- 1.
Premessa
- Analizzate sinora
le cause, le manifestazioni e gli effetti del mobbing, ed
avendone quindi ben chiara la definizione, è possibile ora delineare il
quadro normativo generale che, nell'ordinamento attualmente vigente,
costituisce riferimento per la tutela del lavoratore nel caso in cui sia
sottoposto a persecuzioni psicologiche.
- Come
già emerso nei precedenti interventi, infatti, anche in carenza di una
legislazione ad hoc la giurisprudenza ha sviluppato, utilizzando
norme già esistenti, delle ricostruzioni giuridiche che permettono di
sanzionare il mobbing e molti dei singoli comportamenti ad esso
ascrivibili.
Esamineremo qui gli strumenti di tutela che sono già rinvenibili
nell'ordinamento e, in seguito, forniremo una breve illustrazione dei
progetti e disegni di legge che sono stati presentati, sia in epoca
molto recente sia da diversi anni, in materia di molestie morali sul
luogo di lavoro.
2. Il quadro normativo attuale
Nella ricerca di una disciplina giuridica che permettesse, da un
lato, la tutela del lavoratore ed il risarcimento per i danni subiti in
conseguenza dei comportamenti persecutori sul lavoro e che, dall'altro,
sanzionasse e scoraggiasse detti comportamenti, la giurisprudenza
consolidata ha fatto uso di diversi principi e norme appartenenti a
molteplici rami del diritto. Sono richiamabili in materia sia
disposizioni internazionali e comunitarie sia norme costituzionali,
nonché regole civilistiche, penali e legislazioni speciali (Statuto dei
lavoratori, disciplina di tutela della salute e sicurezza sul lavoro).
Il mobbing, infatti, costituisce una fattispecie complessa che
comporta il coinvolgimento (e la compromissione) di diritti fondamentali
non solo dell'individuo in qualità di prestatore di lavoro, ma anche
della persona in quanto tale. Ne deriva la costruzione di un articolato
impianto normativo dove le regole vengono a combinarsi e sovrapporsi, in
relazione alle modalità concrete di attuazione delle condotte
persecutorie ed ai beni giuridici che esse ledono.
La nostra trattazione riguarderà le norme di tutela civilistica, anche
se non potranno essere sottaciute le principali norme penali rilevanti.
2.1. Le norme cardine della tutela
La base della ricostruzione giurisprudenziale consolidata in questa
materia, che tiene conto dei principi fondamentali, comunitari e
costituzionali, è costituita da una lettura combinata delle norme
costituzionali di cui all'art. 32 Cost. (che sancisce il diritto
primario ed assoluto alla salute) ed all'art. 41, comma 2, Cost. (che
pone un limite al principio della libertà di iniziativa economica
privata laddove ne vieta l'esercizio con modalità tali da pregiudicare
la sicurezza e dignità umana) con le norme civilistiche contenute
nell'art. 2087 c.c. (che individua la responsabilità contrattuale del
datore di lavoro) e/o nell'art. 2043 c.c. (che delinea invece la
responsabilità extra-contrattuale), nonché negli artt. 1175 e 1375
c.c., (principi di correttezza e buona fede). In particolare, l'art.
2087 c.c., che, ad integrazione ex lege delle obbligazioni
nascenti dal contratto di lavoro, dispone che "L'imprenditore è
tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che,
secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono
necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei
prestatori di lavoro," è interpretato in quest'ambito dalla
costante giurisprudenza come norma di chiusura del sistema di protezione
del lavoratore, che impone al datore di lavoro non solo l'adozione delle
misure richieste specificamente dalla legge, dall'esperienza e dalle
conoscenze tecniche, ma anche l'obbligo più generale di attuare tutte
le misure generiche di prudenza e diligenza necessarie al fine di
tutelare l'incolumità ed integrità psico-fisica del lavoratore. Da
questa disposizione viene quindi fatto derivare sia il divieto per il
datore di lavoro di compiere direttamente qualsiasi comportamento (quale
ne siano la natura o l'oggetto) lesivo dell'integrità fisica e della
personalità morale del dipendente, sia di prevenire e scoraggiare la
realizzazione di simili condotte nell'ambito ed in connessione con lo
svolgimento dell'attività lavorativa. L'inadempimento di tale suo
obbligo, genera la responsabilità contrattuale del datore di lavoro.
