Le rinunce ex art. 2113 c.c. possono avere ad oggetto la
contribuzione previdenziale?
(nota a sentenza 567/2004 del Tribunale di
Cassino)
La sentenza è già stata incidentalmente commentata nell’ambito
di uno studio più ampio dedicato alla tutela della posizione contributiva [1].
Tuttavia, al di là delle considerazioni in merito alla
rinunciabilità delle posizioni contributive, presenta dei tratti di interesse
che meritano una separata trattazione.
La sentenza, infatti, si compone di due proposizioni:
1-) il principio di automaticità delle prestazioni trova
applicazione purché ricorrano due condizioni:
- sia configurabile in capo al datore di lavoro un obbligo
contributivo;
- il lavoratore non abbia rinunciato ex art. 2113 c.c. al versamento
dei contributi.
2-) il diritto al versamento dei contributi non è irrinunciabile in
maniera assoluta in quanto la previsione stessa di un termine di prescrizione è
incompatibile con la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto
diritto.
Per quanto riguarda la prima delle proposizioni, nel rinviare al
precedente commento, è sufficiente evidenziare che qualora il lavoratore
rinunci al versamento dei contributi si può delineare una duplice ed
alternativa situazione:
- se la rinuncia ha ad oggetto i contributi, ebbene, il lavoratore
non può disporne in quanto titolare della posizione attiva creditoria è
l’istituto assicuratore ed il relativo atto abdicativo non produce effetto;
- se il lavoratore, invece, dispone della sua posizione
previdenziale, non essendosi ancora verificati i presupposti per
l’acquisizione della prestazione, nondimeno la rinuncia non produce effetti in
quanto avente ad oggetto un diritto futuro.
Il diritto attuale, di cui astrattamente si potrebbe disporre,
infatti, è quello al versamento dei contributi, diritto la cui titolarità però
è dell’istituto assicuratore; il lavoratore, invece, è titolare del diritto
alla acquisizione della prestazione previdenziale, di cui, pur avendone la
titolarità, non può disporre perché, essendo un diritto non ancora esistente,
la rinuncia avrebbe ad oggetto un diritto futuro.
Invero, in sede transattiva il lavoratore può disporre del diritto
al risarcimento del danno ex art. 2116, secondo comma, quando non sia più
possibile il versamento dei contributi (ad es., perché prescritti) e subisca
nocumento dalla omissione contributiva.
Però ciò non significa che lo stesso possa disporre della
obbligazione contributiva gravante sul datore di lavoro, perché soggetto attivo
del relativo rapporto è l’Istituto assicuratore e perché una tale posizione
è espressamente dichiarata indisponibile dalla legge [2].
Uscendo dalla specificità dell’art. 2116, secondo comma, c.c. e
riguardando il problema dall’angolo di una visuale più ampia, quella
dell’art. 2113 c.c., pur nella integrazione delle due disposizioni, è stato
sostenuto che sono sottratte dal regime dell’impugnabilità di cui alla norma
da ultimo citata e possono essere considerate affette da nullità assoluta
quelle rinunce connotate essenzialmente dalla mancanza originaria della causa,
in quanto aventi ad oggetto diritti che, non ancora entrati nel patrimonio dei
disponenti, sono connotati da una essenziale incertezza in quanto all’
“an” perché diritti di potenziale e futura acquisizione [3].
In sostanza, applicando detto principio, l’art. 2113 c.c. dovrebbe
disciplinare il fenomeno della rinuncia ai diritti già maturati e non quello
della rinuncia preventiva ad un diritto futuro, benché sorretto da aspettative
legate al meccanismo della formazione progressiva, dovendosi ritenere in tal
caso la clausola del contratto individuale affetta da nullità assoluta ex art.
1419, secondo comma, c.c. per difetto genetico di uno dei suoi requisiti
essenziali [4].
Più in particolare, la giurisprudenza ha sostenuto che “La
rinuncia del lavoratore subordinato a diritti futuri ed eventuali [id est il
risarcimento del danno da omissione contributiva] è radicalmente nulla ai sensi
dell'art. 1418 c.c. e non annullabile previa impugnazione da proporsi nel
termine di cui all'art. 2113 c.c., riferendosi tale ultima norma ad atti
dispositivi di diritti già acquisiti e non ad una rinuncia preventiva, come
tale incidente sul momento genetico dei suddetti diritti” [5].
