Dopo
l’accordo "scellerato"
CONVERSAZIONE
CON MASSIMO ROCCELLA (*)
(di
Mario Santostasi, La Rivista del Manifesto, luglio 2002)
(.....) Questo accordo separato è fatto, forse era scritto
da tempo: resteranno fuori dell’Art. 18 i nuovi assunti a tempo indeterminato
nelle aziende che supereranno la soglia dei 15 dipendenti, e quanto alle
aziende che emergono dal sommerso, si parla di un provvedimento da trasferire
in un altro disegno di legge (e – con l’aiuto di Ecofin – si troverebbero 700
milioni di euro per gli ammortizzatori sociali, dice il giornale della
Confindustria). Come valuti questo esito? È stato aperto, come dice Cofferati,
un varco nella diga dell’Art. 18, o Pezzotta e Angeletti hanno ragioni per dire
che ‘saranno salvaguardati i diritti acquisiti’?
Pezzotta e Angeletti hanno più volte
ripetuto che i diritti acquisiti in tema di Art. 18 non saranno toccati. Non è
il caso di sottolineare polemicamente che questa è esattamente la stessa
affermazione che sempre è stata fatta dal governo, e tante volte anche dal
presidente del Consiglio, sin dal momento in cui è stato presentato in
Parlamento il Disegno di legge-delega. Il punto è che l’affermazione " i diritti
acquisiti in tema di Art. 18 non si toccano" è intrinsecamente ambigua e
giuridicamente priva di senso. Dal punto di vista tecnico-giuridico si può
parlare di diritti acquisiti, per esempio, in materia di retribuzione. Se tu
hai un certo trattamento retributivo, mettiamo in relazione alle ore di lavoro
straordinario, quel trattamento non può essere toccato, almeno sino a quando
non intervenga un nuovo contratto collettivo che definisca una diversa base di
computo dello straordinario; ma in ogni caso per lo straordinario maturato nel
passato, e non ancora pagato, si dovrà applicare la vecchia disciplina
collettiva. Questo è un diritto acquisito.
Con riguardo a standard di trattamento
fissati per legge, viceversa, è improprio parlare di diritti acquisiti. Se pure
esiste una norma di legge che stabilisce un certo standard, per il futuro
quello standard di trattamento resta sempre modificabile. Naturalmente si può
parlare di diritti acquisiti anche in maniera a-tecnica, facendo riferimento
alla circostanza che la regolazione del mercato del lavoro si regge su un
tessuto di norme sociali e all’aspettativa che quelle norme sociali
continueranno ad essere applicate anche in futuro. Ebbene, qual è la norma
sociale vigente in materia di licenziamenti? La norma sociale vigente ci dice
che tutti i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato nelle imprese
con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento arbitrario avranno diritto
ad essere reintegrati nel posto di lavoro. Ora, non v’è dubbio che tutte e tre
le ipotesi previste dal progetto di riforma del governo della destra
intaccherebbero questa norma sociale: quindi c’è un problema di violazione di
diritti acquisiti, in quel senso giuridicamente improprio, ma socialmente del
tutto rilevante che dicevo prima.
C’è da aggiungere che l’ipotesi sulla
quale sembra si stia raggiungendo l’intesa fra governo, Confindustria, Cisl e
Uil è tutt’altro che innocua o di poco rilievo. Innanzi tutto creerà
distorsioni nella concorrenza fra imprese, rilevanti anche dal punto di vista
della lesione del principio costituzionale d’uguaglianza: davvero si può
ritenere ammissibile che, a parità di consistenza dimensionale, due imprese
siano sottoposte a regole diverse in materia di rapporti di lavoro a seconda
del momento in cui hanno superato la soglia dei 15 dipendenti? In secondo luogo
– ed è l’aspetto più significativo – la modifica in questione si presterà a
stimolare artificiose frammentazioni del ciclo produttivo, in frode ai diritti
dei lavoratori. Si pensi, fra l’altro, a ciò che potrà accadere in ragione
dell’effetto combinato della deroga all’Art. 18 e della nuova disciplina del
trasferimento d’impresa, prevista anch’essa nella delega sul mercato del
lavoro. Diventerà possibile precostituire un ramo aziendale ad hoc, privo di
qualsiasi autonomia tecnico-funzionale, per poter trasferire un gruppo di
lavoratori ad altra impresa, anch’essa costituita ad hoc e ovviamente, in
partenza, con meno di 15 addetti: dopo di che quest’ultima sarà libera di
crescere senza mai applicare a nessuno l’Art. 18. Ogni grande impresa potrebbe
costruirsi ‘imprese satelliti’ del genere.
In ogni caso, va ribadito che qualsiasi
modifica dell’Art. 18, a prescindere dal suo impatto immediato, sarebbe solo il
primo passo per poi attuare in futuro interventi assai più incisivi sulla
cosiddetta flessibilità in uscita, la quale non serve affatto per far aumentare
l’occupazione o per far funzionare meglio il mercato del lavoro, come
sostengono alcuni. Serve – viceversa – per alterare i rapporti di forza tra
imprese e lavoratori nel mercato del lavoro.
