Il mobbing e il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa
 
 
Sommario: 1. Il mobbing: il problema definitorio. 2. La definizione del mobbing da parte delle dottrine psicologiche e sociologiche. 3. Le proposte di legge. 4. L’approccio della giurisprudenza.  5. A che cosa serve la nozione di mobbing? 6. Il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa. 7. Conclusioni.
 
1. Il mobbing: il problema definitorio.
E’ molto recente la scoperta del fenomeno del mobbing: molto recente ma accompagnata da ampia risonanza da parte dei mass media (1), che del termine hanno fatto un vocabolo ormai di uso comune, utilizzato per indicare fenomeni diversi, collegati comunque al disagio ed all’emarginazione del singolo all’interno dell’ambiente di lavoro (e non solo).
D’altra parte, a questa improvvisa esplosione di notorietà ha fatto seguito, per esperienza quotidiana, il fiorire dei ricorsi che prospettano situazioni di mobbing, e che a queste ricollegano pretese risarcitorie diversamente qualificate, e quantificate: alle quali, per vero, le risposte della giurisprudenza sono state sin qui innanzitutto numericamente molto limitate, e partenti da presupposti molto diversi per quel che riguarda l’approccio definitorio.
D’altra parte, la problematicità di quello che dovrebbe costituire il   punto di partenza per l’analisi della fattispecie, è ben nota a tutti gli studiosi, di qualsiasi formazione, che si sono di recente avvicinati al fenomeno. Ancora di recente, uno studio intitolato “Mobbing e rapporto di lavoro – Una fattispecie emergente di danno alla persona” (2) esordiva con la seguente affermazione “Il fenomeno del cd. mobbing non ha una precisa connotazione giuridica e neppure confini certi o determinati sul piano delle forme e delle modalità attuative”.
Da questa consapevolezza si deve partire dunque prima di procedere alla ricapitolazione dello “stato dell’arte”: avendo ben presente peraltro come la scelta definitoria che spetterà infine, per quel che è di nostro diretto interesse, alla scienza giuridica, sarà determinante al fine dell’individuazione degli strumenti giuridici volti alla repressione delle condotte mobbizzanti, e quindi al fine di concedere, o negare, al lavoratore tutele nuove, più avanzate, in grado di coprire effettivamente zone grigie, o “terre di nessuno” che dir si voglia, dove in precedenza il diritto non sapeva o non voleva arrivare.
Qui si annida uno dei primi interrogativi di fondo rispetto allo studio del fenomeno: quanto di “nuovo” offre questa novità terminologica, rispetto agli istituti vigenti nel nostro ordinamento, di matrice costituzionale, legislativa o giurisprudenziale, comunemente invocati ed utilizzati per dare tutela al lavoratore? Forse l’interrogativo non è così mal posto, se addirittura  il tema di questa relazione consiste in una associazione fra il concetto di mobbing e la tematica complessiva del diritto del lavoratore allo svolgimento della prestazione lavorativa, e dunque alle  mansioni per le quali è stato assunto, tematica che già dall’enunciazione evoca tutta quell’elaborazione, giurisprudenziale e dottrinale, in materia di demansionamento e di svuotamento di mansioni da parte del datore di lavoro, di cui ognuno di noi fa normalmente uso nel corso della sua pratica quotidiana.
L’obbiettivo è allora quello di finalizzare la ricostruzione concettuale, senza alcuna pretesa di originalità, alla prospettiva dell’applicazione concreta nel tentativo di individuare, se ve ne sono,  le specificità e le novità effettive apportate dal mobbing: senza dimenticare che ogni enunciazione di principio dovrà poi misurarsi con realtà fattuali sempre diverse, sempre particolari, mai sovrapponibili tra di loro, ricostruibili solo con difficoltà e difficilmente adattabili a schemi concettuali troppo rigidi e complessi (3).
 
2. La definizione del mobbing da parte delle dottrine psicologiche e sociologiche.
Come è noto, si devono alla psicologia i primi studi relativi al mobbing.
Stupisce per vero che anche per questa scienza, la scoperta del fenomeno sia avvenuta abbastanza di recente. Le prime ricerche e teorizzazioni, da parte di uno studioso, di origine  tedesca ma vissuto lungamente in Svezia, Hans Leymann, risalgono infatti alla metà degli anni ottanta: solo nel 1996 tali studi trovarono una consacrazione a livello scientifico, a seguito della pubblicazione di un intero numero della rivista  European Journal of Work and Organizational Psychology dedicato al fenomeno, recante contributi non solo di quello che viene considerato nella comunità scientifica il “padre del Mobbing”, ma anche di altri esperti, prevalentemente di nazionalità tedesca o scandinava.
Nel 1996 è stato pubblicato in Italia il primo libro dedicato espressamente all’argomento (4), libro scritto da Harald Ege, Psicologo del lavoro, ricercatore tedesco residente in Italia da molti anni dove opera, in particolare a Bologna,  che si è affermato negli anni seguenti come uno dei più accreditati e conosciuti specialisti nella materia, venendo a collaborare infine anche come CTU nella controversia conclusasi con la sentenza del Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001, est. Sorgi, su cui si tornerà ampiamente più avanti, sentenza che per opinione unanime costituisce il contributo più avanzato alla definizione del fenomeno da parte della giurisprudenza.
Immediata fortuna e diffusione ha trovato la definizione che Leymann per primo ha attribuito alla sua “creatura”, ossia quella di “terrore psicologico sul posto di lavoro”; il termine deriva, come è ormai risaputo, dal verbo inglese to mob, che significa “assalire, aggredire, accerchiare qualcuno”, utilizzato in etologia per descrivere i comportamenti del branco volti ad espellere un membro del gruppo.
In Italia, pari notorietà è stata ormai raggiunta dalla elaborazione che rispetto alla medesima nozione è stata fornita da Ege (5), la cui espressione più recente è pervenuta a descrivere  “il mobbing (come)  una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in constante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione”.
In altre sue opere, (6) Ege arriva a definire il mobbing come una vera e propria “guerra sul lavoro, in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la professionalità delle vittime”.
Nello stesso testo, Ege fornisce un altro, preziosissimo contributo, nell’individuare addirittura le categorie in cui suddividere gli attacchi mobbizzanti, in numero di cinque, e relative a:
1. attacchi ai contatti umani (limitazioni alle possibilità di esprimersi, continue interruzioni del discorso, critiche e rimproveri costanti, sguardi e gesti con significato negativo, ecc.);
2. isolamento sistematico (trasferimento della vittima a un luogo di lavoro isolato, comportamenti tendenti ad ignorarla, divieti di parlare o intrattenere rapporti con questa persona, etc.);
3. cambiamenti delle mansioni (revoca di ogni mansione da svolgere, assegnazione di lavori senza senso, nocivi o al di sotto delle capacità della vittima, cambiamenti comuni degli incarichi, etc.);
4. attacchi contro la reputazione (calunnie, pettegolezzi, ridicolizzazione dei difetti o delle caratteristiche della vittima, turpiloquio, valutazione sbagliata o umiliante delle sue prestazioni, ecc.);
5. violenza o minacce di violenza (minacce o atti di violenza fisica o a sfondo sessuale, etc.).
Nella sua ultima opera (7), Ege arriva per certi versi ad estremizzare questa sua ansia definitoria, fornendo comunque premesse essenziali per la comprensione del fenomeno, e per il superamento di ogni possibile equivoco, incominciando a porre chiarezza su quello che non è e non deve essere considerato mobbing : il mobbing, lo si è già detto, non è una singola azione, consistente in un unico demansionamento, un trasferimento, gravoso, un ordine di servizio umiliante, l’assegnazione ad una postazione di lavoro scomoda ed ergonomicamente scorretta, ma è una strategia, un attacco continuato, ripetuto, duraturo; non è una malattia, ed in particolare non è una malattia psichiatrica, ma è invece una situazione (8); non è un problema dell’ambiente familiare(9); non è una molestia sessuale, anche se la molestia di questo genere può essere utilizzata come uno degli strumenti a questo fine; non individua un tipo particolare di vittima, ma può essere indirizzato contro chiunque, secondo dinamiche che si sviluppano maggiormente in ambiente impiegatizio e nel settore pubblico (10) .
Più attenti al versante rappresentato dalle sofferenze della vittima, e forse meno a quello rappresentato dall’ambiente e dalle dinamiche in cui il fenomeno si sviluppa, in un’ottica più schiettamente terapeutica, altri autori (11), con formazione peraltro più strettamente medica, individuano il mobbing in quella “situazione di aggressione, di esclusione e di emarginazione di un lavoratore da parte dei suoi colleghi o dei suoi superiori”, in altri termini in una “malattia sociale trasversale”, che si caratterizza per “la continuità delle aggressioni nel tempo, lo stillicidio di eventi persecutori, l’intensificazione progressiva di attacchi che portano la vittima all’isolamento, all’emarginazione, al disagio ed alla malattia”.
Tra le conseguenze più frequenti sul piano patologico, la neuropsichiatria individua appunto una diagnosi specifica di “disturbo postraumatico da stress”, formula che indica quell’insieme di disturbi psichici (come depressione, ansia, pensiero ossessivamente concentrato, stato di tensione perpetua e di iperallerta), che compaiono dopo un trauma psichico acuto o comulativo. Negli altri casi la diagnosi è di “disturbo dell’adattamento”, che ha gli stessi caratteri del disturbo postraumatico da stress ma in forma meno intensa e senza conseguenze croniche
Generale condivisione, salvo alcune varianti terminologiche che non intaccano la sostanza del fenomeno, trova poi la suddivisione tra il mobbing cd. “verticale”,  quando esso viene attuato da un capo verso i sottoposti, e quando è l’intera azienda che mette in atto una strategia diretta o indiretta per rendere impossibile la vita a un dipendente sgradito in modo da costringerlo a licenziarlo (il fenomeno in questione viene anche denominato, da certi studiosi, come bossing) (12), opposto al mobbing cd. “orizzontale”, che si verifica quando un certo numero di colleghi emarginano qualcuno che, per qualche motivo, il gruppo non vuole (13). Talvolta, secondo questi studi, questa molestia collettiva orizzontale può essere una dinamica psicologica di branco quasi inconsapevole, diretta a scaricare su un capro espiatorio le tensioni, l’aggressività, le gelosie del lavoro.
Ma la psicologia del lavoro  considera anche come fenomeno reale, seppure numericamente limitato, quello relativo al mobbing “dal basso”, ossia posto in essere da soggetti posti a livello inferiore nella scala gerarchica che regola l’organizzazione dell’azienda di comune appartenenza: è documentata una minoranza di casi in cui l’attacco alla vittima viene appunto dal basso, ossia da sottoposti che non accettano il capo e che mettono in atto una sorta di ammutinamento contro di lui (14).
Per sintetizzare, i tratti comuni che vengono identificati relativamente al fenomeno in questione sono la ripetitività nel tempo delle condotte, e la loro riconducibilità ad un identico disegno, quello che ha per oggetto appunto l’esclusione, l’emarginazione del lavoratore (non necessariamente la sua estromissione dall’ambiente di lavoro, che piuttosto caratterizza, come si è detto, il genus più ristretto costituito dal bossing).
Quanto al primo requisito, se Leymann nei suoi studi è arrivato a definire in sei mesi la durata minima dell’arco temporale necessario e sufficiente per poter diagnosticare una situazione di mobbing, richiedendo comunque una frequenza degli attacchi mobbizzanti non inferiori alla settimana, si consideri che Ege (15) in base all’osservazione dei casi che gli si sono presentati, ha ritenuto di poter aderire a parametri meno rigidi, per quel che riguarda la frequenza indicando una cadenza delle azioni ostili di almeno alcune volte al mese, e per ciò che concerne la durata ammettendo anche la configurabilità di un periodo minore, a patto che più elevata sia la frequenza delle azioni rivolte contro la vittima.
Numerosi spunti problematici, soprattutto in relazione alla sua importanza determinante, offre poi il secondo requisito, quello dell’elemento intenzionale: a voler tacere in questo momento delle evidenti difficoltà di prova, è sui contenuti di tale elemento che è indispensabile fare chiarezza.
