La rimozione dall’incarico, dal
ruolo e dalle mansioni, per fini punitivi, per ritorsione e/o per “mobbing”
1.
La
Cassazione, con decisione n. 11520 del 19 novembre 1997, ha statuito il
seguente principio: “Quando –
La
sentenza, verso cui esprimiamo condivisibilità, si pone in un certo qual modo controcorrente in
quanto oppone uno stop all’esercizio dello ius variandi datoriale
in funzione disciplinare, funzione legittimata da quell’orientamento equivoco della stessa Suprema corte, tramite
cui è stata – con una progressione per gradi – legittimata l’infida fattispecie
del “trasferimento per incompatibilità ambientale”, cioè un esercizio dello ius
variandi datoriale determinato da causale soggettiva (il comportamento colpevole del lavoratore) implicante (o
suscettibile di implicare) anche
effetti perturbativi sull’organizzazione aziendale e sul regolare svolgimento
delle relazioni interpersonali tra capo e dipendente o tra i vari dipendenti
dell’azienda od unità produttiva.
Già a suo tempo
(nel 1986) un autore metteva in guardia sull’utilizzo di una modalità dello
ius variandi datoriale (nella specie il trasferimento per incompatibilità
ambientale) considerandolo “atto sottilmente discriminatorio, attraverso cui
l’imprenditore tende ad utilizzare i suoi poteri organizzativi, ed innanzi
tutto lo ius variandi, in funzione disciplinare”(2). E nello stesso periodo
– sempre a proposito di quella modalità dell’esercizio dello ius variandi,
costituita dal trasferimento topografico – un altro giuslavorista (3) censurava
la ricorrente tentazione del datore di lavoro, in caso di contrasti interpersonali fra dipendenti nell’unità
produttiva, “di avvalersi del potere di trasferimento per risolvere
drasticamente ogni problema di fronte alla difficoltà di perseguire
disciplinarmente comportamenti spesso non qualificabili come inadempimento”,
asserendo incisivamente “ma è proprio questa semplicistica soluzione ad
essere vietata dalla legge a garanzia dell’interesse del lavoratore a permanere
nell’unità produttiva in cui si trova”. Nonostante queste avvertenze, la
Cassazione giungerà a legittimare l’uso dello ius variandi, nella
modalità del trasferimento topografico, determinato causalmente da comportamenti
soggettivi dei lavoratori (e quindi suscettibili di implicare il ricorso allo
strumento disciplinare con le garanzie ex art. 7 L. n. 300/’70), qualificandolo
espressione dei poteri organizzativi dell’imprenditore e riconducendolo nel
loro alveo di discrezionalità operativa, in ragione degli effetti (reali o
presunti) di disorganizzazione aziendale conseguenti ai censurabili
comportamenti soggettivi.
Insomma la Cassazione, dopo aver
affermato in linea di principio che il trasferimento disciplinare è misura
vietata dallo Statuto dei lavoratori (precisamente dall’art. 7, 4° comma
che stabilisce che “non possono
essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del
rapporto di lavoro“), successivamente legittima il trasferimento afflittivo
discendente da comportamenti soggettivi in quanto rispondente all’esigenza
della salvaguardia della normalità organizzativo/produttiva e quindi
riconducibile alle “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
La legittimazione può essere
fatta risalire, in forma compiuta, a Cass., sez. un., n. 4747/1986, la quale
dopo aver premesso che “il trasferimento a titolo disciplinare è certamente
illegittimo (‘perché sanzione atipica rispetto ai provvedimenti in materia
disciplinare previsti dall’art. 7 st. lav.’)”, sancì che “tuttavia nel
caso in cui nel comportamento del dipendente possa essere configurabile al
tempo stesso un fatto rilevante sotto il profilo disciplinare ed una delle
ragioni tecniche, organizzative e produttive che consentono il trasferimento,
il datore di lavoro può scegliere se esercitare ‘in alternativa’ il potere
disciplinare (con i limiti di cui all’art. 7 st. lav.) o il potere
direttivo-organizzativo (con i limiti di cui all’art. 13 st. lav.), senza che
il giudice possa valutare la convenienza o l’alternativa opportunità tra le due
soluzioni ”. Ad essa si sono, poi, allineate le successive Cass. n.
11233/1990, Cass. 12088/1991 e Cass. 10333/1997.
2.
