Lavoro: una questione semplice (*)
Anche le cose più complesse,
alla fine, possono rivelarsi semplicissime, se si evita di girarvi attorno, mettendo
da parte i discorsi sul metodo per affrontare il merito del problema. Ed
invece, sarà un caso, ma gli approcci di tipo metodologico alla vicenda della
lacerazione sindacale e dell’imminente intesa fra Governo, Confindustria, Cisl
ed Uil sembrano largamente prevalenti su ogni altra considerazione.
Il segretario della Uil
Angeletti ha scritto qualche giorno fa una pacata ed argomentata lettera al
quotidiano la Repubblica per spiegare gli orientamenti della propria
organizzazione, che ha tuttavia il difetto di non andare molto al di là di una
valutazione di metodo sui migliori criteri che dovrebbero reggere l’azione
sindacale, spinta sino al punto di preconizzare nessun futuro per il modello di
sindacalismo proprio della Cgil. Quanto all’impostazione seguita nelle vicende
recenti da Uil e Cisl, essa si giustificherebbe in ragione dell’obiettivo di
marginalizzare le lesioni all’art. 18 e, più in generale, al sistema dei
diritti dei lavoratori. Detta in questi termini si sarebbe quasi tentati di
consentire: se non fosse che, per giudicare della bontà di un’impostazione del
genere, resta pur sempre da chiedersi dove essa vada a parare.
Vale la pena di ribadire,
allora, che la modifica dell’art. 18, cui Cisl ed Uil sembrano apprestarsi a
dare il loro consenso, non è affatto marginale. Non vale obiettare che la
legislazione vigente conosce già ipotesi (sono stati ricordati gli assunti con
contratto di reinserimento e i lavoratori socialmente utili, ma si sarebbero
potuti menzionare anche apprendisti ed interinali) di non computabilità di
certi lavoratori nell’organico aziendale al fine del superamento della soglia
dei quindici addetti, da cui dipende l’applicazione dell’art. 18.
Quest’argomento, infatti, di per sé potrebbe servire soltanto per dimostrare la
pretestuosità della deroga che si vorrebbe introdurre al regime dell’art. 18:
le piccole imprese che vogliono crescere, senza rischiare di dover applicare
quel regime, possono già farlo oggi, assumendo lavoratori “trasparenti” (ovvero
non computabili). Questa possibilità è
sicuramente assai discutibile ed anzi al limite dell’incostituzionalità, stando
alle indicazioni di una ben nota sentenza della Corte costituzionale (citata in
questi giorni a sproposito dal sottosegretario Sacconi), la quale sin dal 1988 ha
invitato il legislatore a superare la tecnica della non computabilità. In ogni
caso si tratta di una possibilità con confini ben precisi, dipendenti dal
carattere circoscritto delle categorie di lavoratori non computabili e dagli
ulteriori limiti quantitativi variamente previsti da legge e contratti
collettivi ai fini della loro assunzione. La deroga che il governo si appresta
a varare, viceversa, riguarderebbe qualsiasi, normalissimo lavoratore assunto
dopo la sua entrata in vigore: e va contestata non solo (e non tanto) per la
sua palese irrilevanza rispetto all’obiettivo dichiarato di favorire la
crescita dimensionale delle piccole imprese e per le disparità di trattamento,
lesive del principio costituzionale d’uguaglianza, che essa, a parità di ogni altra
condizione, introdurrebbe sia fra le imprese sia fra i lavoratori; quanto
soprattutto per la sua attitudine a promuovere la diffusione della frode nel
mercato del lavoro.
