Illegittimità
del licenziamento per trascuratezza dell’obbligo di reperimento di mansioni
consone al menomato stato di salute, semprechè sussistenti in azienda (agg.to
al n. 115 del sito)
(1)
Corte di cassazione, sez. lav., 26 maggio 2005 n. 11092 – Pres. Mattone – Rel. Toffoli – D.M. (avv. spada, Pollastro) c. Manuli Automotive S.p.A. (avv. Mereu, Jucci)
Assegnazione, dopo intervento chirurgico, a mansioni non compatibili con il pregiudicato stato di salute – Illegittimità – Obbligo aziendale di ricerca di mansioni non pregiudizievoli e compatibili- Licenziabilità del lavoratore solo in carenza oggettiva di mansioni compatibili, primariamente reperibili nell’ambito della qualifica e, in mancanza, nel livello inferiore alla qualifica posseduta.
Il datore di lavoro, una volta che sia emerso che il lavoratore presenta infermità che mettono in dubbio la compatibilità delle mansioni cui è addetto con il suo stato di salute, ha il dovere di verificare tale compatibilità e di assumere i provvedimenti conseguenti, a norma dell'art. 2087 c.c. e dell'art. 4, comma 5, lett. c) del d.lgs. n. 626/1994 (cfr. Cass. 22 aprile 1997 n. 3455, 2 agosto 2001 n 10574). L'eventuale impossibilità, sul piano organizzativo, di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili con le specifiche infermità e limitazioni fisiche da cui il medesimo sia affetto non giustifica l'assegnazione a mansioni non compatibili. Salva rimanendo la possibilità del datore di lavoro di licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo, in caso di comprovata impossibilità di assegnazione dello stesso a mansioni compatibili (anche impiegandolo, con il suo consenso, in mansioni inferiori e non equivalenti, al fine di evitargli il licenziamento, in deroga quindi al divieto di assegnazione a mansioni di livello inferiore: cfr. Cass. sez. un., 7 agosto 1998 n, 7755). Con la precisazione che le assenze per malattia, che siano valutabili come conseguenza dell'illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni non compatibili con il suo stato di salute, non possano rilevare ai fini del superamento del periodo di comporto.
II Tribunale di Milano accoglieva la domanda proposta da M.D. contro la sua datrice di lavoro Manuli Automotive s.p.a., diretta all’accertamento del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimatogli in data 5.2.2000 e alle conseguenti statuizioni di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno. Infatti riteneva fondata la doglianza secondo cui il superamento del periodo di comporto era dovuto al comportamento della società, che, successivamente a un intervento chirurgico per ernia discale, lo aveva adibito a mansioni non compatibili con il suo stato di salute.
Proponeva appello la Soc. Manuli, mentre la controparte, in via di appello incidentale, riproponeva la tesi secondo cui il licenziamento dovesse ritenersi inefficace ai sensi dell’art . 2 della legge n. 604/1966.
La Corte d'appello di Milano, in riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda proposta dal lavoratore.
In particolare ricordava che il D., assunto in data 9.9.1986 con mansioni di operaio, e da ultimo addetto al forno nel reparto di saldobrasatura, era stato sottoposto ad intervento chirurgico il 29.9.1998; che il medesimo era rientrato al lavoro il 27 gennaio 1999 e al controllo medico-aziendale era stato ritenuto idoneo alla ripresa del lavoro nel reparto di provenienza, evitando la posizione eretta fissa, ripetute flessioni e sollevamento di pesi superiori a 15 Kg.; che, peraltro, dopo qualche giorno erano ricominciate le assenze (precedentemente già verificatesi dopo che il lavoratore, in data1.7.1998, aveva fatto presente le sue condizioni di salute, aveva menzionato la necessità di un intervento chirurgico e chiesto rassegnazione a mansioni compatibili con il suo stato di salute) e il D. era stato spostato dal reparto brasatura al reparto piegatura; che la visita medica eseguita il 27.6.1999 aveva riconosciuto l'idoneità a nuove mansioni con la prescrizione di evitare ripetute flessioni nel caricamento del cassone.
Tanto premesso, la Corte osservava che qualche perplessità sul comportamento della società era data dal fatto che nel periodo di ripresa dell'attività lavorativa nel reparto brasatura il lavoratore fosse stato oggetto di sanzioni disciplinari per avere chiesto continuamente aiuto ai colleghi e per avere eccepito di non poter compiere alcun tipo di sforzo. Tuttavia dalla deposizione del teste B. era risultato che la società aveva dato indicazioni al personale del reparto di predisporre dei rialzi per i contenitori dei pezzi in modo che il D. non si dovesse piegare, ed era risultato che i pezzi lavorati nel reparto avevano un peso massimo di un Kg. In ogni caso non era risultato che la Manuli avesse fatto lavorare il D. in condizioni non conformi alla indicazioni ricevute.
Ne conseguiva che, qualora anche con giudizio a posteriori, quale quello compiuto dal c.t.u. nel primo grado di giudizio, si dovesse ritenere che le mansioni svolte, effettuate nell’ambito delle modalità indicate dai medici, avessero contribuito ad un peggioramento delle patologie del lavoratore, ciò non si poteva imputare alla società, la quale non aveva violato le obbligazioni di cui all'art. 2087 c.c., attenendosi sempre alle indicazioni mediche ricevute.
Passando ad esaminare la tesi della violazione dell'ari. 2 1. n. 604/1966, rilevava che il licenziamento era stato chiaramente e inequivocamente motivato con il superamento del periodo di comporto, con la precisazione che questo era di 366 giorni, secondo l'indicazione del c.c.n.l. e che le assenze effettuate erano state di 371 giorni totalizzati dal 7 febbraio 1997 al 4 febbraio 2000.
Contro questa sentenza il D. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
La società intimata resiste con controricorso.
II primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'alt 2 della legge n. 604/1966.
Premesso, in linea di diritto, che si applicano anche al licenziamento per superamento del periodo di comporto le regole di cui all'art. 2 della legge n. 604/1966 e, in particolare, l'obbligo della comunicazione, a richiesta, dei motivi del licenziamento, e che una adeguata enunciazione dei motivi debba ricomprendere in tale ipotesi la specifica indicazione delle giornate di assenza ritenute rilevanti e integranti il comporto, si lamenta che, nella specie, nonostante la tempestiva richiesta dei motivi da parte del lavoratore (formulata con la precisazione che si richiedeva di conoscere il "calendario dettagliato dei periodi di malattia verificatisi nel triennio"), nessuna risposta era venuta dall'azienda. Si rileva che, d'altra parte, neanche nella lettera di licenziamento era contenuto tale specifico dato.
Il secondo motivo denuncia violazione erronea e contraddittoria applicazione dell'art. 2087 c.c.
Si lamenta che inspiegabilmente e con una motivazione alquanto frettolosa e contrastante con le risultanze istruttorie, la Corte d'appello abbia erroneamente ritenuto che la società convenuta non fosse incorsa nell'inadempimento delle obbligazioni di cui all'art. 2087 c.c., benché non fosse affatto vero che l'azienda si era attenuta alle indicazioni mediche ricevute e, in ogni caso, l'ampiezza del contenuto precettivo dell'art. 2087 c.c. non consentisse di esonerare la società dalla responsabilità per inadempimento degli obblighi derivanti dalla norma citata soltanto per il fatto di avere osservato le prescrizioni del medico aziendale.
In particolare si rileva che il lavoratore, durante la fase iniziale di rientro dopo l'operazione, essendo addetto al carico e allo scarico del forno di brasatura, era stato costretto a compiere quelle ripetute flessioni del tronco la cui esclusione era stata prescritta dal medico dell'azienda quale condizione di idoneità alla mansione.
Si osserva, poi, che le deposizioni testimoniali avevano confermato che le mansioni affidate al lavoratore dopo la sua assegnazione alla postazione di piegatura e fonatura richiedevano ripetute torsioni e flessoestensioni del busto, ancora una volta in palese contrasto con le condizioni poste dal medico competente.
