La rimozione dall’incarico, dal ruolo e dalle mansioni, per fini punitivi, per  ritorsione e/o per “mobbing”

 

1.      La Cassazione, con decisione n. 11520 del 19 novembre 1997, ha statuito il seguente principio: “Quando – come in fattispecie - la rimozione da un precedente incarico o la sottrazione di mansioni implicanti  una maggiore fiducia rispetto a quelle successivamente assegnate, in ragione della loro non equivalenza costituisca  una “deminutio capitis” per il dipendente, non  si può affermare che tale esercizio dello “ius variandi” datoriale debba essere considerato assolutamente “neutro” o “insignificante” per il lavoratore, anzi, al contrario, connotato da un intrinseco carattere afflittivo. Se poi – come nel caso – tale esercizio dello “ius variandi” segua immediatamente la contestazione e l’irrogazione di una sanzione disciplinare, senza essere accompagnato da un’autonoma motivazione, non può negarsi che tale provvedimento, proprio perché ricollegabile immediatamente all’originaria infrazione contestata, assuma – non solo agli occhi del destinatario, ma anche nell’ambiente di lavoro, per il modo con cui esso è percepibile – tutti i connotati e i contenuti tipici di una sanzione disciplinare. Pertanto, tale provvedimento ontologicamente punitivo, di per sé idoneo ad incidere sull’immagine e dignità del lavoratore, reclama l’adozione delle cautele previste dall’art. 7 della l. n. 300/’70, non potendosi negare l’esistenza di un interesse del lavoratore a difendere la sua dignità ed immagine di fronte ad una contestazione inesistente”.(1)

La sentenza, verso cui esprimiamo  condivisibilità, si pone in un certo qual modo controcorrente in quanto oppone uno stop all’esercizio dello ius variandi datoriale in funzione disciplinare, funzione legittimata da quell’orientamento  equivoco della stessa Suprema corte, tramite cui è stata – con una progressione per gradi – legittimata l’infida fattispecie del “trasferimento per incompatibilità ambientale”, cioè un esercizio dello ius variandi datoriale determinato da causale soggettiva (il comportamento  colpevole del lavoratore) implicante (o suscettibile di implicare)  anche effetti perturbativi sull’organizzazione aziendale e sul regolare svolgimento delle relazioni interpersonali tra capo e dipendente o tra i vari dipendenti dell’azienda od unità produttiva.

Già a suo tempo (nel 1986) un autore metteva in guardia sull’utilizzo di una modalità dello ius variandi datoriale (nella specie il trasferimento per incompatibilità ambientale) considerandolo “atto sottilmente discriminatorio, attraverso cui l’imprenditore tende ad utilizzare i suoi poteri organizzativi, ed innanzi tutto lo ius variandi, in funzione disciplinare”(2). E nello stesso periodo – sempre a proposito di quella modalità dell’esercizio dello ius variandi, costituita dal trasferimento topografico – un altro giuslavorista (3) censurava la ricorrente tentazione del datore di lavoro, in caso di contrasti  interpersonali fra dipendenti nell’unità produttiva, “di avvalersi del potere di trasferimento per risolvere drasticamente ogni problema di fronte alla difficoltà di perseguire disciplinarmente comportamenti spesso non qualificabili come inadempimento”, asserendo incisivamente “ma è proprio questa semplicistica soluzione ad essere vietata dalla legge a garanzia dell’interesse del lavoratore a permanere nell’unità produttiva in cui si trova”. Nonostante queste avvertenze, la Cassazione giungerà a legittimare l’uso dello ius variandi, nella modalità del trasferimento topografico, determinato causalmente da comportamenti soggettivi dei lavoratori (e quindi suscettibili di implicare il ricorso allo strumento disciplinare con le garanzie ex art. 7 L. n. 300/’70), qualificandolo espressione dei poteri organizzativi dell’imprenditore e riconducendolo nel loro alveo di discrezionalità operativa, in ragione degli effetti (reali o presunti) di disorganizzazione aziendale conseguenti ai censurabili comportamenti soggettivi.

