigione del lavoratore o fino alla scadenza del periodo di comporto; perdurando, medio tempore, il rapporto di lavoro, ad esso debbono applicarsi tutte le norme di legge o di contratto collettivo, eventualmente più favorevoli al lavoratore entrate in vigore durante il decorso del termine del preavviso" (così, per tutte, Cass. n. 451/1981).

Anche la questione circa la sospensione o meno del preavviso - al sopravvenire di malattia - in caso di dimissioni, è stata risolta nell'identico senso della sospensione del preavviso in caso di licenziamento: cioè sulla base dell'oggettività dell'evento malattia, interruttivo, in ogni caso, dello svolgimento del rapporto, a prescindere dalla parte che assume l'iniziativa a carattere rescissorio.  La conclusione appare convincente e condivisibile, perché qualora si fosse negato alla malattia efficacia interruttiva del preavviso dato dal dimissionario, si sarebbe privato la parte receduta (nel cui interesse è posto il preavviso medesimo), e cioè il datore di lavoro, di questo periodo di tempo di prestazione lavorativa del dimissionario, eventualmente necessario per l'effettuazione delle consegne ad altro lavoratore e per la conseguente adeguata sostituzione. Il principio dell'interruzione del preavviso per sopravvenuta malattia è operativo altresì nell'ipotesi di licenziamento per età pensionabile (così, per tutte, Cass. n. 4624/1980), con effetti pratici (invero talora perversi), quali quello dello spostamento - tanto più incisivo quanto più sapiente - dell'epoca di risoluzione del rapporto, preventivata dall'azienda.

 

Roma, 28 novembre 2000

Mario Meucci

 

(pubblicato, senza gli attuali aggiornamenti, in Lav. prev. Oggi 1996, n.3, p. 417)

 

NOTE

 

(1). Conf.  Pret.  Milano 18 agosto 1980, in Or. giur. lav. 1980,904; Cass. 21 luglio 1984, n.4301, in Not. giurisp. lav. 1984,601; Cass. 8 agosto 1983, n. 5925, ibidem, 1983, 35l.

(2)  Conf.  Vallebona, Il trattaniento difitie rapporto, ecc., in Giust. civ. 1982,11, 378.

(3)  Per una trattazione più ampia delle posizioni,  vedi Meucci, Il rapporto di lavoro nell’im-presa, Edizioni Scientifíche Italiane, Napoli 1991, 187 e ss.

(4). V. per tutti, Pera, La cessazione del rapporto di lavoro, Cedam 1980,53 e in Diritto del lavoro, Cedam 1991, 533-534.

(5)     Così., di recente, Cass. 20 marzo 1998, n. 2896, in Not. giurisp. lav.  1998, 331, con nota di precedenti conformi.

(6)     Secondo Cass. n. 1758/1999 in Not. giurisp. lav. 1999, 349 ( ed in precedenza,  Cass. 25 luglio  1994, n. 6901, ibidem 1994,  772) mancherebbe  nell’ordinamento qualsiasi delega legislativa alla contrattazione collettiva per derogare “convenzionalmente” – anche con clausole di stabilità relativa del rapporto -  alle tassative ipotesi legali di risoluzione del medesimo (con il corrispondente divieto di pattuire una ‘certa età’ come condizione di risoluzione automatica del rapporto ed al tempo stesso  fungente da garanzia di stabilità relativa del medesimo).  Essa ha sancito la nullità, ex art. 1418 c.c., della clausola del ccnl dell’Ente Poste che fissa al 40 anno di contribuzione la risoluzione automatica e senza preavviso del rapporto di lavoro, in quanto contra legem. Dalle argomentazioni svolte se ne deve desumere che l’esonero dal preavviso  per raggiunta età risolutiva del rapporto (anagrafica o contributiva) potrebbe riscontrarsi esclusivamente nella previsione legale di raggiungimento dell’ età per la pensione di vecchiaia (65 anni) o  per l’epoca (anteriore) di estinzione del termine definito dall’opzione esercitata dal dipendente per il raggiungimento della massima anzianità contributiva (ex art. 6 L,. n. 54/’82 e art. n.407/’90), termine comunque non eccedente il 65 anno di età.

(7)     V. per tutte, Cass. 1 settembre 1987, n. 7151, in Or. giur. lav., 1987, 1079 seguita poi da Cass. 30.5.1989, n. 2613, da Cass. 20.2.1990, n. 1238, da Cass. 30.7.1991, n. 8448, in Mass. giur. lav. 1991, 554 che si ricollegano ad un orientamento consolidato risalente a Cass. 11.5.1978, n. 2313, in Or. giur. lav. 1978, 1091; contra recentemente, isolatamente e non condivisibilmente, Cass. 16.5.1995 n. 5356, in Or. giur. lav. 1995, 649, subito smentita dalla posteriore Cass. 27.5.1995, n. 5977, in Dir. prat. lav. 1996, 118.

(8) Così Cass. 18.12.1993, n. 12558, in Dir. prat. lav. 1994, 670; Cass. 1.2.1993, n. Il 86, ibidem 1993,1,801; Cass. 26 gennaio 1993, n. 933, ibidem, 1993, 1,801; Cass. 24 luglio 1991, n. 8306, in Mass. giur. lav. 1991, 555, Cass. 22 luglio 1991, n. 8182, in Giust. civ. 1992, I, 1535.

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