Tuttavia, il
trasferimento topografico per motivi
soggettivi (per c.d. “incompatibilità ambientale”, per indole dei lavoratori
ingenerante contrasti, ostruzionismi o semplice ostilità tra gli stessi o
tra di essi e i loro superiori
gerarchici) implicante un allontanamento dalla sede di lavoro, non è la sola
misura punitiva utilizzata con preferenza dal datore di lavoro – rispetto
all’attivazione della procedura disciplinare -
per l’evidente beneficio della
sottrazione alle garanzie predisposte dallo Statuto dei lavoratori a
favore dei dipendenti (contestazione degli addebiti, audizione a difesa,
eventualmente con l’assistenza sindacale, sospensione dell’eventuale sanzione
tramite ricorso al Collegio arbitrale, ecc.). Esiste ed è sovente azionata
dalle Direzioni aziendali anche la collegata modalità di esercizio dello ius
variandi, costituita dal mutamento delle mansioni, che prende corpo (nelle
realtà aziendali) nella forma della rimozione dall’incarico e dal ruolo
rivestito o dalla posizione di lavoro assegnata, con attribuzione di altre,
normalmente deteriori, mansioni, cioè a
dire sprovviste del carattere dell’equivalenza ex art. 2103 c.c. Si tratta, in entrambi i casi, di
misure intrinsecamente afflittive o ontologicamente punitive, tramite cui il
datore di lavoro maschera il rifiuto ad azionare la procedura disciplinare –
giustappunto per non sottostare all’osservanza delle precitate garanzie per il lavoratore, predisposte dall’art. 7
Statuto dei lavoratori – dietro il ricorso “discrezionale” agli strumenti del potere organizzativo
aziendale. La dottrina è unanime nel riconoscere, in tali casi, non consentito
il ricorso alle aggiranti, subdole, misure organizzative di esercizio dello ius
variandi e “nel riconoscere al datore di lavoro, in tali casi, la
possibilità di rimuovere la causa ostativa al regolare svolgimento
dell’attività lavorativa con il solo potere disciplinare “(4).
La sopracitata sentenza n. 11520/1997 si occupa
appunto della modalità – apparentemente meno traumatica – del mutamento delle
originarie mansioni, in funzione punitiva, con assegnazione ad altre meno
fiduciariamente connotate (e quindi non equivalenti in senso giuridico) in
luogo del trasferimento topografico al quale spesso si accompagna anche il
confinamento del dipendente in mansioni non corrispondenti (alla) o non
rispettose della professionalità acquisita.
Naturalmente il mutamento di
mansioni, sprovvisto del requisito dell’equivalenza richiesto dall’art. 2103
c.c. non necessariamente è indice di un carattere punitivo, in senso
disciplinare, del provvedimento di ius variandi. Può accadere che
esigenze aziendali (quali la maggiore idoneità o capacità di un altro
lavoratore con più esperienza o professionalità specifica) rendano necessario o
semplicemente più opportuno o più conveniente per l’azienda lo spostamento di
un lavoratore dalle originarie mansioni con subentro in esse del prescelto in
sua vece. E può accadere che, per ragioni di ignoranza o di imperizia dei
gestori aziendali, al dipendente soggetto al mutamento di mansioni ne siano assegnate altre non equivalenti, la
lato oggettivo e/o soggettivo, in relazione alla professionalità acquisita. La
lesione inferta al requisito dell’equivalenza – che legittima lo ius
variandi – non è in tal caso indizio o elemento rivelatore di un intento
disciplinare sotteso al mutamento. Con la conseguenza che non si può reclamare
per tale “rimozione di incarico” le
garanzie disposte dall’art. 7 per i provvedimenti disciplinari (anche atipici,
come nella specie). Si tratterà, nella fattispecie, di un mutamento con effetti
nulli, in quanto contrario alla norma imperativa postulante l’equivalenza, e
come tale – se impugnato giudizialmente – implicherà la dichiarazione di
nullità ed il ripristino della situazione quo ante, non già in
applicazione analogica della norma (speciale) dell’art. 18 Statuto dei
lavoratori, ma dei principi di “diritto comune” secondo cui “quod nullum
est, nullum effectum producit”, dovendosi dichiarare il provvedimento
aziendale “tanquam non esset” (5) e provvedere, poi o
contemporaneamente, a sanare il vizio attraverso una assegnazione di mansioni
caratterizzata dall’equivalenza, nel caso non si voglia mantenere il lavoratore
in quelle originarie, conseguenti al ripristino della situazione.