Non è richiesto, si è detto, che di tale elemento intenzionale faccia parte l’obbiettivo di espellere il soggetto dall’ambiente di lavoro: tale connotato ricorre solo in una delle tipologie, il cosiddetto bossing (16).
In tutte le altre ipotesi, ed in particolare in quella del mobbing orizzontale, ciò che ricorre è un generico intento persecutorio, che può essere volto sì ad allontanare il lavoratore, ma anche solo a procurargli fastidio, bloccargli la carriera, isolarlo o metterlo in ridicolo. Si tratta di un atteggiamento ostile e negativo, che può sorgere in base alle dinamiche più varie, e che individua la sua vittima senza alcuna regola prefissata, ponendola però al centro di una ripetuta serie di attacchi: è questo, indubbiamente, il tratto distintivo, l’elemento qualificante del fenomeno, e, ritengo, anche il profilo di maggiore interesse per le scienze psicologiche e neuropsichiatriche. Per ciò che concerne il diritto del lavoro, è il carattere in grado di dare rilevanza unitaria ad una serie di comportamenti, anche solo materiali, di per sè magari formalmente legittimi, o quantomeno neutri, ma che finiscono per assumere una valenza negativa ulteriore e specifica: è ciò che segna, nei suoi tratti identificativi, la vera novità del fenomeno mobbing, rispetto a tutte le ipotesi di condotte illecite da parte del datore di lavoro, tali da suscitare la reazione dell’ordinamento a tutela effettiva della persona del lavoratore.
 
3. Le proposte di legge.
Da registrarsi, negli anni recenti, anche un notevole interesse del legislatore nei confronti del fenomeno (17). Numerosi risultano, infatti, ad oggi, i disegni di legge presentati volti a definire, e quindi  a sanzionare, il mobbing : disegni di legge che non risultano essere mai stati portati in Aula,  o  in Commissione, e che quindi al momento giacciono senza serie ed immediate prospettive di approvazione: fatto questo che non può che creare sconcerto e frustrazione soprattutto in chi, soprattutto se giudice di merito, viene chiamato ormai molto di frequente ad assumere delle scelte definitorie che non trovano poi alcun genere di appiglio normativo, ma che necessariamente devono riferirsi soltanto agli approdi delle  dottrine extra giuridiche.
Il primo progetto di legge (n.1813 del 9.7.1996) aveva ad oggetto “Norme per la repressione del terrorismo psicologico nei luoghi di lavoro” (con chiaro riferimento alle suggestioni leymaniane), ed era composto da un solo articolo, in cui si sanciva, al primo comma:
“chiunque cagiona un danno ad altri ponendo in essere una condotta tesa ad instaurare una forma di terrore psicologico nell’ambiente di lavoro è condannato alla reclusione da uno a tre anni e all’interdizione dai pubblici uffici fino a tre anni”.
Si tratta, con tutta evidenza, di un primo approccio ancora molto arretrato rispetto alle ricche elaborazioni della scienze psicologiche; soprattutto, sembra criticabile l’adozione del solo strumento della repressione penale, che trascura altre e più salienti forme di responsabilità, e che soprattutto viene a colmare un vuoto che in realtà non esiste, dal momento che il nostro ordinamento già conosce fattispecie criminose autonomamente sanzionate che ben potrebbero applicarsi a condotte quali quelle prese in considerazione dal DDL del 1996 (in particolare, le lesioni colpose, perseguibili d’ufficio, ex art. 590 c.p., e la violenza privata, ex art. 610 c.p.) (18).
E’ di tre anni successivo il DDL n.6410, presentato alla Camera il 30.9.1999 (primo firmatario, on. Benvenuto), che si preoccupa innanzitutto di fornire una nozione di mobbing indubbiamente più in linea con le analisi della scienza psichiatrica. All’art. 1, si prevede che:
“Ai fini della presente legge, per violenza e persecuzione psicologica si intendono gli atti posti in essere e i comportamenti tenuti da datori di lavoro, nonché da soggetti che rivestano incarichi in posizione sovraordinata o pari grado nei confronti del lavoratore, che mirano a danneggiare quest’ultimo e che sono svolti con carattere sistematico e duraturo e con palese determinazione.
Gli atti e i comportamenti rilevanti ai fini della presente legge si caratterizzano per il contenuto vessatorio e per le finalità persecutorie (...)
Il danno di natura psico – fisica provocato dagli atti e comportamenti di cui ai commi 2 e 3 rileva ai fini della presente legge quando comporta la menomazione della capacità lavorativa, ovvero pregiudica l’autostima del lavoratore che li subisce, ovvero si traduce in forme depressive”.
Lo sforzo definitorio ha decisamente un’altra intensità: ed anzi, il rischio che corre una tale iniziativa legislativa è quella di porre dei confini troppo rigidi alla fattispecie legale, rispetto all’ampio ventaglio di variabili che l’esperienza concreta presenta. Qualche dubbio, per esempio,  suscita il fatto che costituisca elemento costitutivo della fattispecie la conseguente “menomazione della capacità lavorativa”, ovvero il pregiudizio all’autostima del lavoratore, oppure la causazione di forme depressive: quando tali sorte di eventi per un verso risultano difficilmente dimostrabili in sede processuale, per altro non sono nemmeno esaustive rispetto alle varie forme di disagio e di sofferenza che possono discendere al lavoratore che nel suo ambiente di lavoro è stato fatto vittima di mobbing.
Preferibili allora appaiono da parte dell’interprete, quelle proposte che pur individuando alcuni tratti essenziali del fenomeno, lasciano ampi margini allo sforzo ricostruttivo. In particolare, il DDL n.4265 del 13.10.1999 (firmatari, i senatori De Luca, Smuraglia e Tapparo), definisce il mobbing in termini di :“violenze morali e persecuzioni psicologiche nell’ambito dell’attività lavorativa poste in essere con azioni – a carattere sistematico, duraturo e intenso – che mirano a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore”.
L’ampiezza della definizione si accompagna, per vero, all’indicazione di due requisiti essenziali: la ripetitività del comportamento molesto (non tipizzato), e l’intenzionalità delle condotte, necessariamente volte ad un fine persecutorio.
Un’altra proposta, sempre del 1999 (DDL 2.11.1999 n.4313), ed ancora a firma del senatore De Luca, riprende i tratti essenziali della precedente, e si riferisce alla “violenza psicologica” come :
“qualsiasi atto e comportamento, da chiunque esercitato allo scopo di provocare in un ambito lavorativo, un danno al lavoratore.
Gli atti ed i comportamenti di cui al comma 1, esercitati singolarmente o da un gruppo, devono essere perpetrati in modo offensivo e vessatorio ed essere svolti con carattere sistematico e continuativo rilevando a tal fine anche quelli che tendono a discriminare, screditare, emarginare, isolare e demotivare il lavoratore o ad indurlo a comportamenti contrari alla sua etica”.
Si segnalano ancora, per completezza, la proposta n.6667, presentata alla Camera il 5.1.2000  dall’on. Fiori, che riprende l’approccio  caratterizzato dall’intento di repressione penale,  e il DDL n.4512 del 2.3.2000, presentato dall’on. Tomassini, che invece riprende la definizione del fenomeno, incentrata sui tratti salienti della sistematicità e continuatività delle condotte e della finalità persecutoria.
Con la nuova legislatura, apertasi nell’aprile 2001, altri Disegni di Legge hanno visto la luce: è stato ripresentato quello a firma del sen. Magnalbò (ora al n.422 del 9.7.2001), intitolato “Norme per contrastare il fenomeno del mobbing”, cui se ne è affiancato un altro, di contenuto assolutamente identico, presentato dal sen. Costa (n.870 del 21.11.2001). La particolarità di questi due disegni di legge è rappresentata dal fatto che si tenta di pervenire ad una tipizzazione dei comportamenti capaci di integrare mobbing, tra cui:
“attacchi alla reputazione, creazione di falsi pettegolezzi, insinuazioni malevole, segnalazioni diffamatorie, attribuzioni di errori altrui, carenza di informative e informazioni volutamente errate, al fine di creare problemi, controlli e sorveglianza continui, minacce di trasferimenti, apertura di corrispondenza, difficoltà di permessi o ferie, assenza di promozioni o passaggi di grado, ingiustificata rimozione da incarichi già ricoperti, svalutazione dei risultati già ottenuti”.
Si tratta di uno sforzo notevole, senz’altro, ma rispetto al quale non possono tacersi i rischi di omissioni e di dimenticanze rispetto al pressoché infinito ventaglio di possibili condotte capaci di integrare il mobbing : una eccessiva rigidità definitoria verrebbe evidentemente a delimitare gli spazi di tutela, a fronte di una palese impossibilità di prevedere in astratto e a priori quelli che potrebbero essere i diversi modi di manifestarsi di un identico fenomeno.
In ambito regionale, prima fra tutte la Regione Lazio ha varato una Legge contro il mobbing (la n.16 dell’11 luglio 2002) che prevede l’istituzione, in ogni azienda sanitaria, di appositi centri anti – mobbing. Le vittime di tali comportamenti potranno ricevervi una prima consulenza legale, ma anche un sostegno medico – legale. Le Asl potranno procedere anche al richiamo del datore di lavoro invitandolo ad assumere “provvedimenti idonei” per rimuovere le cause dell’abuso.
Da ultimo, è importante ricordare che anche il Parlamento europeo si è occupato del mobbing,  ponendolo quale oggetto di una sua risoluzione  (A5 – 0283 del 20.9.2001), con la quale invita la Commissione “ad attribuire importanza a misure di miglioramento dell’ambiente lavorativo che siano lungimiranti, sistematiche e preventive, finalizzate tra l’altro a combattere il mobbing  sul posto di lavoro e a valutare l’esigenza di iniziative in tal senso”; esorta gli stati membri a rivedere o completare la propria legislazione sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali e ad uniformare la definizione della fattispecie mobbing; esorta le parti sociali ad elaborare strategie idonee per contrastare tale fenomeno e invita la commissione a presentare un libro verde di analisi dettagliata della situazione, nonché, entro l’ottobre 2002, un programma d’azione concernente le misure comunitarie contro il mobbing sul posto di lavoro.
Esiste poi una Comunicazione della Commissione (COM (2002)118 def.11.3.2002), “Adattarsi alle trasformazioni del lavoro e della società: una nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002 – 2006” che si occupa nello specifico del benessere sul luogo di lavoro che sia “tanto fisico quanto psicologico e sociale e che non si misura semplicemente con l’assenza di infortuni o di malattie professionali” (19).
Si tratta di prese di posizione che paiono importanti, e che soprattutto rendono più difficile un atteggiamento di chiusura, che neghi ogni dignità di appartenenza al nostro ordinamento positivo di questo nuovo fenomeno, riconosciuto   ormai come effettivo e dannoso anche dalle istituzioni comunitarie.
 
4. L’approccio della  giurisprudenza.
Posti sin qui, da un lato, i risultati degli studi psico – sociologici, e dall’altro, le aperture mostrate dal legislatore, ancora senza esito, si impone la necessità di andare ad esaminare lo stato contemporaneo dell’elaborazione giurisprudenziale, ovviamente seguita dal costante, e critico, interesse della dottrina.
Come si è già detto, alla improvvisa esplosione di notorietà del fenomeno sui mass – media, non ha certo corrisposto un analogo successo nelle aule giudiziarie. L’esperienza quotidiana evidenzia un aumento esponenziale dei ricorsi, e delle denunce alle Procure della Repubblica,  che hanno ad oggetto comportamenti datoriali qualificati come mobbing, a cui però non corrisponde un proporzionale incremento delle pronunce sull’argomento.
Una panoramica giurisprudenziale non può certo non partire dalle due sentenze del Tribunale di Torino, entrambe del 1999, ed emesse dal medesimo Giudice, Vincenzo Ciocchetti, che hanno avuto vasta risonanza sulle riviste giuridiche (e non solo) (20).
Si tratta di decisioni che affrontano ipotesi diverse ma con forti tratti di analogia, tra cui quello riguardante il sesso delle due ricorrenti.
