Legittimità del versamento dei contributi sindacali richiesto all’azienda con "cessione di credito"

 

Corte di cassazione, Sezioni unite civili, 24 novembre – 21 dicembre 2005, n. 28269 – Pres. Carbone – Rel. Picone – S. In.Cobas c. Teksid SpA

 

Trattenuta dei contributi sindacali a mezzo cessione di credito secondo le norme civilistiche – Legittimità e non contrasto con l’esito referendario modificativo dell’art. 26 Stat. lav. – Diniego del datore di lavoro – Comportamento antisindacale – Sussistenza.

 

L’abrogazione referendaria dell'art. 26, commi 2 e 3, Statuto dei lavoratori, non ha certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione della materia, ma - come precisato dalla Corte costituzionale in relazione all'intento dei promotori (sentenza 13/1995)- ha "restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge in termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicché resta ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti si attribuirebbero all'istituto del referendum non i soli effetti abrogativi che gli sono propri, ma anche effetti propositivi. E’ del tutto errato, pertanto, ritenere – come ha fatto la difesa dell’azienda - che l'esito referendario abbia introdotto nell'ordinamento il principio inderogabile del divieto di realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro, senza il suo consenso, di versare al sindacato quote della retribuzione. Si è già detto come sia del tutto arbitrario desumere un tale principio dall'effetto abrogativo del referendum, limitato alla soppressione di un obbligo ex lege, senza interferire minimamente sull'apparato degli strumenti negoziali a disposizione di tutti i soggetti dell'ordinamento. Scomparso l'obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono essere impiegati per realizzare risultati, non certo identici o analoghi, ma, al più, equivalenti. E ciò stabilito, l'inadempimento del datore di lavoro che incide sull'attività sindacale in senso proprio concreta in tutti i casi condotta antisindacale, senza che possa in alcun modo rilevare la fonte dell'obbligo medesimo. Va aggiunto che il referendum ha lasciato in vigore il primo comma dell'art. 26 Statuto dei lavoratori, che protegge i diritti individuali dei lavoratori concernenti l'attività sindacale per quanto attiene, in particolare, alla raccolta dei contributi: stipulare con il sindacato i contratti di cessione di quote della retribuzione costituisce una modalità di esercizio dei detti diritti; il rifiuto del datore di lavoro di darvi corso, lungi dal concretare un mero illecito civilistico, opera una compressione dei diritti individuali e di quelli del sindacato. Ne consegue che il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti configura un inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a limitare l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa sindacale. L'effetto del rifiuto è quello di privare i sindacati che non hanno stipulato i contratti collettivi della possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di sostentamento per lo svolgimento della loro attività e posti in una situazione di debolezza, non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazione sindacali con cui sono in concorrenza.

 

RITENUTO IN FATTO

 

1. Con la sentenza sopra specificata, la Corte di appello di Torino, giudicando fondata l'impugnazione proposta dal S.IN.COBAS - Sindacato intercategoriale dei comitati di base - contro la decisione del Tribunale della stessa sede, ha confermato il decreto in data 27 aprile 1999 del Pretore di Torino, con il quale, ritenuta l'antisindacalità del comportamento della Teksid s.p.a., consistito nel rifiutare il pagamento al sindacato, ricorrente ex art. 28 l. 300/1970, delle quote di retribuzione cedutegli dai lavoratori aderenti, ne aveva ordinato la cessazione e la rimozione degli effetti (mediante il pagamento dei crediti scaduti), con affissione del dispositivo nelle bacheche per trenta giorni.

2. È stato respinto, invece, l'appello incidentale della Teksid contro la statuizione di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto la legittimazione del S.IN.COBAS a proporre ricorso per la repressione del comportamento antisindacale, con la motivazione che era stata fornita la prova della dimensione nazionale del sindacato, in relazione alla presenza e allo svolgimento di attività in gran parte del territorio, nonché della sua natura, in base allo statuto, di associazione sindacale nazionale con articolazioni periferiche, e non di confederazione di diverse organizzazioni di categoria.

