Le rinunce ex art. 2113 c.c. possono avere ad oggetto la contribuzione previdenziale?

(nota a sentenza 567/2004 del Tribunale di Cassino)

 

La sentenza è già stata incidentalmente commentata nell’ambito di uno studio più ampio dedicato alla tutela della posizione contributiva [1].

Tuttavia, al di là delle considerazioni in merito alla rinunciabilità delle posizioni contributive, presenta dei tratti di interesse che meritano una separata trattazione.

La sentenza, infatti, si compone di due proposizioni:

1-) il principio di automaticità delle prestazioni trova applicazione purché ricorrano due condizioni:

- sia configurabile in capo al datore di lavoro un obbligo contributivo;

- il lavoratore non abbia rinunciato ex art. 2113 c.c. al versamento dei contributi.

2-) il diritto al versamento dei contributi non è irrinunciabile in maniera assoluta in quanto la previsione stessa di un termine di prescrizione è incompatibile con la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto diritto.

Per quanto riguarda la prima delle proposizioni, nel rinviare al precedente commento, è sufficiente evidenziare che qualora il lavoratore rinunci al versamento dei contributi si può delineare una duplice ed alternativa situazione:

- se la rinuncia ha ad oggetto i contributi, ebbene, il lavoratore non può disporne in quanto titolare della posizione attiva creditoria è l’istituto assicuratore ed il relativo atto abdicativo non produce effetto;

- se il lavoratore, invece, dispone della sua posizione previdenziale, non essendosi ancora verificati i presupposti per l’acquisizione della prestazione, nondimeno la rinuncia non produce effetti in quanto avente ad oggetto un diritto futuro.

Il diritto attuale, di cui astrattamente si potrebbe disporre, infatti, è quello al versamento dei contributi, diritto la cui titolarità però è dell’istituto assicuratore; il lavoratore, invece, è titolare del diritto alla acquisizione della prestazione previdenziale, di cui, pur avendone la titolarità, non può disporre perché, essendo un diritto non ancora esistente, la rinuncia avrebbe ad oggetto un diritto futuro.

Invero, in sede transattiva il lavoratore può disporre del diritto al risarcimento del danno ex art. 2116, secondo comma, quando non sia più possibile il versamento dei contributi (ad es., perché prescritti) e subisca nocumento dalla omissione contributiva.

Però ciò non significa che lo stesso possa disporre della obbligazione contributiva gravante sul datore di lavoro, perché soggetto attivo del relativo rapporto è l’Istituto assicuratore e perché una tale posizione è espressamente dichiarata indisponibile dalla legge [2].

Uscendo dalla specificità dell’art. 2116, secondo comma, c.c. e riguardando il problema dall’angolo di una visuale più ampia, quella dell’art. 2113 c.c., pur nella integrazione delle due disposizioni, è stato sostenuto che sono sottratte dal regime dell’impugnabilità di cui alla norma da ultimo citata e possono essere considerate affette da nullità assoluta quelle rinunce connotate essenzialmente dalla mancanza originaria della causa, in quanto aventi ad oggetto diritti che, non ancora entrati nel patrimonio dei disponenti, sono connotati da una essenziale incertezza in quanto all’ “an” perché diritti di potenziale e futura acquisizione [3].

In sostanza, applicando detto principio, l’art. 2113 c.c. dovrebbe disciplinare il fenomeno della rinuncia ai diritti già maturati e non quello della rinuncia preventiva ad un diritto futuro, benché sorretto da aspettative legate al meccanismo della formazione progressiva, dovendosi ritenere in tal caso la clausola del contratto individuale affetta da nullità assoluta ex art. 1419, secondo comma, c.c. per difetto genetico di uno dei suoi requisiti essenziali [4].

Più in particolare, la giurisprudenza ha sostenuto che “La rinuncia del lavoratore subordinato a diritti futuri ed eventuali [id est il risarcimento del danno da omissione contributiva] è radicalmente nulla ai sensi dell'art. 1418 c.c. e non annullabile previa impugnazione da proporsi nel termine di cui all'art. 2113 c.c., riferendosi tale ultima norma ad atti dispositivi di diritti già acquisiti e non ad una rinuncia preventiva, come tale incidente sul momento genetico dei suddetti diritti” [5].