Quando invece il mutamento di mansioni sia imputabile (ed
al riguardo occorre un’indagine giudiziale accurata sull’uso o abuso dei poteri
privati datoriali) alla volontà aziendale di “scegliere una scorciatoia” – in
luogo della strada maestra segnata dal legislatore con l’art. 7 L. n. 300/’70 –
per punire il lavoratore di cui non si è soddisfatti o che, in quanto si
nutre epidermicamente in esso una
fiducia non piena (o non estesa fino alla di lui disponibilità a coprire
omertosamente comportamenti aziendali deviati o clientelari, quali possono
ricorrere nel settore gestionale - di norma interno alle Direzioni risorse umane
- delle assunzioni, affidamento di incarichi, promozioni, e
simili), e si intende allontanarlo da quella “delicata” funzione aziendale,
allora il provvedimento di “ius variandi” ha carattere punitivo o è
viziato da “causa illecita”. Ed in tal caso il giudice – svolta l’ardua
ricognizione, in assenza di una motivazione del cambiamento di mansioni non
dovuta al lavoratore per effetto della normativa statutaria, come per il
trasferimento – dichiarerà nullo il provvedimento aggirante le garanzie per il
lavoratore di cui all’ art. 7 stat. lav., o viziato ex art.1418 c.c. da “causa illecita”, in relazione
all’art. 1343 c.c.
3.
La decisione n. 11520 del 19 novembre 1997 – dalla quale
siamo partiti – attiene, come abbiamo
accennato al punto 1) – alla modalità di estrinsecazione dello ius
variandi costituente di regola un minus
rispetto allo sconvolgente trasferimento topografico, ma non per questo non
dotata di significativa e pregnante valenza afflittiva a livello personale ed
in ambito aziendale, quale la rimozione dall’incarico e dal ruolo rivestito o
comunque dalla posizione e dalle mansioni disimpegnate per l’affidamento di
altre nient’affatto rispondenti al criterio dell’equivalenza, giustappunto in
quanto si vuole infliggere “indirettamente” al lavoratore un esemplare
provvedimento punitivo ovvero lo si vuole
“incolpevolmente” sollevare da
un incarico o da una posizione di lavoro nella quale la gestione aziendale pone in essere provvedimenti discrezionali
sui quali si aspetta insindacabilità da
chicchessia e tanto più da un collaboratore talora (anche se raramente) poco
disponibile alla “complicità”, in
quanto orientato a privilegiare i valori della correttezza e dell’imparzialità.
Nella fattispecie esaminata dalla decisione in questione, un
dipendente era stato spostato subito dopo
una contestazione ed una
sanzione disciplinare (della sospensione per 3 giorni) da mansioni fiduciarie
di “addetto alla vigilanza” a quelle, valutate deteriori e non equivalenti dal
Tribunale, di addetto al magazzino, percepite dall’interessato e dall’ambiente
in cui operava come una innegabile “deminutio capitis”, per il venir
meno dell’elemento fiduciario che connotava intrinsecamente le precedenti.
Di fronte all’insistente richiamo analogico dell’azienda ai
precedenti in tema di “trasferimento per incompatibilità ambientale”- cioè ad
una legittimazione dell’esercizio dello ius variandi in contemporaneità
con una contestazione e sanzione disciplinare senza che si possa inferire (come
ha statuito Cass. n. 10333/1997) che il ricorso ai poteri direttivo/organizzativi
di mutamento del luogo di lavoro o delle mansioni costituisca, per tale collegamento cronologico, una sanzione
accessoria – l’attuale decisione della Cassazione obietta di non poter “aderire
a queste perentorie conclusioni”.
La Suprema corte asserisce che i precedenti in tema di
trasferimento per incompatibilità ambientale non sono – nonostante l’apparenza
– pertinenti con la fattispecie del mutamento di mansioni. Argomenta la Suprema
corte che mentre il trasferimento è caratterizzato – su richiesta – da
specifica motivazione sulle causali, sindacabili sia dal lavoratore sia
giudizialmente al fine di realizzare il riscontro della sussistenza di “comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive”, il mutamento di mansioni non
è assistito, per normativa statutaria, dall’obbligo di fornire (a richiesta) la
relativa motivazione, talché
tale modalità di esercizio dello ius variandi è ampiamente
discrezionale e solo vincolata dal requisito della “equivalenza” professionale.