Insomma la Cassazione, dopo aver affermato in linea di principio che il trasferimento disciplinare è misura vietata dallo Statuto dei lavoratori (precisamente dall’art. 7, 4° comma che  stabilisce che “non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro“), successivamente legittima il trasferimento afflittivo discendente da comportamenti soggettivi in quanto rispondente all’esigenza della salvaguardia della normalità organizzativo/produttiva e quindi riconducibile alle “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.

La legittimazione può essere fatta risalire, in forma compiuta, a Cass., sez. un., n. 4747/1986, la quale dopo aver premesso che “il trasferimento a titolo disciplinare è certamente illegittimo (‘perché sanzione atipica rispetto ai provvedimenti in materia disciplinare previsti dall’art. 7 st. lav.’)”, sancì che “tuttavia nel caso in cui nel comportamento del dipendente possa essere configurabile al tempo stesso un fatto rilevante sotto il profilo disciplinare ed una delle ragioni tecniche, organizzative e produttive che consentono il trasferimento, il datore di lavoro può scegliere se esercitare ‘in alternativa’ il potere disciplinare (con i limiti di cui all’art. 7 st. lav.) o il potere direttivo-organizzativo (con i limiti di cui all’art. 13 st. lav.), senza che il giudice possa valutare la convenienza o l’alternativa opportunità tra le due soluzioni ”. Ad essa si sono, poi, allineate le successive Cass. n. 11233/1990, Cass. 12088/1991 e Cass. 10333/1997.

 

2.      Tuttavia, il trasferimento  topografico per motivi soggettivi (per c.d. “incompatibilità ambientale”, per indole dei lavoratori ingenerante contrasti, ostruzionismi o semplice ostilità tra gli stessi o tra  di essi e i loro superiori gerarchici) implicante un allontanamento dalla sede di lavoro, non è la sola misura punitiva utilizzata con preferenza dal datore di lavoro – rispetto all’attivazione della procedura disciplinare -  per l’evidente beneficio della  sottrazione alle garanzie predisposte dallo Statuto dei lavoratori a favore dei dipendenti (contestazione degli addebiti, audizione a difesa, eventualmente con l’assistenza sindacale, sospensione dell’eventuale sanzione tramite ricorso al Collegio arbitrale, ecc.). Esiste ed è sovente azionata dalle Direzioni aziendali anche la collegata modalità di esercizio dello ius variandi, costituita dal mutamento delle mansioni, che prende corpo (nelle realtà aziendali) nella forma della rimozione dall’incarico e dal ruolo rivestito o dalla posizione di lavoro assegnata, con attribuzione di altre, normalmente deteriori,  mansioni, cioè a dire sprovviste del carattere dell’equivalenza ex art. 2103  c.c. Si tratta, in entrambi i casi, di misure intrinsecamente afflittive o ontologicamente punitive, tramite cui il datore di lavoro maschera il rifiuto ad azionare la procedura disciplinare – giustappunto per non sottostare all’osservanza delle  precitate garanzie per il lavoratore, predisposte dall’art. 7 Statuto dei lavoratori – dietro il ricorso “discrezionale”  agli strumenti del potere organizzativo aziendale. La dottrina è unanime nel riconoscere, in tali casi, non consentito il ricorso alle aggiranti, subdole, misure organizzative di esercizio dello ius variandi e “nel riconoscere al datore di lavoro, in tali casi, la possibilità di rimuovere la causa ostativa al regolare svolgimento dell’attività lavorativa con il solo potere disciplinare “(4).

La  sopracitata sentenza n. 11520/1997 si occupa appunto della modalità – apparentemente meno traumatica – del mutamento delle originarie mansioni, in funzione punitiva, con assegnazione ad altre meno fiduciariamente connotate (e quindi non equivalenti in senso giuridico) in luogo del trasferimento topografico al quale spesso si accompagna anche il confinamento del dipendente in mansioni non corrispondenti (alla) o non rispettose della professionalità acquisita.

