Problemi della reintegrazione

 

1. La reintegrazione

Secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, l’ordine di reintegrazione è incoercibile, vale a dire non suscettibile di esecuzione in forma specifica, in quanto generalmente si ritiene che la riammissione in azienda implichi un infungibile comportamento attuativo e collaborativo del datore di lavoro, il quale è l’unico soggetto legittimato ad impartire al lavoratore le direttive più opportune nell’ambito dell’organizzazione produttiva.

Emesso l’ordine di reintegrazione da parte del Giudice, il datore di lavoro è obbligato a riattivare di fatto il rapporto (già ricostituito di diritto) e a tal fine deve invitare il lavoratore a riprendere servizio.

Va, a tale riguardo, sottolineato che il lavoratore non ha alcun onere di attivarsi per rendere effettiva la riammissione in servizio (Cass. 11.7.1981 n. 4533; contra, ma immotivatamente, Cass. 7.9.1993 n. 9390).

L’invito a riprendere servizio non necessita di forme particolari, potendo perfino essere inviato dal legale del datore ancorché privo di mandato speciale (Cass. 13.1.1993 n. 314), ma deve essere formulato con carattere di concretezza e specificità tale da permettere l’effettivo reinserimento del dipendente nel posto di lavoro: non è quindi sufficiente l’invito accompagnato dalla precisazione della mancanza di mansioni da affidare al lavoratore (Cass. 20.2.1988 n. 1826) ovvero dalla riserva di far conoscere il giorno e il luogo della ripresa lavorativa (Cass. 24.3.1987 n. 2857), con la conseguenza che, in tal caso, il lavoratore che non si ripresenta al lavoro non può considerarsi in mora. Non ottempera all'ordine di reintegrazione del lavoratore licenziato, il datore di lavoro che si limiti al pagamento della retribuzione senza effettiva riammissione in servizio del lavoratore (Pret. Milano 26.11.1992 e 22.12.1992, entrambe in Riv. crit. dir. lav., 1993, 449); in tal caso, il giudice può, ex art. 669 duodecies c.p.c., determinare le modalità di esecuzione del provvedimento stesso, ordinando al datore di lavoro di rimuovere gli ostacoli frapposti all'effettiva ripresa del lavoro da parte del dipendente.

Non sempre è possibile la ripresa in servizio: talvolta accade che nelle more del giudizio relativo all’impugnativa del licenziamento l’azienda cessi l’attività, e allora non potrà essere disposta dal Giudice la reintegrazione; in tal caso il lavoratore avrà diritto solo al risarcimento del danno da determinarsi con riferimento finale alla data di cessazione dell’attività (Cass. 13.2.1993 n. 1815). Rimane invece controverso, in tale ipotesi, il diritto del lavoratore a percepire l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Il datore di lavoro non potrà giustificare l’impossibilità della riammissione in servizio del lavoratore licenziato e la necessità di trasferirlo ad altra sede con l’avvenuta sostituzione con altro dipendente (Cass. 19.7.1995 n. 7822) o con la circostanza che i colleghi del reparto, cui era addetto il lavoratore licenziato, sono in Cassa Integrazione (Cass. 2.2.1990 n. 688), né tanto meno potrà collocarlo direttamente in Cassa Integrazione (Cass. 4.2.1993 n. 1360).

Una volta pervenuto l’invito del datore, il lavoratore ha l’alternativa di ripresentarsi al lavoro o di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione; in ogni caso la scelta va operata entro il termine di 30 giorni, perché in caso contrario il rapporto di lavoro è risolto di diritto senza poter pretendere più nulla. In realtà, si discute se il lavoratore non possa comunque avvalersi, ai fini dell’opzione per l’indennità alternativa alla reintegrazione, del diverso termine previsto dalla norma in relazione al deposito della sentenza (sul punto v. più avanti).

Può accadere che il lavoratore intenda accettare la reintegra, ma tuttavia non possa riprendere subito servizio, perché si trova in una delle situazioni previste dall’art. 2110 c.c. (malattia o infortunio): in questi casi, al fine di evitare la decadenza dal diritto alla reintegrazione, al lavoratore basterà manifestare, entro il termine di legge, anche con un comportamento concludente (quale, per esempio, la trasmissione del certificato medico) la volontà di aderire all’invito datoriale (Cass. 27.11.1979 n. 6216).

La mancata ripresa del servizio, anche se determinata da fatto non direttamente riconducibile al lavoratore, come ad esempio nel caso in cui questo sia detenuto, comporta - come si è già detto - la risoluzione del rapporto (Cass. 27.8.1991 n. 9166).