Al punto in cui sono giunte le cose, a
ogni modo, varrebbe la pena di cominciare ad allargare il campo della
riflessione. Non si può più trascurare che questo esito dell’accordo separato,
implicherà un pesante intervento su molti altri aspetti di regolazione del
mercato del lavoro, con introduzione di regole non meno gravi di quelle che
comporteranno una deviazione dalla disciplina attualmente vigente in materia di
licenziamenti. Fino a questo momento, nella mobilitazione dei mesi scorsi in
particolare, non si è posto l’accento su questi aspetti, per la comprensibile e
giusta esigenza di tenere unito il fronte sindacale. A questo punto bisogna
cominciare a parlarne, perché quando la prospettiva è di introdurre nel nostro
ordinamento giuridico lo staff-leasing, il job-on-call, il part-time a zero
ore, una disciplina assolutamente deregolata delle collaborazioni coordinate e
continuative, l’arbitrato di equità e via discorrendo allora … l’attenzione deve essere mantenuta al giusto livello.
Siamo a questo tornante difficile, non solo perché Cisl e Uil hanno
disatteso la piattaforma che le aveva portate allo sciopero unitario del 16
aprile. Nelle settimane cruciali, quelle in cui si definiva il quadro delle
forze in campo, Rutelli ha bacchettato Cofferati perché non si è seduto a quel
tavolo, Fassino ha mediato fra la leadership del centro-sinistra e l’Art. 18,
la Margherita si è astenuta due volte sul voto che trasferiva le deroghe dalla
Delega al nuovo Disegno di legge. Non ti pare che il centro-sinistra sia meno
tetragono di quel che si dice sulle deroghe all’Art. 18? Pietro Ichino, gran
maestro della flessibilità, prima sul "Corriere" poi proprio su
"l’Unità", ha richiamato con molta nostalgia e qualche malizia, il
Disegno di Legge Treu+50 del 2000 che, in pieno governo di centro-sinistra,
metteva le mani sull’Art. 18. È solo malizia, o il piffero di Ichino suona per
molti nel centro-sinistra?
Si può rispondere in maniera molto semplice, con un vecchio adagio
popolare: errare è umano, perseverare è diabolico. Sappiamo benissimo che
durante gli anni del centro-sinistra ci sono state incertezze ed esitazioni in
materia di politica del lavoro. Questo non vuol dire che esse debbano
ripetersi. Ho qui davanti a me il progetto di Carta dei diritti dei lavoratori
e delle lavoratrici, noto come proposta Amato-Treu. Nella relazione di
accompagnamento si legge: "Ci siamo opposti – leggo testualmente – e ci
opporremo alle intenzioni del governo di cambiare l’Art. 18 dello Statuto dei
lavoratori, riducendo le tutele contro il licenziamento". Questa è la
posizione ufficiale assunta da tutte le forze dell’Ulivo. Mi auguro che sia una
posizione seria e che da questa posizione nessuno voglia più recedere.
Dunque le divisioni nel centro-sinistra sarebbero ricomposte? Fosse
vero, sarebbe una notizia. Ma intorno a quale posizione poi? Che ne è in questa
"Carta" (che, con qualche modifica, è il vecchio progetto Amato-Treu,
allora nominato "Statuto dei lavori") dell’Art. 18?
Il mutamento di terminologia è apprezzabile in particolare perché
l’idea di ‘statuto dei lavori’ era un’idea politicamente bruciata. Di ‘statuto
dei lavori’ si parla nel Libro bianco del governo di centro-destra con un
riferimento al progetto di ‘rimodulazione’ delle tutele, espressione che –
tradotta in termini più semplici – significa che, per riconoscere qualche tutela
più o meno insignificante a certi lavoratori che oggi non ne hanno alcuna,
sarebbe necessario togliere altre tutele a quei lavoratori che vengono
considerati più protetti. Questa è un’idea politicamente inaccettabile per
un’opposizione che voglia essere realmente tale. E infatti non è stata
accettata. Nella Carta c’è un rinvio puro e semplice alla disciplina vigente,
che si vuole resti in vigore tale e quale come è adesso. La Carta elaborata
dall’Ulivo parte appunto dal presupposto che i livelli di tutela acquisiti
nell’area del lavoro subordinato non debbano essere rimessi in discussione,
almeno per quanto riguarda la disciplina del rapporto di lavoro. Poi semmai
potremmo vedere meglio se quest’idea, in sé apprezzabile, sia sufficiente
rispetto alle esigenze di oggi.
Mi sembra la vecchia storia della capra e dei cavoli: mi spieghi
come si fa a rifiutare qualsiasi deroga all’Art. 18 e insieme a criticare –
come Rutelli, come Treu, come Letta, ecc. – la posizione della Cgil che rifiuta
di sedersi al tavolo sul quale quella deroga restava incombente?
Non vorrei essere malizioso, ma ho la sensazione che la discussione
politica, come sempre, si svolga su piani diversi, alcuni dei quali del tutto
irrilevanti per la gente comune, la gente in carne e ossa, come potremmo dire
noi, ma che tuttavia esiste. Uno dei piani in questione riguarda la cosiddetta
leadership dell’Ulivo o comunque della futura coalizione che dovrà sfidare la
destra alle prossime elezioni politiche. Temo che ci siano molti che, pur
tributando un omaggio formale a Sergio Cofferati, guardino come al fumo negli
occhi all’idea che Cofferati possa avere un ruolo di rilievo nell’ambito di
questa coalizione. Tutto sommato sono propenso a leggere negli stessi termini
il caloroso entusiasmo con cui molti autorevoli personaggi nell’area del
centro-sinistra tenderebbero a spingere Cofferati ad accettare la candidatura a
sindaco di Milano.