Si richiamano su tali punti le osservazioni rese al c.t.u. dal c.t. di parte, non specificamente contestate dal c.t. della convenuta, e le conclusioni del ct.u., secondo cui "il lavoratore, pur sottoposto dopo l'intervento chirurgico, a mansioni lavorative più leggere, solo nel senso di sollevamento di gravi, non è stato tuttavia sufficientemente tutelato sotto il profilo chinesiologico secondo le indicazioni espresse dal medico competente, che non solo aveva prescritto una limitazione del carico, ma anche una riduzione dell'uso della funzione lombo-sacrale”.
In punto di diritto si fa riferimento al principio secondo cui l'imprenditore, a norma dell'art. 2087 c.c., deve, con la diligenza richiesta dall'art 1176 c.c. e un comportamento improntato a criteri di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., predisporre adeguati mezzi di tutela della salute del lavoratore ed esercitare diligente sorveglianza e controllo sulla loro applicazione. Si richiama anche il principio secondo cui, in caso di sopravvenuta inidoneità psico-fisica parziale del lavoratore, l’imprenditore deve assegnare quest'ultimo a mansioni idonee da ricercare primariamente nell'ambito di quelle equivalenti ex art 2103 c.c. e, se necessario, anche nell'ambito di mansioni inferiori che siano accettate dal lavoratore al fine di evitare il licenziamento, restando in ogni caso vietata la permanenza del lavoratore in mansioni pregiudizievoli al suo stato di salute.
Nella specie, invece, la società aveva omesso le misure doverose atte ad evitare un peggioramento dello stato di salute del D., di conseguenza costretto a ripetute assenze, e non aveva ricercato le mansioni idonee rispetto al documentato stato di salute del medesimo, che al contrario era stato sottoposto a procedimenti disciplinari per avere "infastidito" i colleghi con richieste di aiuto.
Il primo motivo non è fondato.
Questa Corte ha ritenuto che la specialità della causa di risoluzione del rapporto di lavoro consistente nel superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia, rispetto alla generale disciplina limitativa dei licenziamenti, dettata dalla legge n. 604/1966, n. 108 del 1990 e dall'art. 18 della 1. n. 300/1970, riguardi la disciplina sostanziale attinente alle ragioni e i motivi del licenziamento e non anche l'aspetto concernente la forma dell'atto e la comunicazione dei motivi del recesso, dato che nessuna regolamentazione speciale è dettata sul punto dall'art. 2110 c.c., con la conseguenza che al riguardo trovano applicazioni le disposizioni dell'art. 2 della legge n. 604/1966, così come modificato dall'art. 2 della legge n. 108/1990 (Cass. 24 gennaio 1997 n. 716, 13 dicembre 1999 n. 13992, 20 dicembre 2002 n. 18199). Circa la specificità della motivazione si è recentemente precisato che, dovendo essa consentire al lavoratore, ancor prima del giudizio, di rendersi conto di quali assenze gli vengano imputate e di replicare adeguatamente, è necessaria l'indicazione esauriente e specifica di tutte le assenze per malattia poste alla base del recesso (Cass. n. 18199/2002, cit.).
Tale ultima puntualizzazione non è condivisa da questo collegio e in realtà in tali termini non appare già rinvenibile nella giurisprudenza precedente, che aveva piuttosto valutato negativamente o il riferimento da parte del giudice ad assenze verificatesi al di fuori del periodo menzionato nella lettera di licenziamento (Cass. 30 marzo 1984 n. 2134) o eccedenti il dato quantitativo specificato nella stessa lettera (Cass. 13 agosto 1996 n. 7525), oppure una motivazione ampiamente generica (Cass. 2 dicembre 1988 n. 6546), o l'omissione totale della motivazione, pur richiesta (Cass. 24 gennaio 1997 n. 716). Al riguardo deve osservarsi che, in realtà, non essendo il licenziamento per superamento del periodo di comporto un licenziamento disciplinare, solo impropriamente riguardo ad esso si può parlare di "contestazione" delle assenze. Ai fini in esame tale tipo di recesso è assimilabile piuttosto a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, causale di licenziamento a cui si fa riferimento anche per le ipotesi di impossibilità della prestazione riferibile alla persona del lavoratore diverse dalla malattia (perdita di permessi amministrativi necessari per lo svolgimento di determinate mansioni o funzioni, carcerazione preventiva, ecc.).
Il criterio in base al quale valutare l'adeguatezza della motivazione è quindi quella della sufficiente individuazione della causale, anche dal punto di vista fattuale e non solo in via meramente astratta e qualificatoria, e non quella della completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale stessa, tenendo presente anche che quest'ultima, in caso di assenze per malattia, riguarda avvenimenti di cui il lavoratore è a conoscenza diretta. Non è necessaria quindi l'indicazione dei singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti, ai fini delle valutazioni che il lavoratore preliminarmente deve compiere prima dell'eventuale giudizio, anche indicazioni più complessive, idonee ad evidenziare il superamento del periodo di comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, come per esempio l'indicazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere del datore di lavoro di compiutamente allegare e provare nella eventuale sede giudiziaria i fatti costitutivi del potere esercitato.
Non è quindi giustificatamente censurata la valutazione nella specie compiuta sul punto dal giudice di merito.
E' invece fondato il secondo motivo.
E' opportuno premettere in linea di diritto che il datore di lavoro, una volta che sia emerso che il lavoratore, addetto a prestazioni di tipo manuale, presenta infermità che mettono in dubbio la compatibilità delle mansioni cui è addetto con il suo stato di salute, ha il dovere di verificare tale compatibilità e di assumere i provvedimenti conseguenti, a norma dell'art. 2087 c.c. e dell'art. 4, comma 5, lett. c) del d.lgs. n. 626/1994 (cfr. Cass. 22 aprile 1997 n. 3455, 2 agosto 2001 n 10574). L'eventuale impossibilità, sul piano organizzativo, di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili con le specifiche infermità e limitazioni fisiche da cui il medesimo sia affetto non giustifica l'assegnazione a mansioni non compatibili. Salva rimanendo la possibilità del datore di lavoro di licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo, in caso di comprovata impossibilità di assegnazione dello stesso a mansioni compatibili (anche con deroga al divieto ad assegnazione a mansioni di livello inferiore: cfr. Cass. sez. un., 7 agosto 1998 n, 7755). Peraltro non è in discussione che le assenze per malattia, che siano valutabili come conseguenza dell'illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni non compatibili con il suo stato di salute, non possano rilevare ai fini del superamento del periodo di comporto.
Nella specie il giudice di merito ha escluso la violazione del dovere del datore di lavoro di non adibire il lavoratore a mansioni incompatibili con il suo stato di salute, ritenendo che la società non avesse fatto lavorare il D. in condizioni non conformi a quelle delle indicazioni ricevute in sede di controllo medico-aziendale, cioè, evidentemente, da parte del "medico competente", ai sensi dell’art 16, comma 2, e 17, comma 3, del d.lgs. n. 626/1994. La ricostruzione dei relativi fatti e le conseguenti vantazioni appaiono ampiamente lacunose in rapporto al complesso delle risultanze istruttorie specificamente esposte nel ricorso.
In particolare la Corte ha ricordato che dopo l'operazione il D. riprese le mansioni nel reparto di saldo-brasatura e che, però, dopo qualche giorno erano ricominciate le sue assenze. Relativamente a tale episodio il giudice di merito non ha preso in considerazione le mansioni svolte dal lavoratore, che dalla deposizione del teste B. avrebbero potuto essere accertate nel senso che suo compito era di caricare e scaricare i “particolari” dal forno di brasatura, con la conseguenza che si imponeva la necessità di una valutazione specifica circa la effettiva compatibilità delle mansioni concretamente da espletare con le limitazioni di cui alle prescrizioni mediche, tanto più che il consulente tecnico d'ufficio aveva ritenuto non rispettate le prescrizioni stesse, nella parte relativa alla riduzione dei movimenti lombo-sacrali.