La prima verteva sulla vicenda di una lavoratrice che lamentava di essere stata assegnata dal suo superiore gerarchico, pochi giorni dopo la sua assunzione, al lavoro su di una macchina, all’epoca collocata in uno spazio ridotto posto tra altre due macchine, così da isolarla completamente rispetto all’ambiente esterno: dopo l’insorgere di una grave crisi depressiva la lavoratrice aveva deciso di rassegnare le proprie dimissioni, e quindi aveva agito giudizialmente per il risarcimento del danno.
La seconda riguardava invece la storia di altra lavoratrice, cui il datore si era rivolto in una occasione per chiederle, evidentemente con una certa forma di pressione, di rassegnare le proprie dimissioni poiché aveva saputo che il suo convivente, già dipendente della stessa azienda, era passato a lavorare per una impresa in concorrenza: anche in questo caso, si era registrato l’insorgere di una forte sindrome ansioso – depressiva, che aveva determinato una lunga assenza dal lavoro, durante la quale era stata assunta altra dipendente destinata a svolgere le mansioni già della ricorrente, la quale al suo rientro si era vista assegnare compiti fortemente dequalificati, che l’avevano indotta, anche in tal caso, a rendere  le proprie dimissioni.
Analoga era stata la risposta del giudice: accertata la sussistenza delle condotte, superato ogni problema definitorio attraverso il ricorso (definito dai commentatori alquanto  “disinvolto” (21) alla nozione di “fatto notorio”, inteso come fatto “acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in giudizio” nell’ambito della quale inquadrare il fenomeno del mobbing, ritenuta la superfluità di ogni accertamento tecnico di natura medico – psichiatrica per valutare l’esistenza e la sussistenza del danno, il Tribunale di Torino in entrambe le occasioni è pervenuto a liquidare una somma a titolo di risarcimento del danno, a titolo sia di danno biologico, seppure non con effetti permanenti, sia di quello da demansionamento, quantificata in dieci milioni di lire sulla base del mero parametro dell’equità.
Va riconosciuto ad entrambe le pronunce il coraggio di avere saputo e voluto introdurre così nel mondo del “diritto vivente” un fenomeno ignoto alle aule giudiziarie, nonostante la grande risonanza che gli veniva data all’esterno, e soprattutto l’evidente rispondenza ad un bisogno di una tutela avanzata, ulteriore rispetto a quella offerta dagli strumenti tipici del diritto del lavoro: se poi al Tribunale di Torino si imputa (con seri fondamenti, va detto) di avere voluto in qualche modo ignorare, o sminuire, la necessità di partire da uno sforzo definitorio, orbene, non si può nascondere che la stessa Corte di Cassazione, nella prima delle occasioni in cui, se pure in un obiter dictum, si è andata ad occupare del mobbing (22), non ha certo assolto meglio al compito che oggi lucidamente viene posto come imprescindibile, limitandosi a riferirsi ad esso  come a quel fenomeno che “indica l’aggredire la sfera psichica altrui, mutuato dal linguaggio usato in altri paesi in cui il fenomeno stesso da tempo è oggetto di studi particolari” .
Evidentemente (e si torna al nucleo del problema da cui si è partiti) il bisogno di una definizione si rende quanto più pressante in quanto si ha in mente il tipo di tutela che si vuole predisporre: nel caso del Tribunale di Torino, per esempio, è stato negato, ed anche autorevolmente, che le fattispecie concrete potessero essere inquadrate secondo la nozione scientifica (in assenza di quella giuridica) di mobbing (23), perché risultavano carenti di entrambi i requisiti essenziali: la frequenza e la sistematicità delle azioni, e l’intento persecutorio che le deve informare.
Ma venendo più strettamente a quello che le due decisioni hanno comportato, dal punto di vista dei contenuti della statuizione, si osserva da un lato che il Tribunale di Torino ha individuato innanzitutto, con tecnica ineccepibile, il fondamento della sanzionabilità delle condotte datoriali nell’art. 2087 c.c., che fonda l’obbligo dell’imprenditore a garantire l’integrità fisico – psichica dei propri dipendenti, e quindi “ad impedire contegni aggressivi e vessatori dei responsabili nei confronti di quelli”; secondariamente, ha riconosciuto il diritto delle lavoratrici al risarcimento del danno, che è stato liquidato utilizzando due categorie già ben note, e comunemente utilizzate, dalla giurisprudenza di legittimità e di merito: il danno biologico, e il cd. danno da demansionamento.
Anche tale conclusione sanzionatoria, pertanto, sembrerebbe dare ragione a chi contesta la riconducibilità delle fattispecie concrete a questo nuovo fenomeno: seppure qualificate secondo schemi innovativi, la risposta che ad esse si è fornita non conosce strumento nuovi e diversi con i quali il giudice sanzionava, e sanziona, le violazioni dell’art. 2087 c.c., e dell’art. 2103 c.c.
Proseguendo nella rassegna delle decisioni (poche) che sino ad oggi hanno affrontato l’argomento, per lo più negandone la sussistenza, si sottolinea invece l’approfondimento definitorio contenuto in due sentenze del Tribunale di Milano.
La prima, pronunciata in grado di appello (24), espressamente sancisce che “non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. “mobbing”), qualora l’assenza di sistematicità, la scarsità di episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di una organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi”.
La pronuncia si segnala perché individua con chiarezza i tratti distintivi del mobbing, quali individuati dalla scienza psichiatrica, e ritiene di utilizzarli de plano ai fini dell’inquadramento della fattispecie: l’elemento della reiterazione e della sistematicità delle condotte, e l’intenzionalità delle stesse. Si segnala altresì perché evidenzia come “il fatto che il mobbing sia stato oggetto di attenzioni sociologiche e anche televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo giuridico allorquando ad esso si vogliono collegare conseguenze giuridiche in termini di risarcimento del danno”: e su questa linea si colloca la seconda sentenza del Tribunale di Milano (25), che richiama gli oneri probatori su cui si regge il processo del lavoro, e che esclude la sussistenza del mobbing “qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori, che tali non possono dirsi qualora siano riferibili alla normale condotta imprenditoriale funzionale all’organizzazione produttiva”.
Molto citata, e variamente commentata, risulta poi la sentenza del Tribunale di Como (26), emessa a suggello di una vicenda processuale in cui una giornalista evocava in giudizio il capo servizio del giornale di cui era collaboratrice (e non, si badi, il giornale medesimo, o la casa editrice, o comunque un’entità identificabile con il suo “datore di lavoro”), lamentando che da parte di costui fossero stati posti in essere nei suoi confronti “comportamenti persecutori e di vessazioni professionali” che le avevano cagionato un danno alla salute, di cui chiedeva il risarcimento.
Il Tribunale di Como richiamati i precedenti sul tema, ed in particolare la prima sentenza del Tribunale di Torino, è pervenuto ad elaborare e ad esplicitare una propria definizione del fenomeno, nei seguenti termini: “Il mobbing aziendale, invece (in contrapposizione alle molestie, ndr.), è l’insieme di atti, ciascuno dei quali è apparentemente inoffensivo. L’elemento psicologico consiste nell’”animus nocendi” , che mira a ledere la psiche del mobbizzato e ad espellerlo da una comunità. Il mobbing è collettivo, così come la genesi etologica sembra indicare”.
A tale sforzo definitorio si è opposta vivacemente la dottrina psicologica, ed in particolare colui che in Italia di mobbing  maggiormente ha scritto, Harald Ege. Ege ha criticato la definizione del Tribunale di Como sotto due profili, di non secondaria importanza: quello per cui si dovrebbe trattare innanzitutto di un fenomeno collettivo, posto in essere da una pluralità di soggetti, e l’altro, secondo il quale l’elemento intenzionale dovrebbe consistere nello scopo preciso di espellere la vittima.
In realtà, secondo quanto afferma Ege, nessuno degli studiosi che si sono occupati del fenomeno ha affermato che la pluralità dei mobbers costituisce un requisito caratterizzante la fattispecie: anzi, nell’ambito delle rilevazioni statistiche svolte dagli psicologi (Leymann, primo fra tutti), si evidenziava che ben un caso su tre riguardava una singola persona responsabile di mobbing.
Non diversamente, ciò che caratterizza il dolo, nel mobbing, non è lo scopo di giungere all’espulsione della vittima dall’ambiente di lavoro: lo scopo può essere più limitatamente quello di danneggiarla, di emarginarla, di discriminarla, magari fino a quando non giunga a perdere il posto di lavoro, anche perché costretta a lasciarlo. Ma non necessariamente, questo esito finale deve essere voluto sin dall’inizio da chi pone in essere condotte di mobbing: d’altronde, come ricorda Ege, per indicare la fattispecie caratterizzata da questo specifico elemento intenzionale, è stata individuata una categoria particolare di mobbing, il cosiddetto bossing, già sopra richiamato.
Grande importanza nell’ambito di questo capitolo deve essere attribuita alla sentenza del Tribunale di Forlì, est. Sorgi, 15 marzo 2001 (27): sentenza che si assume appieno il compito di formulare una definizione del fenomeno, e soprattutto, di identificare le forme di risarcimento del danno più idonee a fronte della fattispecie.
Il Tribunale di Forlì innanzitutto, partendo dalla pacifica constatazione circa l’assenza nel nostro ordinamento di una normativa specifica che fornisca una definizione di mobbing ed appronti gli strumenti repressivi, esprime il convincimento per cui tale fenomeno potrà ricorrere  “solo ed in quanto determinate condotte presentino i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale (Leymann) e nazionale (Ege)”: in tutti gli  altri casi in cui invece si registra una mera somiglianza, ogni episodio dovrà essere diversamente catalogato e darà diritto a diversi profili di tutela risarcitoria.
Il pericolo, in effetti, è quello che si affermi l’equazione per cui “tutto è mobbing, niente è mobbing”: compito primo della giurisprudenza è dunque quello di evitare dannose generalizzazioni, e di affrontare consapevolmente e responsabilmente quel lavoro definitorio che sin qui il legislatore ha trascurato.
Il Tribunale di Forlì parte appunto dalla condivisione dei caratteri distintivi del mobbing, quali individuati dalla psicologia del lavoro: e fornisce una nozione, in base alla quale per mobbing si deve intendere “quel comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo subisce delle conseguenze negative anche in ordine fisico da tale situazione”.
Ma il Giudice non condivide solo la nozione che dalla psicologia del lavoro, dalla più classica in argomento, è stata elaborata: condivide anche quel “modello italiano” di mobbing elaborato da Ege, che arriva a individuare sei fasi diverse in cui si realizza la sua escalation (a fronte delle quattro individuate da Leymann):  “Dopo la cd. condizione zero di conflitto fisiologico normale ed accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale ... La seconda fase è il vero e proprio inizio  del mobbing nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio ... La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute... La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori ed abusi dell’amministrazione del personale che, insospettita dalle assenze del soggetto mobbizzato, erra nella valutazione negativa del caso non riuscendo, per carenza di informazione sull’origine della situazione, a capire le ragioni del disagio del dipendente... La quinta fase del mobbing è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione... Resta la sesta fase, per altro indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti.”
Per individuare i punti salienti della decisione che si sta commentando, è evidente innanzitutto che il Tribunale di Forlì condivide appieno i risultati che ci derivano dagli studi degli specialisti psicologi: condivide il tratto della ripetitività e della sistematicità delle condotte, le quali peraltro non sono e non devono essere tipizzate (nel caso di specie, si erano realizzati un trasferimento del lavoratore, un demansionamento, e, accanto a queste evidenti violazioni di specifiche norme a tutela del lavoratore, comportamenti materiali quali la privazione delle chiavi del garage e della possibilità di usufruire del posto macchina).
Condivide poi il Giudice di Forlì un altro carattere importante, ossia la durata del mobbing: la vicenda concreta peraltro si era dipanata per più anni, in cui via via si erano venute a realizzare le varie condotte, unificate, per così dire, dall’esistenza dell’identità dello scopo,  quindi non si poneva nemmeno il problema di un termine minimo, sul quale invece, come si è visto, gli psicologi del lavoro si sono espressi.
