Responsabilità integrale aziendale per danni alla salute del
lavoratore
1. Premessa
La stampa del 24 aprile 2003 ha dato ampio risalto – tramite
sintesi giornalistiche – ad un presunto nuovo principio della Cassazione che ha
ritenuto errato un riparto di responsabilità tra datore di lavoro danneggiante
e dipendente danneggiato da illecito datoriale (demansionamento sfociato in
depressione), in ragione di un 50% per ciascuno, in presenza di una riscontrata
(tramite CTU) predisposizione genetica del danneggiato, suscettibile secondo i
giudici di merito di sottrarre il datore di lavoro colpevole di
demansionamento e licenziamento illegittimo ad un 50% di responsabilità.
I giornalisti – non dotati, per estraneità alla materia giuridica,
di “memoria storica” – si sono sbracciati nell’affermare l’assoluta novità
della statuizione effettuata dalla Cassazione, sez. lav. 9 aprile 2003 n. 5539,
la quale ha negato legittimità all’operazione di riparto di responsabilità,
statuendo che il comportamento illegittimo del datore di lavoro determina l’integrale
responsabilità al 100% (e non una graduazione percentuale della stessa) ai
fini del risarcimento del danno biologico indotto, a prescindere dalla presenza
di cd. “antecedenti genetici” o “predisponenti” del danneggiato.
Le conclusioni giornalistiche si rivelano assolutamente inesatte o
quantomeno superficiali. L’introduzione in campo giuslavoristico di un
principio consolidato in ambito civilistico, risalgono per lo meno al 1999,
allorché la Cassazione nella sentenza 5 novembre 1999 n. 12339 (Pres.Delli
Priscoli, est.Mercurio) – di cui si riporta la massima al punto 3 del
presente scritto - affermò in ambito giuslavoristico l’assoluta incomparabilità
(per intrinseca disomogeneità) tra comportamenti umani colpevoli e situazioni
genetiche strutturali incolpevoli, con la conseguenza che il comportamento
umano colpevole ed illegittimo (anche in tale fattispecie consistito in
demansionamento e forzata inattività) e determinativo di “infarto
miocardico” doveva essere considerato integralmente responsabile
dell’evento afflittivo, a prescindere dalla presenza di una situazione
psicofisica del danneggiato caratterizzata da una “aterosclerosi coronarica”.
2. La
notizia giornalistica
Riportiamo la notizia data ai lettori, a seguito della sopracitata
sentenza n. 5539 del 9 aprile 2003, da
un articolo comparso su “Il Sole-24 Ore” del 24 marzo 2003, n. 112, p.
25 e ss. a firma Beatrice Dalia, titolato:«Pieno risarcimento ai dipendenti
vittime del “danno biologico”».
«Risarcimento pieno al dipendente depresso un pò per il lavoro, un
pò di suo. Se alla condizione di avvilimento dell'individuo contribuiscono
anche i motivi di lavoro, l'imprenditore è tenuto ad accollarsi per intero il
danno biologico patito dal dipendente.
La vicenda. I giudici di piazza Cavour hanno
condannato una società di spedizioni a pagare 180 mila euro a un dipendente
caduto in una grave crisi depressiva per essere stato prima dequalificato e poi
messo alla porta. Lo svolgimento di mansioni al di sotto della sua competenza
lo aveva portato a una pesantissima cura farmacologica e, durante lo stato di
malattia, si era visto licenziare.
Il Tribunale non se
l'era sentita dì attribuire tutta la responsabilità all'imprenditore, visto che
la consulenza tecnica aveva evidenziato una certa predisposizione del soggetto,
affetto da una sindrome ansiosa e da obesità. Alla fine è risultato che il
danno alla salute, corrispondente a un 50% di invalidità, poteva essere
imputato solo per metà a cause lavorative. Quindi, ad avviso dei giudici dì
merito, il datore di lavoro doveva risarcire solamente
il 50% di quel danno.
Il ragionamento della
Corte. La «condivisione»
della responsabilità tra dipendente e datore di lavoro, però, non è piaciuta ai
giudici di piazza Cavour che hanno richiamato il principio fondamentale in tema
di responsabilità civile, ricavabili dagli articoli 40 e 41 del Codice penale.
In pratica, quando il danno - vuoi per condizioni ambientali oppure per fattori
naturali - avviene indipendentemente dal comportamento «imputabile all'uomo»,
l'autore dell'azione o dell'omissione resta sollevato per intero da ogni colpa
nell'evento; se, invece, quelle condizioni oggettive non possono dar luogo,
senza l'apporto umano, al danno, l'autore del comportamento è interamente
responsabile di tutte le conseguenze che derivano dall'evento lesivo.
Trasportando questi principi al diritto del lavoro, il risultato è un
«raddoppio» degli obblighi di tutela per il datore. E ogni perplessità sulla
validità di simili ragionamenti in materia
giuslavoristica, a parere della Cassazione, «è destinata a disvelare la propria
inconsistenza solo che si considerino gli obblighi a tutela della salute dei
propri dipendenti facenti capo all'imprenditore e solo che si tenga conto della
ormai acquisita consapevolezza della possibilità di pregiudizievoli ricadute
sulla salute dei lavoratori, specialmente se non dotati di piena integrità
psico-fisica, scaturenti da illegittimi provvedimenti datoriali di
demansionamento o recesso dal rapporto di lavoro».
2.
La (presunta e nuova, n.d.r.) estensione
II principio di diritto civile che la Cassazione ha esteso
all'ambito lavoristico- sempre secondo il predetto quotidiano – sarebbe il
seguente:
«Solo nel caso in
cui sia stata accertata l'effettiva operatività del nesso causale tra
comportamento imputabile al danneggiante e pregiudizio arrecato rimane esclusa
ogni possibilità di graduare in termini percentuali la responsabilità
dell'autore della condotta colposa, essendo quest'ultimo responsabile per
l'intero dei danni cagionati (...). Anche in presenza del fatto non colposo del
danneggiato, prevale l'esigenza che il danneggiato sia integralmente risarcito
del danno che egli non avrebbe comunque subito senza l'inadempimento o
l'illecito (...). II danneggiato che danneggia o concorre a danneggiare se
stesso non compie alcun illecito e non può essere sanzionato alla stregua
dell'autore del danno ingiusto. Nessuna incertezza può permanere
sull'applicabilità dei suddetti principi in materia giuslavoristica».
3. Il significativo precedente: Cass. n. 12339/1999
Il precedente (ignorato dai giornalisti) – come facevamo presente
innanzi al punto 1 – è costituito da Cass. sez. lav., 5 novembre 1999, n. 12339 - Pres. Delli Priscoli -
Rel. Mercurio -P.M. Mele - Ric. Rasile - Res. Ansaldo Spa (integralmente in Guida al lavoro 2000, 11, 22 con nota di
Ricci, ivi 28 e in Meucci, Danni da Mobbing e loro risarcibilità,
Ediesse, Roma 2002, Appendice, p. 515 e ss.) di cui riferiamo per necessaria
brevità la massima :
«Rapporto di lavoro - Dirigente
- Demansionamento e forzata inattività - Infarto - Danno biologico -
Risarcibilità - Concausa naturale non imputabile - Irrilevanza.
Il dirigente che, a seguito di demansionamento e forzata
inattività, subisca uno stress psicofisico con conseguente infarto, ha diritto
al risarcimento del danno biologico, nell'intera misura quantificata; né, a
circoscrivere la responsabilità datoriale, rileva l'esistenza di una concausa
naturale antecedente (aterosclerosi coronaria genetica), in quanto una comparazione
del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra
una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana
imputabile e una concausa naturale non imputabile».
