Nota a Cass. SU. n. 6572 del 24.3.2006

 

LE SEZIONI UNITE SULL'ALLEGAZIONE E LA PROVA

DEI DANNI CAGIONATI  DA DEMANSIONAMENTO

O DEQUALIFICAZIONE

La Corte di Cassazione a Sezioni unite con la sentenza n. 6572/2006 interviene a comporre l'aspro dissidio che da diversi anni ormai divide la giurisprudenza di legittimità e quella di merito sul grave problema del risarcimento del danno cagionato al  lavoratore dal demansionamento, la riduzione delle mansioni fino all'esonero dall'attività lavorativa, e dalla dequalificazione, l'assegnazione a mansioni non equivalenti.

La sentenza espone i due indirizzi che si dividono il campo nei seguenti termini: secondo un'opinione, il demansionamento e la dequalificazione costituiscono un danno in  re ipsa, che deve essere risarcito senza che il lavoratore debba allegare e provare alcunché; secondo un'altra opinione, il lavoratore, il quale chiede di essere risarcito per aver subito un demansionamento o una dequalificazione, deve allegare e provare di aver subito realmente conseguenze pregiudizievoli.

Le Sezioni unite aderiscono al secondo indirizzo che, per anticipare la mia opinione, appare saldamente fondato su incontestabili principi di diritto e meritevole senz'altro di accoglimento. E pervengono a tale conclusione alla stregua di una motivazione approfondita e suggestiva, che si espone tuttavia a qualche riflessione critica.

La sentenza prende le mosse dalla concezione, accreditata presso larghi settori della dottrina e della giurisprudenza, della natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro: per i danni recati alla professionalità, alla stregua del divieto dell'art. 2103 c.c. di assegnare il lavoratore a mansioni non equivalenti a quelle di sua spettanza, e per i danni recati all'integrità fisica e alla personalità morale, alla stregua dell’ art. 2087 c. c. che vincola il datore ad adottare le misure idonee a garantire la sicurezza del lavoratore. In entrambi i casi, osservano le Sezioni unite, l'illecito del datore consiste nella violazione di obblighi derivanti dal contratto, che, ai sensi dell'art. 1218 c. c., determina l’«esonero dall'onere della prova, sulla sua imputabilità che va regolata in stretta connessione con l'art. 1223 dello stesso codice». Mentre l’ampia formula dell'art. 2087 cit. - con il suo riferimento altresì alla personalità morale - assicura ai lavoratore «il diretto accesso alla tutela dì tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario, per superate le limitazioni imposte dall'art. 2059 c. c. (...) verificare se l'interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perché la protezione è già chiaramente accordata, da una disposizione del codice civile».

Ma, se ci è consentito cominciare da un rilievo alle prime apparenze incidentale, la configurazione della responsabilità contrattuale del datore di lavoro, nei casi regolati dagli artt. 2103 e 2087 c. c., suscita, qualche perplessità. E infatti questa forma di responsabilità si identifica nell'inadempimento di un'obbligazione di fonte contrattuale o legale che, secondo la tripartizione classica, può consistere in una prestazione di dare, di fare o di non fare, di contenuto determinato o agevolmente determinabile e di rilevanza economica diretta, o almeno indiretta per la pattuizione di una penale. Ma categorie siffatte non sembrano agevolmente applicabili al rapporto dì lavoro subordinato, che nasce innegabilmente da un accordo formale o di fatto per l'assunzione in servizio del lavoratore, ma si prolunga poi in un vincolo di durata, nel quale si radicano situazioni attive e passive, divergenti di non poco dalla fisionomia tipica dell'obbligazione.