Naturalmente il mutamento di mansioni, sprovvisto del requisito dell’equivalenza richiesto dall’art. 2103 c.c. non necessariamente è indice di un carattere punitivo, in senso disciplinare, del provvedimento di ius variandi. Può accadere che esigenze aziendali (quali la maggiore idoneità o capacità di un altro lavoratore con più esperienza o professionalità specifica) rendano necessario o semplicemente più opportuno o più conveniente per l’azienda lo spostamento di un lavoratore dalle originarie mansioni con subentro in esse del prescelto in sua vece. E può accadere che, per ragioni di ignoranza o di imperizia dei gestori aziendali, al dipendente soggetto al mutamento di mansioni  ne siano assegnate altre non equivalenti, la lato oggettivo e/o soggettivo, in relazione alla professionalità acquisita. La lesione inferta al requisito dell’equivalenza – che legittima lo ius variandi – non è in tal caso indizio o elemento rivelatore di un intento disciplinare sotteso al mutamento. Con la conseguenza che non si può reclamare per tale  “rimozione di incarico” le garanzie disposte dall’art. 7 per i provvedimenti disciplinari (anche atipici, come nella specie). Si tratterà, nella fattispecie, di un mutamento con effetti nulli, in quanto contrario alla norma imperativa postulante l’equivalenza, e come tale – se impugnato giudizialmente – implicherà la dichiarazione di nullità ed il ripristino della situazione quo ante, non già in applicazione analogica della norma (speciale) dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, ma dei principi di “diritto comune” secondo cui “quod nullum est, nullum effectum producit”, dovendosi dichiarare il provvedimento aziendale “tanquam non esset” (5) e provvedere, poi o contemporaneamente, a sanare il vizio attraverso una assegnazione di mansioni caratterizzata dall’equivalenza, nel caso non si voglia mantenere il lavoratore in quelle originarie, conseguenti al ripristino della situazione.

Quando invece  il mutamento di mansioni sia imputabile (ed al riguardo occorre un’indagine giudiziale accurata sull’uso o abuso dei poteri privati datoriali) alla volontà aziendale di “scegliere una scorciatoia” – in luogo della strada maestra segnata dal legislatore con l’art. 7 L. n. 300/’70 – per punire il lavoratore di cui non si è soddisfatti o che, in quanto si nutre  epidermicamente in esso una fiducia non piena (o non estesa fino alla di lui disponibilità a coprire omertosamente comportamenti aziendali deviati o clientelari, quali possono ricorrere nel settore gestionale - di norma interno alle Direzioni risorse umane -  delle assunzioni, affidamento di incarichi, promozioni, e simili), e si intende allontanarlo da quella “delicata” funzione aziendale, allora il provvedimento di “ius variandi” ha carattere punitivo o è viziato da “causa illecita”. Ed in tal caso il giudice – svolta l’ardua ricognizione, in assenza di una motivazione del cambiamento di mansioni non dovuta al lavoratore per effetto della normativa statutaria, come per il trasferimento – dichiarerà nullo il provvedimento aggirante le garanzie per il lavoratore di cui all’ art. 7 stat. lav., o viziato ex art.1418  c.c. da “causa illecita”, in relazione all’art. 1343 c.c.