3. Sulle altre questioni, le argomentazioni che sostengono la decisione sono: a) scomparso dall'ordinamento l'obbligo legale del datore di lavoro di effettuare le trattenute dei contributi sindacali e di curarne il versamento, l'obbligo medesimo può legittimamente derivare da fattispecie negoziali; b) nel caso concreto era stata realizzata, con accordi tra ciascun lavoratore e il sindacato, la cessione di una parte del credito retributivo, e gli effetti di collaborazione del datore di lavoro derivavano dagli artt. 1260 ss. c.c., come pure gli oneri aggiuntivi erano posti a suo carico dal disposto dell'art. 1196 dello stesso codice, oneri, peraltro, molto modesti, atteso che era in atto nell'azienda la procedura per riscuotere le quote associative relative ai sindacati firmatari del contratto collettivo di lavoro; c) il rifiuto del datore di lavoro, debitore ceduto, di adempiere nei confronti del sindacato, incideva fortemente su di un profilo assai rilevante dell'attività e, perciò, stante l'atipicità della condotta antisindacale e la sua oggettiva lesività, doveva essere represso con lo strumento apprestato dall'art. 28 l. 300/1970.

4. La cassazione della sentenza è domandata dalla Teksid s.p.a. con ricorso per tre motivi, ulteriormente precisati con memoria depositata in relazione all'udienza della Sezione lavoro della Corte fissata per il 23 novembre 2004; ha resistito con controricorso il Sindacato intercategoriale dei comitati di base.

5. Rilevato che la questione dell'antisindacalità del comportamento del datore di lavoro, consistito nel rifiuto di pagare al sindacato le quote di retribuzione cedute dai lavoratori, era già stata decisa in senso difforme da sentenze della Sezione lavoro, il Primo Presidente ha disposto che la Corte pronunci a Sezioni unite, ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c. In relazione all'udienza fissata, la Teksid s.p.a. ha depositato ulteriore memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. Il primo motivo del ricorso, denunciando violazione dell'art. 28 della l. 300/1970, nonché erronea e insufficiente motivazione, domanda la cassazione della sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittimato il sindacato a proporre ricorso per la repressione della condotta antisindacale, cassazione che sarebbe assorbente di ogni altra questione.

1.1. Si sostiene che la Corte di Torino ha trascurato di considerare la caratteristica, pure accertata in fatto, del raggiungimento della dimensione nazionale solo come risultato della coalizione di più comitati di base, relativi alle più disparate categorie di lavoratori, caratteristica che avrebbe richiesto la verifica specifica dell'interesse concreto ad agire della base locale, collocabile entro la dimensione nazionale, a tutela dei lavoratori metalmeccanici; in ogni caso, se in senso stretto non si era in presenza di una confederazione, la sostanza del fenomeno era tuttavia quella di un'associazione di secondo livello, siccome lo statuto, esaminato dal giudice del merito, riconosceva proprio ai comitati di base il ruolo operativo fondamentale.

2. Il motivo non può trovare accoglimento.

Come già avvertito, il contrasto di giurisprudenza che ha determinato l'assegnazione della causa alle Sezioni unite non riguarda la questione oggetto del motivo di ricorso in esame; al contrario, su tale questione gli orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente la legittimazione attiva di organismi locali di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, né intercategoriali o aderenti a confederazioni, essendo invece determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che bastino svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale (Cassazione 10114/1990; 5765/2002; 11833/2002; 3917/2004; 10616/2004; 269/2005). Questi orientamenti meritano di essere confermati, non risultando efficacemente contestati dalla ricorrente.

2.1. È opinione condivisa che il disposto dell'art. 28 Statuto dei lavoratori, con l'attribuire la legittimazione ad agire in giudizio, «agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, che vi abbiano interesse», detta un criterio di selezione basato sul necessario carattere nazionale delle organizzazioni, escludendo la legittimazione sia dei singoli lavoratori, sia di forme di autotutela collettiva non organizzate su base nazionale.