Ho capito. E l’art. 18 diventa …
L’art. 18 diventa un’occasione per agitare un po’ le acque e
indebolire in qualche modo la posizione della Cgil, e attraverso questa la
figura di Cofferati.
Non è piccola cosa. Si trattasse solo di leadership! Il fatto è che
dietro quel leader che si tenta di azzoppare s’erano addensati molti milioni di
donne e di uomini e una questione che, come dici tu, rischia di travolgere un
intero sistema di diritti del lavoro. Mi pare di capire che su questo punto la
Cgil sia stata lasciata sola e che la contesa sia rimessa alla sua capacità di
affrontare la questione sul piano dei rapporti di forza sociali, al successo
dello sciopero. Vedremo.
Ma intanto come stanno le cose sul resto? La commissione Lavoro del
Senato ha varato il resto delle deleghe sul mercato del lavoro. Come risponde
la "Carta dei diritti" di Amato-Treu alle trappole disseminate in
quelle deleghe, e in generale alla dilagante precarizzazione del lavoro?
Estendendo diritti a una platea più larga di figure lavorative o spalmando quel
che resta delle tutele, togliendone la pienezza a chi già ne è protetto e
distribuendone qualche spicciolo alle figure del lavoro precario?
È una questione tecnicamente molto complessa, che bisogna cercare
di inquadrare bene per rendere comprensibile qual è il progetto di riferimento.
C’è un grande fervore progettuale in questo periodo nell’area dell’opposizione,
del centro-sinistra, che si concentra in particolare attorno alla questione
della regolazione delle cosiddette collaborazioni coordinate e continuative, le
famose co.co.co. Questo è sicuramente un punto critico e per esprimere un
giudizio in positivo o in negativo sui diversi progetti – perché non c’è
soltanto il progetto Amato-Treu, c’è, ad esempio, il progetto formulato dal
senatore Grandi e altri parlamentari dell’opposizione – si tratta di capire
bene come si intendono regolare le collaborazioni coordinate e continuative. Ma
– mi permetterei di aggiungere – si tratta di capire bene a monte che cosa
siano le collaborazioni coordinate e continuative, perché la mia impressione è
che su questo cruciale argomento non da oggi ci sia non poca confusione, che ha
inciso sull’orientamento dei diversi progetti che sono stati via via formulati,
a partire dal progetto Smuraglia.
Puoi far capire di più di questo mondo del lavoro così spesso
chiamato in causa e così poco conosciuto?
Si parla con molta disinvoltura di cifre
iperboliche. Si continua a dire che le collaborazioni coordinate e continuative
aumentano con ritmo esponenziale, che hanno superato ormai la cifra di due
milioni di unità, e via aumentando. Ora, questa rappresentazione della realtà
non permette di inquadrare adeguatamente il fenomeno e quindi impedisce di
fornire criteri sicuri di orientamento per un tentativo di regolazione
giuridica.
In realtà, l’universo delle
collaborazioni coordinate e continuative nasconde figure sociali e
professionali assolutamente diverse. Dentro questo universo, apparentemente
uniforme, si possono rintracciare figure professionali assai elevate,
amministratori di società, componenti di collegi sindacali, revisori ufficiali
dei conti, amministratori di condominio e così via, che occupano quasi il 50%
della platea complessiva, secondo quanto attestano indagini sociologiche molto
attente di cui ormai possiamo disporre. C’è poi una quota molto significativa
di lavoro subordinato mascherato, vale a dire un uso improprio della
collaborazione coordinata e continuativa rispetto a rapporti che in realtà sono
puramente e semplicemente di lavoro subordinato. Infine c’è una terza area,
quella che potremmo chiamare la ‘zona grigia’, di rapporti di lavoro che
restano nell’area del lavoro autonomo, ma risultano caratterizzati da una
particolare condizione di debolezza economico-contrattuale.
Se questo è vero, va da sé che qualsiasi
progetto di regolazione che si riferisca indistintamente alle collaborazioni
coordinate e continuative, senza distinguere all’interno di un campione così
eterogeneo, rischia inevitabilmente di essere squilibrato per eccesso o per
difetto. Questa era – appunto – l’impostazione del progetto di legge Smuraglia,
il quale partiva sicuramente dal presupposto che le collaborazioni
mascherassero lavoro subordinato, ma alla fine si limitava a riconoscere alcune
limitate tutele, disegnando una specie di figura di lavoratore subordinato in
sedicesimo. In realtà quella che viene fuori da tutti i progetti finora
circolanti è l’idea del cosiddetto tertium genus, un lavoratore che non è
propriamente subordinato, ma non è neanche veramente autonomo. Questa idea
corre da anni, e continua a correre, perché sembra essersi smarrita la
consapevolezza di che cosa sia il lavoro subordinato.
Tu dici che non è cambiato il lavoro subordinato?
È ovvio che il lavoro subordinato non può cambiare. Fino a che
esistano rapporti di produzione capitalistici, il rapporto di lavoro
subordinato resta un rapporto economico-sociale, che si colloca inevitabilmente
al cuore della struttura di una società capitalistica.
Stai citando il giuslavorista di Treviri?
No, sto citando una sentenza della Corte costituzionale del 1994,
che ha definito il rapporto di lavoro subordinato appunto come un rapporto economico-sociale
al quale devono ricollegarsi tutte le tutele inderogabilmente previste
dall’ordinamento. Quelle che cambiano sono le forme di manifestazione del
lavoro subordinato: v’è una differenza concettuale tra forma e sostanza, che
andrebbe sempre tenuta ben presente.