La questione è stata recentemente riproposta, con sicuri elementi
di originalità, proprio dalla sentenza del Tribunale di Cassino, per la quale
“Il principio di automaticità delle prestazioni trova applicazione a
condizione che esista in capo al datore di lavoro un obbligo contributivo ed in
quanto il lavoratore non abbia rinunciato ex art. 2113 c.c. al versamento dei
contributi. Non può configurarsi un’ipotesi di irrinunciabilità assoluta del
diritto al versamento dei contributi in ragione della natura pubblicistica del
rapporto contributivo tra il datore di lavoro e l’istituto previdenziale, in
quanto la previsione stessa di un termine di prescrizione del diritto a
richiedere il versamento dei contributi appare assolutamente incompatibile con
la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto diritto” [6].
La sentenza in commento si inserisce nell’ambito di
quell’indirizzo giurisprudenziale che, anche se recentemente riproposto dalla
Corte di Cassazione, può ormai considerarsi recessivo.
Il principio ordinatore della pronuncia in esame è dato dalla
presupposta “rinunciabilità” da parte del lavoratore delle posizioni
contributive allorquando detta rinuncia trova collocazione nell’ambito di un
accordo transattivo concluso dal lavoratore con il consenso assistito.
Fin qui nulla di nuovo; ma l’argomentazione del giudicante a
fondamento della decisione costituisce una sicura novità nella recensione dei
motivi per i quali finora si è ritenuto possibile rinunciare alla posizione
contributiva.
Infatti, a considerare gli aspetti consueti dell’orientamento cui
aderisce, la sentenza non sarebbe meritevole di segnalazione, in quanto nulla
aggiunge e nulla toglie alle acquisizioni del patrimonio giurisprudenziale in
materia, se non fosse per un inedito accostamento di concetti che, pur
coerentemente motivato, non sembra del tutto condivisibile.
Il riferimento è alla parte della sentenza nella quale si legge che
“… nemmeno può configurarsi un’ipotesi di irrinunciabilità assoluta del
diritto al versamento dei contributi in ragione della natura pubblicistica del
rapporto contributivo tra il datore di lavoro e l’istituto previdenziale, in
quanto la previsione stessa di un termine di prescrizione del diritto a
richiedere il versamento dei contributi appare assolutamente incompatibile con
la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto diritto”.
La tesi è alquanto interessante ed avrebbe meritato un maggiore
approfondimento, anche perché sull’assunto non costano precedenti
giurisprudenziali e sarebbe stato interessante comprendere il meccanismo
logico-giuridico di un simile accostamento.
Si diceva che la tesi, però, per quanto interessante, suscita più
perplessità che condivisione, non per altro perché si dubita sull’assunto
per il quale il lavoratore sia titolare di un diritto alla pretesa del
versamento dei contributi previdenziali in quanto parte nel relativo rapporto,
ovvero titolare della posizione soggettiva nell’ambito del rapporto.
Tale accordo transattivo, benché perfezionatosi in sede di
conciliazione giudiziale, siccome concerne “diritti del prestatore di lavoro
derivanti da disposizioni inderogabili di legge”, è, per ciò solo, sottratto
alla previsione di validità/invalidità di cui all’art. 2113 c.c..
Pertanto, non è condivisibile l’assunto per il quale “A ciò
aggiungasi che neppure può configurarsi un’ipotesi di irrinunciabilità
assoluta al diritto al versamento dei contributi in ragione della natura
pubblicistica del rapporto contributivo tra il datore di lavoro e l’istituto
di previdenza; e ciò perché la previsione stessa di un termine di prescrizione
del diritto a richiedere il versamento dei contributi appare assolutamente
incompatibile con la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto
diritto”.
Ora, una tale operazione, se intesa come rinunciabilità
dell’istituto assicuratore alla contribuzione, non si vede quale ne possa
essere il fondamento, atteso che il detto istituto non può assolutamente
rinunciare al versamento dei contributi.