In giurisprudenza è stato chiarito che la responsabilità diretta ex
art. 2087 c.c. del datore di lavoro per la lesione della salute del
lavoratore è esclusa quando sono eccezionali, inevitabili ed
assolutamente imprevedibili le conseguenze che in concreto scaturiscono,
per il soggetto passivo, dall'atteggiamento perpetrato in azienda (in
questo caso si è ritenuto non sussistente il nesso causale). Infatti,
"per accertare se una condotta umana sia (..) causa (..) di un
determinato evento, è necessario stabilire un confronto tra le
conseguenze che, secondo un giudizio di probabilità ex ante,
essa era idonea a provocare e le conseguenze in realtà verificatesi, le
quali, ove non prevedibili ed evitabili, escludono il rapporto
eziologico tra il comportamento umano e l'evento, sicché, per la
riconducibilità dell'evento ad un determinato comportamento, non è
sufficiente che tra l'antecedente ed il dato conseguenziale sussista un
rapporto di sequenza, occorrendo invece che tale rapporto integri gli
estremi di una sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità
statistica, per cui l'evento appaia come una conseguenza normale
dell'antecedente."
La considerazione dell'inadempimento dell'obbligo del datore di lavoro
di porre in essere tutte le misure necessarie al fine di proteggere
l'integrità psico-fisica del lavoratore acquista particolare rilievo
laddove si consideri che il datore venuto al corrente di condotte
illegittime perpetrate dai suoi dipendenti ha a disposizione strumenti
per intervenire a tutela dei lavoratori vessati.
In giurisprudenza è stata riconosciuta, infatti, la legittimità del
licenziamento in tronco di lavoratori che abbiano posto in essere delle
gravi condotte nei confronti di altri dipendenti. In particolare, ciò
si è verificato con riferimento a comportamenti di molestia sessuale (e
anche se il lavoratore era stato assolto in sede di giudizio penale), e
in un caso in cui il superiore gerarchico, che aveva tentato in modo
molesto di instaurare una relazione sentimentale con una dipendente a
lui subordinata gerarchicamente, la aveva poi sottoposta a vessazioni e
discriminazioni.
Oltretutto, è stato anche ritenuto in giurisprudenza che il
licenziamento disciplinare può in questi casi così gravi, ed in
generale in tutti i casi di comportamenti "lesivi dell'interesse
dell'impresa e manifestamente contrari all'etica comune o
contraddistinti da rilevanza penale," essere fondato direttamente
sulla legge, senza che sia necessaria la previsione nel codice
disciplinare di tali condotte. Tali comportamenti, infatti, violano i
doveri fondamentali del lavoratore ed i principi della convivenza
civile, e sono tali da manifestare "consapevole ribellione o
trascuratezza dell'autore del fatto nei confronti dell'assetto
organizzativo in cui è inserito."
Il potere del datore di sanzionare disciplinarmente i lavoratori che
mettono in atto comportamenti molesti verso altri può valere non solo
nei casi in cui le condotte lesive siano compiute ad opera dei superiori
nei confronti dei soggetti sottoposti al loro potere gerarchico, ma
anche nell'ipotesi opposta: il datore di lavoro può sanzionare,
specificamente recedendo dal rapporto di lavoro, le condotte gravemente
offensive, gli insulti, ingiurie e minacce dei lavoratori di livello
inferiore nei confronti dei superiori. In tali condotte sono state
spesso riscontrate lesioni del prestigio del datore di lavoro per il
buon andamento dell'azienda, negazione del potere gerarchico e rifiuto
di obbedienza all'ordine di lavoro legittimamente dato (con violazione
dei diritti del datore all'ordinato adempimento della prestazione
lavorativa e corrispondente violazione degli obblighi del lavoratore di
diligenza e di osservanza delle disposizioni dettate per l'esecuzione e
la disciplina del lavoro). È stato anche ritenuto licenziabile il
lavoratore risultato essere il responsabile di diverbi ripetuti, tali da
determinare un ambiente lavorativo insopportabile.
Secondo certa giurisprudenza, la responsabilità contrattuale ex
art. 2087 c.c., sin qui analizzata, può concorrere con quella
extracontrattuale originata dalla violazione di diritti soggettivi
primari (vengono ancora qui in rilievo la lesione del diritto alla
salute ex art. 32 Cost. e di quello alla sicurezza e dignità -
nella specie, dei lavoratori - sancito dall'art. 41, comma 2, Cost.),
poiché sul datore di lavoro grava il generale obbligo di neminen
ledere previsto dall'art. 2043 c.c. ed anche quello specificamente
stabilito dall'art. 2049 c.c. (responsabilità indiretta dei padroni e
committenti per il fatto illecito dei loro dipendenti commesso
nell'esercizio delle incombenze lavorative).
2.2. Le altre norme rilevanti
Le norme appena richiamate non esauriscono il quadro normativo di
riferimento del mobbing: se esse rappresentano le disposizioni
che la giurisprudenza ha sempre applicato nelle sue decisioni al fine di
garantire un risarcimento al lavoratore leso, è pur vero che altre
norme fondamentali vengono comunque in rilievo e che ulteriori
(specifiche) disposizioni devono essere combinate a quelle basilari in
relazione all'articolarsi, nel caso concreto, delle specifiche condotte
lesive.
