Responsabilità integrale  aziendale per danni alla salute del lavoratore

 

1. Premessa

La stampa del 24 aprile 2003 ha dato ampio risalto – tramite sintesi giornalistiche – ad un presunto nuovo principio della Cassazione che ha ritenuto errato un riparto di responsabilità tra datore di lavoro danneggiante e dipendente danneggiato da illecito datoriale (demansionamento sfociato in depressione), in ragione di un 50% per ciascuno, in presenza di una riscontrata (tramite CTU) predisposizione genetica del danneggiato, suscettibile secondo i giudici di merito di sottrarre il datore di lavoro colpevole di demansionamento e licenziamento illegittimo ad un 50% di responsabilità.

I giornalisti – non dotati, per estraneità alla materia giuridica, di “memoria storica” – si sono sbracciati nell’affermare l’assoluta novità della statuizione effettuata dalla Cassazione, sez. lav. 9 aprile 2003 n. 5539, la quale ha negato legittimità all’operazione di riparto di responsabilità, statuendo che il comportamento illegittimo del datore di lavoro determina l’integrale responsabilità al 100% (e non una graduazione percentuale della stessa) ai fini del risarcimento del danno biologico indotto, a prescindere dalla presenza di cd. “antecedenti genetici” o “predisponenti” del danneggiato.

Le conclusioni giornalistiche si rivelano assolutamente inesatte o quantomeno superficiali. L’introduzione in campo giuslavoristico di un principio consolidato in ambito civilistico, risalgono per lo meno al 1999, allorché la Cassazione nella sentenza 5 novembre 1999 n. 12339 (Pres.Delli Priscoli, est.Mercurio) – di cui si riporta la massima al punto 3 del presente scritto - affermò in ambito giuslavoristico l’assoluta incomparabilità (per intrinseca disomogeneità) tra comportamenti umani colpevoli e situazioni genetiche strutturali incolpevoli, con la conseguenza che il comportamento umano colpevole ed illegittimo (anche in tale fattispecie consistito in demansionamento e forzata inattività)  e determinativo di “infarto miocardico” doveva essere considerato integralmente responsabile dell’evento afflittivo, a prescindere dalla presenza di una situazione psicofisica del danneggiato caratterizzata da una “aterosclerosi coronarica”.

 

2.  La notizia giornalistica

Riportiamo la notizia data ai lettori, a seguito della sopracitata sentenza n. 5539 del 9 aprile 2003, da  un articolo comparso su “Il Sole-24 Ore” del 24 marzo 2003, n. 112, p. 25 e ss. a firma Beatrice Dalia, titolato:«Pieno risarcimento ai dipendenti vittime del “danno biologico”».

«Risarcimento pieno al dipendente depresso un pò per il lavoro, un pò di suo. Se alla condizione di avvilimento dell'individuo contribuiscono anche i motivi di lavoro, l'imprenditore è tenuto ad accollarsi per intero il danno biologico patito dal dipendente.

La vicenda. I giudici di piazza Cavour hanno condannato una società di spedizioni a pagare 180 mila euro a un dipendente caduto in una grave crisi depressiva per essere stato prima dequalificato e poi messo alla porta. Lo svolgimento di mansioni al di sotto della sua competenza lo aveva portato a una pesantissima cura farmacologica e, durante lo stato di malattia, si era visto licenziare.

Il Tribunale non se l'era sentita dì attribuire tutta la responsabilità all'imprenditore, visto che la consulenza tecnica aveva evidenziato una certa predisposizione del soggetto, affetto da una sindrome ansiosa e da obesità. Alla fine è risultato che il danno alla salute, corrispondente a un 50% di invalidità, poteva essere imputato solo per metà a cause lavorative. Quindi, ad avviso dei giudici dì merito, il datore di lavoro doveva risarcire solamente il 50% di quel danno.

Il ragionamento della Corte. La «condivisione» della responsabilità tra dipendente e datore di lavoro, però, non è piaciuta ai giudici di piazza Cavour che hanno richiamato il principio fondamentale in tema di responsabilità civile, ricavabili dagli articoli 40 e 41 del Codice penale. In pratica, quando il danno - vuoi per condizioni ambientali oppure per fattori naturali - avviene indipendentemente dal comportamento «imputabile all'uomo», l'autore dell'azione o dell'omissione resta sollevato per intero da ogni colpa nell'evento; se, invece, quelle condizioni oggettive non possono dar luogo, senza l'apporto umano, al danno, l'autore del comportamento è interamente responsabile di tutte le conseguenze che derivano dall'evento lesivo. Trasportando questi principi al diritto del lavoro, il risultato è un «raddoppio» degli obblighi di tutela per il datore. E ogni perplessità sulla validità di simili ragionamenti in materia giuslavoristica, a parere della Cassazione, «è destinata a disvelare la propria inconsistenza solo che si considerino gli obblighi a tutela della salute dei propri dipendenti facenti capo all'imprenditore e solo che si tenga conto della ormai acquisita consapevolezza della possibilità di pregiudizievoli ricadute sulla salute dei lavoratori, specialmente se non dotati di piena integrità psico-fisica, scaturenti da illegittimi provvedimenti datoriali di demansionamento o recesso dal rapporto di lavoro».

 

2. La (presunta e nuova, n.d.r.) estensione

II principio di diritto civile che la Cassazione ha esteso all'ambito lavoristico- sempre secondo il predetto quotidiano – sarebbe il seguente:

«Solo nel caso in cui sia stata accertata l'effettiva operatività del nesso causale tra comportamento imputabile al danneggiante e pregiudizio arrecato rimane esclusa ogni possibilità di graduare in termini percentuali la responsabilità dell'autore della condotta colposa, essendo quest'ultimo responsabile per l'intero dei danni cagionati (...). Anche in presenza del fatto non colposo del danneggiato, prevale l'esigenza che il danneggiato sia integralmente risarcito del danno che egli non avrebbe comunque subito senza l'inadempimento o l'illecito (...). II danneggiato che danneggia o concorre a danneggiare se stesso non compie alcun illecito e non può essere sanzionato alla stregua dell'autore del danno ingiusto. Nessuna incertezza può permanere sull'applicabilità dei suddetti principi in materia giuslavoristica».

 

3. Il significativo precedente: Cass. n. 12339/1999

Il precedente (ignorato dai giornalisti) – come facevamo presente innanzi al punto 1 – è costituito da Cass. sez. lav., 5 novembre 1999, n. 12339 - Pres. Delli Priscoli - Rel. Mercurio -P.M. Mele - Ric. Rasile - Res. Ansaldo Spa (integralmente in Guida al lavoro 2000, 11, 22 con nota di Ricci, ivi 28 e in Meucci, Danni da Mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, Roma 2002, Appendice, p. 515 e ss.) di cui riferiamo per necessaria brevità la massima :

 

«Rapporto di lavoro - Dirigente - Demansionamento e forzata inattività - Infarto - Danno biologico - Risarcibilità - Concausa naturale non imputabile - Irrilevanza.