Al riguardo, la Corte costituzionale, in numerose decisioni (cfr. Corte costituzionale 54/1974, 334/1988 e 89/1995), dopo avere premesso che il legislatore ha attribuito a soggetti qualificati uno strumento di azione giudiziaria dotato di particolare efficacia, ha poi evidenziato come risulti operata una scelta - degli organismi e del livello di rappresentatività - ragionevole, perché volta a privilegiare «organizzazioni responsabili che abbiano un'effettiva rappresentatività» (misurata sulla dimensione nazionale), e che «possano operare consapevolmente delle scelte concrete valutando - in vista di interessi di categorie lavorative e non limitandosi a casi isolati e alla protezione di interessi soggettivi di singoli - l'opportunità di ricorrere alla speciale procedura». In particolare, il giudice delle leggi ha precisato come l'art. 28 sia espressione della garanzia del libero sviluppo di "una normale dialettica sindacale" perché il suo impiego presuppone una dimensione organizzativa - quella nazionale - che, per non essere legata ad una aggregazione a livello confederale intercategoriale, né alla stipulazione di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie (si veda, in particolare Corte costituzionale 334/1988, cit.)

L'accesso alla speciale tutela per la repressione della condotta antisindacale, quindi, è basata su di un criterio di selezione che nulla ha a che fare con quello operante ai fini della costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali (art. 19 Statuto dei lavoratori, nel testo determinato dall'esito del referendum indetto con d.P.R. 5 aprile 1995), ovvero con la nozione di organizzazione sindacale dotata di «maggiore rappresentatività» (cfr., al riguardo, Cassazione 10114/1990).

2.2. Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una sola, predeterminata, categoria professionale il fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere positiva.

In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di un'unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l'operare di scelte, nell'azione sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con maggiore probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei lavoratori.

D'altra parte, nell'attuale configurazione dell'ordinamento non sussiste - stante anche la mancata attuazione dell'art. 39, commi 2 ss., Cost. - una predeterminazione delle singole categorie di imprese, in relazione alle quali debbano essere stipulati i contratti collettivi (cfr. Cassazione, Sezioni unite, 2665/1997) e, più in generale, essere intrattenute le cosiddette relazioni industriali.

Ne consegue che il principio costituzionale consacrato dall'art. 39 Cost. rende insindacabile l'eventuale intento di associazioni di nuova costituzione di promuovere una rappresentanza di interessi che non segua le linee organizzative della rappresentanza dei lavoratori conformate dalle categorie.

2.3. Né l'ipotesi del sindacato "non categoriale" o "intercategoriale", è riconducibile al modulo della confederazione sindacale.

Quest'ultima, infatti, non solo associa organizzazioni sindacati di varie categorie, ma si caratterizza anche per il fatto di lasciare a queste ultime la tutela e la rappresentanza dei lavoratori nei confronti delle singole imprese, nonché l'attività concorrenziale nei confronti delle singole contrapposte organizzazioni di categoria. Ed è questa la ragione precipua per cui le confederazioni sono carenti di legittimazione a ricorrere ex art. 28 Statuto dei lavoratori, non diversamente dai sindacati di una diversa categoria: si configura, infatti, il difetto del requisito dell'interesse alla repressione della condotta sindacale, menzionato da detta norma (cfr. Cassazione 7368/1997, e 6058/1998, secondo cui sono privi di legittimazione ex art. 28 gli organismi locali delle confederazioni sindacali, in quanto non incardinati in un sindacato di categoria nazionale e privi di interesse, non rientrando nei loro compiti istituzionali la tutela di una specifica categoria).

2.4. Il carattere intercategoriale dell'associazione sindacale, tuttavia, qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento dell'adeguata diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio, ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28 Statuto dei lavoratori, è necessaria la presenza di un sindacato dotato di un minimo di rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma diffusa nel territorio nazionale, là dove si rinviene la categoria di riferimento del sindacato stesso (così Cassazione 7368/1997, cit.; cfr. anche Cassazione 10114/1990, cit., che parla di requisito della diffusione del sindacato sul territorio nazionale), in linea di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di un sindacato intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti a un'associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la rappresentatività richiesta dall'art. 28 Statuto dei lavoratori costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività; e comunque, vi è stato al riguardo un accertamento del giudice del merito non specificamente censurato.

