- Se
tredici ore vi sembran poche...*
-
- C'è una
riforma del governo Berlusconi che ha fatto poco rumore: eppure potrebbe
essere destinata ad incidere pesantemente nella vita di moltissimi
italiani.
- Si tratta
del decreto legislativo n. 66/2003 che, partorito circa un anno fa, ha
profondamente modificato l'organizzazione dell'orario di lavoro,
rendendola molto più flessibile. Il governo, come al solito, si presenta
con le spalle coperte: il decreto è imposto dalla legge delega n.
39/2002, a sua volta emanata in attuazione della direttiva europea n.
104/93 (oggi riordinata nella direttiva n. 88/2003).
- Tuttavia,
come è avvenuto con altri interventi analoghi, la foglia di fico
funziona solo in parte. Infatti, in più punti il decreto è in contrasto
con la direttiva comunitaria, è in contrasto con la legge delega, è in
contrasto con le norme costituzionali.
- L'iperflessibilità
dell'orario si scontra subito con la ratio della direttiva
comunitaria, tesa a prevedere "prescrizioni minime di sicurezza e
sanitarie in materia di organizzazione dell'orario di lavoro", al
fine di migliorare, in esecuzione dell'art. 137 del Trattato, "
l'ambiente di lavoro per proteggere la sicurezza e la salute dei
lavoratori", in considerazione del fatto che "il miglioramento
della sicurezza, dell'igiene e della salute dei lavoratori durante il
lavoro rappresenta un obiettivo che non può dipendere da considerazioni
di carattere puramente economico" (punto 4 del preambolo).
- E' vero
peraltro che le norme del decreto legislativo sono in gran parte riprese
dalle disposizioni della direttiva (salvi i contrasti che vedremo). La
contraddizione si spiega con la circostanza che la normativa italiana
previgente, nonostante risalisse in gran parte ad epoca fascista,
garantiva maggiormente il lavoratore, prevedendo ad esempio limiti di
orario massimo più rigidi, rispetto ad altre legislazioni, come quella
britannica. La direttiva quindi, prevedendo standard minimi da
applicare in tutti gli Stati, costituisce un miglioramento delle
condizioni dei lavoratori per alcuni Stati, ma un peggioramento per altri,
a disciplina lavoristica più avanzata, come l'Italia.
- Tuttavia la
direttiva, proprio a garanzia delle legislazioni più avanzate, ha
previsto un principio, contenuto anche in molte direttive analoghe e
sempre dimenticato dall'attuale governo in sede di attuazione. Si
tratta del c.d. "principio di non regresso", in base al quale
l'attuazione della direttiva "non costituisce una giustificazione per
il regresso del livello generale di protezione dei lavoratori".
Mentre il decreto, come vedremo, fa certamente regredire i
lavoratori.
- D'altra
parte non è riportata nel decreto (e solo insufficientemente attuata con
riferimento alle "pause", come si dirà) la norma generale
contenuta nell'art. 13 della direttiva, secondo cui gli "Stati membri
prendono le misure necessarie affinché il datore di lavoro che prevede di
organizzare il lavoro secondo un certo ritmo tenga conto del principio
generale dell'adeguamento del lavoro all'essere umano, segnatamente per
attenuare il lavoro monotono e ripetitivo, a secondo del tipo di attività
e delle esigenze in materia di sicurezza e di salute, in particolare per
quanto riguarda le pause durante l'orario di lavoro".
- Ma vediamo
quali sono gli aspetti più evidenti di peggioramento della precedente
disciplina.
- In primo
luogo è stata abrogata la disposizione del R.D.L. n. 692/23 che prevedeva
un orario normale giornaliero di 8 ore. Le "otto ore" hanno
costituito una leggendaria conquista del mondo del lavoro di quasi
cent'anni fa, all'esito della lunga battaglia delle "tre otto":
8 ore per il lavoro, 8 ore per il sonno e 8 ore per il tempo libero.
- Tutto è
stato cancellato con un tratto di penna!
- In base
alla nuova normativa non è previsto espressamente alcun limite
giornaliero e solo indirettamente si può affermare che il limite è stato
portato a 13 ore al giorno, perché l'art. 7 del decreto stabilisce che
"il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni 24
ore". E' vero che l'art. 8 prevede, nel caso di lavoro eccedente le
sei ore al giorno, il diritto ad una pausa "al fine del recupero
delle energie psico-fisiche e delle eventuale consumazione del pasto anche
al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo": tuttavia, in
assenza di migliori trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva,
la pausa è indicata in soli 10 minuti, durante i quali il lavoratore
dovrebbe consumare almeno un pasto (se non due) e riposare.