Quanto al periodo successivo allo spostamento al reparto piegatura, la Corte ha dato rilievo ad una direttiva del datore di lavoro circa il collocamento su dei "rialzi" dei contenitori dei pezzi su cui doveva operare il D. ma ha omesso di motivare circa l’idoneità in concreto di tale direttiva e i periodi di tempo in cui la stessa eventualmente aveva potuto adeguatamente operare, a fronte di varie deposizioni testimoniali facenti riferimento alla necessità del lavoratore di piegarsi per prendere pezzi dal contenitore per terra (anche nell'ultimo periodo) e dell'aiuto conseguentemente richiesto dal medesimo lavoratore a colleghi e da questi prestatogli, anche su richiesta del capo reparto, a quanto pare non con continuità, come riferito dallo stesso teste B.
Né, come si è già accennato, la Corte ha adeguatamente motivato al fine di dissentire circa la valutatone del consulente tecnico secondo cui le mansioni affidate concretamente non avevano comportato il rispetto delle direttive mediche riguardo alla “riduzione dell'uso funzionale lombo-sacrale”.
In conclusione la sentenza impugnata presenta vizio di motivazione su tali punti, decisivi ai fini delle valutazioni circa il superamento o meno del periodo di comporto, e viene quindi cassata con rinvio della causa ad altro giudice per nuovo esame.
La regolazione delle spese di questo grado è rimessa al giudice di rinvio (art 385 c.p.c.).
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso e accoglie il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Torino.
Così deciso in Roma il 15 aprile 2005.
Depositato in cancelleria il 26 maggio 2005.
*****
(1 bis)
Orientamento
similare è stato espresso da Cass. sez. lav.10 ottobre 2005
n.19686
(Pres. Ciciretti, Rel. Celentano) che ha stabilito il seguente principio
di diritto: “Il datore di
lavoro che adibisca il lavoratore, divenuto inidoneo alle mansioni da ultimo
espletate, a mansioni di livello inferiore, con il consenso del dipendente, ha
l’onere di provare, a norma dell’art. 2697 cod. civ., pur con le ragionevoli
limitazioni imposte dal caso concreto e dalle mancate allegazioni del
dipendente, l’impossibilità o la non convenienza aziendale di adibire il
lavoratore ad altre mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate o a
mansioni di livello intermedio”.
Nella motivazione della
sua decisione, la Suprema Corte ha ricordato che con sentenza n. 7755 del 7
agosto 1998 le Sezioni Unite, componendo il contrasto insorto nella Sezione
Lavoro in ordine alla licenziabilità del dipendente diventato parzialmente
inidoneo alla prestazione per la quale era stato assunto, hanno affermato che la
sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della
prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore
di lavoro dal contratto di lavoro subordinato, ai sensi degli artt. 1 e 3 legge
n. 604/66 (normativa specifica in relazione a quella generale dei contratti
sinallagmatici di cui agli artt. 1453, 1455, 1463 e 1464 cod. civ.) se risulti
ineseguibile non soltanto l’attività svolta in concreto dal prestatore, ma sia
esclusa anche la possibilità, alla stregua di un’interpretazione del contratto
secondo buona fede, di svolgere altra attività riconducibile alle mansioni
assegnate o ad altre equivalenti ai sensi dell’art. 2103 cod. civ. e, persino,
in difetto di altre soluzioni, a mansioni inferiori, purché l’attività
compatibile con l’idoneità del lavoratore sia utilizzabile nell’impresa senza
mutamenti dell’assetto organizzativo insindacabilmente scelto dall’imprenditore.
Nella stessa sentenza – ha
rilevato la Corte – è stato riaffermato che è il datore di lavoro che ha l’onere
di provare il giustificato motivo di licenziamento, ai sensi dell’art. 5 della
legge n. 604 del 1966, dimostrando che nell’ambito delle mansioni assegnate e di
quelle equivalenti (come tali riconducibili all’art. 2103 cod. civ.) non è
possibile, o comunque compatibile con il buon andamento dell’impresa, un
conveniente impiego dell’infermo; salva la (ovvia) possibilità del lavoratore di
contrastare tale prova, indicando specificamente le mansioni esercitabili e
provando la sua idoneità ad esse. La sentenza citata – ha osservato la Corte –
accoglie l’orientamento favorevole alla conservazione del posto di lavoro pur
con il cd. “patto di dequalificazione”, vale a dire con l’attribuzione di
mansioni inferiori, sempre che vi sia il consenso del lavoratore; l’orientamento
favorevole alla validità del cd. “patto di dequalificazione”, autorevolmente
avallato dalle Sezioni Unite, quale unico mezzo per conservare il rapporto di
lavoro, muove, peraltro, dalla premessa che in realtà non si tratta di una
deroga all’art. 2103 cod. civ., norma diretta alla regolamentazione dello
jus variandi
del datore di lavoro e,
come tale, inderogabile secondo l’espresso disposto del secondo comma
dell’articolo, ma di un adeguamento del contratto alla nuova situazione di
fatto. L’adeguamento deve essere, quindi, sorretto dal consenso, oltre che
dall’interesse, dello stesso lavoratore. Da tali considerazioni – ha affermato
la Corte – discende che il datore di lavoro è tenuto a giustificare
oggettivamente il recesso anche con l’impossibilità di assegnare mansioni non
equivalenti nel solo caso in cui il lavoratore abbia, sia pure senza forme
rituali, manifestato la sua disponibilità ad accettarle. Nella fattispecie in
esame il lavoratore, pur mostrandosi disposto ad accettare il demansionamento al
fine di conservare il posto di lavoro, ha impugnato la decisione del datore di
adibirlo a mansioni di nono livello ed ha lamentato la mancata valutazione della
possibilità di essere adibito a mansioni di sesto livello o, in via subordinata
a mansioni proprie di un livello intermedio.
Così come, in caso di
eventuale licenziamento – ha osservato la Corte – sarebbe stato onere del datore
di lavoro dimostrare la impossibilità di adibire il dipendente, divenuto
inidoneo alle mansioni di conducente, a mansioni equivalenti o, attesa la
disponibilità del lavoratore, a mansioni inferiori, così il datore di lavoro che
abbia adibito il lavoratore, divenuto inidoneo alle mansioni di conducente di
sesto livello, a mansioni di nono livello, ha l’onere di dimostrare la
impossibilità, o la non convenienza aziendale, di utilizzare il dipendente in
mansioni equivalenti, nello stesso livello, o in mansioni intermedie fra le
precedenti e quelle di fatto attribuite.
*********
(2)
Corte di cassazione, sez. lav. 21 gennaio 2002, n. 572 (ud. 14
giugno 2001) – Pres. Sciarelli – Rel. Mileo – GET Spa (avv. Conti) c. Felicetti
V. (avv. ti Ciccopiedi, Limina, Grandinetti)
Licenziamento per superamento del periodo di comporto, ex art. 2110
c.c. – Superamento del comporto conseguente a malattia nervosa, correlata alle
condizioni di lavoro e mansioni (morbigene anche solo soggettivamente), per il
cui richiesto mutamento il datore di lavoro non si sia attivato ex art. 2087
c.c. –- Sussistenza di un obbligo di utilizzazione in altre mansioni, se
sussistenti in azienda - Conseguente
illegittimità del licenziamento –
Riassunzione e risarcimento ex art. 18
st.lav.
L’art. 2087 c.c. impone, all'imprenditore, quale disposizione di
chiusura di tutta la disciplina antinfortunistica ed anche indipendentemente
dalle specifiche misure previste dalla legge per le varie lavorazioni, di
adottare nell'esercizio della impresa tutte le cautele e gli accorgimenti che,
secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza, la tecnica e le condizioni
di salute dei dipendenti, si appalesino necessari ed idonei a tutelare
l'integrità fisica e la personalità morale degli stessi, adoperandosi, nei
limiti delle varie esigenze e del bilanciamento degli opposti interessi, a
creare le situazioni più favorevoli per ottenere dai propri lavoratori il
miglior rendimento secondo le proprie capacità in ragione di salute, di
idoneità e di adattamento di ognuno alle esigenze lavorative proprie dello
specifico settore della impresa.