Al contrario, se il giudice avesse voluto intendere una presupposta
rinunciabilità dei contributi, ammesso che ciò fosse denegatamene possibile,
saremmo comunque fuori dal caso di specie, perché la rinuncia accederebbe ad un
atto dispositivo del lavoratore e non del legittimo titolare della prestazione
(ossia l’istituto assicuratore).
Infatti in quest’ultima ipotesi la rinuncia sarebbe riferibile ad
un atto dispositivo del lavoratore e, in quanto tale, comporterebbe una
dissociazione tra soggetto titolare del diritto e soggetto disponente: sotto il
profilo civilistico nulla quaestio circa l’infondatezza di una tale pretesa
per la invalidità e/o inefficacia della rinuncia.
Sotto il profilo previdenziale, la soluzione sarebbe ancora più
radicale per la evidente autonomia tra il rapporto di lavoro ed il rapporto
giuridico previdenziale: “Il negozio transattivo tra datore e lavoratore …
non pregiudica il credito contributivo dell’INPS… per l’autonomia del
rapporto previdenziale, sul quale quella transazione … non assume alcuna
influenza” [7].
Ora, è vero che l’obbligo contributivo si estingue anche per
prescrizione, ma, a ben guardare, il lavoratore non è titolare del diritto di
“credito” al versamento dei contributi nei confronti del datore di lavoro,
bensì è creditore della prestazione previdenziale nei confronti
dell’istituto assicuratore: “Secondo la dottrina tradizionale … il
rapporto giuridico previdenziale … [ha] struttura analoga a quella derivante
dal contratto di assicurazione privata. Esso, cioè, … [è] formato dal
rapporto intercorrente tra i lavoratori e l’istituto assicuratore e da quello
intercorrente tra quest’ultimo e i datori di lavoro: rapporto aventi ad
oggetto rispettivamente le prestazioni ed i contributi previdenziali” [8].
Altrimenti non si spiegherebbe il principio, unanimemente acclarato
dalla giurisprudenza, per il quale unico soggetto attivo del rapporto
contributivo è l’istituto assicuratore [9] e per il quale “… la
interruzione della prescrizione dei contributi di assicurazione obbligatoria (il
cui decorso preclude la possibilità di effettuare versamenti a regolarizzazione
dei contributi arretrati) si verifica solo per effetto degli atti, indicati
dall'art. 2943 c.c., posti in essere dall'INPS (titolare del relativo diritto di
credito), e non quando anche uno di tali atti sia posto in essere dal
lavoratore, come nell’ipotesi di azione giudiziaria da questi proposta nei
confronti del datore di lavoro” [10].
Ciò significa che titolare del diritto di credito costituto dal
diritto al versamento dei contributi è l’istituto assicuratore, il quale non
può essere pregiudicato da atti dispositivi di terzi, che della relativa
posizione non hanno potere di disposizione, mentre il lavoratore è solo
destinatario di una posizione attiva indiretta, specularmente alla quale assume
una posizione di cooperazione: quella di denunciare, ove ne abbia notizia,
l’omissione contributiva.
L’inadempimento in ordine a tale onere, ove consenta la
maturazione del termine prescrizionale, comunque non comporta la assoluta
perdita della tutela, ma solo la trasformazione del mezzo attraverso il quale la
tutela trova attuazione; il lavoratore, infatti, una volta che si sia verificata
la prescrizione del debito contributivo, perde la posizione e/o prestazione
previdenziale ed acquista, questa volta a carico del datore di lavoro e non
dell’istituto assicuratore, il diritto ad una prestazione risarcitoria ex art.
2116, comma 2, c.c..
Dunque, nella fattispecie alla prescrizione della obbligazione
contributiva non corrisponde la assoluta inesigibilità della prestazione
previdenziale, ma soltanto la sua commutazione in altra specie, ossia non più
il diritto alla prestazione previdenziale, in ossequio alla deroga al principio
della automaticità della prestazione, bensì il risarcimento del danno nella
forma per equivalente ex art. 2116 c.c. o in forma specifica mediante
costituzione della rendita ex lege n. 1338 del 1962 [11].