- Ma non
basta! Ai sensi dell'art. 17 del decreto il limite di 13 potrebbe anche
essere superato, potendo arrivare teoricamente anche a 24 ore, in
base alla previsione della contrattazione collettiva anche decentrata,
conformemente ad intese a livello nazionale, o, in mancanza, per decreto
ministeriale, in questo caso con riferimento a specifiche attività,
peraltro numerose e spesso indicate genericamente (agricoltura, turismo,
trasporto, ecc.). E tutto ciò in teoria anche senza pause, perché anche
queste potrebbero essere escluse dai contratti collettivi o dal ministro.
- Ma tutto ciò
rispetta i principi costituzionali? Per nulla, perché l'art. 36 secondo
comma della Costituzione, dispone che "la durata massima della
giornata lavorativa è stabilita dalla legge". Ammesso che si tratti
di una riserva di legge relativa (ma molti commentatori la considerano
assoluta), manca nella legge l'indicazione di criteri direttivi almeno con
riferimento alle illimitate deroghe consentite alla contrattazione
collettiva (ma anche con riguardo alle generiche categorie indicate per
l'emissione del decreto ministeriale).
- Quanto
all'orario settimanale il R.D.L. del 1923 prevedeva la "durata
massima normale" di 48 ore, oltre 12 ore massime di straordinario per
un totale di 60 ore. L'art. 13 L. n. 196/97, tenendo conto dell'evoluzione
della contrattazione collettiva, aveva fissato l'orario
"normale" di lavoro in 40 ore, pur prevedendo che i contratti
collettivi nazionali potessero riferire l'orario normale alla durata media
delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno. L'art.
3 del decreto n. 66 ha confermato l'art. 13, prevedendo però che il
riferimento alla "media della prestazione" possa essere
effettuata dai contratti collettivi senza altra specificazione e quindi
anche da quelli decentrati e addirittura aziendali. E' escluso tuttavia
l'orario normale di 40 ore, salva diversa previsione dei contratti
collettivi, per una lunga serie di attività indicate nell'art. 16 e
nell'art. 17 comma 5, per le quali, quindi, in assenza di orario normale,
non è configurabile lo straordinario, almeno fino al limite della durata
massima settimanale. Le deroghe appaiono in molti casi di dubbia
costituzionalità, sotto il profilo dell'art. 3 Cost., poiché per molte
delle categorie indicate, se può essere giustificato un obbligo di
svolgere lo straordinario per la necessità di garantire la continuità di
certi lavori, non si comprende la ragione del diverso trattamento
economico rispetto ad altre attività altrettanto usuranti se non di più
(si pensi, per fare solo degli esempi, agli operai poligrafici o agli
addetti allo smaltimento dei rifiuti).
- La durata
massima dell'orario di lavoro settimanale è rimessa dall'art. 4 alla
contrattazione collettiva, ma non può superare in media, compreso lo
straordinario, le 48 ore. Si tratta di una misura teoricamente inferiore
non solo alle 60 ore previste dalla disposizione del 1923, ma anche alle
52 ore massime, che costituivano la conseguenza della riforma del 1997 (40
ore normali più 12 di straordinario massimo previsto dal R.D.L. del
1923). Ma la nuova disposizione prevede che le 48 ore massime vadano
calcolate come media per un periodo non superiore a 4 mesi, elevabile dai
contratti collettivi a 6 mesi senza motivazione e a 12 a fronte di ragioni
obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro.
- Questa
complessa organizzazione comporta che di fatto l'orario settimanale per
alcune settimane può superare le 52 ore previste dalla legge del 1997, le
60 ore previste dalla disposizione del 1923 fino a raggiungere il massimo
teorico di 78 ore (13 ore giornaliere per 6 giorni). In realtà anche
questo massimo potrebbe essere superato, tenendo conto delle deroghe
consentite dall'art. 17 al limite massimo giornaliero di 13 ore che sono
state già esaminate, purché sia compensato da un orario inferiore nelle
settimane successive o da riposi compensativi. Peraltro l'art. 17 consente
per le stesse fattispecie di derogare anche alla durata massima
settimanale.
- Va
ricordato poi che vi sono alcune categorie del tutto escluse dalla
normativa in esame ai sensi dell'art. 2, che comprende anche gli addetti
alle biblioteche e ai musei, con qualche dubbio di conformità con la
direttiva, nella quale le eccezioni dovevano intendersi limitate ad
attività "indispensabili al buon funzionamento della vita
sociale".