Pare discostarsi invece la decisione che si commenta dalle conclusioni cui è pervenuta la psicologia, su un punto, posto che nega, o quantomeno non contempla, che il mobbing possa essere realizzato da colleghi posti in posizione gerarchica subordinata rispetto alla vittima: e, anche se sul punto non sono state sviluppate dal Giudice di Forlì particolari osservazioni, che d’altronde il caso di specie non richiedeva,  pare davvero difficile, per chi è abituato ad osservare le dinamiche interne agli ambienti di lavoro, che una condotta mobbizzante posta in essere da subordinati possa avere un qualche seguito, ed un qualche effetto dannoso, a meno che non venga a saldarsi con i comportamenti, commissivi od omissivi, ma intenzionali, di chi nella scala gerarchica si colloca in grado superiore rispetto al soggetto preso di mira.
Sull’elemento intenzionale, anche qui, vi era l’evidenza della prova: si trattava infatti di ipotesi di cd. bossing, posto in essere  cioè da superiori gerarchici, che avevano non tanto l’obbiettivo di isolare il ricorrente, di interrompere i contatti umani con gli altri appartenenti alla comunità costituita dall’ambiente di lavoro, quanto piuttosto quello esplicito di ottenerne l’uscita definitiva, con risoluzione contrattuale (che nelle more del processo era stata intimata).
Ma il Tribunale non limita il suo utilissimo sforzo alla definizione della nozione di mobbing: affronta il secondo, essenziale nodo problematico, che è poi quello della individuazione del danno ipoteticamente subito dalla parte lesa.
Il Giudice dà ormai per superata la tradizionale tripartizione delle figure di danno (patrimoniale, morale, biologico), in quanto ormai inadeguata a coprire tutti gli spazi di possibile tutela: gli esempi sono quelli oggi presenti alla mente di tutti, rappresentati da ipotesi di violazioni di norme contrattuali (art. 2087, o 2103 c.c., o anche altro), non tali da causare perdite patrimoniali, e nemmeno danni alla salute tali, quantomeno, da essere valutati da un punto di vista medico – legale. Nel caso in cui vengono allegate prima, e provate poi, conseguenze comunque negative che incidono sulla vita di relazione del soggetto che è stato colpito essenzialmente e primariamente nella sua dignità, di persona e di lavoratore, l’ordinamento non solo consente, ma anzi impone, che si appronti una risposta, magari attraverso una nuova qualificazione risarcitoria. E tale nuova qualificazione risarcitoria già esiste nell’ambito del diritto vivente, perché è stata già enunciata e riconosciuta dalla Corte di Cassazione (in particolare, con le sentenze n.2569 del 2001 e 5491del 2000, di cui si dirà infra), sulla scorta degli insegnamenti forniti dalla dottrina: si tratta della categoria del danno esistenziale, o danno alla vita di relazione, che si realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria.
E qui il cerchio, tracciato così linearmente dalla decisione del Tribunale di Forlì, davvero si chiude, dando modo a chi legge di comprendere e di inquadrare da un punto di vista sistematico, non solo il fenomeno del mobbing, da cui si era partiti, ma anche una delle possibili risposte, forse la più originale e la più appropriata, tra quelle consentite dal nostro ordinamento: un risarcimento ad hoc, a fronte dell’avvenuta lesione della sua personalità morale, oggetto specifico di tutela da parte dell’art. 2087 c.c.
“Non a caso – scrive il Giudice di Forlì – il mobbing è stato definito violenza morale e non a caso il danno esistenziale appare particolarmente congeniale a tale situazione. E’ la qualità della vita del lavoratore mobbizzato a risentirne principalmente, con tutte le conseguenze anche nell’ambito familiare” (dove, secondo gli studi psicologici, si realizza quel fenomeno particolare denominato doppio mobbing , per cui dopo un primo momento di pieno appoggio ed incondizionata solidarietà, il nucleo familiare avverte la potenza distruttiva di quanto sta subendo il congiunto, e per evitare che le stesse conseguenze patite dal lavoratore lo raggiungano, incomincia per parte sua ad isolare e ad escludere il proprio famigliare, cui vengono negati affetto e comprensione (28).
Il percorso seguito poi per individuare la natura di tale nuova figura di danno, se contrattuale o extracontrattuale, non si discosta poi da quello già calcato per inquadrare il danno biologico: la responsabilità datoriale può essere ricondotta infatti sia allo schema della responsabilità contrattuale, ex art. 2087 c.c., sia a quello del danno aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Nulla quaestio circa la riconducibilità del danno esistenziale alla norma dell’art. 2087 c.c., che per l’appunto obbliga l’imprenditore ad usare tutte le cautele necessarie a tutelare “l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”: e dunque, ovvia la conclusione a proposito della concorrenza delle due azioni, salvo poi valutare come preferibile quella propria della natura contrattuale del danno, sia per il regime dell’onere della prova, sia per la maggior durata del termine prescrizionale.
Secondo tale schema, spetterà pertanto al datore di lavoro dimostrare di avere adottato tutte le misure necessarie  per tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore, mentre sarà onere del lavoratore dimostrare la sussistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro.
Per quanto riguarda infine la liquidazione del danno esistenziale, che evidentemente non ha natura patrimoniale, il criterio adottato non potrà che essere equitativo, secondo il combinato disposto degli artt. 2056 c.c. e 1226 c.c.
Per effettuare tale valutazione, il Tribunale di Forlì parte pur sempre dalla considerazione della retribuzione del ricorrente, accordando un risarcimento commisurato sulla stessa, in percentuale crescente, in considerazione della maggiore intensità delle condotte.
La decisione del Tribunale di Forlì, lo si è detto sopra, costituisce ad oggi un passaggio nodale della nostra giurisprudenza di merito: un precedente cui ci si potrà adeguare, ovvero discostare, ma che indubbiamente non potrà e non dovrà essere ignorato nella trattazione prima, e nella decisione poi, delle controversie in cui si prospetta una responsabilità del datore di lavoro a titolo specifico di mobbing.
Indubbiamente, molte saranno ancora le incertezze e le esitazioni nell’intraprendere un cammino interpretativo ambizioso,  proprio perché supportato non dal dato normativo positivo, ma dai risultati degli studi operati nell’ambito di scienze extragiuridiche, rispetto alle quali non solo il magistrato non ha preparazione specifica, ma nell’ambito delle quali non sempre si raggiungono risultati unanimemente condivisi.
Sicuramente, la mancanza di una specifica previsione normativa fa sentire il suo peso, e non potrebbe essere altrimenti: sì che di recente, il Tribunale di Venezia ha espressamente affermato che “La mancanza nell’ordinamento di una fattispecie legale di mobbing non consente l’unificazione delle domande di risarcimento per i danni da dequalificazione professionale che non possono, pertanto, essere imputati a un illecito contrattuale permanente originato da comportamenti persecutori sistematici. Il risarcimento dei danni da dequalificazione professionale quindi, va valutato considerando distintamente i danni originati da violazione di diritti già riconosciuti dall’ordinamento e la prescrizione di ogni singolo diritto al risarcimento decorre dalla manifestazione del danno” (29).
Una scelta interpretativa molto rigorosa, e restrittiva, che finisce comunque per chiudere ogni nuova prospettiva di tutela, evidentemente ritenendo la tassatività ed esaustività delle forme di reazione previste dal nostro ordinamento positivo a fronte degli inadempimenti contrattuali del datore di lavoro.
 
5. A che cosa serve la nozione di mobbing?
Ritorniamo dunque là da dove si era partiti: a che cosa serve la nozione di mobbing per l’operatore del diritto? Qual’è il “valore aggiunto” rispetto alle ipotesi tradizionali e consuete in cui reagisce l’ordinamento ai pregiudizi ingiusti arrecati ai prestatori di lavoro?
La risposta forse si trova proprio in quei caratteri identificativi tipici del fenomeno (di qui, lo si ribadisce, l’importanza della scelta definitoria, e dunque della sua consapevolezza da parte dell’interprete): se mobbing è una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali che trovano una ratio unificatrice nell’intento di isolare, di emarginare, e fors’anche di espellere, la vittima dall’ambiente di lavoro, più forte ed efficace sarà una forma di risposta unitaria a tale tipo di strategia, una forma di risposta che tenga conto della stratificazione, della evoluzione, della amplificazione delle sofferenze in ragione del tempo passato, del numero e della diversificazione degli attacchi subiti. Sarà più efficace un tipo di risposta che veda l’insieme dei singoli comportamenti discriminatori come un’escalation di violenza, legati da un’unica strategia ben finalizzata e non lasciata agli umori del momento.
Soprattutto, sarà un tipo di risposta che sarà in grado di andare oltre gli istituti tipici della materia giuslavoristica: è vero che una strategia complessiva di mobbing usualmente viene posta in essere attraverso un demansionamento del lavoratore, se non addirittura attraverso la sottrazione totale e completa dei contenuti della sua prestazione: è un connubio che si può definire tipico, e non a caso, proprio perchè nell’attacco alla professionalità del lavoratore vi è il tratto saliente della svalutazione della sua personalità morale,  della sua dignità e della sua considerazione nella comunità rappresentata dall’ambiente di lavoro.
Ma con la fattispecie del demansionamento siamo abituati tutti a confrontarci: abbiamo a nostra disposizione lo strumento normativo espresso dell’art. 2103 c.c., sulla scorta del quale si è creata una ricca stratificazione giurisprudenziale per la quale il danno causato al lavoratore non va nemmeno provato, dal momento che può essere individuato  in re ipsa (30).
La novità per l’interprete consiste nel poter ricostruire la vicenda lavorativa ed umana nel suo insieme, e di collocare in essa i vari passaggi, sia che gli stessi si concretizzino in atti di rilevanza negoziale, sia invece che gli stessi rappresentino meri comportamenti materiali, non autonomamente sanzionabili, o non tali da comportare di per sé soli la  reazione dell’ordinamento. Il Tribunale di Forlì ha portato ad esempio la sottrazione del posto auto, e il divieto dell’accesso al garage: molti altri possono essere gli esempi che ad ognuno vengono in mente, e che possono essere suggeriti dall’esperienza processuale.
Se dunque mobbing è un processo, o forse meglio un progresso, di violenza da una parte e di sofferenza dall’altra, bisognerà saper leggere tutta la vicenda nel suo insieme, ed in essa collocare anche comportamenti formalmente legittimi, da un punto di vista oggettivo, i quali  però assumono un significato diverso perchè “tappe” di una strategia prefigurata. Il mobbing può realizzarsi anche “attraverso un provvedimento imprenditoriale formalmente giustificato, un atto di amministrazione del rapporto di lavoro conforme allo schema legislativo, un atteggiamento normalmente tollerato nelle relazioni interpersonali che potrebbero nondimeno collocati in un programma di  persecuzione e di molestia psicologica (...). La figura del danno da mobbing costituisce invece una sicura ed innovativa acquisizione in termini di tutela quando non siano accertabili atti o provvedimenti del datore di lavoro  provvisti di efficacia negoziale, che il giudice possa individuare o rimuovere.” (31).
Ma la tutela si rafforza anche sotto altri profili: per esempio, se il fenomeno viene letto secondo una chiave unitaria,  sarà solo con la cessazione delle condotte che incomincerà  a decorrere il termine di prescrizione (32). Nella stessa ottica, per quel che riguarda il pubblico impiego,  ove i comportamenti si siano protratti oltre la data – spartiacque del 1° luglio 1998, sarà davanti al giudice del lavoro che la vicenda nel suo complesso unitario dovrà essere portata, con evidente vantaggio per la vittima che otterrà in un’unica sede la ricostruzione delle vicende poste in essere a suo svantaggio, e il ristoro del danno patito.
 Per passare poi al tipo di tutele che sarà possibile approntare, la strada è già stata delineata sin dalla prima giurisprudenza che sul tema si è espressa (33), e che sul punto ha trovato il consenso unanime della dottrina (34) : la norma che consente, ed anzi impone, di riconoscere al lavoratore un risarcimento a fronte delle condotte capaci di integrare mobbing, è la norma di cui all’art. 2087 c.c., posta a salvaguardia dell’integrità fisica e psichica del lavoratore e della sua personalità morale, classica norma di chiusura che consente di sanzionare ogni tipo di condotta in qualche modo capace di creare un danno ingiusto perchè lesivo di diritti costituzionalmente garantiti, in particolare dagli artt. 32, 1° comma e 41, 2° comma della Costituzione.