E’ giurisprudenza
consolidata, in tema di legittimità del licenziamento del lavoratore
disattendendo la sua richiesta di accertamento della possibilità di altro
impiego in azienda, determinata dalle condizioni di salute, che una corretta
interpretazione degli artt. 1463, 1464 Cod. Civile e 3 legge n. 604 del 1966
comporta che la sopravvenuta infermità permanente del dipendente e la
conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato
motivo di recesso datoriale dal contratto di lavoro subordinato, non è
ravvisabile nella sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal
prestatore soprattutto se determinata da patologia strettamente ancorata al
tipo di lavorazione, come nella specie, ma può essere esclusa dalla possibilità
di altra attività riconducibile, alla stregua di una interpretazione del
contratto secondo buona fede, alle mansioni attualmente assegnate od a quelle
equivalenti (ex art. 2103 Cod. Civile) o, in ipotesi di impossibilità, anche a
mansioni inferiori purché accettate dal dipendente, a condizione che detta
diversa attività sia utilizzabile nell'impresa secondo i finì programmati dalla
stessa e nel quadro dell'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito
dall'imprenditore (Cfr. S. U. n. 7755/1998; Cass.n. 7908/97).
Con il corollario che il datore di lavoro soddisferà l'onere,
impostogli dall'art. 5 legge n. 604/1966, di provare il giustificato motivo di
licenziamento, dimostrando che, nell'ambito del personale in servizio e delle
mansioni già assegnate, un conveniente impiego dell'infermo non è possibile o,
comunque, compatibile con il buon andamento dell'impresa, e fermo restando il
contrapposto onere del lavoratore di contrastare la detta prova, indicando a
sua volta specificamente le mansioni esercitabili e non nocive per la sua
salute, nonché dimostrando la sua idoneità alle stesse.
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
Con ricorso del 5
agosto 1997 Felicetti Vincenzo impugnava davanti al Pretore di Cosenza il
licenziamento per superamento del periodo di comporto intimatogli dalla GET
S.p.A. in data 4.6.1997, chiedendo l'accertamento della illegittimità dello
stesso per violazione dell'art. 99 C.C.N.L. di categoria (impiegati addetti
alle mansioni di ufficiale di riscossione dei tributi), o comunque per
violazione dell'art. 32 della costituzione, e la condanna della datrice di
lavoro alla reintegra nel posto in precedenza occupato ed al risarcimento dei
danni ai sensi dell'art. 18 Statuto dei lavoratori.
Resistente la
Società convenuta, la quale contestava la pretesa del lavoratore deducendo che il
calcolo del periodo
di assenza per malattia era stato correttamente effettuato in conformità della
cennata norma del C.C.N.L., il giudice adito, dopo avere espletata C.T.U.,
accoglieva le domande del Felicetti nei termini di cui al ricorso con sentenza
del 25 maggio 1999, la quale, all'esito dell'appello della soccombente, veniva
confermata dal Tribunale del luogo con decisione del 4 febbraio 2000.
Ritenevano i
giudici di merito che, pur essendosi verificato nella specie il superamento del
periodo di comporto correttamente calcolato in 180 giorni come previsto dalla
pattuizione
collettiva, e malgrado il passaggio in giudicato di tale
parte della pronuncia pretorile per difetto di appello incidentale sul punto ad
opera del lavoratore, tuttavia il licenziamento del predetto andava comunque
dichiarato illegittimo, atteso che la controversia non poteva essere risolta
con riferimento alla normativa di cui all'art. 2110 cod. civile, bensì in base
alla disciplina ed ai principi giurisprudenziali che regolano la diversa ipotesi
della inidoneità del lavoratore allo svolgimento dell'attività di competenza e
degli obblighi datoriali di accertare detta inidoneità, e di verificare la
possibilità di adibire il dipendente a mansioni diverse e compatibili con il
suo stato di salute, procedendo, in caso contrario, al licenziamento soltanto
per giustificato motivo oggettivo.
Aggiungevano che
l'ordine di reintegra ben poteva essere eseguito nei confronti della E.T.R.,
nella more subentrata in gestione commissariale alla G.E.T., receduta dal servizio
riscossione tributi, ai sensi degli artt. 2112 Cod. Civile e 23 D.P.R.
28.1.1988, n. 43, che prevedevano il passaggio di tutti i dipendenti alla nuova
gestione senza soluzione di continuità, e tenuto conto che non si profilava
alcun ostacolo neppure sul piano processuale, in quanto l'art. 111 C.P.C.
prevede che la
sentenza resa tra le parti originarie del rapporto giuridico controverso
produce i suoi effetti anche nei confronti dei soggetti subentrati nel rapporto
medesimo.
Avverso tale
decisione la Società ha proposto ricorso per cassazione, ancorandolo a quattro
motivi; resiste il Felicetti con controricorso. La prima ha depositato memoria
illustrativa, ai sensi dell'art.
378
C.P.C.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Con il primo
mezzo di impugnazione la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione
degli artt. 112 e 360, n. 3, Cod. Proc. Civile, deducendo vizio di
ultrapetizione per avere il Tribunale annullato il recesso datoriale per
ragioni diverse da quelle per le quali il lavoratore aveva chiesto accertarsi
la illegittimità del provvedimento; atteso che l'istanza concerneva la pretesa
violazione dell'art. 99 C.C.N.L. sulla entità del periodo del cd comporto, e
quindi con riferimento all'art. 2110 C.C., mentre l'annullamento è stato
effettuato per violazione dell'art. 3 legge n. 604/1966, in relazione alla
impossibilità sopravvenuta della prestazione, posto che la Società, prima di
procedere al licenziamento, non aveva provveduto a ricercare, nell'ambito
aziendale, mansioni diverse cui adibire il Felicetti, in alternativa a quelle
per le quali era divenuto inidoneo.
Il motivo è
infondato.
Anche a voler
prescindere da ogni indagine sui profili preclusivi della eccezione, per
tardività della stessa
ex
art. 437 C.P.C. siccome formulata soltanto in sede di
legittimità, come evidenziato dal controricorrente, va applicato il principio
secondo il quale spetta al giudice di qualificare l'azione proposta in
relazione al concreto svilupparsi della fattispecie portata al suo vaglio,
indipendentemente dalla prospettazione giuridica della parte, con la
conseguenza che, nel caso in esame, il vizio e la violazione dedotti non si
configurano; nonché la regola che non incorre nel vizio di ultrapetizione il
giudice che accoglie la domanda in base ad una prospettazione che, se pur non
formulata specificamente, possa ritenersi tacitamente proposta e virtualmente
contenuta nella istanza introduttiva del giudizio, qualora la domanda stessa,
con particolare riguardo al petitum ed alla causa petendi, si trovi
in rapporto di necessaria connessione con l'oggetto della lite. (Cfr. Cass. n.
9916/98). Con il secondo e terzo mezzo di impugnazione, da delibare
congiuntamente trattandosi di questioni connesse e tra loro interdipendenti, la
Società denuncia erronea ed illogica, nonché carente e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia, e violazione degli artt.
2087, 1464, 1345 e 2110 Cod. Civile, 3 legge n. 604/1966, con riferimento
all'art. 360, n. 3 e 5, Cod. Proc. Civile.
Deduce che erroneamente
il Tribunale è pervenuto alle conclusioni contestate, sul presupposto della
inapplicabilità della normativa pattizia sul comporto, atteso che nella specie
la inidoneità del Felicetti alle funzioni espletate andava rapportata alla
violazione datoriale degli obblighi delineati dall'art. 2087 codice civile,
sicché, prima di procedere al provvedimento espulsivo ex art. 3 legge n.