Come si è prodotta quella che chiami ‘confusione’ sul concetto di
lavoro subordinato?
La giurisprudenza prevalente della Cassazione e buona parte della
dottrina giuridica, che si è impigrita sugli schemi della giurisprudenza,
ritengono che si abbia lavoro subordinato solo quando la prestazione lavorativa
sia effettuata in aderenza a direttive puntuali e controlli costanti del datore
di lavoro. Insomma, lo schema mentale di riferimento è la catena di montaggio.
Va da sé che, se questo fosse il lavoro subordinato, in futuro ne avremmo
sempre di meno. Il fatto è che la catena di montaggio rappresenta soltanto un
modo di manifestazione del lavoro subordinato. Ma il lavoro subordinato nasce
prima del fordismo-taylorismo; non si è manifestato in quella forma esclusiva
neanche nel massimo momento di sviluppo del fordismo e certamente continua ad
esistere anche in un’epoca in cui il fordismo, l’organizzazione fordista della
produzione, è declinante. Naturalmente, se non si riesce a contestare concettualmente
certi schemi interpretativi, ne deriva a cascata una notevole confusione.
…in cui trovano rifugio le forme mascherate di lavoro subordinato?
Intanto bisogna spiegare bene perché sono mascherate. Qual è
l’escamotage attraverso cui si arriva a dire che tanti rapporti instaurati come
collaborazioni coordinate e continuative non sono di lavoro subordinato? Si
utilizza proprio quello schema di cui ti dicevo prima. Si scrive un contrattino
in cui si dice: "La prestazione lavorativa si svolgerà senza rispondere a
direttive del datore di lavoro e senza vincoli d’orario" e
conseguentemente si afferma che non si tratta di lavoro subordinato, ma –
appunto – di collaborazione coordinata e continuativa. Naturalmente in
moltissimi casi queste sono soltanto affermazioni scritte sulla carta. Non
conosco lavoro più fordista nell’economia post-fordista di quello che si svolge
nei call-center. Eppure sappiamo bene che gli addetti ai call-center vengono
assunti con contratto di collaborazione coordinata e continuativa. È
assolutamente esemplare, perché non riguarda una piccola impresa, ma un’impresa
di grandi dimensioni, il caso del call-center Atesia, i cui 5000 addetti sono
tutti assunti con contratto di collaborazione coordinata e continuativa e
remunerati con un sistema che, nel lavoro subordinato, si chiamerebbe di
cottimo pieno, vale a dire in ragione del numero delle chiamate cui rispondono.
Quindi può accadere che alla fine del mese si ritrovino una busta paga con non
più di 100 euro. Ecco, questo è il problema sociale davvero rilevante: per
rispondervi sino in fondo bisogna aver chiaro che comunque, anche qualora non
vi sia un puntuale assoggettamento a direttive del datore di lavoro, non per
questo si fuoriesce dall’area del lavoro subordinato. Come dicevo prima,
l’assoggettamento al potere direttivo costituisce soltanto una manifestazione
esteriore del lavoro subordinato. D’altro canto basta dare un’occhiata ai
contratti collettivi per rendersi conto che da tanto tempo ormai, a partire da
un certo livello di inquadramento, vi si stabilisce che la prestazione
lavorativa verrà svolta con autonomia. Qui è proprio il punto di confusione,
perché un conto è l’autonomia tecnico-esecutiva, che è propria anche del lavoro
subordinato e sempre più tenderà a caratterizzarlo, parallelamente al mutamento
delle forme di organizzazione del lavoro. Un altro conto è l’autonomia
economico-organizzativa, la quale comincia esattamente là dove finisce il
lavoro subordinato.
Che tipo di tutele la "Carta dei diritti" elaborata dal
centro-sinistra si propone di estendere a quest’area che, pur non coincidendo
con i famosi due milioni, è larga, crescente e investe ormai un’intera
generazione?
Non è facile rispondere a questa domanda perché il testo non è
sufficientemente chiaro o, per meglio dire, non è sufficientemente chiaro il
problema sociale al quale si propone di rispondere. Se le cose che dicevo prima
hanno un fondamento, rispetto a quella vasta area di collaborazioni che
nascondono lavoro subordinato l’unica posizione politicamente plausibile per
un’opposizione di centro-sinistra dovrebbe essere quella di mettere in campo
dispositivi anche giuridici per ricondurre al lavoro subordinato quello che è
lavoro subordinato. Non si tratta soltanto di un’astratta questione di equità,
che pure è rilevante, perché quando si fa politica da sinistra il profilo etico
non dovrebbe essere marginale. Si tratta anche di una questione di efficienza
economica del sistema, in particolare del sistema previdenziale, perché è ben
noto che i collaboratori coordinati e continuativi versano contributi molto
ridotti all’Inps, e se questo andazzo dovesse proseguire e dilatarsi è evidente
che si determinerebbero problemi per la tenuta del sistema previdenziale. È una
questione dove ‘efficienza ed equità’, per usare la terminologia tanto cara
agli economisti liberal, risultano strettamente intrecciate.
La Carta dei diritti è strutturata in tre sezioni: una parte
riguarda il lavoro subordinato, pacificamente ritenuto come tale; un’altra è
dedicata al lavoro autonomo in senso stretto, una terza tratta le
collaborazioni coordinate e continuative, per le quali vengono previste alcune
tutele, che sono però molto attenuate rispetto a quelle del lavoro subordinato.