4. Le
considerazioni a suo tempo sviluppate
Da parte
nostra (nel volume “Danni da mobbing e loro risarcibilità”, Ediesse, Roma 2002, p. 119 e ss.), si ebbe
occasione ed accortezza di evidenziare la significatività dell’affermazione
effettuata nella soprariportata sentenza del 1999, al punto 5 del Cap. III del
libro, punto così titolato: «Nesso di causalità, prova, quantificazione e
irriducibilità del danno biologico per concause naturali preesistenti ».
E lo facemmo con queste considerazioni ed argomentazioni:
(omissis)
«Importante
è evidenziare come il fatto illecito datoriale (demansionamento e forzata
inattività, superlavoro, e simili) che determini danno biologico, assume
efficacia esclusiva nell’ induzione del danno alla salute, anche in presenza di
concause naturali genetiche. Sul punto la Cassazione sezione lavoro – nella
sentenza 5 novembre 1999, n. 12339 (1) – ha recepito il consolidato
orientamento in sede civile e penale ed ha affermato che la quantificazione del
danno biologico ascrivibile all’illecito datoriale non subisce “riduzioni proporzionali”
ad opera di concause naturali preesistenti (nel caso dell’infartuato da
demansionamento consistente in riscontrata aterosclerosi coronaria congenita)
ma deve essere in toto (al 100%) imputata all’inadempimento o fatto ingiusto
datoriale, in considerazione del fatto che «a circoscrivere la responsabilità
datoriale non rileva una concausa naturale antecedente, in quanto una
comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi
soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una
causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile. (Cass. 1
febbraio 1991, n. 981; Cass. 27 maggio 1995, n. 5924)». Nel caso di specie ha
cassato la sentenza del Tribunale che, in ragione della valutazione in proporzione
di un terzo della concausa naturale, aveva condannato l’azienda ad un danno
biologico in ragione dei due terzi residui, affermando che su di essa invece
incombeva la liquidazione del danno al 100%. La rilevanza della sentenza in
esame sta nell’aver importato in ambiente giuslavoristico il principio della
relatività dell’efficienza causale dei c.d fattori naturali, ben noto alla
giurisprudenza civile e penale. In linea di principio la giurisprudenza civile
non esclude che una pluralità di fatti, di per sé imputabili a più persone,
svolgano un’efficacia causativa del danno, fermo restando che uno solo di essi
può assurgere al rango di causa efficiente esclusiva, qualora,
inserendosi nella serie causale quale causa sopravvenuta, spezzi il nesso eziologico
tra l’evento dannoso e gli altri fatti ovvero releghi effettivamente le altre
cause in posizione di «occasioni estranee» (cfr. Cass. 19 settembre 1996 n.
8348; Cass. 11 febbraio 1988, n. 1473).
Questo
principio, definito della equivalenza delle condizioni, è stato di recente
ritenuto dalla giurisprudenza applicabile in materia di infortuni sul lavoro e
le malattie professionali (cfr. Cass. 5 febbraio 1998, n. 1196).
La Cassazione,
pronunziandosi in materia di responsabilità civile, ha ripetutamente affermato
un secondo principio: il confronto fra cause concorrenti, allo scopo di
valutarne il diverso grado di incidenza eziologia, può essere operato solamente
tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli ma non già fra una causa
umana imputabile e una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass. 27 maggio
1995 n. 5924; Cass. 1 febbraio 1991, n. 981). La sentenza n. 12339 del 1999 fa
applicazione di tale enunciato, per la prima volta a quanto consta, in una
fattispecie di rapporto di lavoro, con effetti tanto rilevanti quanto
condivisibili ai fini del giudicato: la Corte esclude, infatti, la rilevanza
causale della situazione congenita del lavoratore, addossando per intero
all’azienda la responsabilità (e la relativa quantificazione) del danno biologico
prodotto a quest’ultimo dalla patologia cardiaca».
5. Inesitente innovatività di Cass. n. 5539/2003
Acquisita la sentenza
n. 5539 del 9 aprile 2003 - Pres. Senese, rel. Vidiri,
P.M. Napoletano (concl. conf) in causa Monteleone c.
SDA Express Courier -, lettone il contenuto, i principi di diritto da essa statuiti sono i seguenti:
«
Responsabilità civile - Risarcimento del danno -Causalità (nesso di) -
Condizioni ambientali e fattori naturali - Sufficienza nella causazione del
danno - Responsabilità dell'agente - Esclusione - Fondamento - Concorso tra una
causa naturale e una causa umana imputabile - Graduazione della colpa -
Esclusione - Fondamento - Fattispecie in materia di responsabilità per danno
biologico.
In materia di rapporto di causalità della responsabilità
extracontrattuale, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.
p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che
caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile
dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno
indipendentemente dal comportamento medesimo,
l'autore dell'azione o della omissione resta
sollevato per intero da ogni responsabilità dell'evento,
non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di
efficienza causale; qualora invece quelle condizioni non possano dar luogo,
senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del
comportamento imputabile è responsabile
per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo
normalità, atteso che in tal caso non può operarsi una riduzione
proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una
comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può
instaurarsi soltanto tra una pluralità
di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa imputabile ed
una concausa naturale non imputabile.
Nessuna
incertezza può permanere sull'applicabilità dei suddetti principi in materia
giuslavoristica nella quale ogni pure infondata riserva sulla loro validità
è destinata a disvelare la propria inconsistenza solo che si considerino gli
obblighi a tutela della salute dei propri dipendenti facenti capo
sull'imprenditore - di cui è significativa espressione il disposto dell'ari.
2087 c.c. - e solo che si tenga anche conto della ormai acquisita generale
consapevolezza della possibilità di pregiudizievoli ricadute sulla salute
dei lavoratori, specialmente se non dotati di piena integrità psico-fisica,
scaturenti da illegittimi provvedimenti datoriali di demansionamento o di
recesso dal rapporto lavorativo.(Nella
specie la S.C. ha cassato, senza rinvio e quantificando a carico
dell’azienda il danno al 100%, la sentenza d'appello che - avendo accertato
che gli illegittimi provvedimenti del datore di lavoro erano
responsabili, sul piano eziologico, del 50% del danno
biologico, per sindrome ansioso depressiva, riscontrato nel lavoratore
essendo esso ascrivibile per
l'altro 50% ad una predisposizione fisica e a infermità pregresse -
aveva posto a carico del datore di lavoro non la totalità dei danni subiti
dal lavoratore, bensì solo il 50% di essi)».
6. Conclusioni
Concludendo le considerazioni ed i principi di Cass. sez. lav. 9
aprile 2003 n. 5539 non hanno affatto una carica innovativa (quasi “eversiva”)
ma si pongono in una linea di continuità e di coerenza con l’orientamento
inaugurato in ambito giuslavoristico da Cass. 5 novembre 1999 n. 12339 (di cui
l’estensore ha singolarmente omesso di
menzionare la significatività e che meritava di essere diligentemente e
correttamente segnalata).