La questione è stata recentemente riproposta, con sicuri elementi di originalità, proprio dalla sentenza del Tribunale di Cassino, per la quale “Il principio di automaticità delle prestazioni trova applicazione a condizione che esista in capo al datore di lavoro un obbligo contributivo ed in quanto il lavoratore non abbia rinunciato ex art. 2113 c.c. al versamento dei contributi. Non può configurarsi un’ipotesi di irrinunciabilità assoluta del diritto al versamento dei contributi in ragione della natura pubblicistica del rapporto contributivo tra il datore di lavoro e l’istituto previdenziale, in quanto la previsione stessa di un termine di prescrizione del diritto a richiedere il versamento dei contributi appare assolutamente incompatibile con la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto diritto” [6].

La sentenza in commento si inserisce nell’ambito di quell’indirizzo giurisprudenziale che, anche se recentemente riproposto dalla Corte di Cassazione, può ormai considerarsi recessivo.

Il principio ordinatore della pronuncia in esame è dato dalla presupposta “rinunciabilità” da parte del lavoratore delle posizioni contributive allorquando detta rinuncia trova collocazione nell’ambito di un accordo transattivo concluso dal lavoratore con il consenso assistito.

Fin qui nulla di nuovo; ma l’argomentazione del giudicante a fondamento della decisione costituisce una sicura novità nella recensione dei motivi per i quali finora si è ritenuto possibile rinunciare alla posizione contributiva.

Infatti, a considerare gli aspetti consueti dell’orientamento cui aderisce, la sentenza non sarebbe meritevole di segnalazione, in quanto nulla aggiunge e nulla toglie alle acquisizioni del patrimonio giurisprudenziale in materia, se non fosse per un inedito accostamento di concetti che, pur coerentemente motivato, non sembra del tutto condivisibile.

Il riferimento è alla parte della sentenza nella quale si legge che “… nemmeno può configurarsi un’ipotesi di irrinunciabilità assoluta del diritto al versamento dei contributi in ragione della natura pubblicistica del rapporto contributivo tra il datore di lavoro e l’istituto previdenziale, in quanto la previsione stessa di un termine di prescrizione del diritto a richiedere il versamento dei contributi appare assolutamente incompatibile con la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto diritto”.

La tesi è alquanto interessante ed avrebbe meritato un maggiore approfondimento, anche perché sull’assunto non costano precedenti giurisprudenziali e sarebbe stato interessante comprendere il meccanismo logico-giuridico di un simile accostamento.

Si diceva che la tesi, però, per quanto interessante, suscita più perplessità che condivisione, non per altro perché si dubita sull’assunto per il quale il lavoratore sia titolare di un diritto alla pretesa del versamento dei contributi previdenziali in quanto parte nel relativo rapporto, ovvero titolare della posizione soggettiva nell’ambito del rapporto.

Tale accordo transattivo, benché perfezionatosi in sede di conciliazione giudiziale, siccome concerne “diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge”, è, per ciò solo, sottratto alla previsione di validità/invalidità di cui all’art. 2113 c.c..

Pertanto, non è condivisibile l’assunto per il quale “A ciò aggiungasi che neppure può configurarsi un’ipotesi di irrinunciabilità assoluta al diritto al versamento dei contributi in ragione della natura pubblicistica del rapporto contributivo tra il datore di lavoro e l’istituto di previdenza; e ciò perché la previsione stessa di un termine di prescrizione del diritto a richiedere il versamento dei contributi appare assolutamente incompatibile con la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto diritto”.

Ora, una tale operazione, se intesa come rinunciabilità dell’istituto assicuratore alla contribuzione, non si vede quale ne possa essere il fondamento, atteso che il detto istituto non può assolutamente rinunciare al versamento dei contributi.