2.2.1. Norme fondamentali, interne ed internazionali
Tra le norme fondamentali che rivestono rilievo in materia di mobbing,
si annoverano disposizioni sia costituzionali sia internazionali e
comunitarie, cui la giurisprudenza ha attinto per coordinare ed
interpretare le norme che ha, come appena evidenziato, direttamente
applicato nel sanzionare le condotte lesive.
Nella Costituzione, assumono importanza a riguardo l'art. 2, che
riconosce e garantisce "i diritti inviolabili dell'uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità,"
l'art. 4, che sancisce il diritto al lavoro e la promozione delle
condizioni che lo rendano effettivo, l'art. 13 che riconosce il diritto
inviolabile alla libertà personale, l'art. 35, che al primo comma
prevede che "la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme
ed applicazioni" ed al secondo menziona la cura dell'elevazione
professionale dei lavoratori, l'art. 46, che, ai fini dell'elevazione
economica e sociale del lavoro, riconosce il diritto dei lavoratori a
collaborare alla gestione delle aziende.
Nel diritto internazionale, a riconoscimento (e tutela, ovviamente nei
limiti di sanzionabilità propri di questo ordinamento) dei diritti
fondamentali della persona, particolare rilievo rivestono la
Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo (New York, 10 dicembre
1948), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle libertà fondamentali (Roma, 4 novembre 1950), la Carta sociale
europea (Torino, 18 ottobre 1961), i Patti ONU sui diritti civili e
politici e sui diritti economici, sociali e culturali (16 dicembre
1966).
In particolare nel diritto comunitario, sono rilevanti la Carta
comunitaria dei diritti fondamentali dei lavoratori (Strasburgo, 9
dicembre 1989) ed i principi ricavabili dalla recente Risoluzione del
Parlamento sul rispetto dei diritti dell'uomo nell'Unione Europea del
1997, che: tra gli altri diritti fondamentali, riafferma il diritto al
rispetto della vita privata e familiare, della libertà di opinione e di
espressione, il diritto al lavoro, il diritto all'organizzazione
collettiva degli interessi; esprime preoccupazione per l'aumento della
violenza nei luoghi di lavoro, che va "dalla rissa all'aggressione
fisica passando per le molestie sessuali e le angherie;" ribadisce
i fondamenti giuridici della lotta contro le discriminazioni ed il
razzismo.
2.2.2. Norme che devono, nella fattispecie specifica, essere
considerate
Oltre alle norme di applicazione generale, esistono nell'ordinamento
norme, spesso molto rilevanti, che possono e devono essere applicate se,
nel caso concreto, si verificano i comportamenti che ne integrano la
fattispecie.
Richiamando qui quanto esposto nel trattare i singoli comportamenti
ascrivibili al mobbing nella nostra prima relazione, rileviamo
innanzitutto che la prima tra tutte queste norme è la disposizione
contenuta nell'art. 2103 c.c. (che vieta le ipotesi di demansionamento e
dequalificazione, e la cui violazione dà luogo al risarcimento del
danno alla professionalità): ciò perché la non osservanza di questa
norma si verifica molto frequentemente, come dimostrato dalla cospicua
giurisprudenza in materia.
Inoltre, se il comportamento di mobbing si sostanzia o comporta
una qualsiasi forma di discriminazione saranno applicabili le norme
antidiscriminatorie (anche di rango costituzionale ed internazionale).
Segnatamente, l'art. 3 Cost., che riconosce il diritto all'uguaglianza
formale e sostanziale, buona parte degli articoli contenuti nel Titolo
III della Costituzione (rapporti economici: art. 35, ultimo comma, per
la libertà di emigrazione e la tutela del lavoro italiano all'estero,
art. 37, comma 1 per il lavoro femminile, art. 39 per la libertà
sindacale); le norme internazionali e comunitarie in tema di divieto di
discriminazione sul lavoro; lo Statuto dei Lavoratori, all'art. 15,
comma 1, lettera b, e comma 2, che vieta gli atti a qualsiasi titolo
discriminatori durante il rapporto di lavoro, all'art. 19 sulla libertà
sindacale, all'art. 8 che vieta le indagini di opinione, nella misura in
cui, non essendo giustificate da esigenze lavorative, potrebbero nella
pratica indurre il datore a discriminare il lavoratore a causa delle sue
opinioni; infine, la legislazione specifica a tutela della non
discriminazione per il lavoro femminile (L. 9 dicembre 1977, n. 903 e L.
10 aprile 1991, n. 125 sulle "azioni positive per la realizzazione
della parità uomo-donna nel lavoro") e per i portatori di
infezione HIV (art. 5, L. 5 giugno 1990, n. 135).
Nel caso in cui, come si è verificato, il comportamento del datore di
lavoro consista nel richiedere ripetutamente all'Inps di effettuare le
visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del
dipendente, può essere verificato il mancato rispetto dell'art. 5, St.