Roma, 23 maggio 2003
Mario Meucci
Conf.
successivamente alle due precedenti: Cass. 22.8.2003 n. 12377, Cass. 11.3.2004
n. 5014, Cass. 18.7.2005 n. 15107, Cass. 9.9.2005 n. 17959, Cass. sez.lav. 26 luglio 2006 n. 17022 (est. De Luca),
in Riv. crit. dir. lav. 4/2006, 1117 (nt. M.Orlando, Danno da
demansionamento in presenza di concause: al dipendente spetta il risarcimento
integrale) - che sotto si riporta - nonché Cass. 8 giugno 2007 n. 13400 (in
Not. giurisp. lav. 2007, 549)
Cass. 26 luglio 2006 n. 17022 -
Pres. e est. De Luca -
Rete
Ferroviaria Italiana SpA c. An. Vo.
Il datore di
lavoro che, con un illegittimo demansionamento, abbia leso la salute del
dipendente, è tenuto all’integrale risarcimento del danno subito dal lavoratore
– Anche in presenza di concause -
L'equivalenza tra le nuove
mansioni e quelle precedenti - che legittima l'esercizio dello ius variandi del
datore di lavoro, a norma dell'art. 2103 c.c. - deve essere intesa non solo come
identità professionale e di inquadramento contrattuale, ma anche come attitudine
delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o l'arricchimento
del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del
rapporto (vedine per tutte: Su n. 3455/87, n. 6871/87, n.2896/91, n. 12088/91,
n. 3623/95, n. 10405/95, n. 12121/95, n. 6124/97, n. 2428/99, n. 2649/04, n.
14666/04 della sezione lavoro); in assenza di tali requisiti il mutamento di
mansioni è illegittimo essendo irrilevante che detto mutamento - quand'anche
contestuale ad un trasferimento - sia determinato da ragioni tecniche,
organizzative e produttive.
Il datore
di lavoro che, con un illegittimo demansionamento, abbia leso la salute del
dipendente, è tenuto all’integrale risarcimento del danno subito dal lavoratore.
Non vale ad escludere o ad attenuare la responsabilità aziendale il fatto che la
malattia derivata dal licenziamento (nel caso sindrome ansioso-depressiva) sia
stata prodotta anche da altre cause.
Anche in materia di
responsabilità civile del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti
(sia contrattuale, come nella specie, sia extracontrattuale) trova applicazione
la regola (di cui all’articolo 41 codice penale), secondo cui – essendo il
rapporto causale, tra condotta ed evento, governato dal principio
dell’equivalenza delle condizioni – deve essere riconosciuta efficienza causale
ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento, anche in
maniera (indiretta o remota e, comunque) concausale, salvo il temperamento
(previsto dallo stesso articolo 41 codice penale, cit.) – in forza del quale il
nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore, da solo
sufficiente a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a
semplici occasioni. Ne consegue che l’efficienza causale della condotta del
datore di lavoro è, da sola, sufficiente a radicarne la responsabilità civile
per l’intero danno che ne consegua, nonostante il concorso di concause (fatto
salvo, tuttavia, il ridimensionamento proporzionale del risarcimento, ai sensi
dell’art. 1227 cod. civ., nel caso di concorso del fatto colposo del danneggiato)
Svolgimento del processo.
-
Con la sentenza ora denunciata, la Corte d'appello di
Cosenza confermava la sentenza del Pretore della stessa sede, che aveva
accolto la domanda proposta da An.Vo. contro Ferrovie dello stato Società di
trasporti e servizi p. a., della quale era stato dipendente, per ottenere il
risarcimento del danno biologico e patrimoniale (pari alla differenza tra
retribuzione spettante e trattamento percepito a seguito del pensionamento
anticipato) - subito in dipendenza della forzata inattività, per la mancata
adibizione a qualsiasi mansione, e dello stato di grave depressione, che ne
è conseguito - essenzialmente in base ai rilievi seguenti:
-
- il Vo., segretario tecnico di prima classe (qualifica di
natura amministrativa), è stato trasferito da Pa. a c., "nelle diverse
mansioni di aggiunto nel reparto esercizio impianti di sicurezza" (mansioni
tecniche) ed è rimasto "del tutto inattivo" - come risulta dalle prove
testimoniali e documentali - "non per scelta del lavoratore, ma per il
semplice fatto che egli, ricoprendo una qualifica di natura amministrativa,
non poteva svolgere mansioni tecniche";
-
- la inattività non può essere addebitata, poi, ad
"imperizia" del lavoratore - attesa l'adibizione dello stesso a mansioni per
le quali non era preparato - e, peraltro, la riorganizzazione aziendale può
giustificare il trasferimento, ma non il demansionamento del lavoratore;
-
- la consulenza tecnica (eseguita in primo grado) "afferma
che il Vo. è affetto da sindrome ansioso-depressiva, da mettere in relazione
causale con il patito demansionamento" ed ha accertato una "inabilità del
5-6%", oltre una incapacità temporanea assoluta (da limitare a 135 giorni)
ed una incapacità temporanea parziale di 189 giorni;
-
- "la natura di "concausa" dell'illecito comportamento del
datore di lavoro non comporta certo una diminuzione dell'entità del danno ad
esso addebitabile, a meno che non vengano, dalla parte interessata,
specificamente provate altre concause efficienti nella determinazione del
danno, (e ciò) tanto più (ove si consideri) che lo stesso consulente tecnico
d'ufficio afferma chiaramente che "il comportamento del datore di lavoro
(...) ha concretizzato un danno biologico (...) pari al 5-6%"";
-
- va confermata, poi, la "liquidazione equitativa" del
danno biologico -"con il sistema del c.d. punto di invalidità, come da
tabella, ragguagliato ad una età base di diciotto anni (...) diminuita del
3,3% (secondo l'età di 51 anni che il lavoratore aveva all'epoca dei fatti)
" - in misura pari alla media del valore del punto, in relazione alla
percentuale di inabilità (tra il 5 ed il 6 per cento).
-
Avverso la sentenza d'appello la Rete ferroviaria italiana
(RFI) società per azioni (già Ferrovie dello stato Società di trasporti e
servizi p. a.) propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi ed
illustrato da memoria.
-
L'intimato An.Vo. resiste con controricorso.
Motivi della decisione.
-
1. Con il
primo motivo di ricorso - denunciando violazione e falsa applicazione di
norme di diritto (art. 2087, 2113 c.c.), nonché vizio di motivazione (art.
360, n. 3 e 5, c.p. c.) - la Rete ferroviaria italiana (RFI) società per
azioni (già Ferrovie dello stato Società di trasporti e servizi p. a.)
censura la sentenza impugnata - per avere ritenuto la propria condotta
"antigiuridica e, comunque, lesiva per il lavoratore" - sebbene la società
avesse "provveduto ad attuare (.....) un riassetto dell'organizzazione
strutturale e funzionale di alcune branche dell'impresa, al fine di
ottimizzare l'attività aziendale" e, nel caso di specie, "la temporanea
diversa utilizzazione del Vo., nell'espletamento delle sue specialistiche
funzioni, (fosse) dipesa proprio dalla attuazione di uno dei programmi di
riassetto", senza tuttavia sacrificare il trattamento economico-giuridico e
la posizione professionale - propri della categoria contrattuale di
appartenenza - dello stesso lavoratore. Il primo motivo di ricorso non è
fondato.
-
1. 2. lnvero
la equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti - che legittima
l'esercizio dello ius variandi del datore di lavoro, a norma della
disciplina legale in materia (art. 2103 c.c., come sostituito dall'art. 13
della legge 20 maggio 1970, n. 300, c.d. Statuto dei lavoratori) - deve
essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle
mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche - secondo la
giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 3455 delle
sezioni unite, n. 6871/87, 2896, 12088/91, 3623, 10405, 12121/95, 6124/97,
2428/992649, 14666/2004 della sezione lavoro) - come attitudine delle nuove
mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l'arricchimento
del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase
del rapporto.