Questo consente di affermare, con la dovuta solennità, che
l’ordinamento, pur prevedendo la prescrittibilità dei contributi, nondimeno
suppone l’indisponibilità della prestazione previdenziale in forma diretta o
in forma surrogata, perché ciò che l’ordinamento tutela non è il rapporto
previdenziale in sé e, con esso, l’adempimento dell’obbligazione
contributiva, bensì la situazione soggettiva sottostante di cui detto rapporto
è ausiliario e servente, ossia il diritto, costituzionalmente protetto, alla
posizione contributiva, cui corrispondono forme diverse di tutela a seconda che
il versamento dei contributi vi sia stato o meno, ovvero sia possibile o non sia
più possibile.
Questo concetto è ancora più chiaro se si esamina il sistema della
contribuzione nella assicurazione infortuni e malattie professionali,
nell’ambito del quale vige il principio della automaticità delle prestazioni
nella integrale portata stabilita dall’art. 2116 c.c.: in tale contesto la
prescrizione dei contributi è un fatto che riguarda esclusivamente il datore di
lavoro (soggetto debitore) e l’Inail (soggetto creditore), mentre a tale
rapporto resta del tutto indifferente il lavoratore, il quale avrà diritto alla
prestazione anche nel caso in cui il datore di lavoro non abbia versato il
premio assicurativo ed esso sia prescritto.
Per cui si può ritenere che alla prescrizione dell’obbligazione
contributiva, se da una parte consegue la perdita del diritto dell’Ente
previdenziale di esigerne il versamento, dall’altra non produce alcun effetto
sulla posizione del lavoratore laddove detta posizione risulti presidiata dalla
regola dell’automatismo, mentre produce solo effetti novativi nei confronti
delle prestazioni per le quali vige il regime derogatorio, in modo che la
originaria prestazione previdenziale perduta si trasforma in una prestazione
risracitoria per equivalente e/o in forma specifica.
Ma, in nessun caso il lavoratore perde la sua tutela, perché la
prescrizione non si verifica nei suoi confronti, ossia non si verifica contro il
diritto alla prestazione previdenziale, ma può solo riverberarsi in danno di
esso e rendere azionabili gli ulteriori meccanismi di tutela posti dal
legislatore a presidio della posizione contributiva laddove il principio della
automaticità delle prestazioni sia escluso.
Ancora una volta, insomma, è data prova che l’art. 2116 c.c. pone
espressamente il principio dell’automaticità della prestazione, ma, letto nel
contesto dell’ordinamento costituzionale, coniugandosi con l’art. 38 Cost.,
in effetti sancisce il fondamentale e superiore principio della c.d. effettività
della tutela.
Peraltro, l’accostamento del concetto di “prescrizione” così
come delineato nell’ordinamento civilistico a quello contenuto
nell’ordinamento previdenzialistico non trova alcuna possibilità di
assimilazione, solo a fornire attenzione al fatto che dei contributi prescritti
non è più possibile il versamento.
Nella materia previdenziale, infatti, il regime della prescrizione
già maturata è sottratto alla disponibilità delle parti [12].
Questa regola è in pieno contrasto con quella di diritto comune,
per la quale, invece, del diritto prescritto il debitore può sempre validamente
eseguire la prestazione, che resta valida ed efficace ad ogni effetto; tanto è
vero che l’eccezione di prescrizione tecnicamente è eccezione in senso
stretto e non può essere sollevata dal giudice d’ufficio, mentre nel caso di
contributi prescritti, trattandosi di nullità prevista da una norma imperativa
di legge, la relativa azione sfugge alla regola processuale del c.d. principio
dispositivo e sconta il regime della ufficialità, derivante dal fatto che della
prescrizione l’Istituto assicuratore non può disporre.
Questo sistema ha una evidente connotazione eccezionale rispetto
all’ordinario regime della “prescrizione”, perché “… è espressione
della volontà del legislatore di connotare l’eccezione di prescrizione dei
caratteri della irrinunciabilità e della rilevabilità d’ufficio” [13].