Lav., in tema appunto di accertamenti sanitari.
Se il comportamento datoriale si concreta nella pressione per indurre il
lavoratore alle dimissioni o comunque ne altera il comportamento a tal
punto che il lavoratore si dimette, come già evidenziato sono
applicabili anche l'art. 428 c.c. o l'art. 1434 c.c., ai fini
dell'impugnazione delle dimissioni.
Potrebbe anche verificarsi il caso che, in relazione a casi di mobbing,
siano violate norme disposte dal D.Lgs. n. 626/1994 in tema di salute e
sicurezza nell'ambito lavorativo, in attuazione delle Direttive
comunitarie al fine di introdurre un nuovo modello di impresa sicura,
compartecipativa e funzionante nella sinergia tra datore di lavoro e
lavoratori.
Rilevano qui la generale disposizione dell'art. 5, comma 1, che
stabilisce che "ciascun lavoratore deve prendersi cura della
propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone
presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle
sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle
istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro" (obbligo che è
ragionevole ipotizzare che possa essere disatteso dal lavoratore che si
trovi in stato di tensione emotiva e di disagio psicologico) e quella
dell'art. 5, comma 2, lettera h), secondo la quale i lavoratori sono
chiamati a contribuire "insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e
ai preposti, all'adempimento di tutti gli obblighi imposti dall'autorità
competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute
dei lavoratori durante il lavoro", sanzionata penalmente in caso di
omissione.
Ancora, nel caso in cui la condotta di mobbing causi un danno
alla salute ed integri il reato di lesioni personali, potrebbero trovare
applicazione l'art. 582 c.p. (lesione personale) e l'art. 590 c.p.
(reato di lesioni personali colpose), che sanziona, con previsione
generale, chi cagiona per colpa una lesione personale ad altri soggetti.
Per quanto riguarda la condotta di molestie sessuali, esse può
integrare il corrispondente reato (disciplinato della L. n. 66/1996).
Sul tema riveste particolare rilievo anche l'ordinamento comunitario, in
particolare con la Risoluzione del Parlamento 11 giugno 1986 sulla
violenza contro le donne, la Risoluzione del Consiglio 29 maggio 1990
sulla protezione della dignità della donna e dell'uomo sul lavoro (che
invita gli Stati membri a ricordare ai datori di lavoro la loro
responsabilità di cercare di assicurare che l'ambiente di lavoro sia
libero dalle condotte lesive di natura sessuale e dalla vittimizzazione
di chi denuncia il fatto o fornisce prove in caso di gravame), la
Raccomandazione della Commissione CE, 27 novembre 1991 ed il Codice di
condotta emanato di conseguenza, come auspicato in tali atti. Queste
indicazioni sono ora disposte a tutela dei lavoratori di entrambi i
sessi, contro condotte comprendenti anche quelle attuate da superiori e
colleghi e che sono qualificate come "intollerabili violazioni
della dignità dei lavoratori" (e, in certi casi, considerare
contrarie al principio di uguale trattamento di cui alla Direttiva
76/207/EEC).
Infine, è stata ipotizzata la possibile integrazione di abuso di
ufficio (art. 323 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.), e
dell'aggravante per aver commesso il fatto con abuso di autorità, di
relazioni d'ufficio o di prestazione d'opera (art. 61 n. 11 c.p.c.).
3. I disegni, progetti e proposte di legge
Come più volte accennato, in materia di mobbing sono stati
presentati in Parlamento diversi disegni, progetti, e proposte di legge
aventi finalità preventive e di informazione ma anche repressive. Molti
di essi sono recenti, tuttavia ve ne sono alcuni che erano stati
presentati già anni addietro, ma per i quali l'interesse è ora
rinnovato, in occasione della diffusione della conoscenza di questo
problema.
I testi che mirano proprio a tutelare il mobbing sul luogo di
lavoro (definito prevalentemente come violenza o persecuzione
psicologica, terrorismo psicologico) sono il progetto di legge Camera
1813, il progetto di legge Camera 6410, il disegno di legge Senato 4265,
il disegno di legge Senato 4313, il progetto di legge Senato 4512. Su di
essi, ovviamente, ci soffermeremo più approfonditamente.
Inoltre, ma con riferimento alle violenze morali e persecuzioni
psicologiche in generale, quindi in ogni ambito nel quale si manifesta
la personalità umana e non solo in quello lavorativo, è stato
presentato il progetto di legge Camera 6667. Il progetto di legge ha il
titolo "Disposizioni per la tutela della persona da violenze morali
e persecuzioni psicologiche" ed è stato presentato alla Camera il
giorno 5 gennaio 2000. Esso prevede sanzioni penali per chi pone in
essere "atti di violenza psicologica" nei confronti di
"altri costretti a subire tali atti a causa di uno stato di
necessità," sanzioni che sono aumentate nel caso in cui tali
condotte comportino "per la persona offesa anche danni psico-fisici
o danni materiali ed economici." All'art. 4, il progetto di legge
individua i comportamenti che integrano la fattispecie generale appena
definita.