E’ largamente prevalente l’orientamento che ritiene che la riammissione al lavoro debba avvenire esclusivamente nello stesso posto di lavoro e nella stessa sede ove il dipendente prestava l’attività prima del licenziamento, salva la possibilità di una successiva assegnazione a mansioni diverse ma equivalenti o di un  trasferimento ad altra sede ove ricorrano apprezzabili esigenze tecnico-organizzative secondo il disposto dell’art. 2103 c.c. (Cass. 24.11.1993 n. 11578), ma non mancano decisioni in senso contrario che reputano legittimo il trasferimento contestuale (Cass. 1.12.1994 n. 10284).

Occorre, comunque, precisare che i motivi che determinano la necessità dello ius variandi non possono essere costituiti da esigenze che derivano dallo stesso licenziamento, per cui il datore di lavoro non può giustificare il trasferimento con il fatto che il posto di lavoro sia stato soppresso ovvero assegnato ad altro dipendente (Cass. 4.2.1993 n. 1360).

 

2. Il risarcimento del danno

Con la legge n. 108 del 1990 il legislatore ha innovato il regime delle conseguenze patrimoniali dell’illegittimità del licenziamento.

La precedente formulazione dell’art. 18 Stat. lav. prevedeva il risarcimento del danno nella misura minima di cinque mensilità di retribuzione per il periodo tra il licenziamento e la sentenza di reintegrazione e la corresponsione della retribuzione per il periodo dalla sentenza all’effettiva reintegra, con l’effetto di addossare al lavoratore l’onere di provare l’ulteriore danno.

Ora il risarcimento copre l’intero periodo dal licenziamento all’effettiva reintegrazione e si sostanzia in «un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto», che costituisce il normale parametro di calcolo per la sua quantificazione (Cass. 5.12.2000 n. 15449).

La nuova formulazione della norma non pare avere comportato nella produzione giurisprudenziale significativi mutamenti di indirizzo in ordine ai problemi della determinazione del ‘quantum’ dovuto al lavoratore illegittimamente licenziato, indipendentemente dalla natura giuridica - risarcitoria o retributiva - che ad esso si attribuisca, e dell’irripetibilità o meno delle somme pagate in esecuzione della sentenza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento in caso di riforma della sentenza di primo grado ovvero di cassazione della sentenza di appello che abbia disposto oconfermato la reintegra.

Dato per scontato che al lavoratore illegittimamente licenziato spetti un’indennità commisurata alla retribuzione che avrebbe percepito ove non fosse stato licenziato, senza tenere conto di un’eventuale contingente situazione di riduzione della prestazione lavorativa e della corrispondente retribuzione (Cass. 22.7.1992 n. 8814), si tratta di chiarire che cosa si intenda con l’espressione «retribuzione globale di fatto», peraltro già adoperata in precedenti atti normativi (cfr. art. 4, legge n. 260/49, come modificato dall’art. 1 legge n. 90/54, in tema di festività; art. 2 legge n. 7/63 sul divieto di licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio).

Va evidenziato che l’interpretazione giurisprudenziale in ordine alla nozione di «indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra» (art. 18, 4 co., Stat. lav.) è giunta a tradurre e specificare il concetto attraverso l’aggettivo «maturata», che implica un riferimento esplicito alla retribuzione che il lavoratore avrebbe avuto diritto di percepire se avesse lavorato al pari dei colleghi in servizio. Pertanto – in caso di procedimenti che si concludono in primo grado anche in archi temporali decennali – ne discende la conseguenza di una ricostruzione dinamica della retribuzione perduta (sub specie di mensilità), che tenga conto dei benefici economici da rinnovi contrattuali intercorsi nelle more o da scatti di anzianità.

Come ha efficacemente detto Cass. n. 10307/2002 (nel momento in cui ha riconosciuto al turnista di professione – non occasionale - il computo dell’indennità di turno nella mensilità di retribuzione globale di fatto): «opinare diversamente significherebbe frustrare il risultato - coerente con la ratio della così detta "tutela reale" del posto di lavoro - di neutralizzare compiutamente gli effetti del licenziamento illegittimo, giacché, ove fosse ipotizzabile, per il lavoratore reintegrando, una retribuzione minore di quella che avrebbe ottenuto se avesse continuato a svolgere le sue consuete prestazioni, si finirebbe per addossargli le conseguenze economiche negative di un illecito altrui, in assenza di qualsiasi sopravvenuta circostanza idonea ad interrompere legittimamente il nesso causale fra questo e quelle» (conf. Cass. 16.9.2009 n. 19956, che ha disposto l’inclusione nella “retribuzione globale di fatto” dell’indennità contrattuale di mensa per un licenziato illegittimamente da azienda di credito).

Pertanto l’indennità risarcitoria commisurata alla “retribuzione globale di fatto”, che deve essere corrisposta al lavoratore ingiustificatamente licenziato, sarà costituita da quelle componenti stabili e continuative della retribuzione che avrebbe ordinariamente percepito (esclusi compensi occasionali, indennità modali o rimborsi spese) se avesse continuato a prestare attività; retribuzione che si identifica con quella dei colleghi di pari qualifica che hanno continuato a lavorare.

