Reati da mobbing in ambito aeroportuale (abuso d'ufficio e diffamazione)

 

Cass. pen., VI sez., 11 giugno 2007, n. 22702 -  Pres. Sansone – Rel. Ambrosiani -  P.M. Favalli  (conf.)- Ricorrente: M.

 

Abuso in atti d’ufficio per demansionamento – Elemento materiale e dolo – Diffamazione compiuta dal superiore gerarchico che non contesta formalmente al subordinato le proprie manchevolezze, ma le afferma apoditticamente in lettere indirizzate alla superiore gerarchia.

 

La prassi di inviare missive ad organi pubblici, con la conseguente possibilità concreta della conoscenza del loro contenuto da parte di una molteplicità di soggetti (quanto meno i funzionari addetti agli uffici cui le missive erano indirizzate), si pone al di fuori delle formalità proprie cui è tenuto il soggetto preposto a un pubblico ufficio e pone in essere una condotta del tutto anomala, il cui significato è stato correttamente inteso dalla sentenza impugnata come volontà di portare a conoscenza di terzi espressioni offensive del decoro della persona oggetto delle missive.  

In ordine all'elemento soggettivo del reato non pare necessario ricorrere a citazioni giurisprudenziali consolidate, laddove è intuitiva - oltre che specificata nella sentenza impugnata - la natura vessatoria delle condotte dell'imputato, il quale - come si legge nell'ultima pagina della decisione (sia pure relativa specificamente al reato di diffamazione) - «se riteneva in base ad elementi oggettivi, rimasti peraltro non dimostrati, la Siddau (rectius, Biddau, n.d.r.). assolutamente inadeguata al suo ruolo ed incapace di assolvere alle sue mansioni, avrebbe dovuto, avvalendosi dei suoi poteri di direzione dell'ufficio, procedere a formali contestazioni». La motivazione appare ineccepibile e tale da evidenziare la volontà espressa dell'imputato di porre in essere atti in danno della persona offesa escludendo aprioristicamente l'adozione di procedure conformi alla legge.

Svolgimento del processo

 

La Corte d'appello di Cagliari con sentenza 5.6.2006 confermava la sentenza 9.5.2006 del Tribunale della stessa città di condanna di M. Giovanni alla pena di anni uno di reclusione per il reato di cui agli artt. 81, 323, 595 c.p.

Al M. si addebita, in qualità di direttore dell'aeroporto, di avere inibito a una funzionaria (Biddau Maria Maddalena) l'esercizio di funzioni corrispondenti alla sua qualifica attribuendole a un funzionario (Cabras) di livello inferiore e di avere revocato alla stessa la funzioni vicarie in assenza del dirigente, nonostante la sollecitazioni dei superiori e una decisione del Tar che annullava il provvedimento di revoca.

Inoltre di avere usato espressioni offensive della reputazione e della professionalità della Biddau in ambiti diversi dalle formali contestazioni.

Ricorre la difesa dell'imputato in primo luogo per violazione dell'art. 323 c.p. e difetto di motivazione sul punto.

Assume che le norme indicate nel capo di imputazione (gli artt. 20 d.p.r. 266/1987 e 56 d.lgs. 29/93) non hanno i requisiti di specifica precettività richiesti per integrare la fattispecie di cui all'art. 323 c.p.

Per contro il M., cessate le esigenze temporanee che avevano comportato il conferimento delle funzioni vicarie (alla Biddau), era legittimato a riprendere appiano dette funzioni. Ed ancora all'epoca del fatto la legge non prevedeva l'obbligo di ottemperanza alle decisioni cautelari del Tar di sospensiva.

Rileva inoltra che la conflittualità della Biddau con l'imputato era sorta dopo il rientro di questi dall'assenza per malattia ed era dovuta al fatto che egli aveva negato alla funzionaria la liquidazione di straordinari superiori al monte-ore. Contesta infine la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato non essendo le condotte finalizzate intenzionalmente al perseguimento di un danno ingiusto.

Con un secondo motivo denuncia la violazione dell'art. 595 c.p. e il relativo difetto di motivazione.