Quando non sia realizzata tale
equivalenza o, peggio, quando la
conseguente “deminutio capitis” sia preceduta (da) e correlata ad una
contestazione o sanzione disciplinare il mutamento di mansioni o la rimozione
dall’incarico e dal ruolo necessità di
una più ampia e penetrante indagine giudiziale
rivolta a verificare la genuina rispondenza del provvedimento aziendale
a motivi organizzativo/produttivi ovvero, il che è lo stesso, l’assenza di motivi o intenti afflittivo/sanzionatori.
Nel caso di specie, in cui il mutamento di mansioni (con assegnazione ad altre
di minor pregio soggettivo ed oggettivo) è preceduto da una sanzione
disciplinare, appare corretta ed
incensurabile l’indagine giudiziale che ha indotto a ritenere che, non soltanto per la coincidenza cronologica ma anche per lo stretto nesso tra sanzione e
mutamento di mansioni, la sanzione
sia stata determinante (o comunque, prevalente) della
sottrazione di mansioni e pertanto, quest’ultima, attratta e considerata come
sanzione accessoria, per la cui inflizione andavano osservate le garanzie di
cui all’art. 7 stat. lav., in mancanza del cui integrale rispetto il mutamento
di mansioni è nullo (“tanquam non esset”).
Si tratta di una sentenza garantista nei confronti dei
lavoratori, volta a preservarli dal disinvolto uso aziendale dello ius
variandi in funzione e con intenti punitivi, onde aggirare le garanzie
statutarie o i principi generali di correttezza e buona fede, e realizzare –
senza intralci procedurali – ed attraverso “una scorciatoia” (indebita) gli
incoffessabili obiettivi della rimozione dal posto di lavoro.
Per passare dal teorico al pratico, possiamo riferire un
“caso concreto” verificatosi nel febbraio/marzo 1990 presso un primario
Istituto di credito. Un funzionario di quasi massimo grado della Direzione
centrale del personale, rivolse al neo Direttore generale – in concomitanza con
la determinazione aziendale di mortificare dei collaboratori cinquantenni in seno al Servizio del Personale con
l’assunzione dall’esterno di un
Responsabile del Personale (trentacinquenne, con nettamente inferiori
esperienze e professionalità, gratificato dall’offerta dell’Istituto di una
retribuzione superiore del 75% c.a. rispetto a quella del predetto funzionario)
- una proposta organizzativa tramite la
quale richiedeva di essere, per
salvaguardia della propria dignità, sottratto dal Servizio del Personale per
svolgere a staff del D.G.
medesimo mansioni di “assistentato per le politiche gestionali ed i problemi
del lavoro”. Nella stessa richiesta – in via strettamente riservata e con
garanzia di non pubblicizzazione, stanti i cordiali rapporti con il citato D.G. – il funzionario in questione avanzava, tra l’altro, anche talune
personali considerazioni, dal lato strettamente organizzativo/funzionale, sulla
“pletoricità” della struttura dell’Area del Personale, dipendente
statutariamente dal D.G. ma intermediata anche da altri due Direttori
centrali, in posizione gerarchica al disotto del Direttore Generale (ma
al di sopra del Responsabile del Servizio del Personale), gli stessi che erano congiuntamente i
proponenti della soluzione extraziendale mortificante il funzionario ed i suoi Colleghi interni tramite l’imposizione gerarchica di un
esterno (il terzo, con loro, a presidiare l’Area del Personale). Pletoricità di
livelli gerarchici giustificante, ad avviso del funzionario, la richiesta di
una sua sottrazione dall’assetto organizzativo dell’Area del Personale, come
all’epoca strutturata. Passarono 25
giorni ed il D.G., non accogliendo la proposta rivoltagli – in quanto
suppostamente posto in minoranza dai due Direttori centrali preposti all’Area
del personale (ostili al suddetto funzionario) che si erano premurati di
ottenere il sostegno del Presidente (secondo quanto poi riferitogli dal D.G.)