Confermativamente si esprimono Cass. n. 1833/2007 e Cass. 22649/2009 secondo le quali: «L'art. 18 della L. n. 300 del 1970, nel testo risultante dalla novellazione introdotta con L. n. 108 del 1990, fa riferimento, nei commi 4 e 5, al medesimo parametro - la "retribuzione globale di fatto" - sia per il risarcimento del danno che per la determinazione dell'indennità sostitutiva della reintegrazione, ancorché nel primo caso si risarcisca un danno provocato dal comportamento illegittimo del datore di lavoro, mentre nel secondo si quantifica un'indennità legata a una scelta del lavoratore. Tanto nell'uno che nell'altro caso per “retribuzione globale di fatto” deve intendersi quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, a eccezione di quei compensi legati non già all'effettiva presenza in servizio ma solo eventuali e dei quali non vi è prova della certa percezione, nonché quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione e aventi normalmente carattere indennitari. E nello stesso senso si è espressa Cass. n. 19956 del 2009, secondo cui: «La nozione di “retribuzione globale di fatto” – alla quale va commisurato il risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente licenziato – deve essere intesa come coacervo delle somme che risultino dovute, anche in via non continuativa, purché non occasionale, in dipendenza del rapporto di lavoro e in correlazione ai contenuti e alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, così da costituire il trattamento economico normale, che sarebbe stato effettivamente goduto se non vi fosse stata estromissione dall'azienda» (fattispecie in cui un lavoratore bancario aveva rivendicato la (accolta) riconduzione nella retribuzione globale di fatto dell’indennità concorso spese tranviarie, dell’indennità di mensa, dell’indennità di produttività e di rendimento, con diniego invece dell’indennità sostitutiva delle ferie e delle festività in quanto correlate esclusivamente alla prestazione in servizio).

Una volta accertato che la cessazione del rapporto a seguito di opzione per le 15 mensilità si attualizza con il pagamento delle stesse (al riguardo, v. il successivo punto 4), ragioni di armonia interne al parametro di liquidazione impongono l’irrilevanza della mensilità dell’epoca di dichiarazione di scelta dell’opzione e di considerare quale ultima mensilità base di calcolo per la corresponsione, quella del mese in cui il datore si risolve ad effettuare il pagamento.

Sostanzialmente si riproduce la tecnica giuridica che aveva ispirato – prima della sostituzione dell’indennità di anzianità con il TFR nell’art. 2120 c.c.– la struttura del vecchio art. 2120 c.c., quale integrata (per la misura) dalla contrattazione collettiva, per il computo dell’indennità di anzianità degli impiegati (ultima retribuzione del mese di cessazione del rapporto per gli anni di servizio), in fattispecie moltiplicata per la forfettizzazione legale di 15 quote mensili.

Deve quindi affermarsi che il legislatore ha inteso correlare le cd. 15 mensilità – per rispetto del criterio di omogeneità che ispira il 4 e 5 comma dell’art. 18 Statuto lavoratori in ordine alla nozione di “retribuzione globale di fatto” – al parametro dinamico dell’ultima retribuzione stabile del mese di pagamento dell’indennità sostitutiva, non già a quello dell’ultimo mese di corresponsione dello stipendio in servizio, coincidente con il mese del licenziamento illegittimo (solitamente risalente ad anni prima) né a quello della dichiarazione di scelta dell’opzione da parte del lavoratore.

Tale rispetto di omogeneità lo si percepisce ponendo mente al fatto che, se per l’indennità risarcitoria la retribuzione globale di fatto perduta è quella dinamicamente ricostruibile e non congelata alla data (ormai irrilevante) del licenziamento illegittimo, parimenti le c.d. 15 mensilità andranno commisurate alla retribuzione dinamica che si attualizza all’epoca del pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.

La carenza di specificazione nell’art. 18 della legge 300/70 del parametro mensile per il calcolo dell’indennità sostitutiva della reintegrazione - limitandosi il 4 e 5 co., di detto articolo, a menzionare la “retribuzione globale di fatto” a differenza dell’indennizzo risarcitorio per il licenziamento ingiustificato nell’ambito della tutela obbligatoria, ove l’art. 8 della l. n. 604/66 (quale modificato dall'art. 2, l. n. 108/1990) àncora le mensilità (da 2,5 a 6) all’ultima (mensilità di) retribuzione globale di fatto – non autorizza a ritenere che si sia per tal via facoltizzato il magistrato a scegliere discrezionalmente o equitativamente una qualsiasi mensilità di retribuzione globale di fatto, solitamente quella percepita nel mese di cessazione illegittima del rapporto.