Al contrario, se il giudice avesse voluto intendere una presupposta rinunciabilità dei contributi, ammesso che ciò fosse denegatamene possibile, saremmo comunque fuori dal caso di specie, perché la rinuncia accederebbe ad un atto dispositivo del lavoratore e non del legittimo titolare della prestazione (ossia l’istituto assicuratore).

Infatti in quest’ultima ipotesi la rinuncia sarebbe riferibile ad un atto dispositivo del lavoratore e, in quanto tale, comporterebbe una dissociazione tra soggetto titolare del diritto e soggetto disponente: sotto il profilo civilistico nulla quaestio circa l’infondatezza di una tale pretesa per la invalidità e/o inefficacia della rinuncia.

Sotto il profilo previdenziale, la soluzione sarebbe ancora più radicale per la evidente autonomia tra il rapporto di lavoro ed il rapporto giuridico previdenziale: “Il negozio transattivo tra datore e lavoratore … non pregiudica il credito contributivo dell’INPS… per l’autonomia del rapporto previdenziale, sul quale quella transazione … non assume alcuna influenza” [7].

Ora, è vero che l’obbligo contributivo si estingue anche per prescrizione, ma, a ben guardare, il lavoratore non è titolare del diritto di “credito” al versamento dei contributi nei confronti del datore di lavoro, bensì è creditore della prestazione previdenziale nei confronti dell’istituto assicuratore: “Secondo la dottrina tradizionale … il rapporto giuridico previdenziale … [ha] struttura analoga a quella derivante dal contratto di assicurazione privata. Esso, cioè, … [è] formato dal rapporto intercorrente tra i lavoratori e l’istituto assicuratore e da quello intercorrente tra quest’ultimo e i datori di lavoro: rapporto aventi ad oggetto rispettivamente le prestazioni ed i contributi previdenziali” [8].

Altrimenti non si spiegherebbe il principio, unanimemente acclarato dalla giurisprudenza, per il quale unico soggetto attivo del rapporto contributivo è l’istituto assicuratore [9] e per il quale “… la interruzione della prescrizione dei contributi di assicurazione obbligatoria (il cui decorso preclude la possibilità di effettuare versamenti a regolarizzazione dei contributi arretrati) si verifica solo per effetto degli atti, indicati dall'art. 2943 c.c., posti in essere dall'INPS (titolare del relativo diritto di credito), e non quando anche uno di tali atti sia posto in essere dal lavoratore, come nell’ipotesi di azione giudiziaria da questi proposta nei confronti del datore di lavoro” [10].

Ciò significa che titolare del diritto di credito costituto dal diritto al versamento dei contributi è l’istituto assicuratore, il quale non può essere pregiudicato da atti dispositivi di terzi, che della relativa posizione non hanno potere di disposizione, mentre il lavoratore è solo destinatario di una posizione attiva indiretta, specularmente alla quale assume una posizione di cooperazione: quella di denunciare, ove ne abbia notizia, l’omissione contributiva.

L’inadempimento in ordine a tale onere, ove consenta la maturazione del termine prescrizionale, comunque non comporta la assoluta perdita della tutela, ma solo la trasformazione del mezzo attraverso il quale la tutela trova attuazione; il lavoratore, infatti, una volta che si sia verificata la prescrizione del debito contributivo, perde la posizione e/o prestazione previdenziale ed acquista, questa volta a carico del datore di lavoro e non dell’istituto assicuratore, il diritto ad una prestazione risarcitoria ex art. 2116, comma 2, c.c..

Dunque, nella fattispecie alla prescrizione della obbligazione contributiva non corrisponde la assoluta inesigibilità della prestazione previdenziale, ma soltanto la sua commutazione in altra specie, ossia non più il diritto alla prestazione previdenziale, in ossequio alla deroga al principio della automaticità della prestazione, bensì il risarcimento del danno nella forma per equivalente ex art. 2116 c.c. o in forma specifica mediante costituzione della rendita ex lege n. 1338 del 1962 [11].