Il dirigente che, a seguito di demansionamento e forzata inattività, subisca uno stress psicofisico con conseguente infarto, ha diritto al risarcimento del danno biologico, nell'intera misura quantificata; né, a circoscrivere la responsabilità datoriale, rileva l'esistenza di una concausa naturale antecedente (aterosclerosi coronaria genetica), in quanto una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile».

 

4. Le considerazioni a suo tempo  sviluppate

Da parte nostra (nel volume “Danni da mobbing e loro risarcibilità”, Ediesse, Roma 2002, p. 119 e ss.), si ebbe occasione ed accortezza di evidenziare la significatività dell’affermazione effettuata nella soprariportata sentenza del 1999, al punto 5 del Cap. III del libro, punto così titolato: «Nesso di causalità, prova, quantificazione e irriducibilità del danno biologico per concause naturali preesistenti ».

E lo facemmo con queste considerazioni ed argomentazioni:

(omissis)

«Importante è evidenziare come il fatto illecito datoriale (demansionamento e forzata inattività, superlavoro, e simili) che determini danno biologico, assume efficacia esclusiva nell’ induzione del danno alla salute, anche in presenza di concause naturali genetiche. Sul punto la Cassazione sezione lavoro – nella sentenza 5 novembre 1999, n. 12339 (1) – ha recepito il consolidato orientamento in sede civile e penale ed ha affermato che la quantificazione del danno biologico ascrivibile all’illecito datoriale non subisce “riduzioni proporzionali” ad opera di concause naturali preesistenti (nel caso dell’infartuato da demansionamento consistente in riscontrata aterosclerosi coronaria congenita) ma deve essere in toto (al 100%) imputata all’inadempimento o fatto ingiusto datoriale, in considerazione del fatto che «a circoscrivere la responsabilità datoriale non rileva una concausa naturale antecedente, in quanto una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile. (Cass. 1 febbraio 1991, n. 981; Cass. 27 maggio 1995, n. 5924)». Nel caso di specie ha cassato la sentenza del Tribunale che, in ragione della valutazione in proporzione di un terzo della concausa naturale, aveva condannato l’azienda ad un danno biologico in ragione dei due terzi residui, affermando che su di essa invece incombeva la liquidazione del danno al 100%. La rilevanza della sentenza in esame sta nell’aver importato in ambiente giuslavoristico il principio della relatività dell’efficienza causale dei c.d fattori naturali, ben noto alla giurisprudenza civile e penale. In linea di principio la giurisprudenza civile non esclude che una pluralità di fatti, di per sé imputabili a più persone, svolgano un’efficacia causativa del danno, fermo restando che uno solo di essi può assurgere al rango di causa efficiente esclusiva, qualora, inserendosi nella serie causale quale causa sopravvenuta, spezzi il nesso eziologico tra l’evento dannoso e gli altri fatti ovvero releghi effettivamente le altre cause in posizione di «occasioni estranee» (cfr. Cass. 19 settembre 1996 n. 8348; Cass. 11 febbraio 1988, n. 1473).

Questo principio, definito della equivalenza delle condizioni, è stato di recente ritenuto dalla giurisprudenza applicabile in materia di infortuni sul lavoro e le malattie professionali (cfr. Cass. 5 febbraio 1998, n. 1196).

La Cassazione, pronunziandosi in materia di responsabilità civile, ha ripetutamente affermato un secondo principio: il confronto fra cause concorrenti, allo scopo di valutarne il diverso grado di incidenza eziologia, può essere operato solamente tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli ma non già fra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass. 27 maggio 1995 n. 5924; Cass. 1 febbraio 1991, n. 981). La sentenza n. 12339 del 1999 fa applicazione di tale enunciato, per la prima volta a quanto consta, in una fattispecie di rapporto di lavoro, con effetti tanto rilevanti quanto condivisibili ai fini del giudicato: la Corte esclude, infatti, la rilevanza causale della situazione congenita del lavoratore, addossando per intero all’azienda la responsabilità (e la relativa quantificazione) del danno biologico prodotto a quest’ultimo dalla patologia cardiaca».

 

5. Inesitente innovatività di Cass. n. 5539/2003

Acquisita la sentenza n. 5539 del 9 aprile 2003 - Pres. Senese, rel. Vidiri,  P.M. Napoletano (concl. conf) in causa Monteleone c. SDA Express Courier -, lettone il contenuto, i principi di diritto  da essa statuiti sono i seguenti:

« Responsabilità civile - Risarcimento del danno -Causalità (nesso di) - Condizioni ambientali e fattori naturali - Sufficienza nella causazione del danno - Responsabilità dell'agente - Esclusione - Fondamento - Concorso tra una causa naturale e una causa umana imputabile - Graduazione della colpa - Esclusione - Fondamento - Fattispecie in materia di responsabilità per danno biologico.

 

In materia di rapporto di causalità della responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c. p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato per intero da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora invece quelle condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, atteso che in tal caso non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa imputabile ed una concausa naturale non imputabile.
Nessuna incertezza può permanere sull'applicabilità dei suddetti principi in materia giuslavoristica nella quale ogni pure infondata riserva sulla loro validità è destinata a disvelare la propria inconsistenza solo che si considerino gli obblighi a tutela della salute dei propri dipendenti facenti capo sull'imprenditore - di cui è significativa espressione il disposto dell'ari. 2087 c.c. - e solo che si tenga anche conto della ormai acquisita generale consapevolezza della possibilità di pregiudizievoli ricadute sulla salute dei lavoratori, specialmente se non dotati di piena integrità psico-fisica, scaturenti da illegittimi provvedimenti datoriali di demansionamento o di recesso dal rapporto lavorativo.(Nella specie la S.C. ha cassato, senza rinvio e quantificando a carico dell’azienda il danno al 100%, la sentenza d'appello che - avendo accertato che gli illegittimi provvedimenti del datore di lavoro erano responsabili, sul piano eziologico, del 50% del danno biologico, per  sindrome ansioso depressiva,  riscontrato nel lavoratore essendo esso ascrivibile per l'altro 50% ad una predisposizione fisica e a infermità pregresse - aveva posto a carico del datore di lavoro non la totalità dei danni subiti dal lavoratore, bensì solo il 50% di essi)».

 

6.  Conclusioni

Concludendo le considerazioni ed i principi di Cass. sez. lav. 9 aprile 2003 n. 5539 non hanno affatto una carica innovativa (quasi “eversiva”) ma si pongono in una linea di continuità e di coerenza con l’orientamento inaugurato in ambito giuslavoristico da Cass. 5 novembre 1999 n. 12339 (di cui l’estensore ha singolarmente omesso di  menzionare la significatività e che meritava di essere diligentemente e correttamente segnalata).