Il parametro della mensilità – sia per l’indennità sostitutiva della reintegrazione sia per il risarcimento danno nell’area della tutela obbligatoria – è ragionevolmente sempre lo stesso: l’ultima mensilità di retribuzione globale di fatto dell’epoca di cessazione del rapporto. Con la sostanzialissima differenza che mentre nell’area della tutela obbligatoria la data di cessazione del rapporto coincide con quella del licenziamento ingiustificato ed è immodificabile, nel senso che non può essere invalidata nel caso che il datore opti per la monetizzazione – e quindi non vi sono dubbi su quale sia l’ultima mensilità di retribuzione globale di fatto che va posta a base dell’indennizzo risarcitorio - nell’area della tutela reale ex art. 18 Stat. lav., in cui è inibita la soluzione monetizzante datoriale, la dichiarazione giudiziale di illegittimità del licenziamento garantisce e conferisce continuità giuridica al rapporto fino al pagamento dell’opzione per le 15 mensilità, talché sia la data del licenziamento illegittimo sia la misura della mensilità dell’epoca del licenziamento illegittimo perdono qualsiasi rilevanza nell’ambito del rapporto ricostituito senza soluzione di continuità.

Quella che invece esclusivamente rileva nel rapporto di lavoro ricostituito nella sua continuità giuridica ininterrotta, è la mensilità (cd. “ultima mensilità”) che viene accertata nel procedimento di ricostruzione contabile delle mensilità perdute dal licenziamento illegittimo alla reintegrazione sostituita dalla scelta alternativa (e dal corrispondente pagamento datoriale) dell’opzione del lavoratore per le 15 mensilità. Detta mensilità è solitamente e sostanzialmente diversa da quella dell’epoca del licenziamento illegittimo, in ragione di benefici economici da rinnovi contrattuali intervenuti medio tempore o da scatti di anzianità maturati nell’arco temporale segnato dalle lungaggini processuali.

Ed è quest’ultima mensilità (comprensiva dei ratei di 13esima, 14esima ed eventuali premi di produzione non aleatori ma di riconosciuta natura retributiva) che costituisce l’effettivo parametro per il calcolo delle c.d. 15 mensilità da corrispondersi in contemporanea e cumulativamente all’indennità risarcitoria del licenziamento illegittimo, cioè cumulativamente alle mensilità di retribuzione (c.d. “perdute”) che il lavoratore avrebbe percepito – al pari dei colleghi in servizio – se avesse lavorato.

Tale mensilità, infine, va quantificata in adesione ai principi di Cass. 17.2. 2009 n. 3787, secondo cui: «In caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento del lavoratore nell'ambito della cosiddetta "tutela reale", la "retribuzione globale di fatto", cui fa riferimento l'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo novellato dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, quale parametro di computo sia del risarcimento del danno patito sia della determinazione dell'indennità sostitutiva della reintegrazione, deve includere non soltanto la retribuzione base, ma anche ogni compenso di carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento, quale (come nella specie) il premio di produzione, una volta riconosciutone il carattere retributivo, dovendosi invece escludere dal compenso i soli compensi aventi natura indennitaria o di rimborso spese». Principi asseriti in precedenza da Cass. 5.3.2003 n. 3259, secondo cui:«L'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, comma quarto, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come sostituito dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, deve essere commisurata alla “retribuzione globale di fatto” e quindi in essa devono essere inclusi anche i ratei delle mensilità aggiuntive annualmente corrisposte» (conf. Cass. 8.7.1992 n. 8319). Stante l’omogeneità del parametro usato dal legislatore nell’art. 18 Stat. lav. per il 4 e 5 comma (“retribuzione globale di fatto”), il principio asserito per il 4 comma vale naturalmente anche per il 5.

Va sottolineato che l’art. 18 Stat. lav., nel prevedere una nozione onnicomprensiva di retribuzione globale di fatto, ha carattere inderogabile: pertanto, dovranno computarsi le indennità attribuite con carattere continuativo al lavoratore anche nell’ipotesi in cui il contratto collettivo ne escluda il carattere retributivo. Così  la giurisprudenza ha affermato il carattere interamente retributivo - ai fini del risarcimento ex art. 18 - dell’indennità estero percepita da dipendenti delle Ferrovie dello Stato residenti per ragioni di servizio in località d’oltre confine, nonostante la previsione collettiva che ne escludeva il carattere retributivo (tra le tante, App. Milano, sentt. n. 129/2000 e n. 193/2000).

Bisogna poi aggiungere che, pronunciandosi su una singolare fattispecie di erogazione di un compenso provvigionale ‘in nero’, la Suprema Corte ne ha ritenuto la computabilità ai fini in esame, affermando l’irrilevanza dell’eventuale invalidità o inefficacia della disposizione negoziale attraverso cui un determinato compenso sia di norma effettivamente corrisposto (Cass. 10.9. 1997 n. 8846).