Si tratta del potere-diritto del datore di lavoro di modificare il contenuto della prestazione lavorativa entro i limiti sanciti dalla legge o di sospenderne temporaneamente l'esecuzione quando ne possano derivare per l'azienda, per gli stessi lavoratori e per i terzi danni di rilevante entità, e del potere-obbligo del datore di realizzare adeguate condizioni, materiali e morali, di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Nell'un caso come nell'altro, allora, il torto del datore sembra, collocarsi su un piano diverso da quello dell'inadempimento di un'obbligazione verso il lavoratore, e dall'altro del fatto illecito, ex art. 2043 ss. c.c., che colpisce un soggetto estraneo, nella supposta violazione dell'obbligo generico del neminem laedere. Cosicché suggerisce la configurazione di un modello di responsabilità di tipo distinto, tra. la responsabilità contrattuale ed aquiliana, la cui disciplina tenga conto delle peculiarità del rapporto di lavoro subordinato e delle situazioni giuridiche dei suoi soggetti. Della quale, per venire al punto, si avverte la carenza soprattutto riguardo alle misure sanzionatorie, che allo stato consistono nella dichiarazione in sede giudiziale del diritto del lavoratore con il seguito eventuale di un'inibitoria, e nel risarcimento del danno, che sconta però, alla stregua del condivisibile insegnamento della Corte di cassazione, tutte le difficoltà di allegare e provare le conseguenze pregiudizievoli del demansionamento o della dequalificazione. Laddove una sanzione adeguata, per la prevenzione e la riparazione di illeciti tanto diffusi e pregiudizievoli, potrebbe consistere nella attribuzione al lavoratore leso di una congrua somma di denaro, sganciata dalla verifica di danni effettivi, in sostituzione o ad integrazione del risarcimento dei danni allegati e provati sul modello dell'indennizzo per i danni morali, il c.d. pretium doloris, limitato attualmente, ex art. 2059 c.c - e sul punto avrò modo di tornare -, ai casi determinati dalla legge, tra i quali non rientrano i torti da demansionamento o dequalificazione di cui si discute, o sul modello degli exemplary damages, un indenizzo a carattere punitivo, previsto da ordinamenti giuridici stranieri.

Al di là del rilievo critico alla configurazione della responsabilità, che si volge però verso un discorso de jure condendo, ritengo di dissentire da talune affermazioni delle Sezioni unite, riguardo alla configurazione e alla rilevanza giuridica dei danni subiti dal lavoratore, che risultino risanabili a seguito delle sue puntuali allegazione e prova.

Non ritengo che il danno alla professionalità possa ricondursi nell'ambito del danno patrimoniale, in quanto attiene a beni-interessi immateriali della persona del lavoratore, la competenza ed esperienza acquisite nell'espletamento della prestazione che potrebbero andare disperse in caso di demansionamento o dequalificazione, con un profilo di rilevanza economica solo indiretto e/o eventuale. E alla stessa conclusione mi sembra di poter pervenire riguardo alla possibilità di carriera, che vale a soddisfare principalmente e al di là di eventuali riflessi economici il prestigio e l'ambizione personale del lavoratore.

Non ritengo poi, per tornare su un'affermazione di fondo della sentenza delle Sezioni unite sopra segnalata, che la rilevanza giuridica dei danni alla integrità fisica, all’immagine e alla vita di relazione o il cd. danno esistenziale trovi il suo fondamento nel disposto dell'art. 2087 c.c. e degli artt. 1 e 2 Cost., che ne possono offrire semmai una conferma.

Il nodo di svolta per la corretta impostazione e risoluzione della questione consiste invece nel superamento dell'idea, ancorata ad un ordine tradizionale di princìpi e di valori da tempo superato, secondo il quale il danno effettivo, e risarcibile mediante la corresponsione di una somma di denaro, può essere soltanto quello inferto al patrimonio e non anche ai beni-interessi della persona, non valutabili in somme di denaro per la duplice, concomitante ragione dello scarso pregio della gran maggioranza degli uomini appartenenti ad un rango inferiore e della incommensurabilità per contro del pregio degli uomini di rango o ceto elevati.

Laddove, una volta riconosciuto dalla coscienza sociale e dal vigente diritto il valore della persona in generale, riesce agevole affermare che il risarcimento del danno non deve restare circoscritto ai danni patrimoniali, e si deve estendere invece anche ai danni «personali», purché effettivi e verificati.

In tal senso appare decisivo il disposto dell'art. 2043 c.c, che, in tema di responsabilità extracontrattuale, stabilisce la risarcibilità del danno senza alcuna connotazione, al di là di quella formale e soltanto essenziale sotto il profilo della rilevanza giuridica, della sua «ingiustizia».