La tutela offerta dall’art. 2087 c.c. ha natura esclusivamente risarcitoria: ma prima di affrontare il punto relativo ai vari tipi di danno generati  dal mobbing, c’è ancora da chiedersi se sono ipotizzabili altre forme di tutela, eventualmente ripristinatoria: proprio perchè nella maggior parte dei casi concreti, si può dire, lo scopo ultimo del mobber è quello di ottenere le dimissioni del lavoratore, allora, nel caso in cui tali dimissioni siano state effettivamente rese e risulti in giudizio che sono state rassegnate a seguito di mobbing, non v’è dubbio innanzitutto che rispetto alle stesse deve essere riconosciuta la giusta causa, ex art. 2119 c.c.; ma soprattutto, nei casi più gravi e coinvolgenti, può giungersi a ritenere l’annullabilità delle dimissioni stesse, perché rese in condizioni di incapacità di intendere o di volere, o più spesso, a seguito di violenza morale o della minaccia di far valere un diritto (artt. 1434 – 1438 c.c.), e pertanto a dichiararne l’annullamento, con il conseguente ripristino del rapporto (35).
Ma, seguendo la strada già aperta dal Tribunale di Torino, e poi condivisa dalle successive letture in sede giurisprudenziale e dottrinale,  se al lavoratore vittima di mobbing spetta comunque una qualche forma di risarcimento del danno, ciò avviene e deve avvenire in relazione alla ritenuta violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c., che, lo si ricorda ancora, impone all’imprenditore di farsi carico non solo della salvaguardia dell’integrità fisica, ma altresì della personalità morale dei prestatori di lavoro.
Circa le conseguenze della previsione, da parte del nostro ordinamento, di una siffatta norma, siamo tutti abituati a confrontarci pressoché quotidianamente.
Non soltanto l’art. 2087 c.c. trasferisce in ambito contrattuale il più generale principio del neminem laedere, così consentendo tra l’altro al lavoratore che agisce in giudizio di fruire del più vantaggioso regime della prova e delle prescrizioni; ma soprattutto consente di ampliare i margini della tutela sino alle più avanzate frontiere della difesa, effettiva e concreta, di beni che attengono alla personalità dell’individuo, ed alla sua dignità di persona, partendo dalla considerazione che è proprio nell’ambito dell’ambiente di lavoro che entrambe devono trovare realizzazione e riconoscimento.
Il principio di cui all’art. 2087 c.c., come è stato autorevolmente affermato(36), attiene al rispetto della personalità morale del lavoratore: per questo l’imprenditore, ove non si sia fatto direttamente responsabile di condotte di mobbing, o di bossing, dovrà comunque reagire di fronte a comportamenti dei propri dipendenti che vengano a costituire una minaccia o una lesione alla personalità morale di altri dipendenti, adottando provvedimenti di carattere disciplinare, di vario genere, nei confronti degli autori, se non addirittura agendo in via diretta per il risarcimento dei danni subiti dall’azienda (discredito dell’immagine aziendale, calo della produttività, ecc). Anzi, partendo dalla lettura che è stata fatta dell’art. 2087 c.c., nella parte in cui tutela l’integrità fisica del lavoratore, ispirata al principio della cd. “massima sicurezza tecnicamente fattibile” (cfr. Cass. 14 luglio 2001, n.9601, e Cass., 2 gennaio 2002 n.5), potrà trovare sanzione ogni violazione da parte del datore di lavoro di quell’obbligo di porre in essere tutto quanto necessario al fine di tutelare la persona fisica del lavoratore ricorrendo a quanto di meglio la tecnica e l’esperienza possano offrire (37).
Rimanendo nell’alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., si esaminino le diverse voci di danno che potranno essere fatto oggetto di rivendicazione da parte del lavoratore – vittima: innanzitutto, quindi, il danno biologico, consacrato dalle ben note sentenze della Corte Costituzionale, che gli hanno attribuito pieno diritto di cittadinanza nell’ambito del nostro ordinamento positivo, in particolare con le sentenze n. 184 del 1986 (38) e  n.356 (39) del 1991, in occasione delle quali  la Corte fonda sul precetto dell’art. 32 Cost. la nozione di danno biologico, risarcibile indipendentemente dall’avvenuta perdita del soggetto dell’attitudine a produrre reddito.
Il danno biologico fa riferimento dunque ad ogni menomazione dell’integrità psico – fisica del soggetto offeso: nell’originaria elaborazione della Corte, si badi, esso deve essere riferito “a tutte le attività, le situazioni, i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita: non soltanto quindi con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità, e cioè a tutte le attività realizzatrici della persona umana”.
Su questa fondamentale apertura della Corte Costituzionale, si innesta tutta la elaborazione successiva che, occorre sottolineare, riconosce  alla nozione di danno biologico una portata teorica “più vasta di quello alla vita di relazione, tendendo ad assorbire alcuni tipi non ben definiti di danno quali appunto, il danno alla vita di relazione, il danno estetico, il danno alla sfera sessuale” (40).
Va detto peraltro che in controtendenza rispetto a tale allargamento della portata del concetto, sino a ricondurre al concetto di “salute” ogni profilo, statico e dinamico, attinente alla idea di “benessere”, di integrità psico – fisica, nella considerazione della necessità di apprestare una più ampia ed adeguata tutela del “bene uomo”, si sono posti alcuni atteggiamenti della giurisprudenza, uno fra i quali, pare a chi scrive, consistito nella tabellarizzazione del danno biologico, che viene liquidato dalla maggior parte dei Tribunali sulla base di parametri progressivi, condizionati da fattori oggettivi quali quelli dell’età del soggetto leso: operazione, si badi, dagli esiti pratici quanto più positivi e condivisibili, dal momento che l’obbiettivo che ci si poneva, ossia quello di evitare differenziazioni arbitrarie nel trattamento di situazioni assolutamente analoghe, veniva così sostanzialmente raggiunto, ma che per contro comportava inevitabilmente il superamento, o meglio l’annullamento, di ogni peculiarità soggettiva e di ogni individualizzazione.
Nè oggi si può ignorare che, pervenendo finalmente a fornire la definizione normativa del danno biologico, il Legislatore, prima con l’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 23 febbraio 2000, in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, poi con l’art. 3 del d.lgs. 28 marzo 2000 n. 70, ha definito come danno biologico la lesione all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico – legale, con ciò, pare davvero leggendo la norma, volendo escludere ogni considerazione a tale titolo di quelle sofferenze di natura meramente individuale, legate alla specificità del singolo individuo, ai suoi modelli di vita ed alle sue forme di socialità.
Danno biologico da mobbing, dunque, in quanto si sia registrata dal punto di vista medico – legale una lesione sul piano psichico, o al più psicosomatico, in capo alla vittima: non quindi una mera sofferenza, un turbamento, anche se grave, ma una vera patologia, da apprezzarsi e valutarsi da parte dell’esperto medico – legale.
La pratica insegna che ben di rado il medico legale sarà in grado di ricondurre conseguenze permanenti ad un tale tipo di danno, che viene collegato di norma strettamente al perdurare delle condotte mobbizzanti, mentre è destinato a sparire, a quantomeno ad attenuarsi sensibilmente, nel caso di loro cessazione: sì che la forma naturale di danno biologico riconosciuto in tali ipotesi è quello del danno da invalidità temporanea (in tal senso, Trib. Torino, 16.11.1999, cit.).
Ovvia poi la sussistenza di una responsabilità per danno morale, ai sensi dell’art. 2059 c.c. nel caso in cui il giudice ravvisi gli estremi del fatto reato: ma è indubbio che, come rilevato dal Tribunale di Forlì, di fronte ad una fattispecie che presenta le peculiarità che caratterizzano il fenomeno del mobbing, è lecito chiedersi se vi possono essere voci risarcitorie più calzanti e idonee a far fronte a quel particolare tipo di sofferenze che da un tale tipo di fenomeno possono conseguire.
Si è già detto, una risposta specifica è già stata fornita dal Tribunale di Forlì, che è partito proprio dalla considerazione dell’insufficienza della tripartizione classica tra danno biologico – danno patrimoniale – danno morale a coprire ogni spazio meritevole di tutela, perchè, ad esempio, non è idonea a risarcire un danno subito da un lavoratore senza conseguenze patrimoniali dirette (ad es., demansionamento con mantenimento dell’identico livello retributivo) e non tale da causare una sofferenza classificabile tecnicamente come malattia: di fronte a tale vuoto di tutela, la risposta possibile è quella del ricorso ad una quarta categoria di danno, il danno esistenziale appunto, che consiste in quella modificazione peggiorativa dell’insieme delle attività realizzatrici della persona, nell’alterazione di quell’universo di azioni, consuetudini, affezioni attraverso cui l’individuo costruisce la propria identità, la propria esistenza (41).
Il danno esistenziale nasce, secondo l’opinione di chi scrive,  dalla stessa esigenza da cui era stata ideata inizialmente la nozione di danno biologico: dall’intenzione cioè di riconoscere una peculiarità ed una specificità, anche sul fronte della giudiziale, al “valore – uomo in sè e per sè considerato”, inteso come quell’insieme di attività, di legami, di rapporti, che ne segnano l’esistenza, e che ad essa danno un valore, indipendentemente dalla capacità del soggetto di produrre reddito. Se questa complessità si è via via perduta per quel che concerne il danno biologico, perchè hanno fatalmente prevalso altre esigenze, essenzialmente di certezza nell’accertamento prima e di omogeneità nella valutazione poi, è evidente che però di tutti questi profili una giustizia che si proponga la tutela effettiva della persona e dei suoi diritti e delle sue prerogative, anche di rango costituzionale, finirà per farsi carico: e nel caso di specie, ciò tra l’altro è avvenuto in tempi ben più rapidi di quanto sia avvenuto per il danno biologico, che dopo le prime elaborazioni del Tribunale di Genova e di Pisa, ha dovuto attendere decenni, sino alla consacrazione finale, nei primi anni ’90 appunto da parte della Corte Costituzionale.
Di danno esistenziale si parla invece oggi con estrema chiarezza e consapevolezza presso i Tribunali di merito, e presso la Corte di Cassazione, che già in più occasioni sul punto si è espressa. Oltre alle già richiamate sentenze n. 2569 e 5491 del 2001,  non può qui essere ignorata la sentenza n.9009 del 3 luglio 2001, della Sezione lavoro, che giunge a sposare appieno le tesi della scuola di Trieste, ed  a riconoscere pieno diritto di cittadinanza, nel nostro ordinamento, a tale specifica forma di danno.
Il danno esistenziale secondo la Corte è volto a coprire tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana, quali per esempio gli impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della propria vita lavorativa: è vero, precisa la Corte, che secondo alcune opinioni la nozione di danno alla salute si presterebbe a comprendere anche i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, ma si finisce fatalmente per distinguere la lesione dell’integrità fisico o psichica (ossia la presenza di una patologia oggettiva che si accerta in base a precisi parametri medico legali), dal “pregiudizio esistenziale, che senza ridursi al mero patema d’animo interno, richiama tuttavia disagi e turbamenti di tipo soggettivo”. Quanto poi alla collocazione di tale nuova forma di danno rispetto alle fonti di rango costituzionale, la Corte di Cassazione, pur se esclude la riferibilità all’art. 32 Cost., ricorda che anche il libero dispiegarsi delle attività dell’uomo nell’ambito della famiglia o di altra comunità riceve considerazione costituzionale ai sensi degli artt. 2 e 29: pertanto, sia i pregiudizi alla salute sia quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di natura non patrimoniale, non possono essere lasciati privi di tutela risarcitoria, “sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile (cfr. Cass. N. 7713/2000 in tema di pregiudizi di ordine non patrimoniale subiti dal figlio naturale per il fatto della mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza da parte del genitore)”.