Non compete, invece, l’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi, in quanto la mancata funzionalità di fatto del rapporto nel periodo tra il licenziamento e la reintegrazione impedisce la maturazione del relativo diritto, che é correlato all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa (Cass. 5.5.2000 n. 5624).

 

3.Detraibilità dell’«aliunde perceptum» o «percipiendum»

Il principio secondo cui al lavoratore spetta l’intero trattamento economico che avrebbe maturato in forza del rapporto è controbilanciato dall’altro principio, secondo cui il giudice nella determinazione del danno può tenere conto, anche d’ufficio, di quanto il lavoratore abbia percepito in altro modo (aliunde perceptum) o avrebbe potuto percepire usando l’ordinaria diligenza (aliunde percipiendum), essendosi affermato che spetta il risarcimento del danno soltanto nella misura minima - le cinque mensilità - qualora il lavoratore abbia ingiustificatamente rifiutato un’offerta di lavoro (Cass. S.U. 3.2.1998 n. 1099).

In proposito, è opportuno segnalare che l’indennità di disoccupazione non può essere detratta dall’ammontare del risarcimento dovuto dal datore. Infatti l'indennità di disoccupazione, una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione potrà e dovrà essere chiesta in restituzione dall'istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti  (Cass. n. 6265/00; conff. Cass. 16.3.2002, n. 3904 e Trib. Milano 14.3.1998, in O.G.L., 1998, 182, in base alla motivazione che non può ritenersi acquisita in via definitiva dal lavoratore, anzi essendo potenzialmente ripetibile dall’INPS; però, contra: Cass. 4.2.1998 n. 1150). Lo stesso dicasi per i trattamenti di Cig – entrambi sottoposti a recupero da parte dell’’Ente erogatore – secondo l’enunciazione di Cass. 30.1.2003 n. 1489 che ha affermato il principio di carattere generale secondo il quale «…le indennità previdenziali non possono essere detratte dalle somme che il datore di lavoro è stato condannato a versare, ai sensi dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, in quanto le stesse, una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione, potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall'Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti».

Anche la pensione (sia di anzianità sia di vecchiaia) fruita durante il licenziamento non è detraibile dal datore quale «aliunde perceptum» non trattandosi di reddito percepito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa, resa libera dal licenziamento, in una occupazione equivalente (ex plurimis, Cass. n. 13313/2007; Cass. 19.5.2000 n. 6548). Anch’essa dovrà essere restituita – su richiesta dell’Ente previdenziale, in base all’art. 2033 c.c. disciplinante l’indebito oggettivo – come da ultimo riprecisato da Cass. 27.10.2009 n. 22642 che ha così asserito: «Il licenziamento illegittimo annullato dal giudice con sentenza reintegratoria che ricostituisce il rapporto con efficacia ex tunc, fa venire meno il presupposto della cessazione del rapporto di lavoro richiesto dall'art. 1, settimo comma, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 per l'erogazione della pensione di veccbiaia, con la conseguenza che l'Inps ha diritto di ripetere le somme indebitamente erogate a titolo di pensione di vecchiaia», nell’ambito della prescrizione decennale che assiste la ripetizione dell’indebito.

Il principio della ripetibilità – riferito dalla sentenza sopracitata alla pensione di vecchiaia, in ragione della fattispecie decisa – è, naturalmente, estensibile alla  pensione di anzianità, atteso che anche per essa l’art. 10, comma 6, del d. lgs. n. 503/1992, ha previsto che il suo «conseguimento é subordinato alla risoluzione del rapporto di lavoro». In tal modo ribadendo quanto disposto dall’art. 22, comma 1, lett. c) della legge 30 aprile 1969, n. 153, istitutiva del trattamento pensionistico in questione, il quale subordina il conseguimento della pensione di anzianità alla condizione che gli assicurati non prestino attività lavorativa subordinata alla data di presentazione della domanda di pensione.

Sostanzialmente conforme alla precedente, ma indubbiamente meno giuridicamente precisa, si rivela Cass. 29.4.2009 n. 9992  la quale –  mentre ha negato al datore nel corso del giudizio la «compensatio lucri cum danno» relativamente alla pensione percepita, nelle more, dal licenziato - ha tuttavia stabilito che la stessa sarà ripetibile  «ove ne ricorrano i presupposti - in diverso giudizio -  dall'ente previdenziale il quale agirà per il recupero di quanto dovutogli per effetto dell'applicazione della normativa sulla cumulabilità parziale della retribuzione del lavoratore dipendente con la pensione di vecchiaia».