604/66, la Società, ricorrendo inequivocamente siffatta inidoneità indotta,
avrebbe dovuto adottare tutte le misure opportune per tutelare il proprio
dipendente ai sensi della norma di chiusura cennata, attivandosi anche per la
ricerca di mansioni non nocive, nell'ambito aziendale, secondo le esigenze
fisiche e morali del lavoratore. Laddove, trattandosi nel caso in esame di mansioni
e condizioni di lavoro non oggettivamente morbigene, ma pregiudizievoli per la
salute del Felicetti unicamente per fattori soggettivi e
psicologici, determinandone un
ricorrente stato di malattia, nessun
addebito poteva muoversi a parte datoriale nel senso che precede, con
conseguente legittimità del licenziamento attuato dopo il superamento
del periodo di conservazione del posto di lavoro ai sensi dell'art. 2110 Cod.
Civile, con riferimento alla contrattazione collettiva (cd. comporto).
Le censure vanno
disattese.
Con rigoroso ed
approfondito accertamento in fatto, non contestato ex adverso e non
riproponibile in questa sede, il Tribunale ha evidenziato che il Felicetti, come
emerso a seguito di specifiche e numerose indagini psicotecniche effettuate sulla
sua persona da specialisti in materia, risultava affetto da sindrome depressiva
acuta di tipo nevrotico, soggetta a riacutizzazione non solo per effetto della
lontananza dalla famiglia, ma anche, e soprattutto, a causa del tipo di
attività svolta; che, dunque, la causa scatenante della predetta patologia
andava individuata prevalentemente nell' attività lavorativa
svolta, e con essa si poneva in rapporto strettamente eziologico, aggravata
altresì da disturbi di adattamento alla stessa e dalla lontananza dalla
famiglia; che la accertata malattia doveva considerarsi incompatibile con le
mansioni cui il lavoratore era adibito (riscossione coattiva dei tributi,
accessi nelle abitazioni dei contribuenti, pignoramenti); che, in definitiva, a
causa dei suoi disturbi psichici, il soggetto non era idoneo ad espletare le
mansioni affidategli, né poteva esserlo in futuro, dal momento che i
miglioramenti riscontrati durante i periodi di assenza dal lavoro e di
trattamento terapeutico venivano meno con la ripresa della attività a lui non
consona, che gli creava uno stress abnorme per le sue capacità di
reazione, con periodiche ricadute nella malattia e con effetti invalidanti
definitivi ed irrevocabili, incidenti negativamente sulla sua capacità
lavorativa.
Ed a fronte di
siffatta situazione, nota alla Società anche a seguito delle reiterate
richieste del dipendente volte ad essere adibito ad altre mansioni più adatte
al suo stato di salute e, possibilmente, in località più vicine al suo alveo
ambientale territorialmente naturale, correttamente i giudici di merito hanno
osservato che da parte datoriale nessun provvedimento fu preso al fine di
venire incontro alle legittime esigenze del lavoratore, disattendendo
sistematicamente le sue istanze e provocando in tal modo periodiche ricadute
nella malattia, con conseguente astensione dal lavoro e superamento del
comporto fissato nella pattuizione collettiva, fino a determinare il
licenziamento per tale causa giustamente ritenuto illegittimo nei gradi di
merito.
Giacché non è dubbio
che il recesso, formalmente originato dal superamento del periodo di comporto,
in effetti va ancorato all'anomalo comportamento datoriale, sotto il duplice
profilo della violazione dell'art. 2087 Cod. Civile e del mancato reperimento,
nel quadro della organizzazione aziendale, di altro posto di lavoro più adatto
alle accertate, precarie condizioni di salute del soggetto, incompatibili
con le mansioni da lui espletate, per di più in condizioni di marcato ed
irreversibile disadattamento ambientale.
Quanto al primo
aspetto, va ribadito che la norma richiamata impone, all'imprenditore, quale
disposizione di chiusura di tutta la disciplina antinfortunistica ed anche
indipendentemente dalle specifiche misure previste dalla legge per le varie
lavorazioni, di adottare nell'esercizio della impresa tutte le cautele e gli
accorgimenti che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza, la tecnica
e le condizioni di salute dei dipendenti, si appalesino necessari ed idonei a
tutelare l'integrità fisica e la personalità morale degli stessi, adoperandosi,
nei limiti delle varie esigenze e del bilanciamento degli opposti interessi, a
creare le situazioni più favorevoli per ottenere dai propri lavoratori il
miglior rendimento secondo le proprie capacità in ragione di salute, di
idoneità e di adattamento di ognuno alle esigenze lavorative proprie dello
specifico settore della impresa.
Circa il secondo
profilo, è giurisprudenza consolidata, in tema di legittimità del licenziamento
del lavoratore disattendendo la sua richiesta di accertamento della possibilità
di altro impiego in azienda, determinata dalle condizioni di salute, che una
corretta interpretazione degli artt. 1463, 1464 Cod. Civile e 3 legge n. 604
del 1966 comporta che la sopravvenuta infermità permanente del dipendente e la
conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato
motivo di recesso datoriale dal contratto di lavoro subordinato, non è
ravvisabile nella sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal
prestatore soprattutto se determinata da patologia strettamente ancorata al
tipo di lavorazione, come nella specie, ma può essere esclusa dalla possibilità
di altra attività riconducibile, alla stregua di una interpretazione del
contratto secondo buona fede, alle mansioni attualmente assegnate od a quelle
equivalenti (ex art. 2103 Cod. Civile) o, in ipotesi di impossibilità, anche a
mansioni inferiori purché accettate dal dipendente, a condizione che detta
diversa attività sia utilizzabile nell'impresa secondo i finì programmati dalla
stessa e nel quadro dell'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito
dall'imprenditore (Cfr. S. U. n. 7755/1998; Cass.n. 7908/97).
Con il corollario
che il datore di lavoro soddisferà l'onere, impostogli dall'art. 5 legge n.
604/1966, di provare il giustificato motivo di licenziamento, dimostrando che,
nell'ambito del personale in servizio e delle mansioni già assegnate, un
conveniente impiego dell'infermo non è possibile o, comunque, compatibile con
il buon andamento dell'impresa, e fermo restando il contrapposto onere del
lavoratore di contrastare la detta prova, indicando a sua volta specificamente
le mansioni esercitabili e non nocive per la sua salute, nonché dimostrando la
sua idoneità alle stesse.
Correttamente,
dunque, il Tribunale ha evidenziato che la Società a tali principi non si è
adeguata, sostanzialmente eludendoli e correlando il proprio recesso al mero
superamento del periodo di comporto, né venendo incontro, alla stregua di
entrambi gli aspetti delineati, alle legittime esigenze del dipendente; di
guisa che le censure al riguardo prospettate, inidonee per quanto precede ad incrinare il
rigoroso e logico iter argomentativo che sorregge la decisione impugnata, non
meritano accoglimento.
Con il quarto
motivo la ricorrente denuncia violazione ed errata interpretazione degli artt.
18 legge n. 300/1970, 2112 Cod. Civile, 23 D.P.R. n. 43 del 28.1.1988, nonché
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia, con riferimento all'art. 360, nn. 3 e 5, Cod. Proc. Civile.
Premesso che essa
Società era receduta dalla concessione del servizio di riscossione dei Tributi
dal 30 giugno 1997 e che le stesse erano state assegnante, a decorrere dal
giorno 1 luglio successivo, alla E.T.R. S.p.A., quale soggetto giuridico del
tutto diverso ed a titolo originario, ai sensi dell'art. 23 D.P.R. n. 43/88,
deduce che erroneamente il Tribunale ha ordinato la reintegra del lavoratore
nei confronti della G.E.T., sia pure da eseguirsi nei confronti della E.T.R.
subentrata ex art. 2112 C.C. in tutti i rapporti con il personale facenti capo
alla ricorrente, senza che a ciò possa ostare sul piano processuale la mancata
partecipazione della subentrante al giudizio per il licenziamento, atteso che
in virtù dell'art. 111 C.P.C. la sentenza resa tra le parti originarie (in
causa) del rapporto giuridico controverso produce i suoi effetti anche nei
confronti dei soggetti che sono subentrati nel rapporto medesimo; per di più
condannando la G.E.T. a pagare al lavoratore una indennità commisurata alla
retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della
effettiva reintegrazione, ed a versar gli i contributi assistenziali e
previdenziali.