La medesima giurisprudenza ritiene che “… Del resto, il
principio della irrinunciabilità della prescrizione … “, essendo “…
consono ad un sistema previdenziale avente uno spiccato carattere
pubblicistico”, risponde ad una esigenza di “… certezza dei rapporti tra
l’ente gestore e i cittadini, che… non sia lasciata alla discrezione
dell’interessato la possibilità di far valere o meno l’avvenuta
prescrizione” [14].
Infatti, mentre in comune con la disciplina generale della
prescrizione la disciplina de qua fonda la ratio della prescrizione su ragioni
di ordine pubblico per l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, la
disciplina specifica risponde, oltre che ad un principio generale di certezza
dei rapporti giuridici, alla previsione di una tutela che, sebbene alternativa,
consente la effettività dell’esercizio del diritto mediante la possibilità
di costituzione della rendita sostitutiva: “Il divieto stabilito per ragioni
di ordine pubblico dall’art. 55, comma 1, r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 di
effettuare versamenti a regolarizzazione di contributi assicurativi, dopo che
rispetto agli stessi sia intervenuta la prescrizione, opera indipendentemente
dalla eccezione di prescrizione da parte dell’ente previdenziale e del
debitore dei contributi; ed è manifestamente infondata la questione di
costituzionalità della norma citata e dell’art. 41 l. 30 aprile 1969, n. 153,
nella parte in cui prevedono la prescrittibilità del diritto dell’Inps al
pagamento dei contributi, per violazione dell’art. 38 Cost., sia perché tale
disciplina risponde ad un principio generale di certezza dei rapporti giuridici,
sia perché, a fronte della prescrizione e del conseguente divieto di pagamento
dei contributi, è prevista la possibilità di costituzione della rendita [15].
Ma vi è di più: l’art. 2115, comma 3, c.c. dispone la nullità
dei patti diretti ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o
all’assistenza.
La regola che tale norma sottende è quella della non negoziabilità
dei diritti previdenziali, neanche di quelli prescritti; semmai oggetto di
disposizione convenzionale può essere il diritto al risarcimento del danno ex
art. 2116, comma 2, c.c. per omesso o irregolare versamento dei contributi, ma
non l’obbligo di corrispondere all’istituto assicuratore i contributi
previdenziali: “Il disposto del 3° co. dell’art. 2115 non è applicabile
qualora le parti abbiano inteso transigere non già su eventuali obblighi del
datore di lavoro di corrispondere all’Inps i contributi assicurativi, bensì
sul danno subito dal lavoratore per l’irregolare versamento dei contributi
stessi” [16].
Qui si ritorna al ragionamento iniziale: il principio fondamentale
è sempre quello della autonomia del rapporto previdenziale dal rapporto di
lavoro, in modo che l’obbligo contributivo del datore di lavoro sussiste
indipendentemente dalla volontà del lavoratore.
Tanto è vero che il minimale contributivo si determina sul
“dovuto” e non su quanto di “di fatto erogato”, in modo che per gli
effetti di cui all’art. 12 della legge n. 153 del 1969 e all’art. 6 del
D.Lgs. n, 314 del 1997, non spiega “efficacia riduttiva della base imponibile
l’eventuale corresponsione di fatto di somme minori di quelle effettivamente
dovute, anche in presenza di accettazione o rinuncia del lavoratore” [17].
Ciò sposta di nuovo l’attenzione sul problema della incidenza
della transazione del lavoratore sul rapporto previdenziale.
Le considerazioni innanzi svolte consentono di reinquadrare la
fattispecie nel suo contesto naturale e di fornire prova della assoluta
impermeabilità del rapporto previdenziale rispetto agli atti dispositivi del
lavoratore.
La giurisprudenza si è più volte interessata della fattispecie
proprio in relazione al caso specifico affrontato dal giudice nella sentenza in
commento: la transazione sul risarcimento del danno ex art. 18 Statuto dei
lavoratori a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento e
reintegrazione del lavoratore.
In proposito l’orientamento assolutamente prevalente emerso nella
giurisprudenza di legittimità è quello secondo il quale “In caso di
soluzione transattiva stragiudiziale o di conciliazione giudiziale nel corso del
giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado che abbia ordinato la
reintegrazione del lavoratore licenziato, il licenziamento dichiarato
illegittimo con la sentenza impugnata non interrompe il rapporto di lavoro né
quello assicurativo previdenziale ad esso collegato con la correlativa
equiparazione all’effettiva utilizzazione delle energie lavorative del
dipendente della loro mera utilizzabilità, sicché permane l’obbligo
contributivo del datore di lavoro per il periodo intercorrente dalla data d
licenziamento a quella sopravvenuta della conciliazione” [18].