Il danno da licenziamento illegittimo può essere, peraltro, ridotto equitativamente dal giudice qualora emerga che il lavoratore  non ha adempiuto all’onere della ricerca diligente di un nuovo posto di lavoro – in tal modo, disattendendo, secondo recente giurisprudenza di Cassazione, la previsione dell’art. 1227, 2 co., che pretende un comportamento attivo del creditore/lavoratore nella riduzione del danno –, ove il requisito del comportamento diligente  deve ritenersi soddisfatto mediante l’iscrizione al Collocamento (Cass. 11.3.2010 n. 5862).

Un rapido cenno va altresì fatto alle problematiche originate dalla revoca datoriale del licenziamento e dalla riforma (in appello) o cassazione della sentenza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento.

Quanto alla prima questione, la giurisprudenza ritiene in maniera del tutto prevalente (salvo valutare la specificità dei singoli casi) che la revoca non faccia venir meno il diritto al risarcimento minimo nella misura delle cinque mensilità (v. Cass. 21.12.1995, n. 13047, con nota di Mannacio).

Riguardo all’annosa questione degli effetti della riforma (in appello) o cassazione della sentenza che ha disposto la reintegrazione del lavoratore e il risarcimento del danno, i principi a suo tempo affermati dalle Sezioni Unite (sent. 13.4.1988 n. 2925) sono stati ancor  riconfermati dalla Suprema Corte (Cass. 14.5.1998 n. 4881) pur in una situazione normativa del tutto diversa, alla luce cioè della riforma degli artt. 18 Stat. lav. - ad opera della legge n. 108/90 - e 336 c.p.c. - ad opera della legge n. 335/90.

Volendo sintetizzare, a seguito della riforma (in appello) o cassazione della sentenza, che abbia accertato l’illegittimità del licenziamento e ordinato la reintegrazione del lavoratore, si determina la seguente situazione:

- nulla è più dovuto al lavoratore;

- il lavoratore reintegrato può essere legittimamente estromesso;

- la parte di indennità risarcitoria corrisposta dalla data del licenziamento a quella della pronuncia di illegittimità del licenziamento medesimo (compresa, quindi, la misura minima di cinque mensilità) deve essere restituita;

- quanto corrisposto, invece, dalla data della sentenza di reintegra a quella della sentenza di riforma, è definitivamente irripetibile (contra, del tutto minoritariamente, Cass. 17.6.2000 n. 8263, che ha ritenuto ripetibili le retribuzioni successive alla sentenza di reintegrazione in assenza di effettiva prestazione lavorativa);

- qualora il lavoratore abbia optato per le quindici mensilità in sostituzione della reintegrazione, anche tale indennità va restituita.

 

4.L’indennità sostitutiva della reintegrazione

La giurisprudenza del tutto prevalente ha consolidatamente asserito che il lavoratore può agire in giudizio per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento e richiedere (ab initio o anche nel corso del giudizio stesso, modificando l’iniziale richiesta reintegratoria, senza che costituisca domanda nuova) le 15 mensilità, dispensando e sollevando così il giudice dall’emissione dell’ordine di reintegrazione.

Valga per tutte Cass. 12.6.2000 n. 8015, adesiva a Cass. 10283/98, secondo cui: «Il diritto del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità sostitutiva prevista dal 5º comma dell’art. 18 statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970 n. 300, come modificata dalla l. 11 maggio 1990 n. 108) - che configura un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore - deriva dall’illegittimità del licenziamento e sorge contemporaneamente al diritto alla reintegrazione; non è pertanto necessario un ordine giudiziale di reintegrazione per l’esercizio di tale opzione». Dicono ancora le citate sentenze che: «la norma dell’art. 18, 5 comma, Stat. lav., si limita a fissare il termine finale per l’esercizio della facoltà di opzione (nell’ovvia esigenza di contenere in tempi ragionevoli la situazione di incertezza conseguente ad una pronunzia di accoglimento) ma non stabilisce affatto un termine iniziale per l’attivazione di quel potere di scelta»; affermazione che sancisce pacificamente lo scollegamento giuridico e concettuale dell’opzione per le 15 mensilità dall’ordine di reintegrazione.