 

3.      La decisione  n. 11520 del 19 novembre 1997 – dalla quale siamo partiti – attiene, come abbiamo  accennato al punto 1) – alla modalità di estrinsecazione dello ius variandi costituente  di regola un minus rispetto allo sconvolgente trasferimento topografico, ma non per questo non dotata di significativa e pregnante valenza afflittiva a livello personale ed in ambito aziendale, quale la rimozione dall’incarico e dal ruolo rivestito o comunque dalla posizione e dalle mansioni disimpegnate per l’affidamento di altre nient’affatto rispondenti al criterio dell’equivalenza, giustappunto in quanto si vuole infliggere “indirettamente” al lavoratore un esemplare provvedimento punitivo ovvero lo si vuole  “incolpevolmente”  sollevare da un incarico o da una posizione di lavoro nella quale la gestione aziendale  pone in essere provvedimenti discrezionali sui quali si aspetta  insindacabilità da chicchessia e tanto più da un collaboratore talora (anche se raramente) poco disponibile  alla “complicità”, in quanto orientato a privilegiare i valori della correttezza e dell’imparzialità.

Nella fattispecie esaminata dalla decisione in questione, un dipendente era stato spostato subito dopo  una contestazione ed  una sanzione disciplinare (della sospensione per 3 giorni) da mansioni fiduciarie di “addetto alla vigilanza” a quelle, valutate deteriori e non equivalenti dal Tribunale, di addetto al magazzino, percepite dall’interessato e dall’ambiente in cui operava come una innegabile “deminutio capitis”, per il venir meno dell’elemento fiduciario che connotava intrinsecamente le precedenti.

Di fronte all’insistente richiamo analogico dell’azienda ai precedenti in tema di “trasferimento per incompatibilità ambientale”- cioè ad una legittimazione dell’esercizio dello ius variandi in contemporaneità con una contestazione e sanzione disciplinare senza che si possa inferire (come ha statuito Cass. n. 10333/1997) che il ricorso ai poteri direttivo/organizzativi di mutamento del luogo di lavoro o delle mansioni  costituisca, per tale collegamento cronologico, una sanzione accessoria – l’attuale decisione della Cassazione obietta di non poter “aderire a queste perentorie conclusioni”.

La Suprema corte asserisce che i precedenti in tema di trasferimento per incompatibilità ambientale non sono – nonostante l’apparenza – pertinenti con la fattispecie del mutamento di mansioni. Argomenta la Suprema corte che mentre il trasferimento è caratterizzato – su richiesta – da specifica motivazione sulle causali, sindacabili sia dal lavoratore sia giudizialmente al fine di realizzare il riscontro della sussistenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”, il mutamento di mansioni non è assistito, per normativa statutaria, dall’obbligo  di fornire (a richiesta) la  relativa motivazione, talché  tale modalità di esercizio dello ius variandi è ampiamente discrezionale e solo vincolata dal requisito della “equivalenza” professionale. Quando non  sia realizzata tale equivalenza  o, peggio, quando la conseguente “deminutio capitis” sia preceduta (da) e correlata ad una contestazione o sanzione disciplinare il mutamento di mansioni o la rimozione dall’incarico e dal ruolo  necessità di una più ampia e penetrante indagine giudiziale  rivolta a verificare la genuina rispondenza del provvedimento aziendale a motivi organizzativo/produttivi ovvero, il che è lo stesso, l’assenza di  motivi o intenti afflittivo/sanzionatori. Nel caso di specie, in cui il mutamento di mansioni (con assegnazione ad altre di minor pregio soggettivo ed oggettivo) è preceduto da una sanzione disciplinare, appare corretta  ed incensurabile l’indagine giudiziale che ha indotto a ritenere che, non soltanto  per la coincidenza cronologica ma anche  per lo stretto nesso tra sanzione e mutamento di mansioni, la sanzione  sia  stata  determinante (o comunque, prevalente) della sottrazione di mansioni e pertanto, quest’ultima, attratta e considerata come sanzione accessoria, per la cui inflizione andavano osservate le garanzie di cui all’art. 7 stat. lav., in mancanza del cui integrale rispetto il mutamento di mansioni è nullo (“tanquam non esset”).

Si tratta di una sentenza garantista nei confronti dei lavoratori, volta a preservarli dal disinvolto uso aziendale dello ius variandi in funzione e con intenti punitivi, onde aggirare le garanzie statutarie o i principi generali di correttezza e buona fede, e realizzare – senza intralci procedurali – ed attraverso “una scorciatoia” (indebita) gli incoffessabili obiettivi della rimozione dal posto di lavoro.