E’ proprio la motivazione della sentenza da ultimo citata che pone
il principio fondamentale in materia: “[…] se i lavoratori sono certamente
liberi di rinunciare … in tutto o in parte, alle proprie pretese economiche
maturate dal licenziamento alla conciliazione, una siffatta transazione non può
però essere opposta all’INPS, né fa venir meno l’obbligazione contributiva
sulle retribuzioni spettanti ai lavoratori medesimi nel periodo predetto, attesa
anche la natura indisponibile dei diritti in materia di contribuzione legale
obbligatoria” [19].
Nemmeno la natura novativa della transazione potrebbe escludere
l’obbligo del lavoratore di corrispondere i contributi previdenziali, e ciò
non solo perché tale effetto suppone che il negozio transattivo abbia estinto
il rapporto di lavoro e lo abbia sostituito con una obbligazione di altro genere
[20], in modo che la transazione sia, in quanto negozio principale di secondo
grado, l’unica fonte dei diritti e degli obblighi delle parti.
Infatti, più radicalmente, sul punto la giurisprudenza si è spinta
oltre ed ha ritenuto che “Escluso che la legge consideri finito il rapporto
dopo l’intimazione del licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice, deve
escludersi altresì che l’efficacia risolutiva conseguente al contratto di
transazione possa retroagire per mera volontà delle parti ed ai fini della
contribuzione previdenziale, stante l’indisponibilità del rapporto
contributivo e la conseguente assenza del potere dei provati di sottrarsi ai
relativi obblighi semplicemente attraverso il mutamento del nome iuris” [21].
In conclusione, si può ritenere senz’altro corretta la tesi di
chi ritiene che “La transazione intervenuta tra lavoratore e datore di lavoro
è estranea al rapporto tra quest’ultimo e l’I.N.P.S., avente ad oggetto il
credito contributivo derivante dalla legge in relazione all’esistenza di un
rapporto di lavoro subordinato, giacché alla base del credito dell’ente
previdenziale deve essere posta la retribuzione dovuta e non quella corrisposta,
in quanto l’obbligo contributivo del datore di lavoro sussiste
indipendentemente dal fatto che siano stati in tutto o in parte soddisfatti gli
obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera, ovvero che questi
abbia rinunziato ai suoi diritti” [22], perché ciò che la Costituzione
tutela con l’art. 38 è la effettività della posizione previdenziale, di modo
che la normativa che ne consegue assume carattere inderogabile.
NOTE
[1] A. FEDERICI, Tutela della posizione contributiva. Rinuncia ai
diritti futuri ed emersione dal sommerso: una analisi comparativa, in
www.diritto.it/articoli/previdenza/federici.html.
[2] Per tutte cfr. Cass. n. 163 del 1985 “L'indisponibilità dei
diritti derivanti dalle norme imperative in materia di assicurazioni
obbligatorie non comporta l'indisponibilità del diritto al risarcimento dei
danni conseguenti alla prescrizione dei contributi dei quali è stato omesso il
versamento e, conseguentemente, non esclude che quest'ultimo diritto - anche se
derivante, in via mediata e indiretta, da norma inderogabile di legge - possa
formare oggetto di transazione” Sez. Lav., sent. n. 163 del 19-01-1985,
Palanca c. I.N.P.D.A.I; non constano precedenti contrari”.
[3] Ved. Cass. 08.08.1987, n. 6823; Cass.
04.04.1987, n. 3297; Cass. 11.03.1983, n. 1846.
[4] Ved. Cass. 08.08.1987, n. 6823; Cass.
04.04.1987, n. 3297; Cass. 11.03.1983, n. 1846.
[5] Cass. 14.12.1998, n. 12548.
[6] Trib. Cassino, 22
settembre 2003, n. 567, supra.
[7] CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Torino, 1996, 103;
conf. Cass. n. 6111 del 1985.