- emanò un ordine di servizio in cui
nominava l’esterno quale “Responsabile del personale” ma, compensativamente,
affidava al precitato funzionario la responsabilità del più importante settore
del Servizio del Personale: il “settore gestione risorse e relazioni sindacali”,
con compiti propositivi e di gestione dei sistemi di inquadramento del
personale, di loro incentivazione, di promozione, di carriera e cura degli
assetti retributivi e del contenzioso del lavoro nonché di conduzione dei
rapporti con le Rappresentanze sindacali interne ed esterne, settore composto
da 6 collaboratori dei quali avvalersi
e dei quali sovraintendere il lavoro. Era questo un segnale inequivoco, sebbene
parziale, dell’apprezzamento - da parte del pur ancor “debole” neo D.G. (in carica
da appena un anno o poco più) costretto a mediare con gli “interni” più “navigati”
- della competenza e professionalità
del predetto funzionario. Passarono ancora due mesi e mezzo e improvvisamente
il precitato funzionario venne convocato in una stanza alla presenza dei di lui
tre superiori gerarchici ai vari livelli. Dal direttore centrale del
Personale gli venne detto che a causa della “corrispondenza rivolta
direttamente al D.G., era venuta meno la fiducia nei suoi confronti e,
pertanto, il giorno successivo sarebbe stato emesso un nuovo ordine di servizio
tramite cui veniva rimosso dall’incarico”. Nient’altro. Il nuovo
Responsabile del Personale assunto dall’esterno, che lo accompagnò nella sua
stanza, visibilmente turbato per l’accaduto cui aveva assistito da mero spettatore
incredulo, a conclusione del riferito colloquio, gli disse che “i suoi due superiori gerarchici erano venuti
in possesso della lettera riservata indirizzata dal funzionario al D.G., ecc.”. Cos’era successo? La proposta riservata era, per così dire, “fuoriuscita”…alla
distanza – come confermarono al
funzionario in questione sia il D.G. sia le sue due Segretarie – dalla
Segreteria del D.G. ed era finita nelle mani dei due superiori di più elevato
livello dopo il D.G. (il Segretario Generale ed il Direttore Centrale del
Personale) che evidentemente ritennero la proposta come un
“atto di lesa maestà” e si rivolsero al Presidente dell’Istituto di credito
(come lo stesso D.G. ebbe a rivelargli) per chiedere (ed ottenere) la “testa”
del funzionario ossia la di lui rimozione dall’incarico da poco assegnatogli.
L’ordine di servizio emesso il giorno successivo alla sintetica e generica
contestazione, gli sottraeva la responsabilità funzionale del principale
settore del Servizio del Personale e a lui venne affidato, sfruttando la sua
propensione all’approfondimento giuridico, un incarico di studio “a termine”,
confezionato ad hoc, da svolgere
uti singulus sempre in
seno al Servizio del Personale in cui venne (da allora in poi inattivamente)
mantenuto, studio concernente il rinnovo del ccnl degli impiegati del credito e
l’implicazione sugli adempimenti del Servizio del personale da parte del
“decreto Amato” sulla privatizzazione degli enti pubblici, che venne , in
ragione della sua intrinseca
inconsistenza nonché strumentalità alla
rimozione dal ruolo in precedenza assegnatogli, concluso dal predetto
funzionario nel giro di non più di
quattro mesi lavorativi. Vivaci furono le di lui reazioni al falso
provvedimento organizzativo, mascherante una vera e propria sanzione
disciplinare (atipica) da insofferenza inveterata verso di lui da parte
del vecchio establishment aziendale,
legittimante l’avallo e lo spiegamento
diretto di pregresse e persistenti iniziative di mobbing tese a provocarne le
dimissioni (per intollerabilità ambientale), come vivaci furono le reazioni
sindacali che stigmatizzarono con propri comunicati (ripresi dalla stessa
stampa nazionale) questa “decapitazione”. La reazione sfociò inevitabilmente in
un ricorso al Pretore del lavoro, tuttora
pendente, in cui il funzionario
vessato sostenne la reale natura “afflittivo/sanzionatoria” del falso
provvedimento organizzativo e la sua insanabile nullità per violazione
dell’art. 7 stat. lav. e delle garanzie dallo stesso approntate, a tutela del
diritto di difesa.