Questo consente di affermare, con la dovuta solennità, che l’ordinamento, pur prevedendo la prescrittibilità dei contributi, nondimeno suppone l’indisponibilità della prestazione previdenziale in forma diretta o in forma surrogata, perché ciò che l’ordinamento tutela non è il rapporto previdenziale in sé e, con esso, l’adempimento dell’obbligazione contributiva, bensì la situazione soggettiva sottostante di cui detto rapporto è ausiliario e servente, ossia il diritto, costituzionalmente protetto, alla posizione contributiva, cui corrispondono forme diverse di tutela a seconda che il versamento dei contributi vi sia stato o meno, ovvero sia possibile o non sia più possibile.

Questo concetto è ancora più chiaro se si esamina il sistema della contribuzione nella assicurazione infortuni e malattie professionali, nell’ambito del quale vige il principio della automaticità delle prestazioni nella integrale portata stabilita dall’art. 2116 c.c.: in tale contesto la prescrizione dei contributi è un fatto che riguarda esclusivamente il datore di lavoro (soggetto debitore) e l’Inail (soggetto creditore), mentre a tale rapporto resta del tutto indifferente il lavoratore, il quale avrà diritto alla prestazione anche nel caso in cui il datore di lavoro non abbia versato il premio assicurativo ed esso sia prescritto.

Per cui si può ritenere che alla prescrizione dell’obbligazione contributiva, se da una parte consegue la perdita del diritto dell’Ente previdenziale di esigerne il versamento, dall’altra non produce alcun effetto sulla posizione del lavoratore laddove detta posizione risulti presidiata dalla regola dell’automatismo, mentre produce solo effetti novativi nei confronti delle prestazioni per le quali vige il regime derogatorio, in modo che la originaria prestazione previdenziale perduta si trasforma in una prestazione risracitoria per equivalente e/o in forma specifica.

Ma, in nessun caso il lavoratore perde la sua tutela, perché la prescrizione non si verifica nei suoi confronti, ossia non si verifica contro il diritto alla prestazione previdenziale, ma può solo riverberarsi in danno di esso e rendere azionabili gli ulteriori meccanismi di tutela posti dal legislatore a presidio della posizione contributiva laddove il principio della automaticità delle prestazioni sia escluso.

Ancora una volta, insomma, è data prova che l’art. 2116 c.c. pone espressamente il principio dell’automaticità della prestazione, ma, letto nel contesto dell’ordinamento costituzionale, coniugandosi con l’art. 38 Cost., in effetti sancisce il fondamentale e superiore principio della c.d. effettività della tutela.

Peraltro, l’accostamento del concetto di “prescrizione” così come delineato nell’ordinamento civilistico a quello contenuto nell’ordinamento previdenzialistico non trova alcuna possibilità di assimilazione, solo a fornire attenzione al fatto che dei contributi prescritti non è più possibile il versamento.

Nella materia previdenziale, infatti, il regime della prescrizione già maturata è sottratto alla disponibilità delle parti [12].

Questa regola è in pieno contrasto con quella di diritto comune, per la quale, invece, del diritto prescritto il debitore può sempre validamente eseguire la prestazione, che resta valida ed efficace ad ogni effetto; tanto è vero che l’eccezione di prescrizione tecnicamente è eccezione in senso stretto e non può essere sollevata dal giudice d’ufficio, mentre nel caso di contributi prescritti, trattandosi di nullità prevista da una norma imperativa di legge, la relativa azione sfugge alla regola processuale del c.d. principio dispositivo e sconta il regime della ufficialità, derivante dal fatto che della prescrizione l’Istituto assicuratore non può disporre.

Questo sistema ha una evidente connotazione eccezionale rispetto all’ordinario regime della “prescrizione”, perché “… è espressione della volontà del legislatore di connotare l’eccezione di prescrizione dei caratteri della irrinunciabilità e della rilevabilità d’ufficio” [13].

La medesima giurisprudenza ritiene che “… Del resto, il principio della irrinunciabilità della prescrizione … “, essendo “… consono ad un sistema previdenziale avente uno spiccato carattere pubblicistico”, risponde ad una esigenza di “… certezza dei rapporti tra l’ente gestore e i cittadini, che… non sia lasciata alla discrezione dell’interessato la possibilità di far valere o meno l’avvenuta prescrizione” [14].