[8] PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2000, 51.
[9] Per tutte. Cfr. Cass., sez. un., n. 1250 del 1968
[10] Cass., 10 giugno 1992, n. 7104, in Giust. Civ. Mass., 1992,
fasc. 6, informazione previd., 1992, 1304.
[11] Il lavoratore non rimane mai sfornito di tutela, perché, se il datore di lavoro versa la contribuzione, anche a sanatoria della omissione e/o irregolare contribuzione, accede, ove ne ricorrano i presupposti, alla prestazione previdenziale; ove, invece, sia accertata una omissione contributiva non più sanabile per sopravvenuta prescrizione, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno o alla costituzione della rendita vitalizia mediante versamento della riserva matematica; infine, qualora sia prescritto anche tale ultimo diritto, “Ove il lavoratore abbia dato comunicazione dell'omissione contributiva del datore di lavoro al competente ente previdenziale e quest'ultimo non abbia provveduto a conseguire i contributi omessi, lo stesso ente, in quanto obbligato, nell'ambito del rapporto giuridico con l'interessato (anche ex art. 1175 e 1176 c.c.), alla diligente riscossione di un credito che, ancorché proprio, vale a soddisfare il diritto costituzionalmente protetto del lavoratore, è tenuto a provvedere alla regolarizzazione della posizione assicurativa del lavoratore medesimo, ove a quest'ultimo sia precluso di ricorrere alla costituzione della rendita ex art. 13 legge n. 1338 del 1962 o all'azione di risarcimento danni ex art. 2116 c.c.” (Cass. 21 maggio 2002, n. 7459, in D&G e Giust., 2002, 34).
[12] “Si deve escludere, in linea generale, un diritto soggettivo
dell'assicurato a versare contributi previdenziali prescritti, poiché, nella
materia previdenziale, a differenza che in quella civile, il regime della
prescrizione già maturata è sottratto alla disponibilità delle parti”
(Cass., 12 gennaio 2002, n. 330, in Foro it., I, 1023, previdenza ed assistenza,
assicurazioni sociali).
[13] Cass., 6 dicembre 1995, n. 12538, in Giust. Civ. Mass., 1995,
fasc. 12.
[14] Ibidem.
[15] Cass. 5 ottobre 1998, n. 9865, in Giust. Civ. Mass., 1998,
2014.
[16] Così si è espressa la giurisprudenza di legittimità Cass.,
21 novembre 1984, n. 5977.
[17] Cass., sez. lav., 22 maggio 1999, n. 5002 e Cass., sez. lav.,
28 ottobre 1999, n. 12122.
[18] Cass., sez. lav., 27 ottobre 1997, n. 10573 ; conf. Cass., sez.
Lav., 17 aprile 2001, n. 5639 e Cass., sez. lav., 7 marzo 2003, n. 3487.
[19] Cass. n. 10573/1997, ult. cit.; conf., da ult., Cass., sez.
lav., 3 marzo 2003, n. 3122, per la quale l’obbligo contributivo del datore di
lavoro verso l’istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che
gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera siano stati in
tutto o in parte soddisfatti, ovvero che il lavoratore abbia rinunciato ai suoi
diritti.
[20] Cass., sez. lav., 17 aprile 2001, n. 5639.
[21] Cass. ult. cit.: “”[…] la soluzione transattiva
stragiudiziale oppure la conciliazione giudiziale raggiunta dopo l’ordine di
reintegrazione non incidono sull’obbligo contributivo per il periodo compreso
fra la data del licenziamento e la conciliazione, con la quale i rapporti, di
lavoro e previdenziale, effettivamente finiscono […] In caso di licenziamento
dichiarato dal giudice illegittimo ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300
del 1970, il rapporto di lavoro prosegue, anche in assenza di effettive
prestazioni lavorative, fino al momento della reintegra del lavoratore oppure
della transazione che pone termine al rapporto. Di conseguenza il datore di
lavoro deve pagare i contributi previdenziali sulla somma corrisposta al
lavoratore, comunque qualificata nella sede transattiva e fino ad ammontare
corrispondente alla misura della retribuzione dovuta in base al contratto di
lavoro”.
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