Infine, in relazione allo svolgimento del lavoro ma limitatamente alla
sola condotta di molestie sessuali, sono stati presentati i progetti di
legge Senato 4817, Camera 601 e Camera 5090.
3.1 . Il progetto di legge Camera 1813
Il più risalente progetto di legge presentato sul mobbing
nell'ambiente di lavoro è anche quello che più si distacca dagli altri
in materia : infatti, esso consiste di un solo articolo che prevede
la sanzione del comportamento lesivo sotto il profilo penale. Il
progetto, che reca "norme per la repressione de terrorismo
psicologico nei luoghi di lavoro", nell'unica norma dispone che:
"Chiunque cagiona un danno ad altri ponendo in essere una condotta
tesa ad instaurare una forma di terrore psicologico nell'ambiente di
lavoro è condannato alla reclusione da 1 a 3 anni e all'interdizione
dai pubblici uffici fino a tre anni." Nel comma 2, sono
specificate, con formulazione sintetica ma che rispecchia i risultati già
raggiunti nella sociologia, psicologia e medicina del lavoro, le azioni
che integrano la condotta delittuosa: "molestie, minacce, calunnie
e ogni altro atteggiamento vessatorio che conduca il lavoratore
all'emarginazione, alla diseguaglianza di trattamento economico e di
condizioni lavorative, all'assegnazione di compiti o funzioni
dequalificanti."
3.2. Il disegno di legge Senato 4265
Il disegno di legge Senato 4265, porta il titolo "Tutela della
persona che lavora da violenze morali e persecuzioni psicologiche
nell'ambito dell'attività lavorativa." Come risulta dalla
relazione che lo accompagna, il d.d.l. ha, innanzitutto, lo scopo di
"favorire una azione preventiva efficace," tramite l'informazione-sensibilizzazione
e l'intervento prima che le condotte di mobbing abbiano cagionato
danni, ma anche quello di fornire, comunque, strumenti di tutela ex
post, repressivi e riparatori. E ciò non solo al fine, etico e di
giustizia, della "tutela individuale della dignità ed integrità
della persona," per la correttezza nei rapporti umani e la civile
convivenza e coesione, ma anche a quello, di opportunità economica, di
impedire la "generazione di diseconomie interne ed esterne al luogo
di lavoro," per il buon funzionamento delle aziende e la
minimizzazione dei costi sociali e sanitari. É ivi infatti ritenuto che
la menomazione dell'opportunità di autorealizzazione che l'individuo
trova nel lavoro ha effetti negativi su entrambi questi aspetti, mentre
"la cooperazione nel lavoro è la migliore strada per una adeguata
utilizzazione e valorizzazione delle risorse umane." Nella sua
formulazione il disegno di legge tiene conto e ne ricava spunti, degli
studi anglosassoni, e particolarmente di quelli che sono stati
considerati ed hanno fornito spunti gli studi scandinavi.
Il D.d.l. tutela ogni lavoratore impiegato in "tutte le tipologie
di lavoro, pubblico e privato, comprese le collaborazioni,
indipendentemente dalla loro natura, mansione e grado," e definisce
i comportamenti cui esso si applica (identificanti quindi il mobbing)
come "violenze morali e persecuzioni psicologiche perpetrate in
ambito lavorativo" (artt. 1 e 2). Integrano tale nuova fattispecie
tutte le azioni che mirano esplicitamente a danneggiare una lavoratrice
o un lavoratore e sono svolte con carattere sistematico, duraturo e
intenso.
All'interno di questa ampia definizione generale, conforme a quella
raggiunta nella psicologia del lavoro, il d.d.l. fornisce un elenco di
comportamenti specifici che, per costituire "violenze morali e
persecuzioni psicologiche," devono "mirare a discriminare,
screditare o, comunque, danneggiare il lavoratore nella propria
carriera, status, potere formale e informale, grado di influenza
sugli altri." Sono inoltre aggiunti altri comportamenti che vengono
considerati nel d.d.l. allo stesso modo, ed è previsto che
"ciascun elemento concorre individualmente nella valutazione del
livello di gravità." Come si può notare, la copiosa enumerazione
di tali singole condotte rispecchia sia in larga misura i risultati già
raggiunti nel nostro ordinamento in materia, sia quelli degli studi
scientifici in materia di psicologia, medicina e sociologia del lavoro.
Inoltre, il d.d.l. accoglie l'estensiva definizione sviluppatasi
in quell'ambito anche quando riconosce espressamente che le condotte
lesive possono essere "comunque attuate" non solo dal datore
di lavoro o da superiori, ma anche da pari-grado o inferiori.