La censura è
fondata.
Le conclusioni
dei giudici di merito al riguardo partono da un errore di fondo, relativo al
corretto inquadramento del rapporto instauratosi tra le due Società, in quanto,
contrariamente all'assunto del Tribunale, le gestioni in appalto delle
esattorie per la riscossione delle imposte dirette trovano origine e titolo nei
provvedimenti di concessione, la cui scadenza e revoca, dando luogo ad un caso
di cessazione della impresa, rende inapplicabile la disciplina ordinaria di
cui all'art. 2112 Cod. Civile, in tema di trasferimento di azienda, al personale
della gestione esattoriale cessata che viene mantenuto in servizio, in quanto
il nuovo concessionario subentra a titolo originario in forza di autonoma
concessione (Cfr., ex plurimis, Cass. n. 1622/98).
Stabilita,
dunque, la inesistenza di un rapporto successorio tra la G.E.T. e la E.T.R., ed
escluso per l'effetto ogni subentro automatico di quest'ultima nel rapporto
intercorso tra la prima ed il Felicetti, l'obbligo della nuova concessionaria va
limitato nel senso di cui alla norma speciale contenuta nell'art. 23 D.P.R. n.
43/88, e concerne soltanto il mantenimento del lavoratore in servizio.
Di guisa che ogni
statuizione nei confronti della originaria società concessionaria va
concentrata con riguardo al solo periodo di effettiva gestione del servizio di
riscossione, e concerne lo spazio temporale a decorrere dalla data di
licenziamento, poi dichiarato illegittimo, (4 giugno 1997), fino a quella di
risoluzione definitiva del rapporto a seguito di recesso dalla concessione e
nomina della E.T.R. a titolo originario, quale nuova concessionaria con
provvedimento governativo emesso ai sensi del richiamato D.P.R. (30 giugno
1997).Con la conseguenza che, esclusi il trasferimento di azienda e la
reintegra nei confronti della G.E.T., le istanze residuali proponibili verso
tale Società riguardano la condanna al pagamento di una sola mensilità
retributiva (4.6/30.6.97), nonché il risarcimento del danno ed il versamento
dei contributi previdenziali correlati, ai sensi dell'art. 18 Statuto dei
lavoratori, la cui precisa determinazione va effettuata in sede di merito dal
giudice del rinvio.
Alla stregua dei
rilievi esposti, ed in accoglimento del quarto motivo di ricorso, con rigetto
dei primi tre motivi, la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo
accolto, in quanto inficiata dalle violazioni di legge e dai vizi di
motivazione prospettati dalla ricorrente, con rinvio, per il nuovo esame ed
anche per la statuizione sulle spese relative al presente giudizio di
legittimità, ad altro giudice, designato come da dispositivo, il quale, adeguandosi al
principio di diritto richiamato, porterà l'indagine sui punti delineati.
P.Q.M.
La Corte;
Accoglie il
quarto motivo e rigetta i primi tre motivi di ricorso.
Cassa la sentenza
impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia, per il nuovo esame ed
anche per la regolamentazione delle spese concernenti il presente giudizio di
cassazione, alla Corte di Appello dì Catanzaro.
*******
(3)
(Non computabilità nella durata della malattia delle assenze
riconducibili alla violazione dell’obbligo aziendale di non aggravamento del
compromesso stato di salute)
Trib. Pisa,
sezione lavoro (1° grado) - 10 gennaio
2002 – Giud. Schiavone - G*** Celeste
(avv. Buoncristiani) c. S*** srl (avv.ti Menzione, Balbi)
Licenziamento
per superamento del periodo di comporto – Mancata adozione di misure a tutela del compromesso stato di salute –
Detrazione dalla durata della malattia del numero delle assenze imputabili a
negligenza aziendale – Conseguente illegittimità del licenziamento.
La malattia
o le malattie del lavoratore non giustificano il licenziamento intimato per
superamento del periodo di comporto ove l’infermità abbia avuto causa, in tutto
o in parte, nella nocività insita nella modalità di esercizio delle mansioni o
comunque esistente nell’ambiente di lavoro, della quale il datore di lavoro sia
responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminare
l’incidenza, in adempimento dell’obbligo di protezione ed eventualmente anche
delle specifiche norme di legge connesse alla concretizzazione di esso,
incombendo peraltro al lavoratore di dare la prova del collegamento causale fra
la malattia che ha determinato l’assenza ed il carattere morbigeno delle
mansioni espletate” (Cass. n. 5066/00).
Ne
consegue che dalla durata della malattia vanno scomputate le assenza imputabili
a negligenza o colpa aziendale, riveniente, in fattispecie, dal fatto di non
aver l’azienda preso in alcuna considerazione, ex art. 2087 c.c., le reiterate
richieste della lavoratrice (affetta da sclerosi multipla) di essere spostata,
sussistendone le condizioni organizzative, ad altre mansioni meno usuranti.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con
rituale ricorso depositato il 28. 03. 2000, G****, esponeva:
1) di essere stata dipendente dal 30. 04. 1984
fino al 31. 03. 1992 della Splendor c.s.r.l.
e dall’1. 04. 1992 della società resistente, in qualità di operaia addetta
all’aeroporto militare di Pisa;
2) che il giorno 31. 05. 1999, allo scadere di
un certificato di malattia, si ripresentava sul posto di lavoro ma l’addetta al
cantiere le impediva di riprendere la sua attività;
3) che con raccomandata ricevuta da essa
ricorrente il 4. 06. 1999, la S*** srl. le intimava il licenziamento per
superamento del periodo di comporto, che veniva prontamente contestato con raccomandata
del 15. 06. 1999;
4) che l’unico motivo contestato si appalesava
illegittimo in quanto, da un lato era risultato errato ed approssimativo il
metodo di calcolo dei giorni di assenza, mentre dall’altro, quand’anche quel
superamento si fosse verificato, esso era da addebitare al fatto che nonostante
il datore di lavoro fosse al corrente dell’incidenza sul suo stato di salute di
alcune condizioni di lavoro, aveva egualmente mantenuto la ricorrente nella
prestazione morbigena;
5) essa ricorrente risultava infatti affetta da
sclerosi multipla e il non essere andati incontro alle sue richieste di
adeguamento delle mansioni alle condizioni di salute (specie con riferimento
alle modalità di cambio delle lenzuola dai letti dei sottufficiali), integrava
la violazione della correttezza che deve presiedere allo svolgimento del
rapporto di lavoro;
6) che le sue malattie e certamente la ricaduta
che provocò l’assenza dal giugno 1998 al maggio 1999 erano dovute alle
inadempienze datoriali e, quindi, non dovevano far parte del calcolo ai fini
del comporto.
Si
costituiva ritualmente la società resistente eccependo:
A) essere vero che la G**** avesse espletato
alle proprie dipendenze mansioni di addetta alle pulizie presso la palazzina
degli alloggi ufficiali, il cui appalto era stato tenuto da essa resistente
fino alla fine del 1999;
B) che avendo accusato la G**** una dermatite,
le erano stati forniti dei guanti di protezione;
C) che effettivamente fra le mansioni
assegnatele rientrava il cambio delle lenzuola ogni 15 giorni;
D) rilevata, dopo il maggio 1998, la precarietà
delle sue condizioni di salute, le era stato chiesto di fare solo ciò che si
sentiva in grado;
E) di non aver mai saputo essere la ricorrente
affetta da sclerosi multipla e che l’unica, malattia nota era la ridetta
dermatite.
Interrogate le parti, la causa era istruita
con l’acquisizione di documentazione varie e con l’escussione di testi e sulle
conclusioni in epigrafe trascritte era decisa all’udienza del 19. 12. 2001,
dando pubblica lettura del dispositivo.
MOTIVI
Il
ricorso è fondato e va accolto.
Prima
di penetrare l’oggetto più intimo dell’indagine processuale, occorre dare
sistemazione ad alcuni elementi che consentono di dare ordine generale alla
trattazione.