-
Né la tutela della professionalità del lavoratore - che ne
risulta, peraltro in coerenza con la costituzione (art. 35) - può essere
sacrificata per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive -
secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n.
6852/87, 6124/97) - in quanto tali ragioni risultano, bensì, esplicitamente
richiamate (nell'ultima parte dello stesso art. 2103 c.c., come sostituito
dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, cit.) - quale
giustificazione, tuttavia, soltanto del trasferimento del lavoratore da una
unità produttiva ad un'altra - e, peraltro, risultano, bensì, funzionali
all'esercizio della libertà di iniziativa privata - parimenti garantita
dalla costituzione (art. 41) - ma questa non può, tuttavia, svolgersi in
modo da recare pregiudizio - tra l'altro - alla dignità umana, alla quale va
ricondotta, appunto, la professionalità - quale componente essenziale della
dignità - del lavoratore.
-
La sentenza impugnata si uniforma ai principi di diritto
enunciati - sia laddove accerta l'adibizione del lavoratore a mansioni non
equivalenti a quelle corrispondenti alla qualifica di inquadramento, sia
laddove nega che ciò possa essere giustificato dalle invocate ragioni
organizzative - e non merita, quindi, le censure - che le vengono mosse con
il primo motivo di ricorso -neanche sotto il profilo del vizio di
motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c).
-
1.3. lnvero la
denuncia di un vizio di motivazione in fatto, nella sentenza impugnata con
ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c) - vizio nel
quale si traduce anche la mancata ammissione di un mezzo istruttorio (vedi,
per tutte, Cass. n. 13730, 9290/2004), nonché l'omessa od erronea
valutazione di alcune risultanze probatorie (vedi, per tutte, Cass. n.
3004/2004, 3284/2003) - non conferisce ai giudice di legittimità il potere
di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale
sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il
profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le
argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via
esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione
e valutazione della fonte del proprio convincimento - con la conseguenza che
il vizio di motivazione deve emergere - secondo l'orientamento (ora)
consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le
sentenze n. 13045/97 delle sezioni unite e n. 8153, 7936, 7745, 4017, 3452,
3333, 236/2005, 24219, 23411, 22838, 22751, 21826, 21377, 20272, 19306/2004,
16213, 16063, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/2003, 3161/2002, 4667/2001,
14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) - dall'esame del
ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza
impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento,
sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di
punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili
d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni
complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del
procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non
rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso
giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato
diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in
genere, dalle parti, né, comunque, una diversa valutazione dei medesimi
fatti.
-
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di
fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360 n. 5 c.p.c.) -
non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione
che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della
questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe,
sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato
al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione
assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.
-
Pertanto, al giudice di legittimità non compete il potere
di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex art. 384, 2° comma,
c.p.c.) né, quindi, di scegliere la motivazione più convincente - tra quelle
astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della
sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente - ma deve limitarsi a
verificare se - nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto
- siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano
effettivamente - vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede
di legittimità.
-
1.4. Lungi dal
denunciare, specificamente, il punto ed il modo in cui la motivazione - che
sorregge l'accertamento di fatto della sentenza impugnata - risulti
obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, la società ricorrente
sembra, tuttavia, prospettare - inammissibilmente - un accertamento diverso.
-
Anche a volere prescindere dalle superiori considerazioni e
conclusioni - peraltro assorbenti - l'accertamento di fatto - che la
sentenza impugnata propone - non pare, tuttavia, inficiato da vizio di
motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
-
Infatti la motivazione della sentenza - che ne sorregge
l'accertamento sul punto - si articola nei passaggi essenziali seguenti:
-
-il Vo., segretario tecnico di prima classe (qualifica di
natura amministrativa), è stato trasferito da Pa a c., "nelle diverse
mansioni di aggiunto nel reparto esercizio impianti di sicurezza" (mansioni
tecniche) ed è rimasto "del tutto inattivo" - come risulta dalle prove
testimoniali e documentali - "non per scelta del lavoratore, ma per il
semplice fatto che egli, ricoprendo una qualifica di natura amministrativa,
non poteva svolgere mansioni tecniche";
-
-la inattività non può essere addebitata, poi, ad
"imperizia" del lavoratore - attesa l'adibizione dello stesso a mansioni per
le quali non era preparato - e, peraltro, la riorganizzazione aziendale può
giustificare il trasferimento, ma non il demansionamento del lavoratore.
-
La riferita motivazione in fatto, all'evidenza, non risulta
inficiata - da obiettiva carenza o da logica contraddittorietà - e,
pertanto, la sentenza impugnata - oltre a risultare coerente con i principi
di diritto enunciati - non merita le censure - che le vengono mosse con il
primo motivo di ricorso -neanche sotto il profilo del vizio di motivazione
(art. 360, n. 5, c.p.c.).
-
Tanto basta per rigettare lo stesso motivo di ricorso,
perché infondato.
-
Parimenti deve essere, tuttavia, rigettato - perché
infondato - anche il secondo motivo di ricorso.
-
2.1. Con il
secondo motivo di ricorso - denunciando violazione e falsa [applicazione di
norme di diritto (art. 112 c.p.c.), nonché vizio di motivazione (art. 360,
n. 3 e 5, c.p.c.) - la Rete ferroviaria italiana (RFI) società per azioni
(già Ferrovie dello stato Società di trasporti e servizi p. a.) censura la
sentenza impugnata - per averla condannata al risarcimento integrale del
danno alla salute subito dal lavoratore - sebbene il proprio comportamento
ne fosse soltanto una concausa - secondo la stessa consulenza tecnica
d'ufficio, peraltro acriticamente condivisa - e, perciò, il risarcimento
dovesse, quantomeno, essere proporzionato al contributo causale del proprio
comportamento.
-
Anche il secondo motivo di ricorso - come è stato
anticipato - risulta infondato.
-
2.2. Anche
in materia di responsabilità civile del datore di lavoro nei confronti dei
propri dipendenti - sia contrattuale, come nella specie (in tal senso, vedi,
per tutte, Cass., sez. un., n. 6572 del 2006), sia extracontrattuale - trova
applicazione la regola (di cui all'articolo 41 codice penale), secondo cui -
essendo il rapporto causale, tra condotta ed evento, governato dal principio
dell'equivalenza delle condizioni - deve essere riconosciuta efficienza
causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione
dell'evento - anche in maniera (indiretta o remota e, comunque) concausale -
salvo il temperamento (previsto dallo stesso articolo 41 codice penale, cit.)
- in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza
di un fattore, da solo sufficiente a produrre l'evento, tale da far
degradare le cause antecedenti a semplici occasioni - con la conseguenza che
- secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze
n. 17959, 15107/2005, 5014/2004, 12377/2003) - l'efficienza causale della
condotta del datore di lavoro è, da sola, sufficiente a radicarne la
responsabilità civile - per l'intero danno, che ne consegua - nonostante il
concorso di concause (fatto salvo, tuttavia, il ridimensionamento
proporzionale del risarcimento, ai sensi dell'art. 1227 c.c., nel caso di
concorso del fatto colposo del danneggiato).