Circa l’epoca in cui l’obbligazione alternativa conseguente all’opzione per le 15 mensilità deve considerarsi adempiuta – al fine di inibire medio tempore la maturazione dell’indennità risarcitoria paramentrata ai mesi di mancata retribuzione dal giorno del licenziamento illegittimo alla data di estinzione del rapporto - è del tutto prevalente l’orientamento che  individua la data di estizione del rapporto con la data del pagamento dell’indennità (non già con quella della manifestazione di volontà di avvalersene, che può avvenire all’inizio del giudizio come nel corso di esso). Una diversa soluzione – che non si è mancato anche di recente di riproporre (v. Cass. n. 3775/2009; ma, condivisibilmente, contra: Cass. n. 26890/2009 e n. 27147/2009) -  incentiverebbe indubbiamente i datori a procrastinare convenientemente l’epoca del pagamento. Specifica incisivamente Cass. 26890/09 che: «Nell'ipotesi di scelta, da parte del lavoratore licenziato, dell'indennità sostitutiva della reintegrazione - riconducibile ad una dichiarazione di volontà negoziale del lavoratore, i cui effetti sono sottoposti al termine dell'effettivo ricevimento dell'indennità  - poiché il sistema delineato dall'art. 18 st. lav. si fonda sul principio dell'effettività dei rimedi, l'obbligo di reintegra si estingue non già nel momento dell'opzione, ma solo nel momento di effettivo pagamento dell'indennità ed il datore di lavoro che ritardi l'adempimento è tenuto a pagare non soltanto la rivalutazione e gli interessi, ma le retribuzioni globali di fatto per il periodo che va dall'esercizio dell'opzione sino al momento in cui l'indennità viene pagata». Deve quindi riconoscersi, alla più corretta soluzione interpretativa accolta, natura ed efficacia deterrente dell’inerzia datoriale.

Ancor più recentemente ha stabilito  – ex plurimis – Cass. 19.3.2010 n. 6735 che: «la richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l'indennità prevista dall'art. 18, quinto comma, legge n. 300 del 1970, costituisce esercizio di un diritto derivante dall'illegittimità del licenziamento, riconosciuto al lavoratore secondo lo schema dell'obbligazione con facoltà alternativa "ex parte creditoris"; pertanto, l'obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro facente carico al datore di lavoro si estingue soltanto con il pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione, per la quale abbia optato il lavoratore, non già con la semplice dichiarazione da questi resa di scegliere detta indennità in luogo della reintegrazione e, conseguentemente, il risarcimento del danno, il cui diritto è dalla legge fatto salvo anche nel caso di opzione per la succitata indennità, va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell'indennità sostitutiva e non fino alla data in cui il lavoratore ha operato la scelta (v. per tutte Cass. 16.3.2009 n. 6342 e 26.7.2003 n. 12514)». Prosegue, poi, la S. C.  con il chiarire che: «il diritto al risarcimento del danno è conseguenza preminente dell'accertamento di illegittimità del recesso (e solo, in via mediata, dell'ordine di reintegrazione) e che lo stesso è destinato a trovare un limite solo nella ricostituzione effettiva del rapporto di lavoro o in un diverso comportamento ritenuto per volontà di legge egualmente satisfattivo, quale appunto l'adempimento dell'obbligazione indennitaria per cui ha fatto opzione il lavoratore, in coerenza, con il carattere di effettività che, nel nostro ordinamento, rivestono i rimedi contro i licenziamenti illegittimi».

Come si è accennato, il lavoratore – oltre ad avere il diritto di optare per l’indennità sostitutiva all’inizio o nel corso del giudizio volto alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento - una volta reintegrato con l’ordine giudiziale che ne ha accolto la domanda, ha diritto di rinunciare alla reintegrazione chiedendo in alternativa il pagamento di quindici mensilità della retribuzione.

Secondo il tenore letterale della norma tale facoltà è esercitabile entro 30 giorni, che decorrono o dall’invito del datore di lavoro o dalla comunicazione del deposito della sentenza che ne contiene le motivazioni (a differenza del dispositivo).

A tale riguardo, va segnalato che l’avvenuta ripresa del servizio a seguito dell’invito del datore di lavoro non pregiudica la facoltà del lavoratore di optare per l’indennità sostitutiva, facoltà che perdura per 30 giorni a partire dal deposito della sentenza che ordina la reintegrazione, in quanto i due termini avrebbero finalità diverse (Cass. 16.6.1998 n. 6005; contra, Cass. 13.8.1997 n. 7581).

L’incertezza e l’opinabilità della giurisprudenza sul punto consigliano, peraltro, di evitare comportamenti che si possano prestare ad equivoci: pertanto, o si accetta la reintegra, non importa se a seguito di provvedimento ex art. 700 c.p.c. o della sentenza o, ancora, della ‘revoca’ spontanea del licenziamento da parte del datore, e si riprende servizio, oppure si esercita l’opzione per l’indennità sostituiva, effettuandola per prudenza entro 30 giorni dal verificarsi del primo dei due eventi indicati dalla norma (invito del datore di lavoro o deposito della sentenza).

Un ulteriore problema di interpretazione della norma si è posto nel recente passato in presenza della cd. revoca del licenziamento e dell’offerta di ripresa del lavoro da parte del datore dopo la notifica del ricorso in sede giudiziale, allorché essa non era accettata dal lavoratore, il quale anzi manifestava la volontà di optare per l’indennità sostitutiva.