 

Roma, 23 maggio 2003

Mario Meucci

 

Conf. successivamente alle due precedenti: Cass. 22.8.2003 n. 12377, Cass. 11.3.2004 n. 5014, Cass. 18.7.2005 n. 15107, Cass. 9.9.2005 n. 17959, Cass. sez.lav. 26 luglio 2006 n. 17022 (est. De Luca), in Riv. crit. dir. lav. 4/2006, 1117 (nt. M.Orlando, Danno da demansionamento in presenza di concause: al dipendente spetta il risarcimento integrale) - che sotto si riporta - nonché Cass. 8 giugno 2007 n. 13400 (in Not. giurisp. lav. 2007, 549)

 

Cass. 26 luglio 2006 n. 17022 - Pres. e est. De Luca - Rete Ferroviaria Italiana SpA  c. An. Vo.

 

Il datore di lavoro che, con un illegittimo demansionamento, abbia leso la salute del dipendente, è tenuto all’integrale risarcimento del danno subito dal lavoratore – Anche in presenza di concause -

 

L'equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti - che legittima l'esercizio dello ius variandi del datore di lavoro, a norma dell'art. 2103 c.c. - deve essere intesa non solo come identità professionale e di inquadramento contrattuale, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione  o l'arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto (vedine per tutte: Su n. 3455/87, n. 6871/87, n.2896/91, n. 12088/91, n. 3623/95, n. 10405/95, n. 12121/95, n. 6124/97, n. 2428/99, n. 2649/04, n. 14666/04 della sezione lavoro); in assenza di tali requisiti il mutamento di mansioni è illegittimo essendo irrilevante che detto mutamento - quand'anche contestuale ad un trasferimento - sia determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Il datore di lavoro che, con un illegittimo demansionamento, abbia leso la salute del dipendente, è tenuto all’integrale risarcimento del danno subito dal lavoratore. Non vale ad escludere o ad attenuare la responsabilità aziendale il fatto che la malattia derivata dal licenziamento (nel caso sindrome ansioso-depressiva) sia stata prodotta anche da altre cause.
Anche in materia di responsabilità civile del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti (sia contrattuale, come nella specie, sia extracontrattuale) trova applicazione la regola (di cui all’articolo 41 codice penale), secondo cui – essendo il rapporto causale, tra condotta ed evento, governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni – deve essere riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento, anche in maniera (indiretta o remota e, comunque) concausale, salvo il temperamento (previsto dallo stesso articolo 41 codice penale, cit.) – in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore, da solo sufficiente a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni. Ne consegue che l’efficienza causale della condotta del datore di lavoro è, da sola, sufficiente a radicarne la responsabilità civile per l’intero danno che ne consegua, nonostante il concorso di concause (fatto salvo, tuttavia, il ridimensionamento proporzionale del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., nel caso di concorso del fatto colposo del danneggiato)

Svolgimento del processo.