2.5. Come già osservato, ai fini della legittimazione di un organismo sindacale locale, è necessario che lo stesso sia effettivamente un'articolazione di associazione nazionale.

Affinché si possa ritenere sussistente, al di là dei variabili moduli organizzativi, un rapporto di tale genere, l'associazione nazionale deve svolgere effettivamente un'azione sindacale per la promozione degli interessi dei lavoratori in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l'azione dei singoli organismi territoriali. In altre parole, non può rilevare qualunque associazione tra organismi sindacali meramente locali, ancorché in qualche modo funzionale al perseguimento dei fini sindacali dei singoli gruppi, perché in questo caso sarebbe chiaramente eluso il requisito dell'esistenza di un'associazione sindacale adeguatamente rappresentativa in quanto nazionale, e non si verificherebbero i presupposti per quella selezione degli interessi garantita da un'organizzazione non meramente locale.

L'individuazione degli organismi locali delle associazioni nazionali legittimati ad agire per il procedimento di repressione della condotta antisindacale deve desumersi dagli statuti interni delle associazioni stesse, dovendosi fare riferimento alle strutture che detti statuti ritengono maggiormente idonei alla tutela degli interessi locali.

2.6. In base al complesso delle considerazioni svolte, non sono fondate le critiche alla sentenza impugnata relative alla parte in cui ha riconosciuto - a seguito della lettura dello Statuto del S.IN.COBAS e di un puntuale accertamento di fatto in ordine alla diffusione territoriale dell'azione sindacale - all'organizzazione ricorrente la natura di "organismo locale di associazione sindacale nazionale", escludendo la presenza di associazione di secondo livello rispetto ad altre associazioni (i comitati di base).

3. In ordine logico, merita esame prioritario il terzo motivo di ricorso, con il quale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1260 ss. c.c. e 39, comma 1, Cost., nonché insufficiente ed erronea motivazione.

3.1. La società ricorrente sostiene l'inutilizzabilità del negozio di cessione del credito, che non richiede il concorso della volontà del debitore ceduto, in relazione a fattispecie di cessioni generalizzate di piccole parti di crediti futuri e con previsione di un termine di efficacia (nel caso, triennale): a) per il notevole aggravamento degli oneri e dei rischi del debitore, non certamente resi marginali per l'operatività in azienda delle deleghe sindacali previste dal c.c.n.l., secondo un sistema nettamente differenziato; b) per l'incompatibilità tra negozio traslativo del credito e revocabilità dell'adesione e contribuzione al sindacato; c) per la modificazione dei contenuti dell'obbligazione, diventando creditore della retribuzione un soggetto diverso dal lavoratore e mutando il luogo dell'adempimento; d) per la nullità derivante da frode alla legge dell'operazione.

4. La Corte, a sezioni unite, giudica infondato questo motivo di ricorso, in tali sensi componendo il contrasto tra le sentenze che hanno in precedenza deciso la questione, ritenendo alcune non utilizzabile l'istituto della cessione del credito per versare al sindacato le quote associative (Cassazione 1968/2004: 10616/2004), fornendo altre risposta di segno affermativo e ritenendo altresì antisindacale il rifiuto di pagamento opposto dal datore di lavoro (Cassazione 3917/2004; 14032/2004).

4.1. Va precisato, preliminarmente, che alla fattispecie va applicato il regime normativo vigente fino al 31 dicembre 2004, non rilevando la modificazione del testo dell'art. 1 del d.P.R. 180/1950 (Insequestrabilità, impignorabilità e incedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti), operata dall'art. 1, comma 137, della l. 311/2004, mediante l'aggiunta, nel primo comma, delle parole «nonché le aziende private», rendendo cosi incedibili, fuori dei casi consentiti dal medesimo testo normativo (come modificato dall'art. 13-bis del d.l. 35/2005, convertito in l. 80/2005) anche i compensi erogati dai privati datori di lavoro ai dipendenti.