Infatti, mentre in comune con la disciplina generale della prescrizione la disciplina de qua fonda la ratio della prescrizione su ragioni di ordine pubblico per l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, la disciplina specifica risponde, oltre che ad un principio generale di certezza dei rapporti giuridici, alla previsione di una tutela che, sebbene alternativa, consente la effettività dell’esercizio del diritto mediante la possibilità di costituzione della rendita sostitutiva: “Il divieto stabilito per ragioni di ordine pubblico dall’art. 55, comma 1, r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 di effettuare versamenti a regolarizzazione di contributi assicurativi, dopo che rispetto agli stessi sia intervenuta la prescrizione, opera indipendentemente dalla eccezione di prescrizione da parte dell’ente previdenziale e del debitore dei contributi; ed è manifestamente infondata la questione di costituzionalità della norma citata e dell’art. 41 l. 30 aprile 1969, n. 153, nella parte in cui prevedono la prescrittibilità del diritto dell’Inps al pagamento dei contributi, per violazione dell’art. 38 Cost., sia perché tale disciplina risponde ad un principio generale di certezza dei rapporti giuridici, sia perché, a fronte della prescrizione e del conseguente divieto di pagamento dei contributi, è prevista la possibilità di costituzione della rendita [15].

Ma vi è di più: l’art. 2115, comma 3, c.c. dispone la nullità dei patti diretti ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o all’assistenza.

La regola che tale norma sottende è quella della non negoziabilità dei diritti previdenziali, neanche di quelli prescritti; semmai oggetto di disposizione convenzionale può essere il diritto al risarcimento del danno ex art. 2116, comma 2, c.c. per omesso o irregolare versamento dei contributi, ma non l’obbligo di corrispondere all’istituto assicuratore i contributi previdenziali: “Il disposto del 3° co. dell’art. 2115 non è applicabile qualora le parti abbiano inteso transigere non già su eventuali obblighi del datore di lavoro di corrispondere all’Inps i contributi assicurativi, bensì sul danno subito dal lavoratore per l’irregolare versamento dei contributi stessi” [16].

Qui si ritorna al ragionamento iniziale: il principio fondamentale è sempre quello della autonomia del rapporto previdenziale dal rapporto di lavoro, in modo che l’obbligo contributivo del datore di lavoro sussiste indipendentemente dalla volontà del lavoratore.

Tanto è vero che il minimale contributivo si determina sul “dovuto” e non su quanto di “di fatto erogato”, in modo che per gli effetti di cui all’art. 12 della legge n. 153 del 1969 e all’art. 6 del D.Lgs. n, 314 del 1997, non spiega “efficacia riduttiva della base imponibile l’eventuale corresponsione di fatto di somme minori di quelle effettivamente dovute, anche in presenza di accettazione o rinuncia del lavoratore” [17].

Ciò sposta di nuovo l’attenzione sul problema della incidenza della transazione del lavoratore sul rapporto previdenziale.

Le considerazioni innanzi svolte consentono di reinquadrare la fattispecie nel suo contesto naturale e di fornire prova della assoluta impermeabilità del rapporto previdenziale rispetto agli atti dispositivi del lavoratore.

La giurisprudenza si è più volte interessata della fattispecie proprio in relazione al caso specifico affrontato dal giudice nella sentenza in commento: la transazione sul risarcimento del danno ex art. 18 Statuto dei lavoratori a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento e reintegrazione del lavoratore.

In proposito l’orientamento assolutamente prevalente emerso nella giurisprudenza di legittimità è quello secondo il quale “In caso di soluzione transattiva stragiudiziale o di conciliazione giudiziale nel corso del giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado che abbia ordinato la reintegrazione del lavoratore licenziato, il licenziamento dichiarato illegittimo con la sentenza impugnata non interrompe il rapporto di lavoro né quello assicurativo previdenziale ad esso collegato con la correlativa equiparazione all’effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente della loro mera utilizzabilità, sicché permane l’obbligo contributivo del datore di lavoro per il periodo intercorrente dalla data d licenziamento a quella sopravvenuta della conciliazione” [18].