- Ma il moderno
legislatore, non contento, ha eliminato anche il limite massimo di
straordinario di due ore al giorno e di dodici ore a settimana, previsto
nel decreto del 1923. E' stata inoltre eliminata la previsione del
necessario consenso del lavoratore, perché ai sensi dell'art. 5 il
consenso per lo straordinario è necessario solo "in difetto di
disciplina collettiva applicabile". In realtà il rifiuto sarà
comunque molto difficile di fatto, perché con il sistema della
"media" il lavoratore potrà sapere se ha svolto lavoro
straordinario solo "a consuntivo" e cioè alla fine del periodo
medio. Infatti anche le 13 ore di lavoro massime giornaliere potrebbero
essere considerate tutte come lavoro ordinario, poiché lo straordinario
non va più computato con riferimento alla giornata di lavoro, ma solo con
riferimento alla settimana, peraltro come media in periodi più lunghi. Va
osservato che con il sistema "a consuntivo" il lavoratore anche
sul piano psicologico non avrà più la consolazione di sapere in anticipo
che almeno le ore lavorate in più verranno pagate con una maggiorazione.
Ma anche sulla maggiorazione è caduta la scure del legislatore,
che ha abolito la misura minima del 10% e quindi in teoria la
maggiorazione prevista dalla contrattazione collettiva potrebbe essere
inferiore (anche se attualmente è generalmente superiore).
- Lo
straordinario non può comunque superare le 250 ore annuali, mentre è
stato abolito per le imprese industriali il limite delle 80 ore
trimestrali, abolizione non richiesta dalla direttiva e in contrasto con
l'Avviso comune dei sindacali del 1997 recepito nella legge delega. In
realtà anche il limite delle 250 ore è diventato derogabile dalla
contrattazione di qualsiasi grado a differenza della previsione del 1923
("in difetto di disciplina collettiva…", art. 5 comma 3).
- Ma ci sono
anche altre, poco gradite, novità!
- L'art. 9
prevede un riposo di almeno 24 ore consecutive ogni sette giorni, ma
consente una serie di deroghe (lavoro a turni o frazionato e lavoro nel
trasporto ferroviario), senza peraltro la previsione del riposo
compensativo in contrasto con la direttiva. Consente inoltre la deroga
incondizionata da parte della contrattazione collettiva e, addirittura,
l'intervento sostitutivo del Ministero, senza indicazione di tipi di
attività, in palese violazione dell'art. 36 2° comma Costituzione.
- Anche i
limiti orari al lavoro notturno possono essere liberamente derogati dalla
contrattazione collettiva e ciò è in contrasto con la direttiva almeno
con riguardo ai lavoratori "mobili" (addetti al trasporto), per
i quali doveva essere previsto un "riposo adeguato".
- Il decreto
non prevede specifiche sanzioni per la violazione delle disposizioni, ma
rinvia alle sanzioni previste nelle norme previgenti. Ciò però potrebbe
comportare il rischio di "inefficacia dell'apparato sanzionatorio",
per la non precisa corrispondenza tra il precetto e la sanzione. In ogni
caso la norma sul riposo, non prevista nella disciplina precedente, è del
tutto priva di sanzione.
- Infine va
osservato che la flessibilità dell'orario è stata recentemente
ulteriormente esasperata per effetto dell'entrata in vigore del D.Lgs n.
276/2003 (c.d. riforma Biagi), che ha introdotto il "lavoro
intermittente" e le clausole elastiche nel part-time. Con
riguardo a tali rapporti il datore di lavoro potrà in sostanza variare
unilateralmente l'orario di lavoro, anche giorno per giorno, e ciò
impedirà al lavoratore di organizzare adeguatamente la vita personale e
familiare, aumentando le condizioni di stress ed incidendo quindi
negativamente sulla salute.
- In
conclusione. La meta delle "otto ore" di lavoro nella giornata
è stata per il lavoratore una conquista, consolidata da quasi cent'anni,
di affrancamento dalle condizioni di quasi schiavo, perché gli ha
consentito di essere vincolato al datore di lavoro solo per un periodo
limitato e predeterminato nella giornata e di essere per il resto libero.
Ma questa libertà, evidentemente, non serve più al nuovo e
moderno lavoratore globalizzato!
-
- Giovanni
Cannella – magistrato della Corte di appello di Roma
- Marzo 2004
- fonte:www.omissis.too.it
- *In corso
di pubblicazione sulla rivista "Il Ponte"