Nel regime precedente, infatti, non si dubitava, stante la regola generale della cedibilità dei crediti, posta dall'art. 1260 c.c., esclusi soltanto i crediti di carattere strettamente personale e quelli il cui trasferimento è vietato dalla legge, dell'ammissibilità della cessione dei crediti retributivi dei lavoratori del settore privato, non trovando per essi applicazione l'art. 1 del d.P.R. 180/1950 (vedi Cassazione 4930/2003).

4.2. Neppure si è posto in dubbio che un ostacolo alla cessione della retribuzione potesse derivare dal carattere parziale e futuro del credito ceduto. La cessione può certamente avere ad oggetto solo una parte del credito, come si argomenta dal secondo comma dell'art. 1262 c.c., ed anche crediti futuri, com'è pacifico in giurisprudenza (Cassazione 8497/1994, 5947/1999, 7162/2002).

4.3. Va senz'altro disattesa la tesi del negozio in frode alla legge, come hanno ritenuto, del resto, tutte le sentenze che si sono occupate della questione.

Si è correttamente osservato che l'abrogazione referendaria dell'art. 26, commi 2 e 3, Statuto dei lavoratori, non ha certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione della materia, ma - come precisato dalla Corte costituzionale in relazione all'intento dei promotori (sentenza 13/1995), ha "restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge in termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicché resta ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti si attribuirebbero all'istituto del referendum non i soli effetti abrogativi che gli sono propri, ma anche effetti propositivi. Ed è in effetti questa, nella sostanza, la tesi della società ricorrente: l'esito referendario avrebbe introdotto nell'ordinamento una regola nuova, in base alla quale, lo scopo del versamento diretto al sindacato delle quote associative potrebbe essere realizzato esclusivamente mediante istituti che richiedano il consenso del datore di lavoro. La tesi, come già posto in evidenza, è in contrasto con l'essenza esclusivamente abrogativa dell'istituto e con il risultato perseguito con l'indizione del referendum, da individuare esclusivamente dell'eliminazione dell'obbligo ex lege a carico del datore di lavoro.

4.4. Venendo all'oggetto specifico del contrasto di giurisprudenza, l'istituto della "cessione del credito" è stato ritenuto non praticabile per raggiungere il suddetto scopo fondamentalmente per due ragioni.

La prima, contenuta nella sentenza della Sezione lavoro 1968/2004, è che la cessione del credito, in generale, non costituisce un autonomo tipo negoziale, coincidendo con lo schema negoziale di volta in volta idoneo ad operare e a giustificare il trasferimento; l'ostacolo ad impiegare l'istituto per il pagamento della quota associativa al sindacato sarebbe da ravvisare nell'incompatibilità strutturale tra l'impossibilità di una revoca immediata senza il consenso del sindacato beneficiario (propria dell'istituto della cessione del credito, conformemente alla sua natura che la connota come una forma di alienazione di diritti) e la revocabilità immediata dell'atto volontario di contribuzione sindacale obbligatoriamente discendente dal principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost.

4.4.1. Le Sezioni unite ritengono l'argomentazione non condivisibile.

La specifica disciplina relativa alla cessione detta si uno schema unitario, che viene ad applicarsi a tutte le fattispecie traslative del credito, ma senz'altro incompleto: essa si pone quale correttivo e/o integrazione predisposti, in contemplazione del particolare oggetto, nei confronti dei singoli negozi causali traslativi. Nel caso in esame, lo schema si applica ad una cessione per pagamento (solvendi causa), ed infatti il cedente (lavoratore), in luogo di corrispondere al suo creditore (associazione sindacale) la prestazione dovuta (quota sindacale), gli cede in pagamento parte del credito (futuro) che egli ha nei confronti del debitore ceduto (datore di lavoro).

Ne discende che la causa del contratto di cessione si determina mediante il collegamento con il negozio al quale è funzionalmente preordinata, assumendo, quindi, nel caso, una funzione di assolvimento degli obblighi nascenti dal rapporto di durata originato dall'adesione associativa. Di conseguenza, se viene meno il rapporto sottostante, ciò provoca la caducazione della funzione del negozio di cessione, determinandone l'inefficacia.