E’ proprio la motivazione della sentenza da ultimo citata che pone il principio fondamentale in materia: “[…] se i lavoratori sono certamente liberi di rinunciare … in tutto o in parte, alle proprie pretese economiche maturate dal licenziamento alla conciliazione, una siffatta transazione non può però essere opposta all’INPS, né fa venir meno l’obbligazione contributiva sulle retribuzioni spettanti ai lavoratori medesimi nel periodo predetto, attesa anche la natura indisponibile dei diritti in materia di contribuzione legale obbligatoria” [19].

Nemmeno la natura novativa della transazione potrebbe escludere l’obbligo del lavoratore di corrispondere i contributi previdenziali, e ciò non solo perché tale effetto suppone che il negozio transattivo abbia estinto il rapporto di lavoro e lo abbia sostituito con una obbligazione di altro genere [20], in modo che la transazione sia, in quanto negozio principale di secondo grado, l’unica fonte dei diritti e degli obblighi delle parti.

Infatti, più radicalmente, sul punto la giurisprudenza si è spinta oltre ed ha ritenuto che “Escluso che la legge consideri finito il rapporto dopo l’intimazione del licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice, deve escludersi altresì che l’efficacia risolutiva conseguente al contratto di transazione possa retroagire per mera volontà delle parti ed ai fini della contribuzione previdenziale, stante l’indisponibilità del rapporto contributivo e la conseguente assenza del potere dei provati di sottrarsi ai relativi obblighi semplicemente attraverso il mutamento del nome iuris” [21].

In conclusione, si può ritenere senz’altro corretta la tesi di chi ritiene che “La transazione intervenuta tra lavoratore e datore di lavoro è estranea al rapporto tra quest’ultimo e l’I.N.P.S., avente ad oggetto il credito contributivo derivante dalla legge in relazione all’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, giacché alla base del credito dell’ente previdenziale deve essere posta la retribuzione dovuta e non quella corrisposta, in quanto l’obbligo contributivo del datore di lavoro sussiste indipendentemente dal fatto che siano stati in tutto o in parte soddisfatti gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera, ovvero che questi abbia rinunziato ai suoi diritti” [22], perché ciò che la Costituzione tutela con l’art. 38 è la effettività della posizione previdenziale, di modo che la normativa che ne consegue assume carattere inderogabile.

Avv. Antonio Federici

 

NOTE

[1] A. FEDERICI, Tutela della posizione contributiva. Rinuncia ai diritti futuri ed emersione dal sommerso: una analisi comparativa, in www.diritto.it/articoli/previdenza/federici.html.

[2] Per tutte cfr. Cass. n. 163 del 1985 “L'indisponibilità dei diritti derivanti dalle norme imperative in materia di assicurazioni obbligatorie non comporta l'indisponibilità del diritto al risarcimento dei danni conseguenti alla prescrizione dei contributi dei quali è stato omesso il versamento e, conseguentemente, non esclude che quest'ultimo diritto - anche se derivante, in via mediata e indiretta, da norma inderogabile di legge - possa formare oggetto di transazione” Sez. Lav., sent. n. 163 del 19-01-1985, Palanca c. I.N.P.D.A.I; non constano precedenti contrari”.

[3] Ved. Cass. 08.08.1987, n. 6823; Cass. 04.04.1987, n. 3297; Cass. 11.03.1983, n. 1846.

[4] Ved. Cass. 08.08.1987, n. 6823; Cass. 04.04.1987, n. 3297; Cass. 11.03.1983, n. 1846.

[5] Cass. 14.12.1998, n. 12548.

[6] Trib. Cassino, 22 settembre 2003, n. 567, supra.

[7] CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Torino, 1996, 103; conf. Cass. n. 6111 del 1985.

[8] PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2000, 51.