Con la sentenza ora denunciata, la Corte d'appello di Cosenza confermava la sentenza del Pretore della stessa sede, che aveva accolto la domanda proposta da An.Vo. contro Ferrovie dello stato Società di trasporti e servizi p. a., della quale era stato dipendente, per ottenere il risarcimento del danno biologico e patrimoniale (pari alla differenza tra retribuzione spettante e trattamento percepito a seguito del pensionamento anticipato) - subito in dipendenza della forzata inattività, per la mancata adibizione a qualsiasi mansione, e dello stato di grave depressione, che ne è conseguito - essenzialmente in base ai rilievi seguenti:
- il Vo., segretario tecnico di prima classe (qualifica di natura amministrativa), è stato trasferito da Pa. a c., "nelle diverse mansioni di aggiunto nel reparto esercizio impianti di sicurezza" (mansioni tecniche) ed è rimasto "del tutto inattivo" - come risulta dalle prove testimoniali e documentali - "non per scelta del lavoratore, ma per il semplice fatto che egli, ricoprendo una qualifica di natura amministrativa, non poteva svolgere mansioni tecniche";
- la inattività non può essere addebitata, poi, ad "imperizia" del lavoratore - attesa l'adibizione dello stesso a mansioni per le quali non era preparato - e, peraltro, la riorganizzazione aziendale può giustificare il trasferimento, ma non il demansionamento del lavoratore;
- la consulenza tecnica (eseguita in primo grado) "afferma che il Vo. è affetto da sindrome ansioso-depressiva, da mettere in relazione causale con il patito demansionamento" ed ha accertato una "inabilità del 5-6%", oltre una incapacità temporanea assoluta (da limitare a 135 giorni) ed una incapacità temporanea parziale di 189 giorni;
- "la natura di "concausa" dell'illecito comportamento del datore di lavoro non comporta certo una diminuzione dell'entità del danno ad esso addebitabile, a meno che non vengano, dalla parte interessata, specificamente provate altre concause efficienti nella determinazione del danno, (e ciò) tanto più (ove si consideri) che lo stesso consulente tecnico d'ufficio afferma chiaramente che "il comportamento del datore di lavoro (...) ha concretizzato un danno biologico (...) pari al 5-6%"";
- va confermata, poi, la "liquidazione equitativa" del danno biologico -"con il sistema del c.d. punto di invalidità, come da tabella, ragguagliato ad una età base di diciotto anni (...) diminuita del 3,3% (secondo l'età di 51 anni che il lavoratore aveva all'epoca dei fatti) " - in misura pari alla media del valore del punto, in relazione alla percentuale di inabilità (tra il 5 ed il 6 per cento).
Avverso la sentenza d'appello la Rete ferroviaria italiana (RFI) società per azioni (già Ferrovie dello stato Società di trasporti e servizi p. a.) propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi ed illustrato da memoria.
L'intimato An.Vo. resiste con controricorso.
Motivi della decisione.
1. Con il primo motivo di ricorso - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2087, 2113 c.c.), nonché vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p. c.) - la Rete ferroviaria italiana (RFI) società per azioni (già Ferrovie dello stato Società di trasporti e servizi p. a.) censura la sentenza impugnata - per avere ritenuto la propria condotta "antigiuridica e, comunque, lesiva per il lavoratore" - sebbene la società avesse "provveduto ad attuare (.....) un riassetto dell'organizzazione strutturale e funzionale di alcune branche dell'impresa, al fine di ottimizzare l'attività aziendale" e, nel caso di specie, "la temporanea diversa utilizzazione del Vo., nell'espletamento delle sue specialistiche funzioni, (fosse) dipesa proprio dalla attuazione di uno dei programmi di riassetto", senza tuttavia sacrificare il trattamento economico-giuridico e la posizione professionale - propri della categoria contrattuale di appartenenza - dello stesso lavoratore. Il primo motivo di ricorso non è fondato.
1. 2. lnvero la equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti - che legittima l'esercizio dello ius variandi del datore di lavoro, a norma della disciplina legale in materia (art. 2103 c.c., come sostituito dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, c.d. Statuto dei lavoratori) - deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 3455 delle sezioni unite, n. 6871/87, 2896, 12088/91, 3623, 10405, 12121/95, 6124/97, 2428/992649, 14666/2004 della sezione lavoro) - come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l'arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto.
Né la tutela della professionalità del lavoratore - che ne risulta, peraltro in coerenza con la costituzione (art. 35) - può essere sacrificata per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 6852/87, 6124/97) - in quanto tali ragioni risultano, bensì, esplicitamente richiamate (nell'ultima parte dello stesso art. 2103 c.c., come sostituito dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, cit.) - quale giustificazione, tuttavia, soltanto del trasferimento del lavoratore da una unità produttiva ad un'altra - e, peraltro, risultano, bensì, funzionali all'esercizio della libertà di iniziativa privata - parimenti garantita dalla costituzione (art. 41) - ma questa non può, tuttavia, svolgersi in modo da recare pregiudizio - tra l'altro - alla dignità umana, alla quale va ricondotta, appunto, la professionalità - quale componente essenziale della dignità - del lavoratore.
La sentenza impugnata si uniforma ai principi di diritto enunciati - sia laddove accerta l'adibizione del lavoratore a mansioni non equivalenti a quelle corrispondenti alla qualifica di inquadramento, sia laddove nega che ciò possa essere giustificato dalle invocate ragioni organizzative - e non merita, quindi, le censure - che le vengono mosse con il primo motivo di ricorso -neanche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c).
1.3. lnvero la denuncia di un vizio di motivazione in fatto, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c) - vizio nel quale si traduce anche la mancata ammissione di un mezzo istruttorio (vedi, per tutte, Cass. n. 13730, 9290/2004), nonché l'omessa od erronea valutazione di alcune risultanze probatorie (vedi, per tutte, Cass. n. 3004/2004, 3284/2003) - non conferisce ai giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonte del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo l'orientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 13045/97 delle sezioni unite e n. 8153, 7936, 7745, 4017, 3452, 3333, 236/2005, 24219, 23411, 22838, 22751, 21826, 21377, 20272, 19306/2004, 16213, 16063, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/2003, 3161/2002, 4667/2001, 14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti, né, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360 n. 5 c.p.c.) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.
Pertanto, al giudice di legittimità non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex art. 384, 2° comma, c.p.c.) né, quindi, di scegliere la motivazione più convincente - tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente - ma deve limitarsi a verificare se - nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto - siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano effettivamente - vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.