-
La sentenza impugnata si uniforma al principio di diritto
enunciato -laddove fonda, sulla efficienza concausale dell'inadempimento
dell'obbligazione (di cui all'art. 2103 c.c., come sostituito dall'art. 13
della legge 20 maggio 1970, n. 300, cit.), la responsabilità del datore di
lavoro per l'intero danno che ne è conseguito - e non merita, quindi, le
censure - che le vengono mosse con il secondo motivo di ricorso - neanche
sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
-
2.3. Lungi dal
denunciare, specificamente, il punto ed il modo in cui la motivazione - che
sorregge l'accertamento di fatto della sentenza impugnata - risulti
obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, la società ricorrente,
infatti, sembra prospettare - inammissibilmente - un accertamento diverso.
-
Anche a volere prescindere dalle superiori considerazioni e
conclusioni -peraltro assorbenti - l'accertamento di fatto - che la sentenza
impugnata propone - non pare, tuttavia, inficiato da vizio di motivazione
(art. 360, n. 5, c.p.c.).
-
Infatti la motivazione della sentenza - che ne sorregge
l'accertamento sul punto - si articola nei passaggi essenziali seguenti:
-
-la consulenza tecnica (eseguita in primo grado) "afferma
che il Vo. è affetto da sindrome ansioso-depressiva, da mettere in relazione
causale con il patito demansionamento" ed ha accertato una "inabilità del
5-6%", oltre una incapacità temporanea assoluta (da limitare a 135 giorni)
ed una incapacità temporanea parziale di 189 giorni;
-
-"la natura di "concausa" dell'illecito comportamento
del datore di lavoro non comporta certo una diminuzione dell'entità del
danno ad esso addebitabile, a meno che non vengano, dalla parte interessata,
specificamente provate altre concause efficienti nella determinazione del
danno, (e ciò) tanto più (ove si consideri) che lo stesso consulente tecnico
d'ufficio afferma chiaramente che "il comportamento del datore di lavoro
(...) ha concretizzato un danno biologico (...) pari al 5-6%".
-
La riferita motivazione in fatto, all'evidenza, non risulta
inficiata - da obiettiva carenza o da logica contraddittorietà - e,
pertanto, la sentenza impugnata - oltre a risultare coerente con i principi
di diritto enunciati - non merita le censure - che le vengono mosse con il
secondo motivo di ricorso - neanche sotto il profilo del vizio di
motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
-
Tanto basta per rigettare - come è stato anticipato - anche
il secondo motivo di ricorso, perché infondato.
-
3. Il ricorso,
pertanto, deve essere rigettato.
-
Le spese di questo giudizio di cassazione seguono la
soccombenza (art. 385, 1° comma, e 91 c.p.c.).
P.Q.M
-
La
Corte rigetta il ricorso; Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese
di questo giudizio di cassazione, che liquida in euro 11,00, oltre euro
2.000 (duemila) per onorario.
*******
-
Conforme, ma con
opportuno distinguo nel caso in cui vi sia concorso di cause, in
ragione di patologia preesistente (non già di mera fragilità
genetica) e comportamento illecito datoriale, nel qual caso il
datore è responsabile per il solo danno differenziale da
aggravamento concausale:
-
Cass. 8 giugno 2007
n. 13400 - Pres. De Luca - Rel. Monaci - PM Matera (concl. conf.) -
Arcangioli (avv. Nappi) c. Soc. Chef italia (avv. Trifirò, Beretta)
Danno alla salute-
Lavoratore già affetto da patologie preesistenti - Concorso della
condotta datoriale nella verificazione/aggravamento del danno - Effetti
- Risarcibilità del danno differenziale.
In materia di
rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai
principi di cui agli articoli 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia
concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento, e
ne costituisca un antecedente causale, l'agente deve rispondere per
l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato. Non sussiste,
invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che non
dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente
causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né
per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro,
debbono essere addebitati all'agente, i maggiori danni, o gli
aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta,
anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si
sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità
dell'agente stesso per l'intero solo danno differenziale.
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
-
1. Ar. Pi., assunto come cuoco dalla società Ch. It.
nel gennaio 1989, e destinato presso l'unità sita nell'aeroporto Galilei
di Pisa, ha convenuto in giudizio la società lamentando una serie di
comportamenti vessatori nei suoi confronti, consistiti principalmente
nell'inflizione di dodici sanzioni disciplinari dall'agosto del 1991 al
maggio del 1993, lamentando che tutto questo gli aveva provocato una
grave patologia depressiva.
-
Il primo giudice accoglieva la domanda, e condannava la
società al pagamento di lire 35.000.000 a titolo di risarcimento del
danno biologico e del danno esistenziale, nonché al rimborso di quanto
trattenuto in esecuzione delle sanzioni disciplinari irrogate e che
erano considerate illegittime.
-
Con sentenza n. 229, in data 2 - 10 marzo 2004, la Corte
d'Appello di Firenze, accoglieva parzialmente l'appello principale della
società Ch. It. s.p.a., riducendo la condanna a carico di quest'ultima
al pagamento all'Ar. di euro 4.750,00 per danni biologico, esistenziale
e morale, nonché a corrispondergli l'importo delle sanzioni, detratto
quanto corrispondeva a quelle ritenute legittime.
-
La sentenza riteneva, infatti, che le sanzioni fossero in
gran parte ingiustificate, perché irrogate per colpe inesistenti, oppure
di modestissimo rilevo, che ne fosse derivato una lesione della salute
del ricorrente, e liquidava i danni equitativamente, in misura inferiore
alle somme richieste dall'An..
-
2. Avverso la sentenza, che non risulta notificata,
l' Ar. ha proposto ricorso per Cassazione, con sei motivi, notificato,
in termine, il 28 ottobre 2004.
-
La società Ch. It. s.p.a. resisteva con controricorso
notificato, in termine, il 3 dicembre 2004, e proponeva contestualmente
ricorso incidentale, con due motivi.
-
Resisteva a sua volta l' Ar. con controricorso al ricorso
incidentale, notificato, in termine, il 10 gennaio 2005.
-
Infine, il ricorrente principale, ha depositato una memoria
difensiva.
MOTIVI DELLA
DECISIONE
-
1.
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente principale deduce la
violazione e falsa applicazione dell'articolo 2087 c.c. nonché l'omessa,
contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto
decisivo della controversia. Critica la sentenza per avere ritenuto che
non fosse stata proposta un'azione di mobbing, e precisa di avere
sottolineato nel ricorso introduttivo l'intento persecutorio insito nel
comportamento illegittimo della società.
-
2.
Con il secondo motivo l' Ar. lamenta, invece, la violazione e falsa
applicazione degli articoli 41 Cost., articoli 1223, 2087 c.c. articoli
40 e 41 c.p., e l'omessa, contraddittoria e comunque insufficiente
motivazione su un punto decisivo della controversia.
-
Lamenta che la Corte d'Appello avesse affermato l'assoluta
irrilevanza delle condizioni fisiopsichiche del soggetto che aveva
subito le vessazioni, ed avesse ritenuto che non tutta la percentuale
del danno biologico stabilizzato fosse conseguenza diretta della pratica
vessatoria.
-
3.
Con il terzo, il quarto ed il quinto motivo il ricorrente principale
deduce, sotto tre diversi profili, la violazione e falsa applicazione
del combinato disposto degli articoli 1226 e 2087 c.c. (e per il solo
quarto motivo, anche dell'articolo 41 Cost.), nonché l'omessa,
contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto
decisivo della controversia.