Singolare è la previsione, che forse meriterebbe considerazioni a
parte, secondo la quale "ai fini dell'accertamento della
responsabilità soggettiva, l'istigazione é considerata equivalente
alla commissione del fatto."
Per quanto riguarda gli interventi a fini preventivi, l'art. 3 prevede
l'obbligo per i datori di lavoro e le rappresentanze sindacali aziendali
di effettuare azioni di informazione periodica verso i lavoratori,
azioni che "concorrono ad individuare, anche a livello di sintomi,
la manifestazione di condizioni" dei comportamenti lesivi. É
stabilito espressamente che tale attività informativa deve riguardare
anche "gli aspetti organizzativi - ruoli, mansioni, carriere,
mobilità - nei quali la trasparenza e la correttezza nei rapporti
aziendali e professionali deve essere sempre manifesta." Altri
strumenti informativi previsti sono: la comunicazione del Ministero del
Lavoro e della Previdenza Sociale relativa alla tutela dalle violenze
morali e dalla persecuzione psicologica nel lavoro, che deve essere
consegnata dal datore di lavoro ai lavoratori, al momento della
formalizzazione di qualsiasi tipo di rapporto di lavoro e affissa nelle
bacheche aziendali; due ore aggiuntive di assemblea su base annuale,
fuori dall'orario di lavoro, per trattare questo tema, cui possono
partecipare rappresentanze sindacali aziendali, dirigenti sindacali ed
esperti.
- In
riferimento agli interventi da attuare prima che le violenze morali e
persecuzioni psicologiche abbiano cagionato danni, l'art. 3, comma
secondo, stabilisce che quando sono denunciati i comportamenti lesivi al
datore di lavoro e alle rappresentanze sindacali aziendali, questi due
soggetti devono attivare "procedure tempestive di accertamento dei
fatti denunciati e misure per il loro superamento," per la
predisposizione delle quali "vengono sentiti anche i lavoratori
dell'area aziendale interessata ai fatti accertati."
Per quanto riguarda le conseguenze dei comportamenti illeciti, l'art. 4
stabilisce che sia nei confronti di coloro che attuano le azioni lesive,
sia di chi denuncia consapevolmente violenze morali e persecuzioni
psicologiche che si rivelino inesistenti per ottenere vantaggi comunque
configurabili, "si può realizzare responsabilità disciplinare,
secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva." L'art. 5,
inoltre, prevede, per il lavoratore che abbia subito il comportamento
lesivo e che non ritenga di avvalersi delle procedure di conciliazione
previste dai contratti collettivi, la possibilità di adire il giudice
ex art. 413 c.p.c. e di promuovere il tentativo di conciliazione ex art.
410 c.p.c., anche attraverso le rappresentanze sindacali aziendali.
Sempre l'art. 5 sancisce la condanna ad opera del giudice del
responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento del danno, da
liquidarsi in forma equitativa. In mancanza di ulteriori precisazioni a
riguardo, è stato rilevato in dottrina che essa potrebbe ipotizzare il
risarcimento del danno biologico, del danno morale ex art. 2059
c.c. slegato dall'integrazione di un reato e del danno professionale (da
dequalificazione o perdita di chances di carriera). Infine, l'art. 7
recita: "Su istanza della parte interessata, il giudice può
disporre che del provvedimento di condanna o di assoluzione venga data
informazione, a cura del datore di lavoro, mediante lettera ai
dipendenti interessati, per reparto e attività, dove si é manifestato
il caso di violenza morale e persecuzione psicologica, oggetto
dell'intervento giudiziario, omettendo il nome della persona che ha subíto
tali azioni di violenza e persecuzione."
L'art. 8 prevede la nullità di tutti gli atti o fatti che derivano da
comportamenti lesivi, nonché la presunzione, salvo prova contraria ex
art. 2728, comma secondo, c.c., del contenuto discriminatorio dei
provvedimenti, in qualunque modo peggiorativi della condizione
professionale, relativi alla posizione soggettiva del lavoratore che
abbia posto in essere una denuncia per violenze morali e persecuzioni
psicologiche, adottati entro un anno dal momento della denuncia,
compresi i trasferimenti e i licenziamenti ("atti discriminatori e
di ritorsione").
L'art. 6 stabilisce che "le variazioni nelle qualifiche, nelle
mansioni, negli incarichi, nei trasferimenti o le dimissioni,
determinate da azioni di violenza morale e persecuzione psicologica,
sono impugnabili ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 2113
c.c., salvo risarcimento dei danni" come stabilito dall'articolo 5
del D.d.l. Come noto, l'impugnabilità ex art. 2113 c.c. evita che la
prescrizione decorra in corso di rapporto lavorativo (come avviene
invece in regime di stabilità reale del posto di lavoro).