Le soluzioni dei giudici di merito sono oscillate tra pronunce che hanno riconosciuto il diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva e altre, minoritarie, che lo hanno negato sul presupposto che l’indennità in parola si collocherebbe come alternativa alla reintegrazione, sicché, non essendo più possibile questa per espressa volontà di rinuncia del lavoratore, non potrebbe essere riconosciuta la prima.

Oggi, a seguito di diversi  interventi della Corte Costituzionale (n. 81/92, n. 77/96, n. 291/96, rel. Mengoni) e di una serie di sentenze della Corte di Cassazione (Cass. 12.6.00 n. 8015; Cass. 16.9.2000 n. 12260, ecc.), si può ormai ritenere assodato il principio secondo cui la revoca del licenziamento intervenuta dopo l’impugnazione giudiziale e non accettata dal lavoratore non impedisce il diritto all’indennità sostitutiva in parola, in quanto essa non è collegata al dictum della sentenza, cioè all’esistenza dell’ordine giudiziale di reintegrazione, ma all’illegittimità del licenziamento.

 

5.Condanna generica, condanna specifica, esecutorietà del titolo giudiziario

Va innanzitutto ricordato che il lavoratore che intenda ottenere il riconoscimento del danno ulteriore rispetto al minimo di legge ha l’onere di avanzare  la relativa domanda (Cass. 10.7.1993 n. 7583).

La domanda risarcitoria costituisce un onere imprescindibile poiché in carenza - in base al principio di autonomia della pretesa indennitaria dalla domanda di reintegrazione - il Giudice si dovrà limitare a disporre solo il minimo delle 5 mensilità risarcitorie di legge. Senza alcuna specifica ed esplicita domanda per un ammontare superiore al minimo e concretamente quantificabile nella misura delle retribuzioni maturate nell’intervallo di tempo dal licenziamento all’effettiva reintegra, il magistrato, non potendo provvedere d’ufficio pena l’incorrere nel vizio di ultrapetizione, dovrà, quindi, limitarsi ad attribuire al lavoratore le sole cinque mensilità previste dalla norma statutaria (Cass. 18.2.1994 n. 1560).

Va altresì segnalata l’esistenza di una situazione di incertezza circa l’esperibilità dell’azione esecutiva, allorché la sentenza di condanna al risarcimento del danno non indichi un importo determinato: infatti, in plurime decisioni si è ritenuto che essa equivale ad una pronuncia di condanna generica, con la conseguente necessità di un ulteriore giudizio per la liquidazione del quantum; altre volte, si è affermato che tale sentenza costituisce valido titolo esecutivo, solo ove la quantificazione del credito del lavoratore risulti da operazioni meramente aritmetiche sulla base dei dati delle buste paga prodotte in giudizio e non contestati dal datore di lavoro. Più recentemente e più restrittivamente, la giurisprudenza ha, poi, precisato che: «Un titolo, anche di formazione giudiziale, non può considerarsi esecutivo se non quando consente la determinazione degli importi dovuti o perché già indicati nel proprio testo, o perché comunque determinabili agevolmente in base agli elementi numerici contenuti in quel testo attraverso operazioni aritmetiche elementari, oppure predeterminati per legge, senza fare ricorso ad elementi numerici ulteriori che non risultino dal testo della pronunzia. L'art. 474 cod. proc. civ. stabilisce, infatti, che il titolo esecutivo debba essere "certo, liquido ed esigibile"» (Cass. 28.4.2010 n. 10164).

Ne consegue da tale orientamento che i dati necessari per la concreta determinazione del danno devono essere tratti dal contenuto della sentenza e non da elementi esterni, quali appunto le buste paga o l’indicazione ad opera della parte dell’ammontare della retribuzione mensile, soprattutto quando l’entità della retribuzione, oggetto della statuizione di condanna, non è stata assunta come premessa necessaria della decisione ovvero non è stata accertata dalla sentenza come pacifica tra le parti (Cass. 9.3.1995 n. 2760; Cass. 11.6.1999 n. 5784).

Infine, è da escludersi che la sentenza di annullamento del licenziamento e di condanna al risarcimento del danno costituisca titolo esecutivo ai fini del pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, ove l’opzione non sia stata formulata nel (corso del) giudizio e quindi manchi una pronuncia del giudice al riguardo. Anche di recente, una ricca giurisprudenza di merito ha ribadito che il titolo esecutivo costituito dalla sentenza di reintegrazione non consente di agire per la soddisfazione del diritto economico dell’indennità alternativa alla reintegrazione, qualora l’opzione venga esercitata successivamente alla sentenza, e che pertanto - in caso di mancato spontaneo pagamento da parte datoriale – il lavoratore deve agire con una nuova causa o con la richiesta di un decreto ingiuntivo nell’ambito del procedimento monitorio.

 

Mario Meucci - Giuslavorista

 

Roma, luglio 2010

 

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