Pertanto, conclude la Corte, esaminando una fattispecie di mancata fruizione del riposo settimanale (con ciò dimostrando l’astratta adattabilità del danno esistenziale ad ogni ipotesi di inadempimento contrattuale o di violazione al generale principio del neminem laedere) poiché la persona umana è costituzionalmente tutelata nel suo sviluppo e nelle sue manifestazioni, “il rango della posizione soggettiva inviolabile – con esclusione, quindi, dei meri disagi che trovano origine nella personale sensibilità del soggetto – impone di ritenere inoperanti i limiti alla risarcibilità del danno non patrimoniale risultanti dall’art. 2059 c.c.”.
Il comportamento antigiuridico del datore di lavoro tenuto in violazione dei precetti dell’art. 36 Cost, può comunque ledere, accanto a diritti economici, anche diritti fondamentali della persona: a maggior ragione, questi diritti devono trovare tutela di fronte a condotte riconducibili al datore di lavoro, o a suoi collaboratori, che se di per sé incapaci a recare un danno patrimoniale, vengono comunque a colpire prioritariamente la sfera della dignità del lavoratore, fuori e dentro l’ambiente di lavoro.
Seguendo fedelmente lo sviluppo logico del pensiero della Corte di Cassazione, il danno esistenziale, come riconosciuto dalla dottrina che se ne è occupata, appare davvero la migliore risposta a fronte delle sofferenze e dei patimenti subiti dal lavoratore a causa delle condotte mobbizzanti poste in essere contro di lui: non solo, come si è detto, perchè è in grado di coprire quelle zone d’ombra che erano fatalmente lasciate dalla tripartizione tradizionale delle voci di danno, ma proprio perchè costituisce la forma più adeguata a fornire tutela ai diritti inviolabili della personalità, prima fra tutte la dignità umana della persona, e in specie,  del lavoratore (42).
Quanto alla sua liquidazione, lo ha detto anche la Corte, il criterio non potrà che essere equitativo. Toccherà comunque alla giurisprudenza il lavoro di enucleazione dei criteri da utilizzare pur nell’ambito dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale: si è già detto, il Tribunale di Forlì assume come base per la liquidazione la retribuzione mensile, da cui individua una percentuale, variabile a seconda del livello di sofferenza inflitto. E’ il percorso che viene normalmente utilizzato per la liquidazione del danno da demansionamento, e che indubbiamente trova consenso per qual che riguarda l’adozione di una base contabile riscontrabile oggettivamente. Per altro verso, se è vero che il danno esistenziale, per sua natura, è e deve rimanere sganciato da ogni considerazione della capacità del soggetto di produrre reddito, lascia quantomeno perplessi l’utilizzo del parametro retributivo (43).
Indubbiamente, uno sforzo volto alla enucleazione di alcuni parametri deve essere compiuto, proprio per evitare che si realizzino quelle situazioni di disparità di trattamento soprattutto incomprensibili, e per certi versi inspiegabili, ai cittadini che si rivolgono alla giustizia per trovare, quanto più possibile sulla base di criteri riconoscibili, un ristoro alle proprie sofferenze. Sul punto si tornerà oltre.
E un ultimo cenno sia consentito di fare al punto delle condizioni soggettive della vittima, al fine di escluderne qualsiasi rilevanza ai fini del riconoscimento del  diritto al risarcimento del danno patito.
E’ frequente il ricorso negli atti difensivi al richiamo di eventuali precedenti sofferenze della vittima, per alterazioni psichiche, o comunque di stati individuali di particolare sensibilità e fragilità emotiva: ma a questi non potrà mai farsi riferimento al momento di valutare la responsabilità del datore di lavoro per comportamenti rivelatisi idonei a ledere l’integrità psichica, ovvero altri beni insopprimibili costituzionalmente garantiti, quali la dignità personale. Non troverà dunque applicazione la nozione di “violenza” dettata dal codice quale presupposto per l’annullamento dei contratti, previsto dagli artt. 1434 e 1435 c.c., per cui questa deve essere di natura tale da fare impressione su di una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni ad un male ingiusto e notevole, avuto riguardo all’età, al sesso ed alla condizione della vittima.
Nel caso della persecuzione psicologica sul posto di lavoro, non è in discussione la libertà negoziale del soggetto che ne è stato fatto vittima, quanto la voluta aggressione alla sfera personale del lavoratore, bene questo tutelato dalla Carta Costituzionale e dalla norma ordinaria dell’art. 2087 c.c. Tutto ciò che attiene alle peculiarità soggettive del prestatore di lavoro, sue precedenti alterazioni psicologiche, ovvero suscettibilità o sensibilità individuali, potrà essere eventualmente essere preso in considerazione al momento dell’accertamento medico – legale degli effetti patologici della condotta e della lesione effettiva al suo bene – salute, ma non al momento precedente e pregiudiziale della ricostruzione della fattispecie illecita (44).
 
6. Il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa.
Questa lunga premessa , per così dire, ci conduce al secondo dei temi che costituiscono l’argomento della relazione. Tema che da solo meriterebbe autonoma trattazione, perché sull’interrogativo se in capo al lavoratore possa essere riconosciuto un vero e proprio diritto a rendere la prestazione, ossia ad adempiere al proprio obbligo contrattuale, si sono lungamente confrontate dottrina e giurisprudenza, dando vita innanzitutto ad un dibattito teorico molto interessante e vivace, ma che qui non può essere compiutamente riprodotto, dati i limiti dell’opera (e di chi la scrive).
Per fornire solo gli estremi di questo ricco dibattito, e soprattutto per ricavarne gli spunti di contatto e di analogia con quanto si è sin qui detto, occorre partire dalla considerazione della norma di cui all’art. 2103 c.c., che mira alla tutela del bene costituito dalla professionalità del lavoratore: in tale ottica, la norma vieta al datore di lavoro di pregiudicare il patrimonio professionale del dipendente, adibendolo a mansioni inferiori o, comunque, non equivalenti a quelle contrattualmente dovute, pena la condanna, in sede giudiziale, ad adibire nuovamente il lavoratore alle mansioni precedenti, o quantomeno ad altre di pari rango, ed a risarcire il danno da costui patito.
Se dunque il lavoratore, nello svolgimento della prestazione, ossia nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, trova anche la realizzazione di un proprio positivo interesse, ossia quello al mantenimento, ed anzi all’accrescimento della propria professionalità, è logicamente conseguente ritenere che egli possa vantare un vero e proprio diritto all’effettivo svolgimento delle mansioni per le quali era stato assunto (45).
Non è comunque una conclusione  universalmente condivisa: anche perché essa contrasta con le ricostruzioni dottrinali tradizionali, fondate sulla concezione libero – scambista del rapporto di lavoro, e condizionate altresì, per altro verso, dalla considerazione della pacifica incoercibilità in forma specifica degli obblighi infungibili (46). Secondo tale lettura, è possibile ravvisare l’esistenza di un diritto con tale contenuto solo in particolari rapporti di lavoro a disciplina speciale (apprendistato, patto di prova, lavoro artistico, giornalistico e sportivo), caratterizzati da un interesse specifico del lavoratore ad eseguire effettivamente il proprio lavoro, al più giungendo ad estendere tale area alle professionalità più elevate (47).
Ma un orientamento di tali contenuti evidentemente limita il suo sguardo ad una dimensione meramente patrimoniale del rapporto debito – credito tra i due soggetti del rapporto di lavoro: trascura di considerare quanto di peculiare e di specifico, rispetto alla contrattualistica classica, vi è nello schema contrattuale del rapporto di lavoro, e soprattutto non considera che i principi costituzionali dettati in materia, e le norme di legge specifiche, danno conto della concezione per cui l’obbligazione di lavorare è una peculiare modalità di espressione della personalità che soddisfa un interesse non patrimoniale, o meglio, non solo patrimoniale,  del lavoratore. Il caposaldo di tale concezione viene individuato, in particolare, nell’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, la cui ratio non può essere ridotta alla mera tutela degli interessi di ordine patrimoniale del lavoratore (48): il lavoro dunque visto e concepito non solo come fonte del reddito per provvedere al sostentamento proprio e della propria famiglia, ma come mezzo di realizzazione personale, di crescita individuale, di affermazione della propria dignità (49).
Non ultimo, e parimenti importante, l’orientamento critico volto ad individuare il fondamento dell’obbligo del datore di lavoro di consentire la prestazione del lavoratore sull’art. 2087 c.c., nella parte in cui tutela la personalità morale del lavoratore, oltre che la sua salute (50).
Netta la posizione della giurisprudenza, anche di legittimità, quantomeno a partire dalla sentenza 15 agosto 1991, n.8835 (51), alla stregua della quale, “stanti la lettera e la ratio dell’art. 2103 c.c., la violazione di tale norma si ha identicamente sia nell’ipotesi di assegnazione del dipendente a mansioni inferiori, sia nell’ipotesi in cui il dipendente sia lasciato inattivo, in quanto il lavoro non è soltanto un mezzo di guadagno, ma costituisce un mezzo prevalentemente di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino”.
Sulla scia di tale pronuncia, si collocano poi, sostanzialmente ribadendo la medesima affermazione di principio, C.Cass., 3 giugno 1995, n. 6265 (52), e soprattutto, C. Cass., 4.10.1995, n.10405 (53), che attribuisce all’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori la ratio di “apprestare una più efficace e pregnante tutela del patrimonio professionale del lavoratore”: coerentemente con lo spirito informatore dell’art. 2103 c.c, è pertanto l’affermazione del diritto del lavoratore alla utilizzazione, al perfezionamento, ed all’accrescimento del proprio corredo di nozioni di esperienza e di perizia acquisita nella fase pregressa del rapporto, così che venga impedito che le nuove mansioni determinino una perdita delle potenzialità professionali acquisite, oppure comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore, avuto riguardo non solo alla natura intrinseca delle attività lavorative svolte, ma anche del grado di autonomia e discrezionalità nel loro esercizio, e della posizione del dipendente nel contesto dell’organizzazione aziendale del lavoro.
La violazione dell’art. 2103 c.c. si realizza quindi, secondo la Corte, anche quando si sia in presenza di una modifica quantitativa delle mansioni assegnate al lavoratore, che si traduca in una riduzione dei suoi compiti lavorativi. Questa modifica infatti, argomenta la Corte, può determinare in concreto “un progressivo deperimento del bagaglio culturale del dipendente e una perdita di quelle conoscenze e esperienze richieste dal tipo di lavoro svolto, che finiscono per tradursi, in ultima analisi, in un graduale appannamento della propria professionalità ed in una sua più difficile futura utilizzazione”.
 Alcuni commenti, pur condividendo la direzione verso la quale la Corte si stava muovendo, hanno ritenuto  “eccessivamente sbrigativa” la motivazione adottata, non in grado di scacciare tutti i dubbi relativi alla questione, come se si potesse dare appunto per scontata la sussistenza di un generale diritto soggettivo del lavoratore all’esecuzione della prestazione (54).
Va detto peraltro che dopo tali perentorie, ed autorevoli, affermazioni, la Cassazione non ha mai mostrato di voler recedere, confermando via via la sussistenza di un pieno diritto del lavoratore allo svolgimento della prestazione: ancora di recente, la Cassazione (sent. 14 novembre 2001, n.14199 (55); sent. 6 novembre 2000, n.14443 (56) ha ribadito la sussistenza del diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale.
Ricchissima l’elaborazione giurisprudenziale, di merito e di legittimità, in materia, e rispetto a diversi profili problematici: tra i tanti possibili, se ne ricordano qui tre in particolare, quali quello relativo al contenuto della lesione patita dal lavoratore privato delle proprie mansioni,  il secondo avente ad oggetto l’accertamento giudiziale dei danni derivanti dall’illegittima dequalificazione e, in definitiva, il problema della prova di tali danni, il terzo infine corrispondente alla definizione dei criteri di liquidazione.
Sul primo punto, ancora di recente è stato ribadito, in particolare dalla giurisprudenza di merito (57) che il lavoratore colpito da illegittimo demansionamento subisce un danno non limitato alla sfera della professionalità in senso stretto, venendo nei fatti a perdere le proprie competenze professionali e quindi subendo un declassamento per quel che riguarda il suo livello tecnico, ma esteso alla cosiddetta “immagine professionale”, o “identità”, o “dignità professionale”, ossia alla considerazione ed al prestigio di cui egli godeva, dentro e fuori dall’ambiente di lavoro, proprio in ragione delle funzioni esercitate.