Per passare dal teorico al pratico, possiamo riferire un “caso concreto” verificatosi nel febbraio/marzo 1990 presso un primario Istituto di credito. Un funzionario di quasi massimo grado della Direzione centrale del personale, rivolse al neo Direttore generale – in concomitanza con la determinazione aziendale di mortificare dei collaboratori cinquantenni  in seno al Servizio del Personale con l’assunzione  dall’esterno di un Responsabile del Personale (trentacinquenne, con nettamente inferiori esperienze e professionalità, gratificato dall’offerta dell’Istituto di una retribuzione superiore del 75% c.a. rispetto a quella del predetto funzionario) - una proposta  organizzativa tramite la quale  richiedeva di essere, per salvaguardia della propria dignità, sottratto dal Servizio del Personale per svolgere  a staff del D.G. medesimo mansioni di “assistentato per le politiche gestionali ed i problemi del lavoro”. Nella stessa richiesta – in via strettamente riservata e con garanzia di non pubblicizzazione, stanti i cordiali rapporti con  il citato D.G. –  il funzionario in questione avanzava, tra l’altro, anche talune personali considerazioni, dal lato strettamente organizzativo/funzionale, sulla “pletoricità” della struttura dell’Area del Personale, dipendente statutariamente dal D.G. ma intermediata  anche da altri due Direttori  centrali, in posizione gerarchica al disotto del Direttore Generale (ma al di sopra del Responsabile del Servizio del Personale),  gli stessi che erano congiuntamente i proponenti della soluzione extraziendale mortificante il  funzionario ed i  suoi Colleghi interni tramite l’imposizione gerarchica di un esterno (il terzo, con loro, a presidiare l’Area del Personale). Pletoricità di livelli gerarchici giustificante, ad avviso del funzionario, la richiesta di una sua sottrazione dall’assetto organizzativo dell’Area del Personale, come all’epoca strutturata.  Passarono 25 giorni ed il D.G., non accogliendo la proposta rivoltagli – in quanto suppostamente posto in minoranza dai due Direttori centrali preposti all’Area del personale (ostili al suddetto funzionario) che si erano premurati di ottenere il sostegno del Presidente (secondo quanto poi riferitogli dal D.G.) -  emanò un ordine di servizio in cui nominava l’esterno quale “Responsabile del personale” ma, compensativamente, affidava al precitato funzionario la responsabilità del più importante settore del Servizio del Personale: il “settore gestione risorse e relazioni sindacali”, con compiti propositivi e di gestione dei sistemi di inquadramento del personale, di loro incentivazione, di promozione, di carriera e cura degli assetti retributivi e del contenzioso del lavoro nonché di conduzione dei rapporti con le Rappresentanze sindacali interne ed esterne, settore composto da 6 collaboratori  dei quali avvalersi e dei quali sovraintendere il lavoro. Era questo un segnale inequivoco, sebbene parziale, dell’apprezzamento - da parte del pur ancor “debole” neo D.G. (in carica da appena un anno o poco più) costretto a mediare con gli “interni” più “navigati” -  della competenza e professionalità del predetto funzionario. Passarono ancora due mesi e mezzo e improvvisamente il precitato funzionario venne convocato in una stanza alla presenza dei di lui tre superiori gerarchici ai vari livelli. Dal direttore centrale del Personale  gli venne detto che  a causa della “corrispondenza rivolta direttamente al D.G., era venuta meno la fiducia nei suoi confronti e, pertanto, il giorno successivo sarebbe stato emesso un nuovo ordine di servizio tramite cui veniva rimosso dall’incarico”. Nient’altro. Il nuovo Responsabile del Personale assunto dall’esterno, che lo accompagnò nella sua stanza, visibilmente turbato per l’accaduto cui aveva assistito da mero spettatore incredulo, a conclusione del riferito colloquio, gli disse che “i  suoi due superiori gerarchici erano venuti in possesso della lettera riservata indirizzata dal funzionario  al D.G., ecc.”. Cos’era successo?  La proposta riservata era, per così dire, “fuoriuscita”…alla distanza – come confermarono  al funzionario in questione sia il D.G. sia le sue due Segretarie – dalla Segreteria del D.G. ed era finita nelle mani dei due superiori di più elevato livello dopo il D.G. (il Segretario Generale ed il Direttore Centrale del Personale)  che  evidentemente ritennero la proposta come un “atto di lesa maestà” e si rivolsero al Presidente dell’Istituto di credito (come lo stesso D.G. ebbe a rivelargli) per chiedere (ed ottenere) la “testa” del funzionario ossia la di lui rimozione dall’incarico da poco assegnatogli. L’ordine di servizio emesso il giorno successivo alla sintetica e generica contestazione, gli sottraeva la responsabilità funzionale del principale settore del Servizio del Personale e a lui venne affidato, sfruttando la sua propensione all’approfondimento giuridico, un incarico di studio “a termine”, confezionato ad hoc, da svolgere  uti singulus  sempre in seno al Servizio del Personale in cui venne (da allora in poi inattivamente) mantenuto, studio concernente il rinnovo del ccnl degli impiegati del credito e l’implicazione sugli adempimenti del Servizio del personale da parte del “decreto Amato” sulla privatizzazione degli enti pubblici, che venne , in ragione della sua  intrinseca inconsistenza  nonché strumentalità alla rimozione dal ruolo in precedenza assegnatogli, concluso dal predetto funzionario nel giro di  non più di quattro mesi lavorativi. Vivaci furono le di lui reazioni al falso provvedimento organizzativo, mascherante una vera e propria sanzione disciplinare (atipica) da insofferenza inveterata verso di lui da  parte del vecchio establishment aziendale, legittimante l’avallo  e lo spiegamento diretto di pregresse e persistenti iniziative di mobbing tese a provocarne le dimissioni (per intollerabilità ambientale), come vivaci furono le reazioni sindacali che stigmatizzarono con propri comunicati (ripresi dalla stessa stampa nazionale) questa “decapitazione”. La reazione sfociò inevitabilmente in un ricorso al Pretore del lavoro, tuttora  pendente,  in cui il funzionario vessato sostenne la reale natura “afflittivo/sanzionatoria” del falso provvedimento organizzativo e la sua insanabile nullità per violazione dell’art. 7 stat. lav. e delle garanzie dallo stesso approntate, a tutela del diritto di difesa.