1.4. Lungi dal denunciare, specificamente, il punto ed il modo in cui la motivazione - che sorregge l'accertamento di fatto della sentenza impugnata - risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, la società ricorrente sembra, tuttavia, prospettare - inammissibilmente - un accertamento diverso.
Anche a volere prescindere dalle superiori considerazioni e conclusioni - peraltro assorbenti - l'accertamento di fatto - che la sentenza impugnata propone - non pare, tuttavia, inficiato da vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
Infatti la motivazione della sentenza - che ne sorregge l'accertamento sul punto - si articola nei passaggi essenziali seguenti:
-il Vo., segretario tecnico di prima classe (qualifica di natura amministrativa), è stato trasferito da Pa a c., "nelle diverse mansioni di aggiunto nel reparto esercizio impianti di sicurezza" (mansioni tecniche) ed è rimasto "del tutto inattivo" - come risulta dalle prove testimoniali e documentali - "non per scelta del lavoratore, ma per il semplice fatto che egli, ricoprendo una qualifica di natura amministrativa, non poteva svolgere mansioni tecniche";
-la inattività non può essere addebitata, poi, ad "imperizia" del lavoratore - attesa l'adibizione dello stesso a mansioni per le quali non era preparato - e, peraltro, la riorganizzazione aziendale può giustificare il trasferimento, ma non il demansionamento del lavoratore.
La riferita motivazione in fatto, all'evidenza, non risulta inficiata - da obiettiva carenza o da logica contraddittorietà - e, pertanto, la sentenza impugnata - oltre a risultare coerente con i principi di diritto enunciati - non merita le censure - che le vengono mosse con il primo motivo di ricorso -neanche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
Tanto basta per rigettare lo stesso motivo di ricorso, perché infondato.
Parimenti deve essere, tuttavia, rigettato - perché infondato - anche il secondo motivo di ricorso.
2.1. Con il secondo motivo di ricorso - denunciando violazione e falsa [applicazione di norme di diritto (art. 112 c.p.c.), nonché vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) - la Rete ferroviaria italiana (RFI) società per azioni (già Ferrovie dello stato Società di trasporti e servizi p. a.) censura la sentenza impugnata - per averla condannata al risarcimento integrale del danno alla salute subito dal lavoratore - sebbene il proprio comportamento ne fosse soltanto una concausa - secondo la stessa consulenza tecnica d'ufficio, peraltro acriticamente condivisa - e, perciò, il risarcimento dovesse, quantomeno, essere proporzionato al contributo causale del proprio comportamento.
Anche il secondo motivo di ricorso - come è stato anticipato - risulta infondato.
2.2. Anche in materia di responsabilità civile del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti - sia contrattuale, come nella specie (in tal senso, vedi, per tutte, Cass., sez. un., n. 6572 del 2006), sia extracontrattuale - trova applicazione la regola (di cui all'articolo 41 codice penale), secondo cui - essendo il rapporto causale, tra condotta ed evento, governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni - deve essere riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell'evento - anche in maniera (indiretta o remota e, comunque) concausale - salvo il temperamento (previsto dallo stesso articolo 41 codice penale, cit.) - in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore, da solo sufficiente a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni - con la conseguenza che - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 17959, 15107/2005, 5014/2004, 12377/2003) - l'efficienza causale della condotta del datore di lavoro è, da sola, sufficiente a radicarne la responsabilità civile - per l'intero danno, che ne consegua - nonostante il concorso di concause (fatto salvo, tuttavia, il ridimensionamento proporzionale del risarcimento, ai sensi dell'art. 1227 c.c., nel caso di concorso del fatto colposo del danneggiato).
La sentenza impugnata si uniforma al principio di diritto enunciato -laddove fonda, sulla efficienza concausale dell'inadempimento dell'obbligazione (di cui all'art. 2103 c.c., come sostituito dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, cit.), la responsabilità del datore di lavoro per l'intero danno che ne è conseguito - e non merita, quindi, le censure - che le vengono mosse con il secondo motivo di ricorso - neanche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
2.3. Lungi dal denunciare, specificamente, il punto ed il modo in cui la motivazione - che sorregge l'accertamento di fatto della sentenza impugnata - risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, la società ricorrente, infatti, sembra prospettare - inammissibilmente - un accertamento diverso.
Anche a volere prescindere dalle superiori considerazioni e conclusioni -peraltro assorbenti - l'accertamento di fatto - che la sentenza impugnata propone - non pare, tuttavia, inficiato da vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
Infatti la motivazione della sentenza - che ne sorregge l'accertamento sul punto - si articola nei passaggi essenziali seguenti:
-la consulenza tecnica (eseguita in primo grado) "afferma che il Vo. è affetto da sindrome ansioso-depressiva, da mettere in relazione causale con il patito demansionamento" ed ha accertato una "inabilità del 5-6%", oltre una incapacità temporanea assoluta (da limitare a 135 giorni) ed una incapacità temporanea parziale di 189 giorni;
-"la natura di "concausa" dell'illecito comportamento del datore di lavoro non comporta certo una diminuzione dell'entità del danno ad esso addebitabile, a meno che non vengano, dalla parte interessata, specificamente provate altre concause efficienti nella determinazione del danno, (e ciò) tanto più (ove si consideri) che lo stesso consulente tecnico d'ufficio afferma chiaramente che "il comportamento del datore di lavoro (...) ha concretizzato un danno biologico (...) pari al 5-6%".
La riferita motivazione in fatto, all'evidenza, non risulta inficiata - da obiettiva carenza o da logica contraddittorietà - e, pertanto, la sentenza impugnata - oltre a risultare coerente con i principi di diritto enunciati - non merita le censure - che le vengono mosse con il secondo motivo di ricorso - neanche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
Tanto basta per rigettare - come è stato anticipato - anche il secondo motivo di ricorso, perché infondato.
3. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Le spese di questo giudizio di cassazione seguono la soccombenza (art. 385, 1° comma, e 91 c.p.c.).
P.Q.M
La Corte rigetta il ricorso; Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di cassazione, che liquida in euro 11,00, oltre euro 2.000 (duemila) per onorario.
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Conforme, ma con opportuno distinguo nel caso in cui vi sia concorso di cause, in ragione di patologia preesistente (non già di mera fragilità genetica) e comportamento illecito datoriale, nel qual caso il datore è responsabile per il solo danno differenziale da aggravamento concausale:
Cass. 8 giugno 2007 n. 13400 - Pres. De Luca - Rel. Monaci - PM Matera (concl. conf.) - Arcangioli (avv. Nappi) c. Soc. Chef italia (avv. Trifirò, Beretta)