-
In particolare, nel terzo motivo critica la sentenza per
avere liquidato la quota di danno biologico nel valore di euro 550,00 a
punto, per un totale di euro 2.750,00.
-
Secondo il ricorrente questa liquidazione era inadeguata,
inferiore agli importi per punto liquidati in altre sedi giudiziarie.
-
Inoltre il giudice avrebbe dovuto motivare in maniera
congrua sull'adeguamento della regola ponderale alle circostanze del
caso concreto.
-
Nel quarto e nel quinario motivo il ricorrente critica la
sentenza per avere liquidato in via equitativa, rispettivamente, il
danno esistenziale ed il danno morale, e per avere ritenuto equo
assegnare a questi fini le somme di euro 1.000,00 per ognuna delle due
voci, respingendo le maggiori richieste del lavoratore.
-
Le motivazioni su questi punti erano carenti.
-
4.
Con il sesto ed ultimo motivo, infine, l' Ar. deduce, sotto un profilo
ulteriore, la violazione e falsa applicazione del combinato disposto
degli articoli 1223 e 2087 c.c. nonché l'omessa, contraddittoria e
comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della
controversia.
-
Lamenta che la sentenza gli abbia negato il risarcimento
del danno patrimoniale subito per la cessazione del rapporto di lavoro,
avendo ritenuto che queste pretese fossero coperte dalla transazione
giudiziale nella quale lo stesso Ar. aveva espressamente rinunziato alla
domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ed alle richieste
economiche connesse. Il ricorrente sostiene che, invece, la propria
domanda non si basava sull'illegittimità di licenziamento, ma sul
comportamento vessatorio subito, che aveva avuto come conseguenza
ultima, a seguito della malattia che ne era derivata, il licenziamento
per superamento del periodi di comporto.
-
Precisa di avere contestato, nel precedente giudizio, il
licenziamento per superamento del comporto, e di averne chiesto
l'annullamento, e la reintegrazione nel posto di lavoro, senza entrare
nel merito dei motivi che avevano causato le assenze per malattia.
-
La sua rinunzia copriva soltanto le domande alternative di
reintegrazione o di indennità economica sostitutiva, mentre l'attuale
pretesa risarcitoria prescindeva dall'illegittimità, o meno, del
licenziamento irrogato.
-
5.
Con il primo motivo del ricorso incidentale la società Ch. It. eccepisce
la violazione e falsa applicazione degli articoli 116 c.p.c., articoli
2087 e 2697 c.c., nonché l'omessa, contraddittoria, e comunque
insufficiente motivazione, sul punto della valutazione delle deposizioni
testimoniali, con mancato riconoscimento del difetto di prova della
responsabilità del datore di lavoro per la salute dei propri lavoratori.
-
Ricorda che l' articolo 2087 c.c. non configurava un caso
di responsabilità oggettiva, che la responsabilità del datore di lavoro
andava collegata alla violazione di precisi obblighi di comportamento, e
che spettava al lavoratore dimostrare l'esistenza del danno ed il nesso
di causalità. Sostiene anche che tutte le sanzioni disciplinari irrogate
all'Ar. erano state precedute da contestazioni immediate e specifiche e
non erano state impugnate tempestivamente dall'interessato, e critica in
dettaglio la lettura data alla sentenza alle risultanze testimoniali.
-
6.
Con il secondo motivo la società deduce la violazione e falsa
applicazione degli articoli 2043 c.c. e articolo 116 c.p.c. nonché
l'omessa, contraddittoria, e comunque insufficiente motivazione, sul
punto dell'accertamento del nesso di causalità e della valutazione delle
risultanze della CTU.
-
L'esistenza del nesso tra i comportamenti persecutori da
parte del datore di lavoro ed il pregiudizio alla propria salute doveva
essere provato dal lavoratore che ne era stato vittima.
-
Nel caso, inoltre, di malattie ad eziologia multifattoriale
il nesso causale non poteva essere oggetto di presunzioni, ma doveva
essere oggetto di dimostrazione specifica.
-
Secondo la ricorrente incidentale in questo caso la
consulenza tecnica non aveva dimostrato l'esistenza del nesso causale
tra il comportamento del datore di lavoro e lo stato depressivo del
ricorrente.
-
7.
Preliminarmente i due ricorsi, quello principale, e quello incidentale,
proposti contro la medesima pronunzia, debbono essere riuniti
obbligatoriamente ai sensi dell'articolo 335 c.p.c..
-
8.
Il primo motivo del ricorso principale é inammissibile per difetto di
interesse.
-
Il ricorrente si limita a proporre argomentazioni tecniche,
relative alla qualificazione (come mobbing) dell'azione proposta, che di
per se stesse non sono funzionali ad una modifica della decisione.
-
9.
Il secondo motivo del ricorso principale si risolve in parte nella
richiesta di rivalutazione di circostanze di fatto.
-
Il ricorrente lamenta, infatti, che la Corte d'Appello
abbia ritenuto che "già prima dei fatti di cui é causa il sig. Ar. fosse
affetto da una "patologia depressiva" che avrebbe notevolmente inciso
sul danno biologico patito dal lavoratore", che "vi fosse una patologia
pregressa così seria da produrre, comunque e prescindere da quanto poi
verificatosi sul luogo di lavoro, gran parte del danno biologico
accertato (p. 15 del ricorso).
-
Queste contestazioni, però, attengono al piano del fatto,
non a quello del diritto.
-
La rivalutazione delle circostanze di fatto così richiesta
é però inammissibile in questa sede di legittimità.
-
Né sussistono le contraddizioni lamentate dal ricorrente,
ma, al contrario, la motivazione della sentenza, lunga e dettagliata, é
completa, attenta al riscontro delle circostanze di fatto, coerente nei
passaggi attraverso i quali, partendo da quelle circostanze di fatto (ed
in particolare dalle risultanze degli accertamenti peritali), é giunta
fino alla decisione adottata.
-
10.
Sotto un diverso profilo il motivo propone una problematica di diritto.
-
Il ricorrente ha chiesto il risarcimento dell'intero danno
subito.
-
Nel caso di specie la sentenza di merito ha ritenuto che il
deterioramento delle condizioni di salute del signor Ar., che é
manifestato nelle varie voci di danno di cui l'interessato ha chiesto il
risarcimento, fosse l'effetto complessivo di una molteplicità di
fattori, vale a dire del comportamento datoriale di carattere vessatorio
e di eventi naturali, inerenti alla salute del soggetto, ma
preesistenti alla condotta del datore di lavoro, o, comunque,
estranei ad essa.
-
Si pone perciò il problema del rapporto di causalità e
quello del concorso di cause.
-
A questi fini deve essere applicato il principio generale
di causalità, criterio logico assunto dall'ordinamento a principio di
diritto positivo di validità generale, anche nell'ambito del diritto
civile, ma, innanzi tutto, in quello del diritto penale, in cui trova la
sua disciplina positiva sul piano generale agli articoli 40 e 41 c.p..
-
Per quanto qui interessa l'articolo 40 prevede che nessuno
sia responsabile per un fatto se l'evento dannoso "non é conseguenza
della sua azione od omissione. "L'articolo 41 disciplina il concorso
di cause, e dispone, sempre per quanto qui interessa, che "il concorso
di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti
dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di
causalità fra l'azione od omissione e l'evento. Le cause sopravvenute
escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti
a determinare l'evento.".