In particolare nell’area del rapporto di lavoro si prevede la possibilità che
il rapporto possa essere risolto con un semplice indennizzo da parte del
committente e nell’area della previdenza sociale si continua a mantenere
l’attuale regime delle collaborazioni coordinate e continuative. Tutto questo
potrebbe anche andar bene, se si stesse discutendo appunto di quella zona
grigia di cui ti dicevo prima, vale a dire se si stesse facendo riferimento a
lavoratori che sono effettivamente autonomi, ma in condizioni di debolezza
economico-contrattuale. È più che giusto, nei confronti di questi lavoratori,
che l’ordinamento giuridico intervenga riconoscendo una serie di tutele, in
particolare di carattere previdenziale, anche se di intensità diversa rispetto
a quelle del lavoro subordinato. Diverso sarebbe il caso se, invece, si sta
facendo riferimento all’area del lavoro subordinato mascherato, perché allora
si finirebbe col legittimare una figura di lavoratore subordinato di serie B.
Ho partecipato recentemente a un
dibattito con Cesare Damiano e Tiziano Treu, i quali, pubblicamente, alle mie
osservazioni, hanno risposto che non c’è nessun dubbio che il lavoro
subordinato mascherato debba essere ricondotto all’area del lavoro subordinato.
Se questa è l’intenzione, mi pare assolutamente condivisibile. Mi sono limitato
ad obiettare che dalla relazione di accompagnamento, e anche dal testo, questa
intenzione non traspare con la chiarezza che sarebbe necessaria. In particolare
la definizione della collaborazione coordinata e continuativa non è ancora
adeguata a tracciare una linea di discrimine sufficientemente chiara rispetto
al lavoro subordinato.
È solo una questione di chiarezza letteraria, di stile?
Penso una cosa un po’ diversa. Penso che quando si sta
all’opposizione è di dubbia utilità, e anzi può essere controproducente,
elaborare progetti organici, intendendo per progetti organici progetti tradotti
in articolati normativi, perché delle due l’una: o il progetto è sbagliato e
allora, certo, può essere preso in considerazione dalla maggioranza, o il
progetto è giusto e allora viene respinto in radice. Mi rendo conto che
l’affermazione può suonare un po’ schematica, ma diciamo che va presa nei suoi
termini generali. Quello che occorrerebbe, invece, cercare di fare è elaborare
idee forza, linee guida di orientamento per l’azione politica, precisando con
chiarezza gli obiettivi che si intende realizzare qualora si riesca a tornare
al governo del paese. Obiettivi che, per avere un consenso di massa, devono
presentarsi con la stessa limpidezza e semplicità della battaglia che in questi
mesi la Cgil sta conducendo attorno all’Art. 18. A mio parere, avrebbe lo
stesso impatto, la stessa risonanza, l’affermazione che costituisce obiettivo
dell’opposizione combattere la frode nel mercato del lavoro, che fra le altre
cose significa, appunto, ricondurre al lavoro subordinato le collaborazioni
fittizie. In fondo, per orientarsi basta saper ascoltare le richieste che
vengono da questi lavoratori. Qual è la domanda sociale che proviene, ad
esempio, da un lavoratore di call-center? Avere un salario ad ore, anziché una
forma di retribuzione a cottimo.
E questa risposta non è presente in nessuno dei vari articolati di
legge dell’opposizione che si conoscono?
Temo di no, perché anche il progetto
elaborato dal senatore Grandi, che sicuramente è animato da ottime intenzioni,
a ben vedere non sfugge all’idea del tertium genus, cioè all’idea che nel
mercato del lavoro esista una figura intermedia fra lavoro autonomo e lavoro
subordinato. Invece bisognerebbe prendere atto che nel mercato del lavoro, ferma
restando la divisione fondamentale, esistono frammentazioni interne sia
all’area del lavoro subordinato sia all’area del lavoro autonomo.
Sono sempre esistite regole diverse
nell’area del lavoro subordinato. Le regole che si applicano ai dirigenti, agli
impiegati direttivi e ai quadri non sono le stesse che si applicano alla
generalità dei lavoratori subordinati. Sono regole ovviamente, giustamente, più
deboli. Non si vede perché non si dovrebbe avere la capacità di distinguere
anche nell’ambito del lavoro autonomo, apprestando alcune tutele per lavoratori
autonomi economicamente deboli. Il fatto è che purtroppo quando si discute dei
vari progetti di legge elaborati in questi anni nell’area del centro-sinistra a
proposito della questione del lavoro parasubordinato, delle collaborazioni
coordinate e continuative, riesce difficile orientarsi perché non si capisce
mai bene quali siano le figure sociali di riferimento che gli estensori dei
vari progetti di legge hanno avuto in mente.
Prendiamo ad esempio il caso del progetto Grandi. Esso parte da un
presupposto che, invece, è quello che occorrerebbe contrastare: parte
dall’accettazione dell’idea che il lavoro subordinato coincide con il lavoro
eterodiretto. Sulla base di questa idea si immagina di costruire una figura
unitaria di contratto di lavoro nel quale la subordinazione sarebbe soltanto un
effetto della stipulazione del contratto, l’effetto normale, mentre resterebbe
aperta la possibilità di stipulare un patto derogatorio a fronte del quale il
lavoratore potrebbe eseguire la prestazione con autonomia esecutiva, vale a
dire senza soggezione al potere direttivo e al potere disciplinare del datore
di lavoro.