In conclusione, la cessione ha funzione di pagamento della quota sindacale e il pagamento è dovuto dal lavoratore soltanto finché ed in quanto aderisce al sindacato, in forza di un contratto dal quale il recesso ad nutum è garantito dai principi inderogabili di tutela della libertà sindacale del singolo lavoratore. I pagamenti eventualmente eseguiti dal datore di lavoro successivamente alla "revoca della delega" (che non è revoca della cessione, come tale inconcepibile, ma cessazione della sua causa per sopravvenuta inesistenza nel collegamento con il negozio di base) sono effettuati a soggetto diverso dal creditore ed avranno effetto liberatorio soltanto se il debitore non ha avuto conoscenza della cosiddetta "revoca" (art. 1189 c.c.).

4.4.2. La sentenza 1968/2004 si fonda altresì sull'impossibilità di utilizzare lo strumento della cessione del credito perché produrrebbe un aggravamento della posizione del debitore. L'argomento è ripreso e sviluppato dalla sentenza 10616/2004, la quale, anche mediante il richiamo del principio di correttezza e buona fede, in apparenza lo eleva ad unica ratio decidendi. Si diceva in apparenza, perché il complesso delle considerazioni svolte nella motivazione suscita l'impressione che rilievo precipuo sia conferito all'esito referendario, insistendosi nell'osservare che ammettere l'istituto della cessione del credito finirebbe, da una parte, per vanificare l'effetto della soppressione dell'obbligo ex lege a carico del datore di lavoro, dall'altra, per annullare ogni differenza tra la condizione dei sindacati firmatari dei contratti collettivi e gli altri non firmatari.

Ma si è già osservato (n. 4.1) che questi argomenti non possono influenzare il tema della validità ed efficacia del contratto di cessione del credito retributivo al sindacato, per adempiere agli obblighi associativi, se non ipotizzandone la nullità per frode alla legge, e, quindi, che l'esito referendario abbia introdotto nell'ordinamento il principio inderogabile del divieto di realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro, senza il suo consenso, di versare al sindacato quote della retribuzione. Si è già detto, nella sede richiamata, come sia del tutto arbitrario desumere un tale principio dall'effetto abrogativo del referendum, limitato alla soppressione di un obbligo ex lege, senza interferire minimamente sull'apparato degli strumenti negoziali a disposizione di tutti i soggetti dell'ordinamento.

4.4.3. Sgomberato il campo da ogni indebito condizionamento dell'indagine, si deve ricordare come si ammetta comunemente che, in caso di cessione del credito, l'obbligazione del debitore possa subire alcune modifiche (tra queste quella, non certo marginale, del luogo di adempimento). Ma il limite della non esigibilità di una modificazione eccessivamente gravosa, da identificare in concreto con l'applicazione del precetto di buona fede e correttezza (art. 1175 c.c.), non riguarda la validità e l'efficacia del contratto di cessione del credito, ma soltanto il piano dell'adempimento, del pagamento. Ne segue che l'eccessiva gravosità può giustificare l'inadempimento, fino a quando il creditore non collabori a modificarne in modo adeguato le modalità, onde realizzare un giusto contemperamento degli interessi. Ovviamente, a norma dell'art. 1218 c.c., è il debitore che deve provare la giustificatezza dell'inadempimento.

Nel caso concreto, anche prescindendo dagli accertamenti compiuti dal giudice del merito, le censure mosse sul punto alla sentenza impugnata si mantengono su livelli di totale genericità. In sostanza, ci si limita ad affermare che l'organizzazione in atto per riscuotere le quote sindacali sulla base delle clausole del contratto collettivo applicato in azienda non era idonea ad essere impiegata anche per dare esecuzione alle cessioni, ma senza alcuna specificazione delle differenze. In ogni caso, il giudizio di merito circa il "modesto" aggravamento della posizione debitoria non è validamente contestato, siccome non sono dedotti fatti che, sottoposti al vaglio della Corte di Torino, non sono stati valutati, o valutati insufficientemente, ovvero in modo illogico.