La frasi ritenute offensive del decoro della Biddau erano contenute in comunicazioni indirizzate esclusivamente ai superiori gerarchici, unici legittimati ad adottare eventuali provvedimenti nei confronti della Biddau. Dal che desume l'assenza del requisito della volontà di divulgare il loro contenuto a terzi.

Con un terzo motivo si duole della violazione dell'art. 539 c.p.p. e del relativo difetto di motivazione per quanto riguarda la quantificazione della provvisionale.

 

Motivi della decisione

 

1. Il primo motivo di ricorso si articola in una serie di censure aventi oggetti diversi, che vanno pertanto singolarmente esaminate.

2. La prima di esse concerne la precettività o meno delle norme di legge indicate dal capo di imputazione che si assumono violate - Segnatamente l'art. 97 Cost.; gli artt. 13 e 31 d.p.r. 10.1.1957, n. 3; l'art. 20 d.p.r. 8.5.1987, n. 266; l'art. 56 d.lgv. 3.2.1993, n. 29. È principio consolidato in giurisprudenza che, perché la violazione di legge possa integrare, con gli altri elementi richiesti dall'art. 323 c.p., il delitto di abuso di ufficio occorrono due presupposti. Il primo di essi è che la norma violata non sia genericamente strumentale alla regolarità, dell'attività amministrativa, ma vieti puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale. Il secondo presupposto è che l'agente violi leggi e regolamenti che dì questi abbiano i caratteri formali e il regime giuridico, non essendo sufficiente un qualunque contenuto materialmente normativo della disposizione trasgredita. Occorre dunque verificare se tali presupposti sussistono in relazione alle norme sopra ricordate.

3. Per quanto concerne il comma 1 dell'art. 97 della Costituzione, secondo cui i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo da assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, la giurisprudenza consolidata (per tutte Cass., sez. VI, 8.5.2003, Zardini, rv 226.706) sì esprime nel senso che la norma non ha carattere precettivo e ha valore meramente programmatico, sicché tali principi per il carattere generale che li distingue non sono idonei a costituire oggetto della violazione che può dar luogo alla integrazione del reato previsto dall'art. 323 c.p.

4. Per quanto concerne le altre norme di legge menzionate nel capo di imputazione, di cui si assume la violazione, la contestazione difensiva non appare decisiva. Innanzitutto la giurisprudenza citata nel ricorso non è specifica, ma riferita a principi di carattere generale del tutto condivisibili, e condivisi dal collegio, come ricordato al punto 2 che procede. L'art. 56 d. lgv. 29/93 non può considerarsi norma meramente programmatica o procedimentale, poiché stabilisce un ordine prioritario nella assegnazioni di funzioni corrispondenti alla qualifica funzionale e vieta quindi di alterare quest'ordine con l'attribuzione delle funzioni a un soggetto avente qualifica inferiore pur in presenza di un funzionario di qualifica superiore. Salva, ovviamente, una adeguata motivazione del provvedimento che determini lo “scavalcamento” dell'ordine di priorità dei funzionari - che nella specie non si riscontra.

5. Tanto basterebbe per identificare la violazione di legge rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 323 c.p. Ma la sentenza impugnata evidenzia altre violazioni di legge significative, quali quella relativa all'art. 20 d.p.r. 266/87 per l'assegnazione delle funzioni vicarie a un funzionario di rango inferiore; o quella relativa all'art. 16 d.p.r. 3/1957 che impone il dovere di adeguare la propria condotta agli ordini ricevuti dai superiori gerarchici (nella specie il Ministero dei trasporti).

6. Sempre nell'ambito del primo motivo di ricorso la difesa del ricorrente si attarda sulla questione delle funzioni vicarie, prima attribuite e poi revocate alla persona offesa. Sul punto la doglianza appare in fatto, poiché sposta il quadro di riferimento alla riappropriazione delle funzioni proprie del dirigente al momento di rientro in servizio dopo l'assenza per malattia, ignorando la complessa vicenda della revoca dalle funzioni vicarie anteriore al rientro in servizio - sulla quale si era pronunciato anche il Tar con decisione contraria ai Provvedimenti dell'imputato e senza ottemperanza ad essa da parte del medesimo.