Sarebbe una trovata geniale, il modo di abbattere per via giuridica
le catene del lavoro salariato!
La questione è, ovviamente, ben più complessa, perché è ben vero
che a questo lavoratore si applicherebbe la gran parte della disciplina del
lavoro subordinato classico, e quindi anche la disciplina del licenziamento, e
da questo punto di vista vi è sicuramente un enorme progresso rispetto
all’impostazione del progetto Smuraglia. Ma è altrettanto vero che l’altra
faccia del non assoggettamento al potere direttivo e disciplinare sta nel fatto
che a questo lavoratore non si applicherebbe l’intreccio di regole relative
all’orario e al salario, ivi comprese le regole relative al lavoro a tempo
parziale; cosicché si rischierebbe di creare ancora una volta una figura di
lavoratore particolare, garantito sì rispetto al licenziamento arbitrario, ma
con un rapporto di lavoro strutturalmente fragile. Per quel lavoratore del call
center di cui parlavamo prima, dal punto di vista normativo rischierebbe di non
cambiare un granché. Si troverebbe con una specie di guscio vuoto. Questo è un
rischio, rischio serio, che poi nella proposta Grandi viene accentuato,
enfatizzandosi la caratteristica di valorizzazione di un tertium genus
attraverso la previsione che a questi lavoratori, firmatari di un patto in
deroga, si continuerebbe ad applicare la vecchia disciplina previdenziale delle
collaborazioni coordinate e continuative, che costituisce la ragione maggiore
di distorsione nel mercato del lavoro.
Insomma, intorno al tema dell’estensione delle tutele alle forme
del lavoro detto parasubordinato c’è un’attenzione diffusa, anche se un po’
sospetta perché non sostenuta da una risposta decisa contro l’attacco ai
diritti esistenti del lavoro subordinato. Mi viene naturale domandarti: ma in
questo lavoro subordinato, nel vecchio lavoro dipendente, come si diceva, tutto
fila liscio?
Potrei risponderti riprendendo l’impostazione della Carta di Amato
e Treu. Come ti dicevo prima, la Carta intende lasciare inalterata la
disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Dicevo che questo è un
orientamento positivo. Volendo scavare un po’ più a fondo si potrebbe giungere
alla conclusione che in realtà questo orientamento positivo nasconde
un’impostazione un po’ parziale e tutto sommato alquanto arretrata. Il progetto
rischia di nascere vecchio, perché non tiene conto delle distorsioni che si sono
andate producendo in questi anni nel mercato del lavoro e che naturalmente
rischiano di essere enormemente amplificate dalle controriforme che il governo
della destra ha già varato (come la disciplina dei contratti a termine che
praticamente li equipara al lavoro a tempo indeterminato) e da quelle che si
appresta a varare.
Dunque mentre l’estensione di tutele al lavoro precario è tutta da
inventare, i problemi del lavoro subordinato restano tutti aperti?
Non c’è dubbio che nell’area del lavoro subordinato vi siano molte
questioni da affrontare, da ripensare, da riformare, e, d’altro canto, anche se
non lo si volesse fare – visto che l’enfasi sulla flessibilità in qualche più o
meno ampia misura coinvolge certi settori del centro-sinistra – il problema si pone
comunque, se si ha l’ambizione di sfidare e battere la destra non soltanto in
elezioni amministrative ma anche in elezioni politiche. In questo caso bisogna
essere consapevoli che l’operazione non potrà più riuscire come nel 1996, vale
a dire semplicemente preoccupandosi di mettere insieme un cartello elettorale
in negativo. Non riuscirebbe innanzitutto perché non sono disponibili le forze
politiche che quel cartello dovrebbero comporre, e non riuscirebbe soprattutto
perché chi quel cartello dovrebbe votare non lo farebbe, o almeno molti non lo
farebbero e l’operazione risulterebbe perdente. È necessario quindi provare a
ragionare almeno su un nucleo di programma comune, e le questioni essenziali,
quelle che a mio parere ancora oggi continuano ad essere dirimenti fra destra e
sinistra, si ritrovano ancora nel modo in cui si affrontano i problemi di
regolazione del mercato del lavoro. Se ci si pone in quest’ottica – che
peraltro è imposta anche da problemi che già oggi sono sul tappeto, come la
questione dell’iniziativa referendaria per l’estensione generalizzata dell’Art.
18 –, se si è convinti che questa iniziativa potrebbe risultare
controproducente, non ci si può limitare a dire: bisogna fermarla, bisogna
bloccarla. Bisogna invece ragionare su una proposta in positivo.
Capisco: ma mentre questa proposta in positivo, e la necessaria
unità e forza politica che la renderebbero credibile, non si vedono
all’orizzonte, il referendum estensivo c’è già.
Vale la pena di rispondere con
franchezza a questa obiezione, che mi sembra alludere alla giustezza o meno
della prospettiva che si indica con l’iniziativa referendaria. L’obiezione, che
viene mossa con più frequenza, è che questa iniziativa, per le condizioni
sociali dell’Italia di oggi, sarebbe quasi certamente destinata a un esito
infausto. E questo naturalmente avrebbe conseguenze molto pesanti sugli
equilibri politici generali. Ora, naturalmente, questa non è una obiezione
trascurabile. In particolare i referendari – che sono sicuramente animati da
sincere intenzioni di estensione di diritti a lavoratori che non ne hanno o ne
hanno in misura minore – non possono prenderla troppo facilmente sotto gamba,
perché se si dovesse svolgere un referendum sulla questione dell’estensione
dell’Art. 18 e questo referendum avesse esito negativo (l’esito negativo può
anche dipendere soltanto dal fatto che non si raggiunga il quorum), bisogna
sapere che la questione sarebbe politicamente chiusa, non potrebbe poi più
essere riproposta.