Come si desume da questo
illuminante “caso concreto” prospettato all’attenzione dei lettori, non
resta che auspicare l’intensificarsi dell’orientamento affermato, ora ed
isolatamente allo stato, da Cass. n. 11520/1997, perché la concreta realtà
aziendale rigurgita di usi impropri del
potere di ius variandi in funzione disciplinare (atipica). In buona
sostanza alla rimozione dall’incarico e dalle mansioni (come al trasferimento)
il datore di lavoro sovente ricorre in luogo di azionare la procedura
disciplinare, per l’incertezza dei risultati, assicurati invece concretamente
ed insindacabilmente con lo spostamento a mansioni diverse. Corre tra questo modo di procedere e le
dimissioni estorte (7) al dipendente, ex art. 1438 c.c. – in luogo
dell’irrogazione di un provvedimento disciplinare espulsivo – una strettissima analogia, incentrata sulla causa o
motivo illecito, costituito dall’obbiettivo del conseguimento di “vantaggi
ingiusti”. Così come con la minaccia del licenziamento o del trasferimento (o
della denuncia penale) – che orienta il dipendente alla sottoscrizione delle
dimissioni – è stato riconosciuto, dottrinalmente e giurisprudenzialmente, che
si ottiene un risultato antigiuridico (con conseguente annullabilità delle
dimissioni estorte), consistente nell’ autoattribuzione per il datore di lavoro di un titolo di risoluzione del rapporto non ottenibile
mediante il mero esercizio della facoltà di recesso, sottratto a priori a tutti
i limiti formali e sostanziali da cui tale facoltà è vincolata dallo Statuto
dei lavoratori, così con
l’attivazione impropria, a fini
punitivi, dello ius variandi il datore di lavoro consegue un
analogo risultato antigiuridico: quello dell’allontanamento del dipendente da
quel determinato incarico o la sottrazione delle di lui mansioni per altre non equivalenti, quando
in realtà lo scopo punitivo può solo
essere perseguito legittimamente assoggettandosi alle procedure garantiste di
legge per il prestatore di lavoro (ed in questo, analogamente, risiede
l’ingiusto vantaggio datoriale che merita la sanzione di nullità).
Va altresì detto, in relazione alla specifica fattispecie
esaminata da Cass. n. 11520/’97 che, tenuto conto del divieto contenuto
nell’art. 7, 4° co., st. lav. di disporre
“sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del
rapporto di lavoro” – tradotto da Cass. n. 3811/’90 nella preclusione ad
istituzionalizzare la “dequalificazione professionale per fini punitivi”
– la Cassazione, una volta accertata la finalità sanzionatoria del mutamento di
mansioni o della rimozione dall’incarico, avrebbe potuto (rectius,
dovuto) più linearmente statuire la nullità in radice del provvedimento
dequalificante per contrarietà all’art. 7, 4° co., st.lav., in quanto
configurante sanzione atipica non legislativamente consentita, in luogo di
seguire la strada di estendergli le garanzie procedimentali dell’art. 7
medesimo (la cui carenza comporta comunque l’eguale risultato della nullità del
provvedimento).
(pubblicato
su “Incontri”, bimestrale del Sindirigenticredito, n.5/agosto-ottobre
1998, e in “Lav. prev. Oggi”, 1998, 1462)
NOTE
(1) Riportata integralmente in Lav. prev. Oggi, maggio
1998, p. 1008.
(2) Così Vardaro, Il potere disciplinare
giuridificato, in Dir. lav. rel. ind. 1986, 27.
(3) Vallebona, Il trasferimento del
lavoratore, in Riv. it. dir. lav. 1987, I, 79.
(4)
Così Brollo, La mobilità interna del lavoratore,
Milano 1997, 560 – 561. Conf. Angiello, Il trasferimento dei lavoratori,
Padova 1986, 92; Vallebona, Il trasferimento del lavoratore, cit. 79.
(5) Alle stesse conclusioni perviene, Brollo, La
mobilità interna del lavoratore,
cit., 249, secondo la quale “la disciplina legale delle mansioni ha carattere
imperativo, per cui il provvedimento contrario è nullo. Ne consegue, secondo le
regole generali, che la determinazione aziendale nulla deve considerarsi tanquam
non esset. Se così è…, va ripristinato, quale effetto naturale della
violazione lo status quo ante, cioè la situazione di fatto e di diritto
precedente”(seppure con una certa elasticità evidenziata infra)”.
(6) Per l’esame della problematica si rinvia a
Meucci, L’annullabilità delle dimissioni estorte, in Lav.prev.Oggi,
1996, 2081 nonché Id:, Dimissioni ottenute
sotto minaccia di licenziamento e di denuncia penale: reato di
estorsione o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni?, ibidem
1997, 1263 (nota di commento a Cass. 15 ottobre 1996, n. 9121).
(7) Per l’esame della problematica si rinvia a
Meucci, L’annullabilità delle dimissioni estorte, in Lav.prev.Oggi,
1996, 2081 nonché Id:, Dimissioni ottenute
sotto minaccia di licenziamento e di denuncia penale: reato di
estorsione o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni?, ibidem
1997, 1263 (nota di commento a Cass. 15 ottobre 1996, n. 9121).
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