-
Per fondare la responsabilità é necessario, perciò, che la
condotta, dolosa o colposa, attiva od omissiva, dell'agente abbia avuto
efficienza causale, anche soltanto a livello di concausa, nella
produzione dell'evento dannoso, che quest'ultimo si sia verificato a
causa della condotta (anche se non necessariamente soltanto a causa di
essa), e correlativamente, che quell'evento non si sarebbe verificato se
quella condotta non fosse stata posta in essere. Come sottolineato,
infatti, da questa Corte, "un evento dannoso é da considerarsi causato
sotto il profilo materiale da un altro, se, ferme restando le altre
condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo
(cosiddetta teoria della conditio sine qua non) " (Cass. civ., 31 maggio
2005, n. 11609; nello stesso senso, 19 luglio 2005, n. 15183; 10 maggio
2000, n. 5962).
-
Quando la sua condotta abbia concorso insieme a circostanze
naturali alla produzione dell'evento l'agente deve rispondere per
l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato.
-
Agli effetti civili nei confronti del danneggiato non può
invocare l'esistenza di altre cause per ottenere una riduzione
proporzione del risarcimento dovuto.
-
Può farlo invece, in caso di una pluralità di soggetti
agenti, agli effetti interni, nella ripartizione della somma dovuta tra
i vari responsabili, che però sono tenuti tutti solidalmente nei
confronti del danneggiato.
-
Non può sussistere, invece, nessuna responsabilità
dell'agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che si
sarebbero verificati anche senza di essa.
-
Di conseguenza non può essere addebitato all'agente quel
danno che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dalla
condotta, e, a maggior ragione, quello che era preesistente.
-
Deve essergli addebitato, invece, il maggior danno, oppure
l'aggravamento, che sia intervenuto per effetto della condotta
dell'agente, che non si sarebbero verificati senza di essa. In tal caso,
però, l'agente sarà responsabile soltanto di questo maggior danno, della
differenza tra il danno che si sarebbe verificato in ogni caso, oppure
che era preesistente, e quello che invece é stato raggiunto una volta
che su quanto preesistente, o comunque estraneo alla condotta di quel
soggetto (perché imputabile ad altri soggetti o dovuto a cause naturali
non addebitagli all'uomo), si sono innestate, anche a livello di
concausa, e non di causa esclusiva, le conseguenze della condotta.
-
Per la quota differenziale di danno, d'altra parte,
all'interno di essa, l'agente non potrà avvalersi della possibile
sussistenza di concause, ma sarà responsabilità per intero,
indipendentemente dalla sua misura percentuale di colpa.
-
In questi casi é necessario, perciò, distinguere tra il
danno indipendente dalla condotta, ed il maggior danno, o
l'aggravamento, che siano imputabili alla condotta dell'agente.
-
11.
Il ricorrente invoca espressamente in proprio favore un precedente da
questa Corte che ha affermato che "in materia di rapporto di causalità
nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli
articoli 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori
naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il
comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare
l'evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore
dell'azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni
responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente
dotato in concreto di efficienza causale, ' qualora, invece, quelle
condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di
danno, l'autore del comportamento imputabile é responsabile per intero
di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità; in tal
caso, infatti, non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione
della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del
grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi
soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra
una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile."
Cass. civ., 9 aprile 2003, n. 5539).
-
L' Ar. fa leva sulla seconda parte della massima, e ritiene
che nel suo caso non possa operarsi una riduzione proporzionale della
responsabilità del datore in relazione alla sussistenza di altre
concause di carattere naturale. In realtà il principio di diritto
espresso dalla massima ha carattere unitario, e le varie proposizioni
che ne fanno parte non possono essere lette separatamente: é stata
affermata la responsabilità dell'agente per gli eventi provocati dalla
sua condotta, che trovano in essa un antecedente causale, ma anche la
sua assenza di responsabilità per gli eventi alla cui causazione la sua
condotta é rimasta estranea, che non trovano in essa un antecedente
causale,
-
12.
Come risulta dalla lettura di quella motivazione, nella fattispecie
esaminata da questa Corte nella sentenza, sopra menzionata, n. 5539/2003
(come pure in quelle esaminate dalle sentenze n. 5924 del 27 maggio
1995, e n. 981 del primo febbraio 1991, pure richiamate dal ricorrente
come precedenti, e relative peraltro, entrambe, a danni subiti da
immobili per effetto di eventi franosi) la condotta dell'agente aveva
concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento.
-
Le cause naturali costituivano delle cause concorrenti nel
senso proprio che l'evento non si sarebbe verificato senza di esse, ma
non si sarebbe verificato neppure senza la condotta dell'agente.
-
Questa evenienza non corrisponde, però, a quanto si era
verificato nella fattispecie che é oggetto di questa causa.
-
13.
Nel caso di specie, il giudice del merito ha accertato, motivando
adeguatamente su questo punto anche sulla base degli accertamenti
peritali, che, di per se stesso, il danno psicofisico dell'Ar. era
preesistente, e comunque indipendente dalla condotta del datore.
-
Infatti, lo stato di salute dell'Ar. ha subito nel corso
degli anni un grave peggioramento progressivo, perché era affetto da
"una grave forma di depressione affettiva con spiccata componente
ansiosa, parzialmente somatizzata a livello cardiaco e caratterizzata da
totale assenza di autostima" (p. 13 della sentenza), ed il
comportamento vessatorio del datore di lavoro (che pure é stato
riconosciuto, e ritenuto non privo di effetti dannosi) é sopravvenuto in
una situazione già compromessa, innestandosi non soltanto su un
tessuto già fragile e predisposto, ma anche "su una patologia depressiva
sicuramente già incidente e responsabile di buona parte del successivo
notevole aggravamento dello stato del soggetto" (pp. 13 e 14 della
sentenza).
-
Ciò significa che - come appunto ha ritenuto in fatto la
sentenza impugnata - il danno era preesistente, e si é sviluppato
naturalmente generando per forza propria ulteriori contraccolpi
pregiudizievoli, che - proprio perché conseguenza di patologia già in
atto - si sarebbero verificati in ogni caso indipendentemente dalla
condotta del datore. Quest'ultima, anche nel concorso delle altre
circostanze, ha generato soltanto un aggravamento ulteriore, una quota
addizionale di danno, che poteva essere addebitata, soltanto essa, al
datore di lavoro.
-
Di conseguenza, il
datore era tenuto al risarcimento soltanto di questo danno aggiuntivo,
non dell'intero.
-
14.
Il giudice del merito ha provveduto alla liquidazione di questo maggior
danno imputabile al datore, e, in mancanza di parametri certi, lo ha
fatto in via equitativa.
-
L'entità di questa liquidazione costituisce una questione
di mero fatto, che, per sua natura, non può essere riesaminato nel
giudizio di legittimità.
-
Per queste considerazioni il secondo motivo del ricorso
principale risulta infondato sotto tutti i diversi profili.
-
15.
Sono infondati, a loro volta, anche i successivi motivi del ricorso
principale, il terzo, il quarto, ed il quinto.
-
Si tratta di motivi che sono connessi tra loro e possono
essere esaminati congiuntamente.
-
Ripropongono tutti questioni di fatto, relative alla
valutazione e alla misura della liquidazione delle singole voci di
danno, relative, rispettivamente, al danno biologico (nel terzo motivo),
al danno esistenziale (nel quarto motivo), ed al danno morale (nel
quinto motivo).
-
Anche queste sono tutte questioni di liquidazioni, e perciò
di mero fatto, che per la loro stessa natura non possono essere
riesaminati in questa fase di mera legittimità.