3.3. Il progetto di legge Camera 6410
Il giorno 30 settembre 1999, pochi giorni prima rispetto al D.d.l.
appena trattato, è stata presentata alla Camera la proposta di legge
(Camera 6410) dal titolo "Disposizioni a tutela dei lavoratori
dalla violenza e dalla persecuzione psicologica."
Molti sono i punti di contatto con il D.d.l. Senato 4265. Infatti, anche
il progetto di legge sottoposto alla Camera: muove dai risultati degli
studi anglosassoni di psicologia del lavoro e dalle statistiche
relative; rileva l'esigenza di una regolamentazione del mobbing
sia allo scopo di tutelare la dignità umana e l'integrità psico-fisica
dei lavoratori sia di minimizzare i costi dati dalla formazione di
diseconomie interne all'azienda e per la cura dei danni provocati dalle
condotte lesive, con conseguente accentuazione dell'importanza delle
iniziative preventive, e particolarmente di quelle informative; è
applicabile sia ai datori di lavoro privati sia a quelli pubblici;
prevede due ore supplementari su base annuale per effettuare riunioni
informative sul problema, fuori dall'orario di lavoro; prevede
l'applicazione delle sanzioni disciplinari a chi commette le azioni
persecutorie o a chi denuncia consapevolmente
il compimento di vessazioni
inesistenti, al fine di ottenere vantaggi comunque configurabili;
prevede, negli stessi termini, la tutela giudiziale ed il risarcimento
del danno liquidabile in forma equitativa.
Tuttavia, tra le due proposte vi sono alcune differenze, che meritano di
essere sottolineate, seppur sinteticamente.
L'art. 1, fornisce la definizione di mobbing specificando di
disporre la tutela dei lavoratori da "atti e comportamenti ostili
che assumono le caratteristiche della violenza e della persecuzione
psicologica, nell'ambito dei rapporti di lavoro." La fattispecie
"violenza e della persecuzione psicologica" è integrata dagli
"atti posti in essere e i comportamenti tenuti da datori di lavoro,
nonché da soggetti che rivestano incarichi in posizione sovraordinata o
pari grado nei confronti del lavoratore, che mirano a danneggiare
quest'ultimo e che sono svolti con carattere sistematico e duraturo e
con palese predeterminazione." Al di là della differenza
terminologica nella definizione dei comportamenti lesivi e nel requisito
della palese predeterminazione invece che dell'intensità, viene in
rilievo qui un'importante differenza rispetto al D.d.l. Senato 4265: la
limitazione della definizione di mobbing a quelli posti in essere
da colleghi fino al pari grado rispetto a chi subisce i comportamenti
lesivi, con esclusione invece di quelli posti in essere da dipendenti
con posizione inferiore nella gerarchia aziendale: la nozione è quindi
più restrittiva, e si discosta da quella prospettata dalla psicologia
del lavoro.
L'art. 1 fornisce anch'esso un elenco di comportamenti rilevanti
(precisando che essi "si caratterizzano per il contenuto vessatorio
e per le finalità persecutorie, e si traducono in maltrattamenti
verbali e in atteggiamenti che danneggiano la personalità del
lavoratore, quali il licenziamento, le dimissioni forzate, il
pregiudizio delle prospettive di progressione di carriera,
l'ingiustificata rimozione da incarichi già affidati, l'esclusione
dalla comunicazione di informazioni rilevanti per lo svolgimento delle
attività lavorative, la svalutazione dei risultati ottenuti"), ma
rinvia ad un decreto da emanarsi ad opera del Ministro del lavoro e
della previdenza sociale, per l'individuazione delle fattispecie di
violenze e persecuzioni rilevanti ai fini del provvedimento.
L'elencazione già fornita nell'articolo non è perciò esauriente ed è
solo esemplificativa.
É espressamente delineato l'ambito in cui il danno di natura
psico-fisica provocato dagli atti e comportamenti lesivi rileva ai fini
del provvedimento: ciò avviene quando esso comporta la menomazione
della capacità lavorativa, ovvero pregiudica l'autostima del lavoratore
che li subisce, ovvero si traduce in forme depressive (art. 1, comma
quarto). In questi precisi termini, è comunque riconosciuta la
rilevanza del danno biologico, che si differenzia dalla menomazione
della capacità lavorativa e comprende le altre due eventualità
prospettate dall'articolo.
L'art. 2 prevede anch'esso l'annullabilità degli atti e delle decisioni
"concernenti le variazioni delle qualifiche, delle mansioni, degli
incarichi, ovvero i trasferimenti, riconducibili alla violenza e alla
persecuzione psicologica" ma stabilisce solo che essi sono
annullabili a richiesta del lavoratore danneggiato, non facendo alcun
riferimento, invece, all'art. 2113 c.c.