L’argomento è già stato
sollevato da altri, ma forse vale la pena di ritornarvi e ribadire che, al di
là delle intenzioni proclamate, la deroga in questione, anziché al superamento
della soglia dei 15 addetti da parte delle imprese minori, rischia soprattutto
di giovare a quelle medie e grandi, che si troveranno a disposizione uno strumento
per operazioni truffaldine di aggiramento delle regole in materia di
licenziamento. Un’impresa con alcune centinaia di dipendenti, invero, potrebbe
essere tentata di deliberare la cessazione della propria attività, per poi
risorgere dalle ceneri, a breve distanza di tempo, assumendo inizialmente non
più di quindici dei vecchi dipendenti e, subito dopo, tutti gli altri: vedendo
premiata la propria propensione alla crescita con la disapplicazione per tutti
dell’art. 18. Domanda: ai lavoratori in questione come si farebbe a spiegare
che i loro diritti acquisiti non sono stati toccati?
Il meccanismo fraudolento più
pericoloso, in ogni caso, dipende dall’intreccio fra la deroga all’art. 18 e la
nuova disciplina del trasferimento d’impresa, contenuta anch’essa nel disegno
di legge delega sul mercato del lavoro. Poiché con le regole che si vorrebbero
approvare sarebbe possibile precostituire un ramo di azienda ad hoc, del tutto
privo di quell’autonomia funzionale richiesta dalla normativa vigente (e dal diritto
comunitario), al solo scopo di esternalizzare (cioè, più semplicemente,
espellere) un certo numero di lavoratori, questi ultimi potrebbero essere
trasferiti ad un’impresa, anch’essa costituita ad hoc e sotto la soglia dei
quindici addetti, libera poi di
crescere senza applicare a nessuno l’art. 18. Tutte le grandi imprese, in
sostanza, potrebbero precostituirsi proprie imprese satelliti, ove concentrare
le nuove assunzioni (o spostare ulteriori quote di personale) al riparo
dall’applicazione dell’art. 18.
Con la firma del patto fra
governo e parti sociali, d’altro canto, si darebbe il via libera
all’introduzione di molte altre regole ed istituti, pesantemente peggiorativi
dell’assetto normativo vigente, ed in parte incidenti, seppur indirettamente,
sulla questione dei licenziamenti. Solo per memoria, e senza pretesa di
esaustività, si può ricordare che, a parte la già richiamata modifica della
disciplina del trasferimento d’impresa, con il patto e la susseguente
approvazione parlamentare della delega:
a. si introdurrebbe nel sistema lo staff
leasing, ovvero si legittimerebbe l’appalto di manodopera. Con la conseguenza
pratica che un’impresa potrebbe operare con diverse centinaia di addetti,
limitandosi ad assumerne direttamente non più di quindici e ricorrendo, quanto
agli altri, alla stipulazione di un contratto di fornitura di personale a tempo
indeterminato: il che le permetterebbe di non applicare a nessuno lo Statuto
dei lavoratori (non solo sui licenziamenti, ma anche sui diritti sindacali);
b. si darebbe spazio all’arbitrato
d’equità. E’ strano che non si senta più parlare della questione. Eppure la
cancellazione della norma in proposito era stata rivendicata unitariamente dai
tre sindacati confederali: a giusta ragione, dato che l’arbitrato d’equità
consentirebbe di dirimere ogni controversia, a partire proprio da quelle in
materia di licenziamenti, prescindendo da leggi e contratti collettivi;
c. si cancellerebbe la riforma del
part-time voluta dal governo di centrosinistra, per lasciare campo aperto ad
una deregolazione dell’istituto, legittimando le forme più estreme di
flessibilità (dal lavoro a chiamata al contratto a zero ore): con quale
beneficio per il lavoro delle donne non è difficile immaginare;
d. si sancirebbe una modifica del regime
dell’orario di lavoro, che consentirebbe giornate lavorative quasi senza limiti
di durata (prolungabili, a quanto pare, anche sino a 13 ore): davvero un bel
tocco di modernità ottocentesca;
e. si lascerebbe passare, infine,
un’evanescente regolazione delle collaborazioni coordinate e continuative, che
sembra avere il solo scopo di imprimere un sigillo di legittimità ad una delle
peggiori distorsioni dell’attuale mercato del lavoro.