Danno alla salute- Lavoratore già affetto da patologie preesistenti - Concorso della condotta datoriale nella verificazione/aggravamento del danno - Effetti - Risarcibilità del danno differenziale.

In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento, e ne costituisca un antecedente causale, l'agente deve rispondere per l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato. Non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro, debbono essere addebitati all'agente, i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità dell'agente stesso per l'intero solo danno differenziale.

 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Ar. Pi., assunto come cuoco dalla società Ch. It. nel gennaio 1989, e destinato presso l'unità sita nell'aeroporto Galilei di Pisa, ha convenuto in giudizio la società lamentando una serie di comportamenti vessatori nei suoi confronti, consistiti principalmente nell'inflizione di dodici sanzioni disciplinari dall'agosto del 1991 al maggio del 1993, lamentando che tutto questo gli aveva provocato una grave patologia depressiva.
Il primo giudice accoglieva la domanda, e condannava la società al pagamento di lire 35.000.000 a titolo di risarcimento del danno biologico e del danno esistenziale, nonché al rimborso di quanto trattenuto in esecuzione delle sanzioni disciplinari irrogate e che erano considerate illegittime.
Con sentenza n. 229, in data 2 - 10 marzo 2004, la Corte d'Appello di Firenze, accoglieva parzialmente l'appello principale della società Ch. It. s.p.a., riducendo la condanna a carico di quest'ultima al pagamento all'Ar. di euro 4.750,00 per danni biologico, esistenziale e morale, nonché a corrispondergli l'importo delle sanzioni, detratto quanto corrispondeva a quelle ritenute legittime.
La sentenza riteneva, infatti, che le sanzioni fossero in gran parte ingiustificate, perché irrogate per colpe inesistenti, oppure di modestissimo rilevo, che ne fosse derivato una lesione della salute del ricorrente, e liquidava i danni equitativamente, in misura inferiore alle somme richieste dall'An..
2. Avverso la sentenza, che non risulta notificata, l' Ar. ha proposto ricorso per Cassazione, con sei motivi, notificato, in termine, il 28 ottobre 2004.
La società Ch. It. s.p.a. resisteva con controricorso notificato, in termine, il 3 dicembre 2004, e proponeva contestualmente ricorso incidentale, con due motivi.
Resisteva a sua volta l' Ar. con controricorso al ricorso incidentale, notificato, in termine, il 10 gennaio 2005.
Infine, il ricorrente principale, ha depositato una memoria difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente principale deduce la violazione e falsa applicazione dell'articolo 2087 c.c. nonché l'omessa, contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Critica la sentenza per avere ritenuto che non fosse stata proposta un'azione di mobbing, e precisa di avere sottolineato nel ricorso introduttivo l'intento persecutorio insito nel comportamento illegittimo della società.
2. Con il secondo motivo l' Ar. lamenta, invece, la violazione e falsa applicazione degli articoli 41 Cost., articoli 1223, 2087 c.c. articoli 40 e 41 c.p., e l'omessa, contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.
Lamenta che la Corte d'Appello avesse affermato l'assoluta irrilevanza delle condizioni fisiopsichiche del soggetto che aveva subito le vessazioni, ed avesse ritenuto che non tutta la percentuale del danno biologico stabilizzato fosse conseguenza diretta della pratica vessatoria.
3. Con il terzo, il quarto ed il quinto motivo il ricorrente principale deduce, sotto tre diversi profili, la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 1226 e 2087 c.c. (e per il solo quarto motivo, anche dell'articolo 41 Cost.), nonché l'omessa, contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.
In particolare, nel terzo motivo critica la sentenza per avere liquidato la quota di danno biologico nel valore di euro 550,00 a punto, per un totale di euro 2.750,00.
Secondo il ricorrente questa liquidazione era inadeguata, inferiore agli importi per punto liquidati in altre sedi giudiziarie.
Inoltre il giudice avrebbe dovuto motivare in maniera congrua sull'adeguamento della regola ponderale alle circostanze del caso concreto.
Nel quarto e nel quinario motivo il ricorrente critica la sentenza per avere liquidato in via equitativa, rispettivamente, il danno esistenziale ed il danno morale, e per avere ritenuto equo assegnare a questi fini le somme di euro 1.000,00 per ognuna delle due voci, respingendo le maggiori richieste del lavoratore.
Le motivazioni su questi punti erano carenti.
4. Con il sesto ed ultimo motivo, infine, l' Ar. deduce, sotto un profilo ulteriore, la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 1223 e 2087 c.c. nonché l'omessa, contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.
Lamenta che la sentenza gli abbia negato il risarcimento del danno patrimoniale subito per la cessazione del rapporto di lavoro, avendo ritenuto che queste pretese fossero coperte dalla transazione giudiziale nella quale lo stesso Ar. aveva espressamente rinunziato alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ed alle richieste economiche connesse. Il ricorrente sostiene che, invece, la propria domanda non si basava sull'illegittimità di licenziamento, ma sul comportamento vessatorio subito, che aveva avuto come conseguenza ultima, a seguito della malattia che ne era derivata, il licenziamento per superamento del periodi di comporto.
Precisa di avere contestato, nel precedente giudizio, il licenziamento per superamento del comporto, e di averne chiesto l'annullamento, e la reintegrazione nel posto di lavoro, senza entrare nel merito dei motivi che avevano causato le assenze per malattia.
La sua rinunzia copriva soltanto le domande alternative di reintegrazione o di indennità economica sostitutiva, mentre l'attuale pretesa risarcitoria prescindeva dall'illegittimità, o meno, del licenziamento irrogato.
5. Con il primo motivo del ricorso incidentale la società Ch. It. eccepisce la violazione e falsa applicazione degli articoli 116 c.p.c., articoli 2087 e 2697 c.c., nonché l'omessa, contraddittoria, e comunque insufficiente motivazione, sul punto della valutazione delle deposizioni testimoniali, con mancato riconoscimento del difetto di prova della responsabilità del datore di lavoro per la salute dei propri lavoratori.
Ricorda che l' articolo 2087 c.c. non configurava un caso di responsabilità oggettiva, che la responsabilità del datore di lavoro andava collegata alla violazione di precisi obblighi di comportamento, e che spettava al lavoratore dimostrare l'esistenza del danno ed il nesso di causalità. Sostiene anche che tutte le sanzioni disciplinari irrogate all'Ar. erano state precedute da contestazioni immediate e specifiche e non erano state impugnate tempestivamente dall'interessato, e critica in dettaglio la lettura data alla sentenza alle risultanze testimoniali.
6. Con il secondo motivo la società deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 2043 c.c. e articolo 116 c.p.c. nonché l'omessa, contraddittoria, e comunque insufficiente motivazione, sul punto dell'accertamento del nesso di causalità e della valutazione delle risultanze della CTU.
L'esistenza del nesso tra i comportamenti persecutori da parte del datore di lavoro ed il pregiudizio alla propria salute doveva essere provato dal lavoratore che ne era stato vittima.
Nel caso, inoltre, di malattie ad eziologia multifattoriale il nesso causale non poteva essere oggetto di presunzioni, ma doveva essere oggetto di dimostrazione specifica.
Secondo la ricorrente incidentale in questo caso la consulenza tecnica non aveva dimostrato l'esistenza del nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e lo stato depressivo del ricorrente.
7. Preliminarmente i due ricorsi, quello principale, e quello incidentale, proposti contro la medesima pronunzia, debbono essere riuniti obbligatoriamente ai sensi dell'articolo 335 c.p.c..
8. Il primo motivo del ricorso principale é inammissibile per difetto di interesse.
Il ricorrente si limita a proporre argomentazioni tecniche, relative alla qualificazione (come mobbing) dell'azione proposta, che di per se stesse non sono funzionali ad una modifica della decisione.
9. Il secondo motivo del ricorso principale si risolve in parte nella richiesta di rivalutazione di circostanze di fatto.
Il ricorrente lamenta, infatti, che la Corte d'Appello abbia ritenuto che "già prima dei fatti di cui é causa il sig. Ar. fosse affetto da una "patologia depressiva" che avrebbe notevolmente inciso sul danno biologico patito dal lavoratore", che "vi fosse una patologia pregressa così seria da produrre, comunque e prescindere da quanto poi verificatosi sul luogo di lavoro, gran parte del danno biologico accertato (p. 15 del ricorso).