Per quanto riguarda le azioni di prevenzione ed informazione, oltre al
menzionato decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale ed
alle due ore supplementari per assemblee informative, l'art. 3 prevede
che "i datori di lavoro e le rispettive rappresentanze sindacali
adottano tutte le iniziative necessarie allo scopo di prevenire la
violenza e la persecuzione psicologica (…) ivi comprese le
informazioni rilevanti con riferimento alle assegnazioni di incarichi,
ai trasferimenti, alle variazioni nelle qualifiche e nelle mansioni
affidate, nonché tutte le informazioni che attengono alle modalità di
utilizzo dei lavoratori," e che tali informazioni, insieme al
decreto ministeriale contenente le fattispecie sanzionate, devono essere
affisse nelle bacheche aziendali.
Relativamente alle misure da intraprendere tempestivamente, l'art. 3
prosegue prevedendo che in caso di denuncia dei comportamenti lesivi al
datore di lavoro ovvero alle rappresentanze sindacali aziendali,
"questi ultimi hanno l'obbligo di porre
in essere procedure tempestive di accertamento dei fatti denunciati,
eventualmente anche con l'ausilio di esperti esterni all'azienda",
ed "il datore di lavoro è tenuto ad assumere le misure necessarie
per il loro superamento" (dal tenore della frase sembra che
quest'ultimo obbligo sia posto solo a carico del datore di lavoro, e non
anche delle OO.SS., come invece nel D.d.l. al Senato). É previsto che
"all'individuazione di tali misure si procede mediante il concorso
dei lavoratori dell'area aziendale interessata ai fatti accertati."
Per quanto riguarda la pubblicità del provvedimento del giudice, l'art.
6 prevede che il giudice può disporre che sia data informazione del
provvedimento di condanna (mentre nulla è detto di quello di
assoluzione, a differenza di quanto stabilito dal D.d.l. Senato 4265),
indicando se debba essere omesso il nome della persona che ha subito
tali violenze o persecuzioni.
3.4. Il disegno di legge Senato 4313
In buona parte analogo ai progetti illustrati sinora è il disegno
di legge Senato 4313, comunicato alla presidenza il 2 novembre 1999, che
reca "Disposizioni a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici
dalla violenza psicologica."
Tuttavia, questo disegno di legge presenta dei tratti distintivi:
innanzitutto, esso disciplina espressamente, all'art. 4, la condotta di
"strategia societaria illecita", vale a dire il comportamento
del datore di adottare strategie, "con lo scopo di provocare le
dimissioni o il licenziamento di uno o piú lavoratori, al fine di
ridurre o razionalizzare il proprio personale": in questo caso, è
previsto che il giudice possa disporre per gli amministratori o i
responsabili l'interdizione per un anno da qualsiasi ufficio.
Inoltre, nel prevedere l'obbligo del datore e dei sindacati di accertare
la sussistenza di comportamenti lesivi e di assumere i provvedimenti
necessari per il loro superamento, stabilisce specificamente che
l'accertamento clinico sia effettuato da consulenti e psicologi esterni,
e ne determina le modalità. Solo nel caso in cui sia accertato il
fenomeno persecutorio il lavoratore avrà diritto al rimborso, da parte
del datore di lavoro, delle spese mediche e psicoterapeutiche sostenute
al fine di un suo pieno recupero psicologico, sociale, relazionale e
lavorativo.
Ancora, il d.d.l. istituisce presso la Camera di Commercio di Roma uno
"sportello unico contro gli abusi nei posti di lavoro", allo
scopo di offrire consulenza a chi si ritiene vittima di mobbing
(fatto salvo il diritto di sindacati e associazioni datoriali, secondo
quanto previsto dall'art. 20, D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, di
istituire appositi organismi paritetici per promuovere la cultura della
prevenzione nei confronti delle violenze psicologiche).
Infine, la normativa proposta specifica che gli atti riconducibili alla
discriminazione sessuale, oltre ad essere nulli, devono essere
immediatamente comunicati al Ministero per le pari opportunità secondo
quanto previsto dalla legge 10 aprile 1991, n. 125;
3.5. Il progetto di legge Senato 4512
Anche il progetto di legge Senato 4512, è assimilabile ai
precedenti, salvo che per il fatto che i compiti preventivi e di
accertamento sono affidati ad organi interni appositamente costituiti
(di cui fanno parte un rappresentante del datore di lavoro, uno dei
lavoratori ed un esperto nominato dalla ASL competente per territorio)
cui il lavoratore che si ritenga danneggiato può rivolgersi. Deve
essere notato che il soggetto tenuto ad assumere le misure necessarie
per la rimozione degli effetti dei fatti denunciati resta però,
comunque, il datore di lavoro (artt. 3 e 4).
Inoltre, è previsto che, a fronte del diritto del lavoratore di
chiedere al datore di lavoro informazioni relative all'assegnazione
degli incarichi, ai trasferimenti, alle variazioni di qualifiche e
mansioni, il datore sia tenuto a fornirle salvo il caso di rifiuto
motivato quando possa derivare un danno per l'azienda o i terzi.