Il modestissimo ritocco
dell’indennità di disoccupazione offerto dal governo non sembra davvero,
neppure alla lontana, potersi considerare una contropartita adeguata per simile
sconquasso. D’altro canto è davvero impensabile aspettarsi un vero
potenziamento del sistema degli ammortizzatori sociali da parte di un governo
che, nel momento stesso in cui finge di discutere questo problema, progetta una
riforma fiscale che, a parte gli effetti redistributivi a vantaggio dei ceti
più abbienti, provocherà una voragine nei conti dello Stato e quindi,
necessariamente, imporrà tagli compensativi di spesa pubblica (a partire da
quella sociale). Se a tutto ciò si aggiunge la destabilizzazione del sistema
previdenziale pubblico, conseguente alla ventilata decontribuzione per i nuovi
assunti (che il governo non sembra neppure disposto a discutere con i
sindacati), il quadro di merito dell’intesa verso la quale ci si sta avviando
risulterà più chiaro. Né si dica che il mestiere del sindacato è comunque
quello di firmare accordi. Ciò può valere per un compromesso salariale.
Allorché si tratti di regole che incidono nel profondo nella vita delle
persone, viceversa, un accordo purchessia non indebolisce soltanto i lavoratori
nel presente; li indebolisce anche per il futuro, perché priva le loro
organizzazioni rappresentative, ove esse di quell’accordo risultino firmatarie,
della legittimità politica di contestarne gli effetti, una volta che questi
abbiano rivelato tutta la loro carica demolitrice di diritti e tutele.
Le posizioni della Cgil, d’altro
canto, vengono contestate anche da qualche settore della sinistra: ad esempio
da chi, sull’Unità di venerdì scorso, le critica sostenendo che “a noi di
sinistra devono premere le ragioni dell’equità, riformare un mercato del lavoro
tra i peggiori del mondo, spaccato in una dicotomia radicale”. Estrapolata dal
contesto, l’affermazione potrebbe essere agevolmente attribuita ad un membro
del comitato promotore del referendum per l’estensione generalizzata dell’art.
18. Il che conferma quali e quanti equivoci possano nascere quando si
preferisce volteggiare nei cieli del metodo, trascurando di precisare il merito
sottostante. Nel merito, infatti, il ben noto esponente della sinistra liberal,
cui si deve la paternità di quell’affermazione, va proponendo da anni - ma si
guarda bene dal ricordarlo ai lettori dell’Unità - un modello di equità in
forza del quale dal mercato del lavoro dovrebbe essere radicalmente soppressa
per tutti la regola della giusta causa e restituita alle imprese la più piena
discrezionalità in materia di licenziamenti. Nello stesso contesto, richiamando
uno scritto d’annata (1996) di Michele Salvati, si sostiene che “non è
impossibile pensare a evoluzioni del capitalismo in cui la disoccupazione non
fa paura…e in cui il livello di civiltà degli imprenditori è molto più alto e
dunque le crisi dovute a imperizia, arroganza e speculazione sono fortemente
ridotte e pesantemente sanzionate dalla stessa collettività degli
imprenditori”. Certo è che suona male riproporre oggi idee del genere nel paese
dove il falso in bilancio è stato equiparato ad una irrilevante marachella. Né
il suono può migliorare, quando si abbiano occhi laicamente aperti per
guardarsi attorno ed accorgersi che vicende, come quelle di Enron e Worldcom,
forse sono qualcosa di più di un incidente di percorso.
Di fronte a suggestioni del genere
il problema, in ogni caso, non sembra essere della Cgil. Semmai è
dell’opposizione, e della sinistra in particolare. Che non potrà continuare
all’infinito a pretendere di tenere insieme posizioni così divaricate su
questioni fondamentali: accreditando un’idea distorta del pluralismo, che può
solo servire a proiettare all’esterno l’immagine di un partito dall’identità
confusa, lontano dalla sua storia e dalle sue più feconde radici sociali.
Massimo
Roccella, ordinario di diritto
del lavoro Un. di Torino
(*) Pubblicato ne l’Unità del 2 luglio 2002 con il titolo Tutti i danni di una semplice firma
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