-
In sostanza il ricorrente richiede, sotto tutti questi
profili, una rivalutazione delle circostanze di fatto, ma questo non é
ammissibile.
-
Sul piano logico, come pure sotto il profilo giuridico, non
é significativo che, in fattispecie che possono essere molto diverse,
altri giudici del merito abbiano liquidato somme differenti, più elevate
(oppure meno elevate).
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Né va dimenticato che é risultato addebitabile al datore
non l'intero danno, ma soltanto una quota di maggior danno, di
aggravamento successivo e non dipendente in via esclusiva dai fattori
causali preesistenti.
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Il risarcimento non poteva che essere limitato a questo
danno differenziale, e la condanna a carico della società Ch. It. s.p.a.,
non poteva che essere determinata in misura corrispondente.
-
In concreto il giudice del merito ha valutato che questa
quota di maggiore danno da addebitare al datore fosse relativamente
ridotta, e per questo ha riconosciuto per le varie voci di danno somme
di gran lunga inferiori a quelle che erano state richieste
dall'interessato.
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16.
é infondato, infine, il sesto ed ultimo motivo di impugnazione, con il
quale il ricorrente principale lamenta che gli sia stata negata la
liquidazione del danno subito per la cessazione del rapporto lavorativo.
-
Come giustamente rilevato dalla Corte d'Appello di Firenze
le pretese economiche conseguenti alla cessazione del rapporto di lavoro
erano "coperte", infatti, da una transazione giudiziale sottoscritta 16
febbraio 1994, nella quale Ar. Pi. Lu. aveva espressamente rinunziato
alla domanda di reintegrazione nel posto nel posto di lavoro ed "quelle
economiche connesse", formula questa nella quale - come sottolinea la
sentenza della Corte d'Appello di Firenze - "non possono che n'entrare
tutte le tipologie di danni diretti ed indiretti derivanti
dall'asseritamele illegittimo provvedimento di risoluzione del rapporto
di lavoro.".
-
Secondo il ricorrente la rinunzia dell'Ar. avrebbe per
oggetto esclusivamente le domande alternative di reintegrazione oppure
di indennità sostitutiva ai sensi dell'articolo 18.
-
L'allegazione però é smentita dalla formula testuale
utilizzata nel verbale di conciliazione, e dalla logica stessa della
conciliazione che la funzione di definire in maniera irrevocabile i
diritti ed i doveri delle parti, ponendo termine, in via transattiva,
alle controversie in corso, e prevenendo quelle future, che siano
comunque relative all'oggetto del contrasto, nel caso di specie alla
legittimità, o meno, del licenziamento intimato dalla società Ch. It. al
signor Ar. ed alle conseguenze di essa.
-
Né il ricorrente allega che la propria rinunzia conteneva
limitazioni o riserve.
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Anche ammettendo, in via di ipotesi, che il licenziamento
avesse comportato ulteriori danni suscettibili di risarcimento, oltre
all'indennità sostitutiva delle retribuzioni non percepite, anche essi
sarebbero stati ricompresi nell'oggetto della conciliazione e nelle
rinunzie che essa ha comportato.
-
17. A titolo
di risarcimento della specifica voce di danno relativa alla cessazione
del rapporto di lavoro non potevano essere riconosciute, però, ulteriori
poste oltre all'indennità sostitutiva.
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La normativa prevede espressamente, alla Legge 20 maggio
1970, n. 300 articolo 18 per il caso di illegittimità del licenziamento,
che sia stato dichiarato inefficace, oppure annullato, oppure dichiarato
nullo, la condanna del datore di lavoro non soltanto alla reintegrazione
del dipendente licenziato nel posto di lavoro (al primo comma), ma anche
al risarcimento del danno subito da quest'ultimo, determinandolo (al
comma 4) in "un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto
dai giorno dei licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione", e
comunque non inferiore a cinque mensilità di essa, nonché nel versamento
dei contributi previdenziali per il medesimo periodo.
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Qualora la Legge n. 300, articolo 18, non sia applicabile
(a causa dei limiti dimensionali dell'impresa) l'indennità é più
ridotta, nelle misure indicate dalla Legge 15 luglio 1996, n. 604,
articolo 8, come sostituito dalla Legge 11 maggio 1990, n. 108 articolo
2.
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In queste norme il legislatore ha predeterminato il
risarcimento dovuto per l'illegittimità del licenziamento.
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18.
Né possono essere confusi con la voce di danno riferita alla cessazione
del rapporto di lavoro i danni da risarcire, eventualmente, per un
titolo diverso, e risarciti in concreto, nella misura in cui sono stati
riconosciuti, ad altro titolo, vale a dire per i titoli dedotti nei
motivi precedenti del medesimo ricorso principale.
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Il ricorrente argomenta anche che la perdita del posto di
lavoro, a seguito del licenziamento irrogatogli per superamento del
comporto per malattia, era una conseguenza della patologia da cui era
affetto, e che questa era a sua volta una conseguenza comportamento
vessatorio subito.
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In questo senso la perdita del posto di lavoro sarebbe
stata una conseguenza mediata ed indiretta dello stesso comportamento
vessatorio.
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Questo profilo di censura é inammissibile, oltre che non
fondato, perché presuppone anch'esso una rivalutazione delle circostanze
di fatto che non é più consentita in un giudizio di legittimità.
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La sentenza ha ritenuto, infatti, a pag. 20, che
l'illegittimo esercizio del potere disciplinare avesse già trovato il
suo idoneo integrale risarcimento secondo criteri congrui, sottolineando
anche che il collegamento tra questo esercizio illegittimo di potere ed
il licenziamento per superamento del periodo di comporto, pur
astrattamente configurabile, non era neppure stato dedotto in sede di
impugnativa del recesso datoriale.
-
La circostanza, peraltro, non trova riscontro
nell'accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata; il fatto
che quel collegamento fosse astrattamente configurabile non significa
che sussistesse effettivamente.
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19.
E' infondato, a sua volta, anche il ricorso incidentale della società Ch.
It. s.p.a..
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I due motivi sono inammissibili.
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Entrambi, relativi il primo alla valutazione delle prove
sulla sussistenza del carattere vessatorio del comportamento datoriale,
ed il secondo all'esistenza di un nesso di causalità tra il
comportamento datoriale ed il pregiudizio subito dal lavoratore,
ripropongono, infatti, questioni di fatto non più suscettibili di
riesame in questa fase di legittimità.
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Come la maggior parte dei motivi del ricorso principale
anche i due motivi del ricorso incidentale si risolvono nella richiesta,
non ammissibile, di rivalutazione delle circostanze di fatto.
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Su entrambi i punti, del resto, la motivazione della Corte
d'Appello di Firenze appare completa ed adeguata.
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20. In
conclusione, i due ricorsi, quello principale e quello incidentale,
debbono essere entrambi rigettati.
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Stante la reciproca soccombenza sussistono giusti motivi
per la compensazione delle spese di giudizio.
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21. Con riferimento specifico al secondo motivo del
ricorso principale, deve essere affermato il seguente principio di
diritto:
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In materia di
rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai
principi di cui agli articoli 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia
concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento, e
ne costituisca un antecedente causale, l'agente deve rispondere per
l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato. Non
sussiste, invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che
non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente
causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né
per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro,
debbono essere addebitati all'agente, i maggiori danni, o gli
aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta,
anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si
sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità
dell'agente stesso per l'intero danno differenziale.
P.Q.M.
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Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese.
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