Come si desume da questo  illuminante “caso concreto” prospettato all’attenzione dei lettori, non resta che auspicare l’intensificarsi dell’orientamento affermato, ora ed isolatamente allo stato, da Cass. n. 11520/1997, perché la concreta realtà aziendale  rigurgita di usi impropri del potere di ius variandi in funzione disciplinare (atipica). In buona sostanza alla rimozione dall’incarico e dalle mansioni (come al trasferimento) il datore di lavoro sovente ricorre in luogo di azionare la procedura disciplinare, per l’incertezza dei risultati, assicurati invece concretamente ed insindacabilmente con lo spostamento a mansioni diverse.  Corre tra questo modo di procedere e le dimissioni estorte (7) al dipendente, ex art. 1438 c.c. – in luogo dell’irrogazione di un provvedimento disciplinare  espulsivo – una strettissima analogia, incentrata sulla causa o motivo illecito, costituito dall’obbiettivo del conseguimento di “vantaggi ingiusti”. Così come con la minaccia del licenziamento o del trasferimento (o della denuncia penale) – che orienta il dipendente alla sottoscrizione delle dimissioni – è stato riconosciuto, dottrinalmente e giurisprudenzialmente, che si ottiene un risultato antigiuridico (con conseguente annullabilità delle dimissioni estorte), consistente nell’ autoattribuzione  per il datore di lavoro di un titolo  di risoluzione del rapporto non ottenibile mediante il mero esercizio della facoltà di recesso, sottratto a priori a tutti i limiti formali e sostanziali da cui tale facoltà è vincolata dallo Statuto dei lavoratori, così  con l’attivazione  impropria, a fini punitivi, dello ius variandi il datore di lavoro consegue un analogo risultato antigiuridico: quello dell’allontanamento del dipendente da quel determinato incarico o la sottrazione delle di lui  mansioni per altre non equivalenti, quando in realtà lo scopo punitivo  può solo essere perseguito legittimamente assoggettandosi alle procedure garantiste di legge per il prestatore di lavoro (ed in questo, analogamente, risiede l’ingiusto vantaggio datoriale che merita la sanzione di nullità).