7. Per quanto concerne la conflittualità fra imputato e persona offesa, relativamente alla controversia circa la liquidazione dei compensi per le ore straordinarie di lavoro, la questione da un lato appare priva di rilevanza ai fini della verifica della sussistenza degli estremi del reato di cui all'art. 323 c.p.p., dall'altro appare suscettibile di lettura ambivalente. non necessariamente favorevole alla posizione dell'imputato (non a caso il diniego degli straordinari figura fra le contestazioni nel capo di imputazione).

8. In ordine all'elemento soggettivo del reato non pare necessario ricorrere a citazioni giurisprudenziali consolidate, laddove è intuitiva - oltre che specificata nella sentenza impugnata - la natura vessatoria delle condotte dell'imputato, il quale - come si legge nell'ultima pagina della decisione (sia pure relativa specificamente al reato di diffamazione) - «se riteneva in base ad elementi oggettivi, rimasti peraltro non dimostrati, la Siddau (rectius, Biddau, n.d.r.). assolutamente inadeguata al suo ruolo ed incapace di assolvere alle sue mansioni, avrebbe dovuto, avvalendosi dei suoi poteri di direzione dell'ufficio, procedere a formali contestazioni». La motivazione appare ineccepibile e tale da evidenziare la volontà espressa dell'imputato di porre in essere atti in danno della persona offesa escludendo aprioristicamente l'adozione di procedure conformi alla legge.

9. Il secondo motivo ricorso denuncia il difetto di motivazione relativamente alla pronunciata condanna per il reato di cui all'art. 595 c.p. Sostiene la difesa del ricorrente la mancanza dei presupposti del reato, essendo stato le lettere contenenti espressioni critiche (e offensive) nei confronti della dipendente Biddau inviato a soggetti individuati, ossia i superiori gerarchici legittimati ad adottare provvedimenti amministrativi nei confronti della stessa. La vastissima giurisprudenza in materia, non sempre uniforme, consente in ipotesi la più ampia gamma di soluzioni.

10. La difesa non contesta l'obiettiva offensività del contenuto delle missive inviate dall'imputato ai titolari di organi pubblici. Ciò che viene messo in discussione è la volontà di divulgare il contenuto delle missive a un numero indeterminato di persone. Sul punto la sentenza impugnata fornisce una adeguata motivazione, osservando che l'imputato poteva giovarsi di strumenti formali di contestazione di eventuali addebiti disciplinari o di incapacità nell'assolvere le funzioni attribuite. La prassi, invece, di inviare missive ad organi pubblici, con la conseguente possibilità concreta della conoscenza del loro contenuto da parte di una molteplicità di soggetti (quanto meno i funzionari addetti agli uffici cui le missive erano indirizzate), si pone al di fuori delle formalità proprie cui è tenuto il soggetto preposto a un pubblico ufficio e pone in essere una condotta del tutto anomala, il cui significato è stato correttamente inteso dalla sentenza impugnata come volontà di portare a conoscenza di terzi espressioni offensive del decoro della persona oggetto delle missive.

11. L'ultimo motivo di ricorso concerne il difetto di motivazione relativo alle statuizioni civili. Il motivo appare infondato, a fronte della decisione della Corte d'appello che conferma anche in punto pena la decisione di primo grado e ne fa proprie le statuizioni civili, già sufficientemente argomentate dal primo giudice.

12. Non si pone problema di prescrizione del reato in considerazione delle sospensioni della stessa (pari a un anno, 2 mesi e 5 giorni), così che il termine prescrizionale resta fissato al 29.5.2007 e non è stato superato.

13. In questo quadro il ricorso deve essere rigettato con la conseguente condanna al pagamento delle spese processuali.

Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo grado di giudizio, che vengono equitativamente liquidate in complessivi euro 2,500,00, oltre Iva e Cpa.

PQM

La Corte Suprema di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché a rifondere alla costituita parte civile le spese del grado liquidate in euro 2.500,00, oltre Iva e Cpa.

 

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