Però non voglio nascondermi dietro un
dito. Credo che bisogna scavare un po’ più a fondo nella retorica del diritto
fondamentale. È la stessa retorica che viene agitata da chi, come ad esempio il
prof. Ichino, sostiene che se la reintegrazione nel posto di lavoro a fronte
del licenziamento illegittimo fosse davvero un diritto fondamentale, allora
bisognerebbe battersi per estenderla a tutti. Si può avere l’impressione che i
referendari abbiano preso troppo sul serio questo argomento.
In realtà non esiste nessun diritto,
neanche i diritti fondamentali, che non possa essere limitato o limitabile. La
libertà di stampa è un diritto fondamentale. È un diritto illimitato? Credo di
no. Bisogna esercitarlo in maniera tale da non ledere l’onorabilità altrui e
comunque entro limiti che sono pur previsti a contemperamento di diritti
altrui. L’iniziativa economica privata è certamente un diritto fondamentale in
un’economia di mercato, tant’è vero che è prevista dalla nostra Carta
fondamentale. Eppure può essere esercitata soltanto preoccupandosi di non
ledere, come dice la Costituzione, sicurezza, libertà e dignità umana.
I diritti sociali, nell’economia di mercato, lo sanno tutti, sono il frutto di
un compromesso che si attesta a un certo livello. Questo livello viene espresso
di solito utilizzando appunto la tecnica della soglia dimensionale. In Germania
la soglia per l’applicazione della disciplina della reintegrazione è stata
fissata a cinque dipendenti, ma non è sempre stato così. In passato il governo
Kohl l’aveva elevata a 10, Schröder l’ha riportata a cinque. Voglio dire che la
soglia attualmente prevista dall’Art. 18, che è stata stabilita in un’epoca in
cui la dimensione media delle imprese era più elevata, potrebbe certamente
essere ripensata, adeguata, oppure, alternativamente, si potrebbe pensare a criteri
più sofisticati per valutare la capacità economica dell’impresa minore, quindi
le ragioni di applicazione di una tutela forte in materia di licenziamento. Ma
queste sono cose che si possono fare con un’adeguata iniziativa
politico-legislativa.
Dico politico-legislativa perché
un’operazione di questo tipo, per evitare di tradursi in uno scontro muro
contro muro, per evitare di apparire come un’operazione puramente punitiva nei
confronti della piccola impresa, dovrebbe preoccuparsi di acquisire previamente
il consenso sociale necessario e quindi di bilanciare l’obiettivo di
rafforzamento delle tutele con l’offerta di sostegni di vario tipo al mondo
dell’impresa minore. Regime fiscale, infrastrutture, servizi e quant’altro.
Sono tutte cose che però non possono affrontarsi con un referendum, che è
strutturalmente inadeguato a dare una risposta articolata a problemi complessi.
D’altro canto se si vuole evitare il referendum, se si vuol
convincere i referendari dell’inopportunità dell’iniziativa, bisogna offrire
una prospettiva politica che a mio parere andrebbe inquadrata nell’obiettivo
generale di contrastare la frode e la precarietà nel mercato del lavoro e di
operare per la riduzione delle disuguaglianze.
Posso enunciare qualche tema. La questione dei contratti a termine, che vanno
ricondotti alla disciplina precedente al settembre dell’anno scorso. Già
assolutamente adeguata al diritto comunitario, e quindi che non necessitava di
nessuna innovazione. I contratti formativi. Oggi si pone da tutte le parti la massima
enfasi sull’importanza della formazione, ma noi abbiamo un uso del tutto
improprio di apprendistato e contratto di formazione e lavoro. Rapporti con
poca formazione e molto lavoro in entrambi i casi. Su questo c’è sicuramente
materia per intervenire. Sulle collaborazioni coordinate e continuative ho già
detto quale – secondo me – dovrebbe essere la linea d’intervento. C’è poi la
questione degli ammortizzatori sociali, che rappresenta il vero buco nero del
periodo di governo del centro-sinistra. Se nella seconda parte della scorsa
legislatura si fosse smesso di parlare di pensioni e ci si fosse dedicati
seriamente alla questione della riforma del sistema degli ammortizzatori, forse
si sarebbe arrivati a fine legislatura almeno con un bilancio complessivo da
presentare al corpo elettorale. Così non è stato e questo errore è stato
sicuramente pagato.
Forse non è un ‘vuoto’ casuale. Forse siamo al punto d’arrivo di un
percorso che viene da lontano. Forse non si è capito per tempo che il bersaglio
non era solo sul sistema dei diritti (a sentire molti, anche a sinistra,
‘privilegi’) individuali dei lavoratori, ma anche, e forse prima, sulla natura,
sul ruolo, del sindacato come soggetto autonomo e conflittuale. Adesso lo
scrive persino Scalfari su "la Repubblica", e Cofferati rincara la
dose di preoccupazioni. Ma come ci siamo arrivati? "Il Sole-24 Ore"
ha titolato in modo malizioso: "Dal sindacato della concertazione al
sindacato dei servizi". E poi tira giù un elenco: cogestione (corporativa,
e comunque in surroga anche di ruoli pubblici) del collocamento, della
emersione dal lavoro sommerso, della formazione, della sicurezza, degli
ammortizzatori sociali… Una platea di temi e di norme molto ampia che quindi
comprenderebbe un’area vastissima di lavoratori. È questa la partita vera che
si sta giocando in questi giorni, o è un’esagerazione?