5. Va ora esaminato il secondo motivo del ricorso, con il quale è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 28 della l. 300/1970, erronea motivazione circa l'estraneità della controversia rispetto alla nozione di condotta antisindacale.

Si sostiene che, anche ammessa l'esistenza di una fattispecie di inadempimento imputabile all'azienda, non era tuttavia configurabile comportamento antisindacale, perché la titolarità da parte del sindacato dei crediti ceduti era estranea alla sfera di libertà e di attività tutelate dall'art. 28 Statuto dei lavoratori, un'estraneità direttamente derivante dall'esito referendario.

5.1. Anche questo motivo non può essere accolto.

Il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti configura un inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a limitare l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa sindacale. L'effetto del rifiuto è quello di privare i sindacati che non hanno stipulato i contratti collettivi della possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di sostentamento per lo svolgimento della loro attività e posti in una situazione di debolezza, non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazione sindacali con cui sono in concorrenza.

5.2. A ben vedere, la ricorrente non contesta tanto la presenza di un inadempimento qualificato dall'idoneità ad incidere in modo recessivo sull'attività del sindacato, quanto la possibilità giuridica di ritenere che il diritto di riscuotere quote associative nella qualità di creditore cessionario del credito retributivo possa ascriversi all'attività sindacale tutelata dall'art. 28 Statuto dei lavoratori. Ciò sarebbe precluso, ad avviso della ricorrente, dall'esito referendario, che, sopprimendo l'obbligo di collaborazione del datore di lavoro, non consente di tutelare il diritto acquistato con altri strumenti dal sindacato, in assenza del consenso del datore di lavoro, quale attività sindacale ai sensi e per gli effetti dell'art. 28 Statuto dei lavoratori.

5.3. Osserva la Corte che un tale ordine di argomentazioni ripete, sostanzialmente immutata, la tesi già disattesa nell'esame del terzo motivo. Ed infatti, si pretende di desumere dall'esito referendario il precetto secondo il quale è antisindacale soltanto l'inadempimento di obblighi assunti volontariamente dal datore di lavoro nei confronti dei soggetti sindacali, non anche l'inadempimento di obblighi derivanti da fonti negoziali che non ne contemplano il consenso.

Non resta, quindi, che rinviare alle considerazioni già svolte per escludere che lo strumento della cessione del credito per riscuotere quote sindacali possa reputarsi nulla per frode alla legge; si ribadisce che, scomparso l'obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono essere impiegati per realizzare risultati, non certo identici o analoghi, ma, al più, equivalenti. E ciò stabilito, l'inadempimento del datore di lavoro che incide sull'attività sindacale in senso proprio concreta in tutti i casi condotta antisindacale, senza che possa in alcun modo rilevare la fonte dell'obbligo medesimo.

Una considerazione conclusiva si impone: il referendum ha lasciato in vigore il primo comma dell'art. 26 Statuto dei lavoratori, che protegge i diritti individuali dei lavoratori concernenti l'attività sindacale per quanto attiene, in particolare, alla raccolta dei contributi: stipulare con il sindacato i contratti di cessione di quote della retribuzione costituisce una modalità di esercizio dei detti diritti; il rifiuto del datore di lavoro di darvi corso, lungi dal concretare un mero illecito civilistico, opera una compressione dei diritti individuali e di quelli del sindacato.

6. Per le ragioni esposte il ricorso va rigettato, Sussistono, evidenti, giusti motivi per compensare le spese del giudizio.

 

P.Q.M.

 

La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

 

Così deciso in Roma 24 novembre 2005 (depositato il 21 dicembre 2005)

 

Nota

Le sezioni unite risolvono il contrasto creatosi in seno alla sezione lavoro sulla tematica del versamento dei contributi sindacali mediante ricorso all'istituto civilistico della cessione di credito, in aderenza a quanto anche da noi prospettato nell'articolo reperibile al link: http://dirittolavoro.altervista.org/cessione_contributi_sindacali.html, cui si rinvia il lettore interessato ad approfondimenti ed ai precedenti giurisprudenziali.

 

Roma 23.1.2006

Mario Meucci

 

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