Innanzitutto
- in via di fatto - piena è risultata la conoscenza che il datore di lavoro
avesse della malattia che affligge parte ricorrente.
Fin
dalla sua costituzione in giudizio, la ricorrente depositò, fra gli altri
documenti, una lettera raccomandata con la quale trasmetteva in Firenze, presso
il domicilio del responsabile della S*** srl., una relazione rilasciata dai
sanitari della USL di Pisa, dalla quale si evinceva la diagnosi (: sclerosi
multipla), il fatto che la cura si protraesse fin dal gennaio 1998, nonché, fra
le altre indicazioni terapeutiche, la raccomandazione che “al momento della
ripresa dell’attività lavorativa, la sig.ra G**** Celeste venga adibita a
mansioni che non comportino un eccessivo affaticamento, per il rischio che ciò
possa favorire una ricaduta di malattia”.
Nella memoria di
costituzione, parte resistente ha affermato di essere solo a conoscenza che
controparte soffrisse di una dermatite e di essersi attivata nel consegnare degli
appositi guanti, raccomandandone l’uso. Il teste C*** - responsabile della
società - non ha riconosciuto come propria la firma apposta alla cartolina di
ricezione della raccomandata, ha però affermato che l’indirizzo ove
risulterebbe pervenuta quella lettera era sicuramente il proprio.
E’
evidente che, per la regola che presiede la ricezione degli atti (art. 1335
cc.), di quella raccomandata deve presumersi la conoscenza da parte del
destinatario a far tempo dal 12. 06. 1998. Dunque, l’ultimo giorno di lavoro
della G**** presso la S*** srl. che coincide, da un lato, con la sua ripresa
del lavoro dopo parentesi di malattia e, dall’altro, con l’accadimento di una
crisi fisica, il datore di lavoro era a conoscenza, o doveva esserlo, del tipo
di patologia di cui era affetta e delle raccomandazioni mediche sul piano
dell’igiene del lavoro.
Ma
vi sono fondati elementi per ritenere che quella conoscenza il datore di lavoro
l’avesse anche prima. La teste B**** afferma che, addirittura due anni prima
del suo pensionamento, avvenuto nel 1994, la ricorrente aveva accusato quel
male e che ogni volta che tornava dalla malattia “chiedeva sempre di essere
assegnata a mansioni diverse, cioè di essere assegnata ad una palazzina ma non
fu mai accontentata, tranne che per brevi periodi, corrispondenti con le volte
in cui ciò faceva comodo alla ditta, in sostituzione di assenti”.
Tutto
ciò rende assolutamente inverosimile quanto afferma la sovraordinata gerarchica
(Q***) della ricorrente, secondo la quale l’unica conoscenza di malattie che
avesse era limitata alla dermatite, così come poco credibile è che la stessa
non sia venuta a sapere che il giorno 15 giugno la ricorrente si sia sentita
male a causa delle mansioni assegnatele.
Dice
il teste R***, sottufficiale che abitava nella palazzina la cui pulizia era
curata dalla ricorrente,: “ricordo che un giormente tornato
nel mio alloggio e
rovato una collega della ricorrente allarmata perché
questa si era sentita male cadendo a terra. Io ho provveduto a chiamare subito
la nostra infermeria dalla quale ricevetti la disposizione di non toccarla e
lasciarla in terra fino al momento in cui qualcuno fosse venuto a provvedere al
soccorso, come poi avvenne”.
Orbene, le raccomandazioni
mediche che parte ricorrente notiziò al datore di lavoro e che questi avrebbe
dovuto fare presente al preposto di cantiere, la cura che ciascuno ha
naturalmente per il proprio stato di salute, la testimonianza che da lungo
tempo la ricorrente chiedesse il cambio di mansioni, sono tutti elementi che
lasciano ritenere molto verosimile quanto da lei affermato e cioè che la
mattina in cui la medesima stette male, non solo aveva direttamente o per
interposta persona denunciato quanto accaduto alla propria superiore, quanto
che avesse richiesto all’inizio del turno, come prima cosa, l’assegnazione a
mansioni diverse e comunque non al cambio delle lenzuola.
Infatti,
venendo, alle mansioni dannose alla salute della ricorrente, va detto che questa,
come anche suggerito dai medici curanti, e in assenza di un riscontro datoriale
che concertasse con lei una sua diversa collocazione aziendale, si era
premurata di indicare quali fossero le mansioni compatibili.
A
questo punto va precisato, infatti, che oggetto della causa è la verifica della
riferibilità, quanto meno concausale, alla condotta datoriale delle assenze per
malattia e in modo particolare di quelle dovute alla ricaduta del 15 giugno
1998. Oggetto è, quindi, verificare se il datore di lavoro ha fatto quanto a
lui richiesto dall’ordinamento per la tutela del lavoratore, potendo anche
presumersi, in caso di riscontro negativo, la concausalità di cui s’è detto.
Dall’istruttoria
è emerso che la ricorrente a differenza di altre sue compagne di lavoro non era
adibita alla cura di un’unica palazzina, di modo tale che potesse organizzare
nell’arco mensile i tempi di lavoro, distribuendo nel tempo le incombenze più
pesanti. Era adibita, invece, al riordino dei letti di diverse palazzine,
ovvero alla pulizia degli uffici, o anche a quella dell’hangar (solo alcune
volte all’anno), tutti lavori che comportavano lo spostamento a piedi anche per
chilometri all’interno della base militare (cfr.: teste B****). E, quel che più
rileva, il giorno del rientro aveva richiesto espressamente di non essere
preposta al cambio delle lenzuola, che poteva risultare, come poi fu, deleterio
ma la sua richiesta non fu proprio presa in considerazione.
E’
noto, ma il passo della relazione medica è ampiamente illuminante, che la
malattia di cui è affetta la ricorrente non tollera l’eccessivo affaticamento
ed il fatto che per la G**** non siano state prospettate alternative, come
poteva essere l’accoppiamento con altra lavoratrice che si assumesse il compito
di trasportare i pacchi di lenzuola nel giorno del cambio, ovvero
l’assegnazione permanente ad un singolo piano di palazzina, sono tutti elementi
che lasciano ritenere un’ampia negligenza del datore di lavoro nella cura di
quest’aspetto del rapporto.
E’
anche comprensibile che le assenze per malattia della ricorrente ostacolassero
che il datore di lavoro potesse fare affidamento sulla costante presenza e,
quindi, lo abbiano indotto a ritagliare una serie di mansioni in cui la
costanza fosse meno influente che per altre. Ma ciò risponde ad un’ottica
squisitamente aziendalista o, meglio, economicista dell’azienda che non è
quella prefigurata dal nostro ordinamento in via esclusiva.
Insomma, le prove raccolte consentono di giungere
al convincimento che il datore di lavoro violò, nella fattispecie, la norma di
cui all’art. 2087 c.c. - attuazione nel campo lavoristico del precetto di cui
all’art. 32 Cost. - non avendo adottato le misure necessarie a tutelare
l’integrità fisica della ricorrente, sua lavoratrice subordinata. Anzi, neppure
ha preso in considerazione la stessa, astratta adottabilità.
Invero,
il contenuto dell’obbligo di cui all’articolo citato impone una condotta
particolarmente diligente da parte dell’obbligato, eccedendo rispetto ai limiti
indicati dall’art. 1176, com. 2, c.c.- Se ai sensi di quest’ultima norma
l’imprenditore è solitamente tenuto alla diligenza del buon imprenditore, cioè
della figura sociale media del “buon padre di famiglia”, è riconosciuto
unanimemente, che, in rapporto a quanto prescritto dall’art. 2087 c.c., essendo
egli chiamato ad adottare tutte le misure idonee ad eliminare il rischio o,
quanto meno a ridurlo al minimo, non è bastevole un’attività di mera vigilanza,
essendo richiesto di applicare la massima diligenza. Né più e né meno di
quanto, d’altronde, il datore di lavoro fa (o, nel suo interesse dovrebbe fare)
nel dare attuazione a tutte le altre obbligazioni connesse con la sua attività
imprenditoriale.