Sul secondo, particolarmente dibattuto, anche da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione, resta il tema dell’onere della prova in tema di danno da demansionamento: chiaro ed esplicito l’orientamento secondo cui questo consisterebbe in re ipsa, nel senso che in caso di privazione delle mansioni il lavoratore subisce inevitabilmente un danno, collegato alla perdita di professionalità (58). L’accertamento del danno, secondo la Corte, può ritenersi basato su dati di comune esperienza, non richiedendo pertanto una prova specifica della lesione subita, che si presenterebbe come pressochè impossibile.
Non si ignora peraltro l’orientamento di segno opposto che anche di recente (59), ha posto espressamente a carico del lavoratore demansionato l’onere di provare pienamente l’esistenza e l’entità del danno che lamento: richiesta il cui rigore,  se può sembrare razionale relativamente alla tipologia del danno biologico (60), davvero non pare adeguatamente considerare che, trattandosi di eventi dannosi che si producono pur sempre su beni immateriali, quali la professionalità, la dignità, l’immagine, anche se suscettibili di valutazione patrimoniale, comportano inevitabilmente il ricorso alla prova per presunzioni, che pure nel nostro ordinamento trova pieno diritto di cittadinanza attraverso la previsione dell’art. 2729 c.c. (61).
Da ultimo, il punto relativo all’individuazione ed enucleazione dei criteri di liquidazione del danno alla professionalità: è unanime, va detto, il ricorso alla valutazione di natura equitativa, proprio per il generale riconoscimento di parametri oggettivi in grado di essere utilizzati da parte del giudice.
La liquidazione parte, si può dire per atteggiamento unanime della giurisprudenza, dalla considerazione della retribuzione mensile percepita dal lavoratore, considerata anche dalla Corte di Cassazione come legittima base di calcolo per il risarcimento. Ciò che varia, ovviamente, è la percentuale della stessa accordata al lavoratore demansionato come ristoro del danno che ha patito, potendo oscillare da un 25 – 30 % sino ad arrivare, nei casi più gravi, soprattutto segnati dalla maggior durata del comportamento datoriale, alla totalità della retribuzione.
Alcune osservazioni qui si impongono: la ricca elaborazione  giurisprudenziale, soprattutto da parte dei giudici di merito, ha condotto ad individuare all’interno della categoria “danno alla professionalità”, contenuti che in realtà esulano dal “valore professionale” del lavoratore, all’interno del suo ambiente di lavoro, ma che attengono molto più da vicino alla pienezza della sua esistenza, alle sue potenzialità di soddisfazione e di accrescimento da un punto di vista lavorativo, ed anche esistenziale. Riterrei che la lunga serie di pronunce di Preture prima, e di Tribunali, sia un po’ servita come palestra anche per il varo della categoria del danno esistenziale, perchè non è possibile non leggere una sovrapposizione, almeno parziale, dei contenuti dell’una categoria del danno, con quelli dell’altra. Non del tutto immeritate, pertanto,  risultano quelle critiche formulate dalla dottrina, che ha sottolineato una certa approssimazione, sia nell’individuazione delle componenti del danno alla professionalità, sia nell’elaborazione dei parametri di liquidazione (62).
Più o meno consapevolmente, pertanto, mi pare che proprio dalle spinte giurisprudenziali anche, se non soprattutto, in tema di danno da demansionamento, si siano aperte quelle nuove frontiere della tutela della dignità personale del lavoratore, che oggi in vario modo occupano gli interpreti e gli studiosi, e non solo quelli che si occupano di  mobbing.
Insomma, in pratica molti dei temi che oggi muovono la discussione intorno a questo argomento, così attuale e dibattuto, erano già ben presenti in tutte quelle decisioni che hanno riconosciuto al lavoratore che nello svolgimento della propria prestazione lavorativa, egli poteva e doveva ricercare non solo la corrispondente soddisfazione economica, ma anche la realizzazione della propria persona, della propria dignità, di fronte a sè medesimo ed agli altri: nel caso in cui tutto questo non gli fosse stato consentito, era giusto e dovuto che egli trovasse un ristoro, un risarcimento, non solo commisurato alla perdita professionale strettamente intesa, ma ampliato appunto verso le dimensioni della sua dignità e del suo valore come persona.
Su basi comuni, stiamo considerando però fenomeni diversi, sia per le loro connotazioni oggettive, sia per la loro diversa collocazione rispetto alle fonti dell’ordinamento positivo. E’ giunto comunque il momento di trarre conclusioni, che da questo ricco insieme di analogie e di peculiarità, siano di qualche utilità per che, quotidianamente, è chiamato a fornire risposte, e soprattutto tutele, alle vittime dell’uno e dell’altro genere di comportamenti.
 
7. Conclusioni.
Demansionamento e mobbing: dal confronto delle due fattispecie emergono con evidenza i punti di differenziazione.
Il primo costituisce inadempimento di uno specifico e tipico obbligo imposto all’imprenditore dalla norma di legge, l’art. 2103 c.c., obbligo che viene violato in ogni occasione di attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori, da un punto di vista qualitativo ovvero quantitativo. Le condotte rilevano oggettivamente, non è richiesto alcun animus nocendi in capo al datore di lavoro.
Per il secondo, invece, ancora nessuna espressa previsione normativa: ma la ormai generale diffusione  nella coscienza collettiva del fenomeno, e soprattutto la richiesta generalizzata di una specifica tutela rispetto allo stesso, prospettano innanzitutto al giudice del lavoro  di oggi il dovere di compiere un consapevole sforzo definitorio. D’altronde, talmente ricca ed articolata risulta sin qui l’elaborazione delle scienze psicologiche e più strettamente giuridiche, e tali e tanti sono ormai i contributi specifici in materia, che davvero il lavoro dell’interprete appare agevolato nell’individuare alcuni elementi caratteristici e tipizzanti, sin qui generalmente condivisi. I caratteri della ripetitività e della reiterazione delle condotte, unite dal filo unificatore dell’elemento intenzionale, risultano, si è detto, ormai acquisiti: così come acquisito può dirsi l’inquadramento del mobbing nell’ambito dei comportamenti lesivi della personalità morale del lavoratore, oltre che, in alcuni casi, della sua integrità fisico-psichica, a fronte dei quali soccorre la tutela offerta dall’art. 2087 c.c. Altro e diverso discorso dovrà essere fatto a proposito delle difficoltà per il lavoratore di fornire la prova non solo dell’effettiva materialità dei comportamenti, ma soprattutto dell’elemento intenzionale: salvo poi potersi fare ampio ricorso, nelle vicende giudiziarie, alla prova presuntiva.
Un compito preciso riguarderà poi l’individuazione precisa del danno,  ed ovviamente la sua liquidazione. Davvero, lo sforzo primo sarà quello di acquisire maggior consapevolezza sulle componenti di questo danno, e sulla loro natura.
Con il mobbing, si è detto, trova consacrazione, come suo perfetto pendant, il danno esistenziale, che certo non ha natura patrimoniale. La liquidazione dello stesso, ovviamente equitativa, dovrà però partire dalla constatazione, esplicitata in sede di motivazione, ai fini di rendere trasparente e verificabile il procedimento logico seguito dal giudice, di alcuni parametri, modellati sul numero e sulla frequenza degli episodi facenti parte della strategia, sulla durata complessiva della stessa, e poi su tutte le implicazioni relative alle condizioni esistenziali del lavoratore. Se poi è stata individuata  nel mobbing, proprio per la sua particolare connotazione, la capacità di produrre un “valore aggiunto” quanto alla sofferenza dell’individuo, fatto oggetto di una strategia complessiva di emarginazione e di isolamento, bisognerà pensare poi a livelli risarcitori che tengano conto di tutto questo, e che si propongano come più severi e punitivi rispetto a quelli normalmente adottati per condotte costituenti oggettivamente violazione di obblighi di legge, quali per l’appunto il demansionamento.
Forse potrà e dovrà essere superato il parametro rappresentato dalla retribuzione del lavoratore. Allo stesso potrà ancora farsi ricorso, nel caso in cui vengano allegati e provati danni, questi di natura patrimoniale, conseguenti alla perdita di chances di carriera, e di professionalità, intesa come valore del lavoratore sul mercato del lavoro. Ma per tutto ciò che concerne le lesioni alla “personalità morale” del lavoratore, e quindi il peggioramento delle sue condizioni esistenziali, davvero occorre ripensare alla opportunità di parametrare il ristoro che egli merita al livello di reddito da lui raggiunto (63). Paradossalmente anzi, proprio chi conta su un livello economico più basso avrà a sua disposizione minori risorse per riconquistare una “qualità della vita” che ha visto compromessa dagli attacchi subiti nell’ambiente di lavoro alla sua dignità di persona.
Sinceramente, non credo alla prospettiva della tabellarizzazione (64): se qualcosa di nuovo e di originale esprimono queste tematiche, le quali davvero, che piaccia o meno, segnano in qualche modo l’attuale prospettiva del diritto e del processo del lavoro, è l’attenzione rivolta all’individuo, al suo intreccio di relazioni e di affetti in cui si realizza il suo microcosmo, e dunque alla dimensione individuale, in una prospettiva quasi intimista. Il comodo  ormeggio alla tabella per la liquidazione del danno finisce in qualche modo per annullare, per appiattire  questa realtà: e per sconfessare, in qualche modo, quelle ragioni per le quali si era ritenuto di approntare una tutela ad hoc a fronte di un fenomeno di cui si avvertono le potenzialità lesive nei confronti della vittima accertata.
Ma da un serio confronto sugli elementi che davvero caratterizzano la sussistenza prima, e l’entità poi, del danno alla persona, credo che la giurisprudenza  non si possa e non si debba più sottrarre: e che vada cercato ogni mezzo per dare, nella misura del possibile, trasparenza e conoscibilità ai criteri di liquidazione, anche per cercare, come è stato da ultimo detto, di “conferire dignità sistematica alla non semplice costruzione di questo istituto ontologicamente dai confini molto labili” (65).
Sulla richiesta di tutela effettiva da parte del cittadino, si gioca infatti, ancora una volta, la continua sfida che ha ad oggetto la credibilità della magistratura.
Dott.ssa Rita Sanlorenzo
Giudice del Tribunale di Torino
NOTE
1) Di recente, v. Il Sole 24 Ore, 21.10.2002, con un servizio dal titolo Il mobbing fa male, in cui si indica in 40 milioni il numero di lavoratori colpiti in Europa, pari al 38% della forza lavoro, di cui il 4% relativo a casi registrati in Italia sul totale UE. Ancora secondo il servizio giornalistico, il 71% dei casi italiani si registra presso gli uffici pubblici, il 52% dei medesimi riguarda lavoratori  di sesso maschile, e per l’80% le vittime appartengono alle categorie dei quadri e degli impiegati. Ancora secondo la testata giornalistica, il costo stimato della sindrome derivante per i Paesi della UE ammonterebbe a circa 20 miliardi di euro. A questi si aggiungono i costi in più, difficilmente quantificabili, che le aziende sostengono in termini di minore produttività dei lavoratori mobbizzati. Per l’Ispesl un lavoratore sottoposto a violenze psicologiche ha un rendimento inferiore del 70%. Per altri riferimenti a pubblicazioni giornalistiche aventi ad oggetto il mobbing, si confrontino in particolare P.G.MONATERI, M.BONA, U.OLIVA, Mobbing.Vessazioni sul lavoro, Milano 2000, p.5, in nota, e M.MEUCCI, Violenza da mobbing sul posto di lavoro, in RCDL, 2000, 275, che contiene numerose indicazioni per quel che riguarda siti internet, Associazioni di ricerca, Movimenti costituiti da vittime del fenomeno.
2) P.TULLINI, in RDIL, 2000,  I, 251 – 268.
3) A. VISCOMI, Il mobbing: alcune questioni su fattispecie ed effetti, in LD 2002, 45 ss., sottolinea la necessità di utilizzare una costante “razionalità critica che sappia coniugare le esigenze di sistema e la sensibilità al problema rinunciando alla tentazione di una immediata trasposizione della figura medico – legale o di un fenomeno socio – organizzativo in una fattispecie giuridicamente rilevante” (p.47).