Sicuramente nel Libro bianco c’era
l’idea di marginalizzare il sindacato più rappresentativo: la Cgil. Da una
parte si diceva che non è opportuno alcun intervento in materia di
rappresentatività sindacale, dall’altra si aggiungeva che i conflitti tra
sindacati dovrebbero essere regolati sulla base del principio di maggioranza,
intendendo questo principio in maniera assolutamente curiosa: non come
maggioranza delle volontà degli iscritti, degli aderenti, bensì come
maggioranza di sigle, quindi una costruzione fatta apposta per relegare
nell’angolo la Cgil, anche se eventualmente utilizzabile contro tutto il
sindacalismo confederale.
L’altro aspetto del problema può essere compreso meglio se si tiene conto del
fatto che una parte del sindacalismo confederale, Cisl e Uil per essere chiari,
un po’ per ragioni culturali, un po’ per motivi legati alle rispettive
consistenze organizzative, non è probabilmente in grado di reggere un rapporto
di tipo prevalentemente conflittuale con la Confindustria e soprattutto con il
governo. Il governo è probabilmente ben consapevole di questo dato di fatto e
vi innesta questo tentativo di cooptazione che si cerca di realizzare
utilizzando lo strumento dell’ente bilaterale.
Di per sé l’ente bilaterale non è
un’istituzione da guardare pregiudizialmente in modo negativo. È nata in ambito
sindacale, per gestire in comune fra imprese e organizzazioni dei lavoratori
particolari istituti di tipo mutualistico, come da tempo accade nel settore
dell’artigianato. Ma va da sé che l’ente bilaterale è destinato a cambiare
natura quando dovesse diventare gestore di servizi pubblici per affidamento da
parte dello Stato. Inoltre non si tratterebbe di affidamento puro e semplice,
perché in questo caso l’ente bilaterale – per quello che è dato capire –
dovrebbe operare in forza di cospicui finanziamenti da parte dello Stato. E
quando un organismo opera utilizzando finanziamenti pubblici è inevitabile che
da ciò derivi un condizionamento.
D’altro canto fa parte un po’ della
cultura della destra, almeno della destra italiana, il tentativo di non negare
puramente e semplicemente il fenomeno sindacale ma di utilizzarlo, di
strumentalizzarlo. Questa è l’esperienza del ventennio corporativo. In qualche
modo, in forme naturalmente del tutto diverse rispetto al passato, questa
esperienza tende a riprodursi. Certo, colpisce che una parte del sindacalismo
confederale non colga il rischio di snaturamento e di profonda alterazione del
proprio ruolo che l’accettazione di una prospettiva del genere comporta.
Non hai risposto alla malizia del quotidiano della Confindustria.
Ti chiedo: se questa ipotesi adesso diventa materia di negoziato effettivo, e
guadagna molte possibilità di passare, non sarà perché – anche perché – almeno
da dieci anni sotto la rubrica della concertazione è già passato un mutamento
del ruolo del sindacato in Italia?
No, non sono d’accordo. Non credo affatto che la concertazione
abbia comportato un mutamento del ruolo del sindacato. Certo, c’erano modi
diversi di guardare alla concertazione. Quando negli anni passati Cofferati e
D’Antoni polemizzavano, l’uno dicendo (Cofferati) che la concertazione è uno
strumento e l’altro che la concertazione è una politica, si poteva pensare a
una disputa puramente nominalistica. Le cose invece non stavano esattamente
così. Nel primo caso si intendeva dire che la concertazione era uno dei metodi
possibili di azione sindacale da utilizzare in un certo momento storico e a
certe condizioni. Nell’altro caso, viceversa, si tendeva ad assolutizzare la
funzione della concertazione, quasi a considerarla, appunto, come una politica,
quindi da perseguire sempre e comunque a prescindere dal contesto di
riferimento. La verità è che la concertazione sociale, che non è stata affatto
inventata da noi come invece talvolta provincialmente si tende a sostenere,
costituisce un metodo di governo delle relazioni industriali tipico delle
grandi socialdemocrazie europee. Sarebbe stato ben strano che lo stesso metodo
potesse riprodursi con il governo Berlusconi. E non si dica che la cosa è stata
possibile in Spagna con il governo Aznar. Aznar è certamente un pragmatico, che
per qualche tempo ha cercato di governare senza entrare in rotta di collisione
con le organizzazioni dei lavoratori, ma dopo un po’ la corda si è rotta e
quindi … c’è stato uno sciopero generale anche lì.
Certo. Ma il Psoe ha dato un sostegno incerto e ieri in Grecia i
sindacati hanno scioperato contro la ‘riforma’ delle pensioni del governo Simitis,
del Pasok: tutti partiti socialisti. Ci sono più cose nei conflitti aperti di
quante ne possiamo mettere in questa chiacchierata.
(*) ordinario di Diritto del lavoro all’Università degli studi di
Torino
(Ritorna
all'elenco Articoli
nel sito)