Il
nostro, in sostanza è un ordinamento che, sul luogo di lavoro, tende ad attuare
la massima sicurezza possibile (fra le tante: Cass. n. 10164/1994; Cass. Pen.
27.
09. 1994; Cass. Pen. 22. 01. 1993;
Cass. Pen. 9. 02. 1989), richiedendo, quindi, se del caso, un particolare
attivismo datoriale, innanzitutto nella conoscenza delle concrete condizioni in
cui vengono fornite le prestazioni dal medesimo richieste.
Fin
dal 1992, dunque, il datore di lavoro aveva ricevuto la richiesta di verifica
della compatibilità della collocazione aziendale della G**** con le sue mutate
condizioni aziendali ed in ragione della pretesa connessione, lamentata dalla
ricorrente, fra l’aggravamento del proprio stato di salute, testimoniato dalle
continue assenze per malattie, e le concrete mansioni affidatele.
Ciò
avrebbe sicuramente dovuto mettere in moto un certo meccanismo di vigilanza da
parte datoriale, diretto quanto meno in prima fase, ad acquisire quelle
conoscenze ambientali di cui sopra s’è detto.
Sta
di fatto, però, che nulla seguì a quelle denunce, nonostante negli anni a
seguire la medesima parte sia stata destinataria di numerosi certificati medici
sul cui contenuto giammai espresse alcun vaglio critico. E’ evidente, infatti,
che l’obbligo datoriale disegnato dall’art. 2087 c.c. impone a questi, in nome
della suddetta diligenza e in presenza di un’eccessiva morbilità, di
domandarsi, innanzitutto, se ciò non dipenda dalle condizioni di lavoro.
Nella
fattispecie, invece, vi è stato un comportamento ampiamente passivo, di semplice
attesa di constatazione del superamento del comporto contrattuale.
E’
noto che la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. non è
oggettiva, bensì trova sua base nella colpa (Cass. n. 5035/1998), cioè in un
comportamento negligente casualmente efficiente.
Or
ora s’è detto circa l’incidente negligenza datoriale già nell’atto di verifica
dell’idoneità delle condizioni di lavoro rispetto a quelle soggettive ma in
atti risulta altresì acquisita la dimostrazione che parte datoriale neppure
prese in considerazione colpevolmente un’alternativa organizzazione del lavoro
che ponesse in essere quanto richiesto dalla norma per tutelare l’integrità
fisica della lavoratrice.
Dunque,
i certificati medici diagnosticavano la sclerosi multipla di cui era affetta la
ricorrente (e non è credibile quanto afferma il C***, responsabile
dell’azienda, secondo cui sui certificati mancava l’indicazione della malattia,
posto che è obbligo professionale del medico effettuare la diagnosi e, d’altronde,
sarebbe stato certamente interessante approfondire il capitolo delle visite
fiscali a cui, stante l’elevato numero di assenze, certamente fu sottoposta la
ricorrente) e, quest’ultima, di fronte all’assoluta indifferenza di
controparte, si attivava, volta a volta, nel richiedere di non essere adibita
ai lavori più gravosi (es.: rifacimento dei letti, il che comportava di dover
portare il peso dei pacchi di lenzuola; pulizia dell’anger;) e, a parità di
altre colleghe, di essere addetta alla pulizia di un ben definito stabile
(n.d.g.: la circostanza è confermata dal teste C***), in modo tale da potersi
organizzare, distribuendo nel tempo una serie di oneri, anziché fare da jolly,
essendo quindi costretta a percorrere a piedi diversi chilometri all’interno
della base (teste B***).
Appieno
paiono dunque, soddisfatti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza quando
afferma che: “la malattia o le malattie del lavoratore non giustificano il
licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ove l’infermità
abbia avuto causa, in tutto o in parte, nella nocività insita nella modalità di
esercizio delle mansioni o comunque esistente nell’ambiente di lavoro, della
quale il datore di lavoro sia responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla
o ad eliminare l’incidenza, in adempimento dell’obbligo di protezione ed
eventualmente anche delle specifiche norme di legge connesse alla
concretizzazione di esso, incombendo peraltro al lavoratore di dare la prova
del collegamento causale fra la malattia che ha determinato l’assenza ed il
carattere morbigeno delle mansioni espletate” (Cass. n. 5066/00).
Per
completezza motivazionale corre obbligo di dichiarare infondata l’eccezione di
illegittimità del licenziamento in quanto sarebbe stato intimato il 4. 06. 1999
retroattivamente (“a far data dal 30. 05. 1999”). Ma a parte il
licenziamento con preavviso, vien fatto di notare che tutti gli altri recessi
risultano essere retroattivi, nel senso che il provvedimento unilaterale viene
necessariamente preso dopo l’accadimento del fatto che lo legittima. Questo
vale per il licenziamento disciplinare e, a maggior ragione per quello dovuto
al superamento del periodo di comporto che, ovviamente, matura prima del
recesso.
Altro dato su cui
non pare di poter concordare con parte ricorrente è la carenza di prova in
ordine ai giorni di comporto, in sé considerati.
In effetti
nell’atto di recesso vi è un’elencazione minuziosa dei giorni di assenza per
ciascun mese, nell’arco del periodo che va dal gennaio 1997 al maggio 1999. I
giorni sono 735, adeguatamente supportati dalla produzione dei libri di
presenza del personale. Semmai sono le eccezioni di parte ricorrente a non
essere adeguatamente provate, posto che, essendo il comporto contrattualmente
contenuto in 365 giorni negli ultimi 36 mesi, avrebbe dovuto essa parte
dimostrare che di ben 270 giorni era stato fatto errore nel calcolo.
Il comporto,
però, per quanto sopra detto, non è superato.
Secondo gli
stessi calcoli datoriali, contenuti nell’atto di recesso, il licenziamento è
motivato per aver effettuato 735 giorni di assenza nel periodo che va dal
gennaio 1997 al maggio 1998, per aver, quindi, superato il termine contrattuale
di dodici mesi di assenza negli ultimi trentasei.
Ora, dovendo
escludere dal calcolo, per quanto finora detto, il periodo che va almeno dal
gennaio 1998 al 28 maggio 1999, cioè 17 mesi, ne deriva che le contestate
assenze si riducono al solo anno 1997, nel quale ve ne figurano per una od
alcune decine di giorni al mese e, quindi, per meno di 365 giorni.
All’illegittimità
del licenziamento segue la sanzione di cui all’art. 18 L. n. 300/1970, con
obbligo di reintegra e di corresponsione delle retribuzioni mensili omesse
dalla data del licenziamento fino alla reintegra definitiva, oltre rivalutazione
(trattasi di credito di lavoro privato) ed interessi e ricostruzione
previdenziale, secondo quanto in dispositivo, ove pure vengono liquidate le
spese che seguono la soccombenza.
Il Giudice del lavoro, definitivamente pronunciando ACCOGLIE il ricorso e per l’effetto dichiara: a) l’annullamento del licenziamento comminato alla ricorrente G**** Celeste il 4. 06. 1999; b) ORDINA alla S*** srl., con sede in Roma di reintegrare la G**** sul posto di lavoro che occupava al momento del licenziamento; c) CONDANNA la resistente S*** srl. a corrispondere alla G**** la retribuzione globale di fatto omessa, dal licenziamento e fino alla reintegrazione, con gli interessi legali sulle somme rivalutate, oltre alla regolarizzazione contributiva. CONDANNA la S*** srl. a rimborsare alla ricorrente G**** le spese di lite, liquidate in complessive £. 6.000.000, di cui £. 3.500.000 per onorari, £.100.000 per spese ed il resto per diritti, oltre IVA e CAP di legge.
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P.S. Nel senso che le assenze per malattia professionale o infortunio sul lavoro non sono computabili nel periodo di comporto se il datore di lavoro ne è responsabile, di recente Cass., sez. lav., 28 novembre 2008 (est. Ianniruberto) n. 28460, in http://www.legge-e-giustizia.it/index.php?option=com_content&task=view&id=3362&Itemid=131.
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