Queste contestazioni, però, attengono al piano del fatto, non a quello del diritto.
La rivalutazione delle circostanze di fatto così richiesta é però inammissibile in questa sede di legittimità.
Né sussistono le contraddizioni lamentate dal ricorrente, ma, al contrario, la motivazione della sentenza, lunga e dettagliata, é completa, attenta al riscontro delle circostanze di fatto, coerente nei passaggi attraverso i quali, partendo da quelle circostanze di fatto (ed in particolare dalle risultanze degli accertamenti peritali), é giunta fino alla decisione adottata.
10. Sotto un diverso profilo il motivo propone una problematica di diritto.
Il ricorrente ha chiesto il risarcimento dell'intero danno subito.
Nel caso di specie la sentenza di merito ha ritenuto che il deterioramento delle condizioni di salute del signor Ar., che é manifestato nelle varie voci di danno di cui l'interessato ha chiesto il risarcimento, fosse l'effetto complessivo di una molteplicità di fattori, vale a dire del comportamento datoriale di carattere vessatorio e di eventi naturali, inerenti alla salute del soggetto, ma preesistenti alla condotta del datore di lavoro, o, comunque, estranei ad essa.
Si pone perciò il problema del rapporto di causalità e quello del concorso di cause.
A questi fini deve essere applicato il principio generale di causalità, criterio logico assunto dall'ordinamento a principio di diritto positivo di validità generale, anche nell'ambito del diritto civile, ma, innanzi tutto, in quello del diritto penale, in cui trova la sua disciplina positiva sul piano generale agli articoli 40 e 41 c.p..
Per quanto qui interessa l'articolo 40 prevede che nessuno sia responsabile per un fatto se l'evento dannoso "non é conseguenza della sua azione od omissione. "L'articolo 41 disciplina il concorso di cause, e dispone, sempre per quanto qui interessa, che "il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento.".
Per fondare la responsabilità é necessario, perciò, che la condotta, dolosa o colposa, attiva od omissiva, dell'agente abbia avuto efficienza causale, anche soltanto a livello di concausa, nella produzione dell'evento dannoso, che quest'ultimo si sia verificato a causa della condotta (anche se non necessariamente soltanto a causa di essa), e correlativamente, che quell'evento non si sarebbe verificato se quella condotta non fosse stata posta in essere. Come sottolineato, infatti, da questa Corte, "un evento dannoso é da considerarsi causato sotto il profilo materiale da un altro, se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della conditio sine qua non) " (Cass. civ., 31 maggio 2005, n. 11609; nello stesso senso, 19 luglio 2005, n. 15183; 10 maggio 2000, n. 5962).
Quando la sua condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento l'agente deve rispondere per l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato.
Agli effetti civili nei confronti del danneggiato non può invocare l'esistenza di altre cause per ottenere una riduzione proporzione del risarcimento dovuto.
Può farlo invece, in caso di una pluralità di soggetti agenti, agli effetti interni, nella ripartizione della somma dovuta tra i vari responsabili, che però sono tenuti tutti solidalmente nei confronti del danneggiato.
Non può sussistere, invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che si sarebbero verificati anche senza di essa.
Di conseguenza non può essere addebitato all'agente quel danno che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dalla condotta, e, a maggior ragione, quello che era preesistente.
Deve essergli addebitato, invece, il maggior danno, oppure l'aggravamento, che sia intervenuto per effetto della condotta dell'agente, che non si sarebbero verificati senza di essa. In tal caso, però, l'agente sarà responsabile soltanto di questo maggior danno, della differenza tra il danno che si sarebbe verificato in ogni caso, oppure che era preesistente, e quello che invece é stato raggiunto una volta che su quanto preesistente, o comunque estraneo alla condotta di quel soggetto (perché imputabile ad altri soggetti o dovuto a cause naturali non addebitagli all'uomo), si sono innestate, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, le conseguenze della condotta.
Per la quota differenziale di danno, d'altra parte, all'interno di essa, l'agente non potrà avvalersi della possibile sussistenza di concause, ma sarà responsabilità per intero, indipendentemente dalla sua misura percentuale di colpa.
In questi casi é necessario, perciò, distinguere tra il danno indipendente dalla condotta, ed il maggior danno, o l'aggravamento, che siano imputabili alla condotta dell'agente.
11. Il ricorrente invoca espressamente in proprio favore un precedente da questa Corte che ha affermato che "in materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale, ' qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile é responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità; in tal caso, infatti, non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile." Cass. civ., 9 aprile 2003, n. 5539).
L' Ar. fa leva sulla seconda parte della massima, e ritiene che nel suo caso non possa operarsi una riduzione proporzionale della responsabilità del datore in relazione alla sussistenza di altre concause di carattere naturale. In realtà il principio di diritto espresso dalla massima ha carattere unitario, e le varie proposizioni che ne fanno parte non possono essere lette separatamente: é stata affermata la responsabilità dell'agente per gli eventi provocati dalla sua condotta, che trovano in essa un antecedente causale, ma anche la sua assenza di responsabilità per gli eventi alla cui causazione la sua condotta é rimasta estranea, che non trovano in essa un antecedente causale,
12. Come risulta dalla lettura di quella motivazione, nella fattispecie esaminata da questa Corte nella sentenza, sopra menzionata, n. 5539/2003 (come pure in quelle esaminate dalle sentenze n. 5924 del 27 maggio 1995, e n. 981 del primo febbraio 1991, pure richiamate dal ricorrente come precedenti, e relative peraltro, entrambe, a danni subiti da immobili per effetto di eventi franosi) la condotta dell'agente aveva concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento.
Le cause naturali costituivano delle cause concorrenti nel senso proprio che l'evento non si sarebbe verificato senza di esse, ma non si sarebbe verificato neppure senza la condotta dell'agente.
Questa evenienza non corrisponde, però, a quanto si era verificato nella fattispecie che é oggetto di questa causa.
13. Nel caso di specie, il giudice del merito ha accertato, motivando adeguatamente su questo punto anche sulla base degli accertamenti peritali, che, di per se stesso, il danno psicofisico dell'Ar. era preesistente, e comunque indipendente dalla condotta del datore.
Infatti, lo stato di salute dell'Ar. ha subito nel corso degli anni un grave peggioramento progressivo, perché era affetto da "una grave forma di depressione affettiva con spiccata componente ansiosa, parzialmente somatizzata a livello cardiaco e caratterizzata da totale assenza di autostima" (p. 13 della sentenza), ed il comportamento vessatorio del datore di lavoro (che pure é stato riconosciuto, e ritenuto non privo di effetti dannosi) é sopravvenuto in una situazione già compromessa, innestandosi non soltanto su un tessuto già fragile e predisposto, ma anche "su una patologia depressiva sicuramente già incidente e responsabile di buona parte del successivo notevole aggravamento dello stato del soggetto" (pp. 13 e 14 della sentenza).
Ciò significa che - come appunto ha ritenuto in fatto la sentenza impugnata - il danno era preesistente, e si é sviluppato naturalmente generando per forza propria ulteriori contraccolpi pregiudizievoli, che - proprio perché conseguenza di patologia già in atto - si sarebbero verificati in ogni caso indipendentemente dalla condotta del datore. Quest'ultima, anche nel concorso delle altre circostanze, ha generato soltanto un aggravamento ulteriore, una quota addizionale di danno, che poteva essere addebitata, soltanto essa, al datore di lavoro.
Di conseguenza, il datore era tenuto al risarcimento soltanto di questo danno aggiuntivo, non dell'intero.
14. Il giudice del merito ha provveduto alla liquidazione di questo maggior danno imputabile al datore, e, in mancanza di parametri certi, lo ha fatto in via equitativa.