E, salva in ogni caso l'estensione del disposto dell'art. 2043, cit. all'intera sfera della responsabilità civile, ad un risultato non diverso sì deve pervenire riguardo alla responsabilità contrattuale, pure particolarmente vicina per il tramite dell'obbligazione, vincolo tipicamente economico alla patrimoniatità del danno.

Infatti l'art. 1223 c.c. stabilisce che il risarcimento del danno «deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno». E, se quest'ultima espressione possiede un inequivocabile valore patrimoniale, l'altra di «perdita» nella generalità del contenuto può riferirsi anche a beni interessi di natura personale.

Non può essere utilizzato invece a sostegno dell'assunto, e sul punto appare condivisibile la pur sbrigativa affermazione delle Sezioni unite, il disposto dell'art. 2059 c.c., che, al di là dell'equivoca definizione di danno non patrimoniale, si riferisce alle sofferenze psichiche e ai patemi d'animo che il torto può cagionare al soggetto leso e può essere indennizzato, il cd. pretium doloris, nei soli casi stabiliti dalla legge. Che, alla stregua del vigente ordinamento giuridico, consistono nel reato ai sensi dell'art. 185, secondo comma, c.p.c. e nell'uso di espressioni sconvenienti o offensive negli scritti presentati e nei discorsi pronunziati davanti al giudice dalle parti e dai difensori ai sensi dell'art. 89, secondo comma, c.p.c.

Tornando infine alla descrizione analitica e all'allegazione e alla prova dei danni conseguenti al demansionamento e alla dequalificazione, appaiono pienamente condivisibili le affermazioni delle Sezioni unite che il danno alla professionalità deve riferirsi all'esercizio di un'attività di qualsiasi tipo, in quanto caratterizzata da una continua evoluzione e da vantaggi connessi alla esperienza professionale, destinati a venir meno :in conseguenza del mancato espletamento delle mansioni per un apprezzabile periodo di tempo; che la perdita di chance può costituire un danno quando le aspettative di promozione nel regolare svolgimento del rapporto di lavoro siano frustrate invece dal demansionamento o dalla dequalificazione; che il danno biologico si configura tutte le volte in cui è constatata una lesione dell'integrità psico-fisica mediante la diagnosi di un medico, ma qui mi sia consentito di osservare che, ai fini del suo risarcimento, si richiedono anche l'allegazione e la prova, spesso carenti od insufficienti, del nesso di causalità tra il torto contestato dal datore e i danni alla salute; che il danno all’immagine o alla vita di relazione, quello maggiormente controverso, richiede l'allegazione e la prova che il torto del datore abbia pregiudicato il «fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini dì vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno», ma qui mi sia consentito di dubitare della validità e/o opportunità della nozione di danno esistenziale che, a differenza del danno all'immagine e alla vita di relazione, non trova un valido riscontro nella esperienza reale.

 

Renato Scognamiglio

Professore emerito di diritto del lavoro

nell’Università «La Sapienza» di Roma

 

(fonte: Riv.it.dir.lav. 3/2006, p. 696, nota a Cass. sez. un. n. 6572/06)

P.S.- L’uso del grassetto e le sottolineature sono del curatore del sito.

 

NOTA

 

Sebbene sia abbastanza agevole desumere dall'articolo di Scognamiglio il pensiero che tramite le sue considerazioni - non tutte peraltro condivisibili - esplicita, sentiamo l'esigenza di riassumere con parole nostre (ed anche in un'ottica esplicativa, per i non addetti ai lavori)  le principali affermazioni e focalizzare l'attenzione sui punti nei quali ritroviamo una certa consonanza con il nostro pensiero, abbondantemente presente nella Sezione Mobbing del sito:

a) l'A. ammette pacificamente la difficoltà di provare in giudizio - da parte del lavoratore - le conseguenze pregiudizievoli del demansionamento e dequalificazione, per sopperire alla cui "probatio diabolica" (come noi l'abbiamo spesso qualificata), egli ipotizza - de iure condendo e per "tagliare la testa al toro" - una previsione legislativa introduttiva di una sanzione datoriale economicamente congrua, «sganciata dalla verifica di danni effettivi, in sostituzione o ad integrazione del risarcimento dei danni allegati e provati sul modello dell'indennizzo per i danni morali», (c.d. "somma castigo" secondo le SU o "punitives damages", allo stato non consentiti dal nostro ordinamento). Per ovviare a tale difficoltà probatoria, le SU nella decisione n. 6572/2006, invece indicano - correttamente - il "ricorso precipuo" alle presunzioni ex art. 2729 c.c.;

b) ammette che demansionamento e dequalificazione da parte datoriale sono «illeciti tanto diffusi e pregiudizievoli», naturalmente per chi li subisce;

c) contesta - in armonia con la nostra stessa impostazione [(cfr.: Il danno alla professionalità è "non patrimoniale"(nota a Cass. sez. lav. 26.5.04 n.10157) e Esigenze di uniformità in tema di prova del danno alla professionalità (note critiche a Cass. sez. un. n. 6572/2006)] che il danno alla professionalità sia di natura patrimoniale (come asseriscono le SU), quando invece attiene a «beni-interessi immateriali» quali la competenza, l'attitudine, l'esperienza acquisita e simili. E contesta altresì che anche la cd. "perdita di chances" promotive - che ha indubitabilmente risvolti patrimoniali - sia riconducibile a danno di natura eclusivamente patrimoniale, in quanto la (mancata) promozione  «soddisfa principalmente...il prestigio e l'ambizione personale del lavoratore» (quindi interessi immateriali);

d) critica la "patrimonialità" che - nel riscontro e qualificazione  del danno alla professionalità da parte delle SU - ispira l'opinione delle SU medesime, quando invece le lesioni arrecate dall'illegittimo demansionamento sono, con nostra condivisione, inferte a «beni-interessi della persona»: per essere espliciti a quelli che noi (e la giurisprudenza prevalente) abbiamo sempre indicato nella lesione della dignità personale, autostima ed identità personale, dell'immagine, prestigio e reputazione (endo ed extra aziendale), del diritto all'autorealizzazione nel lavoro, del senso di utilità sociale, frustrati dalla dequalificazione e dal demansionamento;

e) l'A. àncora - piuttosto che alla "patrimonialità" o "non patrimonialità" - il danno da demansionamento alla nozione di "danno ingiusto" e, quindi, individua la fonte normativa risarcitoria nell'art. 2043 c.c.. Giacchè egli sostiene - piuttosto condivisibilmente sul punto (non condivisibilmente invece se è modalità strumentale per negare il carattere "contrattuale" (ex art. 1218 c.c.) del danno, a favore di una opzione extracontrattuale o aquiliana da "neminem laedere") -  che è «l'ingiustizia» del danno, «senza alcuna connotazione», che consente il ristoro di lesioni non solo patrimoniali, ma eminentemente afferenti a «beni-interessi di natura personale», traducibili - secondo noi - in lesioni a "diritti della personalità", quali la dignità, l'immagine, il rispetto umano e professionale, implicante inibitoria della immanente mortificazione e sofferenza interiore cagionata dal demansionamento, ecc., sui quali ci siamo già intrattenuti al punto d). Valori personali (rectius, diritti della personalità, protetti dalla Costituzione e dagli artt. 2103 e 2087 c.c.), che l'art. 1223 c.c. - nel momento in cui sancisce che il danno (ingiusto risarcibile) è costituito dalla "perdita subita come dal mancato guadagno" consente pacificamente di rendere risarcibili. In quanto nell'ampia nozione di «perdita» sono riconducibili certamente le lesioni inferte ai già evidenziati diritti della personalità (identità, immagine, dignità, prestigio e reputazione sociale, vita di relazione, autorealizzazione nel lavoro, senso di utilità sociale) che - secondo l'A. - renderebbero superfluo il ricorso alla categoria del "danno esistenziale" che - a suo avviso e, invero, piuttosto isolatamente -  non troverebbe un valido «riscontro nella esperienza reale».

Mario Meucci

Roma, 15 novembre 2006

P.S - Le parole in grassetto tra virgolette caporali («...») sono tratte dalla nota di Scognamiglio.

 

(Torna all'elenco Articoli nel sito)