[9] Per tutte. Cfr. Cass., sez. un., n. 1250 del 1968

[10] Cass., 10 giugno 1992, n. 7104, in Giust. Civ. Mass., 1992, fasc. 6, informazione previd., 1992, 1304.

[11] Il lavoratore non rimane mai sfornito di tutela, perché, se il datore di lavoro versa la contribuzione, anche a sanatoria della omissione e/o irregolare contribuzione, accede, ove ne ricorrano i presupposti, alla prestazione previdenziale; ove, invece, sia accertata una omissione contributiva non più sanabile per sopravvenuta prescrizione, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno o alla costituzione della rendita vitalizia mediante versamento della riserva matematica; infine, qualora sia prescritto anche tale ultimo diritto, “Ove il lavoratore abbia dato comunicazione dell'omissione contributiva del datore di lavoro al competente ente previdenziale e quest'ultimo non abbia provveduto a conseguire i contributi omessi, lo stesso ente, in quanto obbligato, nell'ambito del rapporto giuridico con l'interessato (anche ex art. 1175 e 1176 c.c.), alla diligente riscossione di un credito che, ancorché proprio, vale a soddisfare il diritto costituzionalmente protetto del lavoratore, è tenuto a provvedere alla regolarizzazione della posizione assicurativa del lavoratore medesimo, ove a quest'ultimo sia precluso di ricorrere alla costituzione della rendita ex art. 13 legge n. 1338 del 1962 o all'azione di risarcimento danni ex art. 2116 c.c.” (Cass. 21 maggio 2002, n. 7459, in D&G e Giust., 2002, 34).

[12] “Si deve escludere, in linea generale, un diritto soggettivo dell'assicurato a versare contributi previdenziali prescritti, poiché, nella materia previdenziale, a differenza che in quella civile, il regime della prescrizione già maturata è sottratto alla disponibilità delle parti” (Cass., 12 gennaio 2002, n. 330, in Foro it., I, 1023, previdenza ed assistenza, assicurazioni sociali).

[13] Cass., 6 dicembre 1995, n. 12538, in Giust. Civ. Mass., 1995, fasc. 12.

[14] Ibidem.

[15] Cass. 5 ottobre 1998, n. 9865, in Giust. Civ. Mass., 1998, 2014.

[16] Così si è espressa la giurisprudenza di legittimità Cass., 21 novembre 1984, n. 5977.

[17] Cass., sez. lav., 22 maggio 1999, n. 5002 e Cass., sez. lav., 28 ottobre 1999, n. 12122.

[18] Cass., sez. lav., 27 ottobre 1997, n. 10573 ; conf. Cass., sez. Lav., 17 aprile 2001, n. 5639 e Cass., sez. lav., 7 marzo 2003, n. 3487.

[19] Cass. n. 10573/1997, ult. cit.; conf., da ult., Cass., sez. lav., 3 marzo 2003, n. 3122, per la quale l’obbligo contributivo del datore di lavoro verso l’istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera siano stati in tutto o in parte soddisfatti, ovvero che il lavoratore abbia rinunciato ai suoi diritti.

[20] Cass., sez. lav., 17 aprile 2001, n. 5639.

[21] Cass. ult. cit.: “”[…] la soluzione transattiva stragiudiziale oppure la conciliazione giudiziale raggiunta dopo l’ordine di reintegrazione non incidono sull’obbligo contributivo per il periodo compreso fra la data del licenziamento e la conciliazione, con la quale i rapporti, di lavoro e previdenziale, effettivamente finiscono […] In caso di licenziamento dichiarato dal giudice illegittimo ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, il rapporto di lavoro prosegue, anche in assenza di effettive prestazioni lavorative, fino al momento della reintegra del lavoratore oppure della transazione che pone termine al rapporto. Di conseguenza il datore di lavoro deve pagare i contributi previdenziali sulla somma corrisposta al lavoratore, comunque qualificata nella sede transattiva e fino ad ammontare corrispondente alla misura della retribuzione dovuta in base al contratto di lavoro”.

  [22] Cass. n. 3122/2003, cit.

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