L'entità di questa liquidazione costituisce una questione di mero fatto, che, per sua natura, non può essere riesaminato nel giudizio di legittimità.
Per queste considerazioni il secondo motivo del ricorso principale risulta infondato sotto tutti i diversi profili.
15. Sono infondati, a loro volta, anche i successivi motivi del ricorso principale, il terzo, il quarto, ed il quinto.
Si tratta di motivi che sono connessi tra loro e possono essere esaminati congiuntamente.
Ripropongono tutti questioni di fatto, relative alla valutazione e alla misura della liquidazione delle singole voci di danno, relative, rispettivamente, al danno biologico (nel terzo motivo), al danno esistenziale (nel quarto motivo), ed al danno morale (nel quinto motivo).
Anche queste sono tutte questioni di liquidazioni, e perciò di mero fatto, che per la loro stessa natura non possono essere riesaminati in questa fase di mera legittimità.
In sostanza il ricorrente richiede, sotto tutti questi profili, una rivalutazione delle circostanze di fatto, ma questo non é ammissibile.
Sul piano logico, come pure sotto il profilo giuridico, non é significativo che, in fattispecie che possono essere molto diverse, altri giudici del merito abbiano liquidato somme differenti, più elevate (oppure meno elevate).
Né va dimenticato che é risultato addebitabile al datore non l'intero danno, ma soltanto una quota di maggior danno, di aggravamento successivo e non dipendente in via esclusiva dai fattori causali preesistenti.
Il risarcimento non poteva che essere limitato a questo danno differenziale, e la condanna a carico della società Ch. It. s.p.a., non poteva che essere determinata in misura corrispondente.
In concreto il giudice del merito ha valutato che questa quota di maggiore danno da addebitare al datore fosse relativamente ridotta, e per questo ha riconosciuto per le varie voci di danno somme di gran lunga inferiori a quelle che erano state richieste dall'interessato.
16. é infondato, infine, il sesto ed ultimo motivo di impugnazione, con il quale il ricorrente principale lamenta che gli sia stata negata la liquidazione del danno subito per la cessazione del rapporto lavorativo.
Come giustamente rilevato dalla Corte d'Appello di Firenze le pretese economiche conseguenti alla cessazione del rapporto di lavoro erano "coperte", infatti, da una transazione giudiziale sottoscritta 16 febbraio 1994, nella quale Ar. Pi. Lu. aveva espressamente rinunziato alla domanda di reintegrazione nel posto nel posto di lavoro ed "quelle economiche connesse", formula questa nella quale - come sottolinea la sentenza della Corte d'Appello di Firenze - "non possono che n'entrare tutte le tipologie di danni diretti ed indiretti derivanti dall'asseritamele illegittimo provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro.".
Secondo il ricorrente la rinunzia dell'Ar. avrebbe per oggetto esclusivamente le domande alternative di reintegrazione oppure di indennità sostitutiva ai sensi dell'articolo 18.
L'allegazione però é smentita dalla formula testuale utilizzata nel verbale di conciliazione, e dalla logica stessa della conciliazione che la funzione di definire in maniera irrevocabile i diritti ed i doveri delle parti, ponendo termine, in via transattiva, alle controversie in corso, e prevenendo quelle future, che siano comunque relative all'oggetto del contrasto, nel caso di specie alla legittimità, o meno, del licenziamento intimato dalla società Ch. It. al signor Ar. ed alle conseguenze di essa.
Né il ricorrente allega che la propria rinunzia conteneva limitazioni o riserve.
Anche ammettendo, in via di ipotesi, che il licenziamento avesse comportato ulteriori danni suscettibili di risarcimento, oltre all'indennità sostitutiva delle retribuzioni non percepite, anche essi sarebbero stati ricompresi nell'oggetto della conciliazione e nelle rinunzie che essa ha comportato.
17. A titolo di risarcimento della specifica voce di danno relativa alla cessazione del rapporto di lavoro non potevano essere riconosciute, però, ulteriori poste oltre all'indennità sostitutiva.
La normativa prevede espressamente, alla Legge 20 maggio 1970, n. 300 articolo 18 per il caso di illegittimità del licenziamento, che sia stato dichiarato inefficace, oppure annullato, oppure dichiarato nullo, la condanna del datore di lavoro non soltanto alla reintegrazione del dipendente licenziato nel posto di lavoro (al primo comma), ma anche al risarcimento del danno subito da quest'ultimo, determinandolo (al comma 4) in "un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dai giorno dei licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione", e comunque non inferiore a cinque mensilità di essa, nonché nel versamento dei contributi previdenziali per il medesimo periodo.
Qualora la Legge n. 300, articolo 18, non sia applicabile (a causa dei limiti dimensionali dell'impresa) l'indennità é più ridotta, nelle misure indicate dalla Legge 15 luglio 1996, n. 604, articolo 8, come sostituito dalla Legge 11 maggio 1990, n. 108 articolo 2.
In queste norme il legislatore ha predeterminato il risarcimento dovuto per l'illegittimità del licenziamento.
18. Né possono essere confusi con la voce di danno riferita alla cessazione del rapporto di lavoro i danni da risarcire, eventualmente, per un titolo diverso, e risarciti in concreto, nella misura in cui sono stati riconosciuti, ad altro titolo, vale a dire per i titoli dedotti nei motivi precedenti del medesimo ricorso principale.
Il ricorrente argomenta anche che la perdita del posto di lavoro, a seguito del licenziamento irrogatogli per superamento del comporto per malattia, era una conseguenza della patologia da cui era affetto, e che questa era a sua volta una conseguenza comportamento vessatorio subito.
In questo senso la perdita del posto di lavoro sarebbe stata una conseguenza mediata ed indiretta dello stesso comportamento vessatorio.
Questo profilo di censura é inammissibile, oltre che non fondato, perché presuppone anch'esso una rivalutazione delle circostanze di fatto che non é più consentita in un giudizio di legittimità.
La sentenza ha ritenuto, infatti, a pag. 20, che l'illegittimo esercizio del potere disciplinare avesse già trovato il suo idoneo integrale risarcimento secondo criteri congrui, sottolineando anche che il collegamento tra questo esercizio illegittimo di potere ed il licenziamento per superamento del periodo di comporto, pur astrattamente configurabile, non era neppure stato dedotto in sede di impugnativa del recesso datoriale.
La circostanza, peraltro, non trova riscontro nell'accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata; il fatto che quel collegamento fosse astrattamente configurabile non significa che sussistesse effettivamente.
19. E' infondato, a sua volta, anche il ricorso incidentale della società Ch. It. s.p.a..
I due motivi sono inammissibili.
Entrambi, relativi il primo alla valutazione delle prove sulla sussistenza del carattere vessatorio del comportamento datoriale, ed il secondo all'esistenza di un nesso di causalità tra il comportamento datoriale ed il pregiudizio subito dal lavoratore, ripropongono, infatti, questioni di fatto non più suscettibili di riesame in questa fase di legittimità.
Come la maggior parte dei motivi del ricorso principale anche i due motivi del ricorso incidentale si risolvono nella richiesta, non ammissibile, di rivalutazione delle circostanze di fatto.
Su entrambi i punti, del resto, la motivazione della Corte d'Appello di Firenze appare completa ed adeguata.
20. In conclusione, i due ricorsi, quello principale e quello incidentale, debbono essere entrambi rigettati.
Stante la reciproca soccombenza sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese di giudizio.
21. Con riferimento specifico al secondo motivo del ricorso principale, deve essere affermato il seguente principio di diritto:
In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento, e ne costituisca un antecedente causale, l'agente deve rispondere per l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato. Non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro, debbono essere addebitati all'agente, i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità dell'agente stesso per l'intero danno differenziale.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese.
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Sul tema vedi anche: Fattori congeniti predisponenti a patologie non esonerano da responsabilità chi lede il diritto alla salute , nonché Stress lavorativo, nesso causale, concause e c.t.u. in appello, ed altresì M.Meucci, Irriducibilità del danno biologico per concause naturali preesistenti.


 

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