Va altresì detto, in relazione alla specifica fattispecie esaminata da Cass. n. 11520/’97 che, tenuto conto del divieto contenuto nell’art. 7, 4° co., st. lav. di disporre  “sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro” – tradotto da Cass. n. 3811/’90 nella preclusione ad istituzionalizzare la “dequalificazione professionale per fini punitivi” – la Cassazione, una volta accertata la finalità sanzionatoria del mutamento di mansioni o della rimozione dall’incarico, avrebbe potuto (rectius, dovuto) più linearmente statuire la nullità in radice del provvedimento dequalificante per contrarietà all’art. 7, 4° co., st.lav., in quanto configurante sanzione atipica non legislativamente consentita, in luogo di seguire la strada di estendergli le garanzie procedimentali dell’art. 7 medesimo (la cui carenza comporta comunque l’eguale risultato della nullità del provvedimento).

 

Mario Meucci

 

(pubblicato su “Incontri”, bimestrale del Sindirigenticredito, n.5/agosto-ottobre 1998, e in “Lav. prev. Oggi”, 1998, 1462)

 

NOTE

    (1)   Riportata integralmente in Lav. prev. Oggi, maggio 1998, p. 1008.

    (2)   Così Vardaro, Il potere disciplinare giuridificato, in Dir. lav. rel. ind. 1986, 27.

    (3)   Vallebona, Il trasferimento del lavoratore, in Riv. it. dir. lav. 1987, I, 79.

   (4)  Così Brollo, La mobilità interna del lavoratore, Milano 1997, 560 – 561. Conf. Angiello, Il trasferimento dei lavoratori, Padova 1986, 92; Vallebona, Il trasferimento del lavoratore, cit. 79.

(5)   Alle stesse conclusioni perviene, Brollo, La mobilità interna  del lavoratore, cit., 249, secondo la quale “la disciplina legale delle mansioni ha carattere imperativo, per cui il provvedimento contrario è nullo. Ne consegue, secondo le regole generali, che la determinazione aziendale nulla deve considerarsi tanquam non esset. Se così è…, va ripristinato, quale effetto naturale della violazione lo status quo ante, cioè la situazione di fatto e di diritto precedente”(seppure con una certa elasticità evidenziata infra)”.

(6)   Per l’esame della problematica si rinvia a Meucci, L’annullabilità delle dimissioni estorte, in Lav.prev.Oggi, 1996, 2081 nonché Id:, Dimissioni ottenute  sotto minaccia di licenziamento e di denuncia penale: reato di estorsione o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni?, ibidem 1997, 1263 (nota di commento a Cass. 15 ottobre 1996, n. 9121).

(7)   Per l’esame della problematica si rinvia a Meucci, L’annullabilità delle dimissioni estorte, in Lav.prev.Oggi, 1996, 2081 nonché Id:, Dimissioni ottenute  sotto minaccia di licenziamento e di denuncia penale: reato di estorsione o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni?, ibidem 1997, 1263 (nota di commento a Cass. 15 ottobre 1996, n. 9121).

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