4) H.EGE, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora Editrice, Bologna.
5) La valutazione peritale del danno da mobbing, 2002, Giuffrè, Milano; in precedenza, vedi anche Il mobbing, ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro, e la situazione italiana, in F.M.Hirigoyen, Molestie morali: la violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, 2000, Einaudi, Torino, ove il mobbing veniva descritto consistere “in un’azione (o una serie di azioni) che si ripete con una certa frequenza e per un certo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobber per danneggiare la vittima, quasi sempre in modo sistematico e con uno scopo ben preciso.” (p.236).
6) H.EGE, Mobbing, conoscerlo per vincerlo, Franco Angeli, 2001.
7) H.EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, op. cit, p.7 e segg. L’Autore in particolare espone il ricorso a sette diversi parametri, solo in presenza dei quali, nello stesso contesto, è possibile affermare la presenza del mobbing. Tali parametri vengono così individuati: l’ambiente di lavoro, la frequenza, la durata, il tipo di azioni, il dislivello tra gli antagonisti, l’andamento in fasi successive e l’intento persecutorio (p. 39 e ss.).
8) H.EGE, op.ult. cit., p. 11: “Il mobbing non è un problema dell’individuo, ma è un problema dell’ambiente di lavoro”.
9) come invece ritenuto da Corte di Appello di Torino, 21.2.2000, in FI, 2000, 155 e s., e sostanzialmente condiviso da P.G.MONATERI, M.BONA, U.OLIVA, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, op.cit. p.15 e p.121 e ss., con richiami anche alla letteratura francese, in particolare a F.HIRIGOYEN, Le harcèlement moral, Paris, 1992, pubblicato anche in Italia, Molestie morali. La violenza perversa nella vita quotidiana, Torino, 2000, con appendice riportanti scritti di EGE, MENZIO, MONATERI, BONA, OLIVA.
10) Concordi, sul punto le considerazioni riportate da Il Sole 24 Ore del 21.10.2002, riportate nella nota 1.
11) A.GILIOLI, R.GILIOLI, Cattivi capi, cattivi colleghi.  Come difendersi dal mobbing e dal nuovo”capitalismo selvaggio”, Mondadori,, Milano. Renato Giglioli, neuropsichiatra, ha fondato e dirige il Centro per il disadattamento lavorativo della Clinica del lavoro di Milano, che offre ai pazienti una valutazione psicologica della rispettiva situazione personale e quindi propone un trattamento farmacologico o psicoterapeutico. Può anche rivolgersi alla azienda sanitaria locale per richiedere ispezioni in azienda per far fronte alle situazioni più gravi.
12) A.EGE, Mobbing, conoscerlo per vincerlo, op.cit, p.51.
13) A.GILIOLI, R.GILIOLI, op. cit, p.6.
14) H.EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, op. cit., p.23.
15) H.EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, op. cit., p.51 e ss.
16) contra, Trib. Como, 22.5.2001, su cui infra.
17) Per una approfondita analisi delle proposte di legge giacenti sul tema, v. F.AMATO, M.V.CASCIANO, L.LAZZERONI, A. LOFFREDO, Il Mobbing. Aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele, Giuffrè Milano 2002. L’elenco completo delle proposte ad oggi presentate nella XIV legislatura, si trova su  htpp://www.clik.to/diritto lavoro.
18) L.GRECO, Danno esistenziale e risarcimento da mobbing, nota a Trib. Forlì 15 marzo 2001, in RCDL, 2001, p. 411 e ss, p. 413.
19) Entrambe citate da F.NISTICO’, Mob, Mobber, Mobbing, in Informazione Previdenziale 2002, 709 ss., e comunque reperibili in www.unicz.it/lavoro.
20 Trib. Torino, 16.11.1999, in RIDL 2000, II, 102, con nota di PERA, La responsabilità dell’impresa per danno biologico subito dalla lavoratrice perseguitata dal preposto (a proposito del cd. “mobbing”); Trib. Torino, 11 dicembre 1999, in FI 2000, I, 1555, con note di A.M.PERRINO, 1554 e ss., e di L. DE ANGELIS, Interrogativi in tema di danno alla persona del lavoratore, 1557 e s.
21) F.AMATO, e altri, Il Mobbing, op.cit., p. 21.
22) C.Cass., Sez. Lavoro, 8 gennaio 2000, n. 143, in FI 2000, I, 1554.
23) H.EGE,  in Mobbing, conoscerlo per vincerlo, op. cit., p. 13, e in La valutazione peritale del danno da mobbing, op. cit., p.9 e ss.; nello stesso senso, da parte della critica giuridica, PERA, in RIDL 2000, p.102.
24) Tribunale Milano, 20.5.2000, in OGL 2000, 959.
25) Tribunale di Milano, 16.11.2000, in OGL 2000, 962.
26) Tribunale di Como 22.5.2001, in Il Lavoro Nella Giurisprudenza, 2002, n.1, 73 e s., con nota critica di  H.EGE, p. 76 e s.
27) in RCDL 2001, 411, con nota di L.GRECO, Danno esistenziale e risarcimento da mobbing.
28) H.EGE, Mobbing. Conoscerlo per vincerlo, op. cit., p.23.
29) Tribunale Venezia, 26 aprile 2001, in  R G L, 2002, II, 88, con nota di M.C.CIMAGLIA, Riflessioni su mobbing e danno esistenziale.
30) Tra le tante sentenze in materia, vedi in tal senso (e poi infra), C.Cass., 7 luglio 2001, n.9228, in RCDL 2001, 999.
31) P.Tullini, op.cit., p.256.
32) contra, Trib. Venezia 26.4.2001, cit.
33) Trib. Torino 16.11.1999 e 30.12.1999, cit.
34) P.TULLINI, op.cit., 258; V.MATTO, Il mobbing fra danno alla persona e lesione del patrimonio professionale,in DRI, 1999, 491 ss.; VENERI, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, in LPO, 1999, 1115 ss.
35) F.AMATO ed altri, IL MOBBING, op.cit., p.79; P.TULLINI, op.cit., p. 254.
36) G.PERA, Angherie e inurbanità negli ambienti di lavoro, in RIDL 2001, I, 291 e ss., 297.
37) F.NISTICO’, Mob, Mobber, Mobbing, op.cit., p.717.
38) In FI 1986, I, 2053, con nota di G.PONZANELLI, La Corte Costituzionale, il danno non patrimoniale e il danno alla salute.
39) In FI 1991, I, 2967, con nota di DE MARZO, Pregiudizio della capacità lavorativa generica: danno da lucro cessante o danno alla salute?.
40) così Cass., Sez.III civile, 30.3.1992, n. 3867, in F.I. 1993, i, 1959.
41) Per la ormai ricca letteratura sull’argomento generale, vedi P.CENDON – P.ZIVIZ, “Il danno esistenziale”, in Le nuove voci della responsabilità civile, Milano, 1992;P.ZIVIZ., La tutela risarcitoria della persona: danno morale e danno esistenziale, Milano 1999; U.OLIVA, Mobbing: quale risarcimento?  In Danno e responsabilità, 2000, 27 ss.
42) Per una ipotesi di risarcimento di danno esistenziale a fronte di condotte ritenute lesive della personalità morale e della dignità umana della lavoratrice, in un caso di molestie sessuali, v. Trib. Pisa, 6 ottobre 2001, in RCDL  2002, 126.
43) V. nello stesso senso L.DE ANGELIS, Interrogativi in tema di danno alla persona del lavoratore, cit., in partic. 1566.
44) P. TULLINI, op.cit., 258.
45) Già E.REDENTI, in Massimario della giurisprudenza dei probiviri, opera risalente al 1906 (ristampata a cura di S.CAPRIOLI, Torino, 1992), rilevava che “il compiere le prestazioni, no è solo un obbligo, ma un diritto dell’operaio, in quanto è presupposto del suo diritto alla mercede” (p.171).
46) La tesi “classica” è riportata (e sostanzialmente condivisa) da  E.BALLETTI, La cooperazione del datore all’adempimento dell’obbligazione di lavoro, Padova, 1990; V.SPEZIALE, Mora del creditore e contratto di lavoro, Bari, 1992; A.VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova, 1995; ID, Spunti critici sulla questione del diritto del lavoratore allo svolgimento della prestazione, in RIDL, 1996, II, p.364.
47) F.CARINCI. R.DE LUCA TAMAJO, P.TOSI, T.TREU, Diritto del lavoro.2.Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 1992, p.280.
48) G.GIUGNI, Qualifica, mansioni e tutela della professionalità, in RGL, 1973, I, p.14 – 15.
49) Su questa stessa linea di pensiero, R.SCOGNAMIGLIO, Mansioni e qualifiche dei lavoratori: evoluzione e crisi dei criteri tradizionali (relazione AIDLaSS), Milano, 1973, p.15 ss; ID. Diritto del Lavoro, Napoli, 1994, p. 117 – 118; U.ROMAGNOLI, Commento all’art. 13 Stat. Lav., in Statuto del diritti dei lavoratori, Comm. Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1979, p. 259; F.LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale,   Milano, 1982, p.169. Alla stessa conclusione di un generale diritto a lavorare giunge per altra via, segnata dall’art. 18 Stat. Lav., S.CHIARLONI, Dal diritto alla retribuzione al diritto di lavorare, in RTDPC, 1978, p. 1461 ss.
50) G.PERA, Sul diritto del lavoratore a lavorare, in RIDL, 1991, II, 388, che rileva come non v’è dubbio sul fatto “che lasciare senza lavoro il dipendente, ancor quando non si abbia il coraggio di percorrere la via diretta della sanzione disciplinare ed eventualmente del licenziamento, ne mortifica ed umilia la personalità morale”
51) in RCDL, 1992, 390, con nota di R.MUGGIA, Dequalificazione, inattività e danni risarcibili, p. 391 e ss.; nonchè in RIDL, 1992, II, p. 954, con nota di R.FOCARETA, Sottrazione di mansioni e risarcimento del danno, p. 957 e s.
52) in FI, 1996, i, 1000.
53) In FI, 1995, I, 3134.
54) In questi termini, sul punto,  M.BROLLO, La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e trasferimento, Art. 2103, in Commentario al codice civile diretto da Pietro Schlesinger, Milano, 1997. Parimenti critico, F.FOCARETA, cit., nota a Cass., n.8835/91.
55) In FI, Rep. 2001, voce Lavoro, n.751
56) In FI, Repertorio 2000, voce Lavoro, n.784.
57) Tribunale Milano, 26 aprile 2000, in RCDL 2000, 750, con nota di A.PAVONE, Illegittima dequalificazione: le “voci” di danno, l’accertamento e la misura del risarcimento.
58) Così Cass., Sez. Lav., 7 luglio 2001, n.9228, in RCDL, 2001, 999.
59) C.Cass., 14 maggio 2002, n.6992. In precedenza, nello stesso senso, Cass., 11 agosto 1998 n. 7905.
60) Così Cass., Sez. Lav., 18.10.1999, N.11727, in LG 2000, 244.
61) Cass., 2 novembre 2001, n. 13580.
62) M.BROLLO, op.cit., p.259, così si esprime”L’analisi delle sentenze edite in materia fa affiorare una sensazione di approssimazione, di confusione terminologica e concettuale, se non di vero e proprio disagio degli estensori nell’uso di categorie elaborate in sede civilistica. Disagio questo che comunque non frena l’attuale tendenza alla proliferazione di nuove ed ulteriori figure di danno, in un’ottica di ampliamento delle possibilità di risarcimento del danno, per rendere più pregnante – almeno sotto il profilo monetario- la tutela della personalità del lavoratore. Intenzione condivisibile, ma perseguita con tecniche che sollevano un concreto rischio di cadere nelle duplicazioni ed appaiono scarsamente persuasive sul piano teorico – ricostruttivo”.
63) In tal senso, L.DE ANGELIS, Interrogativi in tema di danno alla persona, cit., 1566.
64) H.EGE. La valutazione peritale del danno da mobbing, op.cit., cap.III, p.83 e ss.
65) F.NISTICO’, Mob, Mobber, Mobbing, op.cit., p.720
 
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