SORVEGLIANZA SULL'ATTIVITA' DEI LAVORATORI: CONDIZIONI E LIMITI

 

 

1.      Premessa

2.      Il controllo delle guardie giurate ricondotto a quello, istituzionale, sul patrimonio

3.      Il controllo immanente dei superiori gerarchici, estraneo ai vincoli dell’art. 3 dello Statuto dei lavoratori

4.      Il controllo sull’attività illecita dei dipendenti, affidato a private agenzie investigative

5.      La legittimazione al controllo all’insaputa da parte di investigatori privati, conferita da Cass. n. 5629/2000, nei confronti dei dipendenti operanti all’esterno. Critica.

 

1.      Premessa

Il lavoratore subordinato, in ragione del suo inserimento nell’organizzazione dell’impresa, è soggetto al potere direttivo imprenditoriale ex art. 2094 e 2104 c.c. e, quindi, alle disposizioni della gerarchia aziendale, in ordine  al tipo e alle modalità consone all’attività da disimpegnare.

Tale intrinseca condizione – che lo  differenzia, di rado per libera scelta,  dal lavoratore autonomo, responsabile dei risultati nei confronti del committente – fa si che non possa ritenersi lesa la sua “libertà” o “dignità” (di cui all’art. 41 Cost. ed alla L. n. 300/’70) dal fatto di una supervisione ad opera dell’imprenditore o dei dipendenti espressamente investiti di compiti di sorveglianza da parte del capo dell’impresa.

La questione che può insorgere – ed  è in realtà insorta e su di essa ci intratterremo successivamente al punto 2 – è se la pubblicità pretesa dall’art. 3 dello Statuto dei lavoratori, in ordine ai nominativi degli specifici incaricati della sorveglianza, si estenda anche ai superiori gerarchici del prestatore di lavoro.

Prima appare tuttavia opportuno intrattenerci sul divieto di affidamento di fatto delle funzioni di vigilanza e di contestazione, disciplinarmente rilevante,  in capo alle  guardie particolari giurate.

 

2.      Il controllo delle guardie giurate ricondotto a quello, istituzionale, sul patrimonio

La sopracitata funzione di vigilanza sulle persone ed i loro comportamenti (non delittuosi) era, invero, già preclusa alle guardie giurate sia dall’art. 133 t.u.p.s. (r.d. 18.6.1931, n. 773) – che limitava il compito espletabile dalle guardie giurate alla vigilanza e custodia delle “proprietà mobiliari e immobiliari” – sia, confermativamente, dall’art. 249 r.d.l. 8.5.1940, n. 635 (regolamento per l’esecuzione della legge di p.s.) prescrivente che “chi intende destinare guardie giurate alla custodia dei propri beni mobili ed immobili deve farne dichiarazione al Prefetto, indicando le generalità dei guardiani e dei beni da custodire”. In tal senso ebbe ad esprimersi Cass. 26.11.1973, n. 3190 (1), la quale rilevò il carattere non innovativo dello Statuto dei lavoratori al riguardo, rispetto alla situazione giuridica preesistente in tema di compiti e attribuzioni legali delle guardie giurate. La riaffermazione statutaria del divieto non fu tuttavia superflua perché focalizzò e inibì prassi degenerative di fatto, tramite le quali le aziende – sconfinando dai compiti legali – avevano attribuito alle guardie giurate incombenze eccedenti e spazianti sulla vigilanza in ordine allo svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti ed al loro comportamento in azienda. Talché le imprese e gli stabilimenti risultavano – alla fine degli anni ’60 – caratterizzati da un clima poliziesco, intimidatorio e gravido di tensioni sociali.

Con l’art. 2 della L. n. 300/’70, il legislatore ribadì i compiti tipici delle guardie giurate (attinenti alla sola vigilanza sul patrimonio aziendale) coniugando ad essi il divieto di accesso delle guardie ai reparti di lavorazione – salvo eccezionali e motivate esigenze riposanti sulla salvaguardia del patrimonio – nonché il divieto di vigilanza sull’esecuzione del lavoro e tantomeno di contestazione sia in ordine alle modalità di esecuzione della prestazione sia in ordine ai rapporti tra i dipendenti. Tali divieti vengono poi assistiti dalla sanzione penale – ex art. 38 L. n. 300/’70 – a carico del datore di lavoro inosservante nonché da sanzione amministrativo/disciplinare a carico della guardia giurata inadempiente, in quest’ultimo caso su iniziativa e dietro denuncia dell’Ispettorato del lavoro (cfr. art. 2, ult. co., L. n. 300/’70).

 

3.      Il controllo immanente dei superiori gerarchici, estraneo ai vincoli  dell’art. 3 dello Statuto dei lavoratori

La sorveglianza sull’attività lavorativa correttamente sottratta alle guardie giurate (in armonia con le disposizioni legislative preesistenti) può essere esercitata nell’impresa da personale ad hoc, i cui nominativi e le cui mansioni – per espressa prescrizione dell’art. 3 L. n. 300 – debbono essere rese note (rectius, comunicate) ai lavoratori sottoposti alla vigilanza. Com’è stato rilevato, in mancanza di formalità legislativamente imposte e prefigurate, la “comunicazione” può avvenire con qualsiasi modalità idonea a realizzare lo scopo. Oltre ad elenchi affissi negli albi aziendali di reparto o a comunicazioni distribuite ai singoli lavoratori, si ritiene sufficiente che il c.d. sorvegliante porti ben  visibile un distintivo o una targhetta con l’indicazione del nome e la dizione “sorveglianza”(2). Come è stato rilevato “il riconoscimento espresso della figura dei c.d.’sorveglianti di fabbrica’, comprova che il legislatore vietando l’utilizzazione di guardie giurate per il controllo dell’attività lavorativa, non ha certo perseguito l’intento di inibire i controlli o di renderli più ardui, ma ha voluto impedire che questi, essendo attuati da personale in divisa e armato, creassero un’atmosfera intimidatoria e lesiva della dignità dei dipendenti”(3).

La formulazione della norma, peraltro, non può lascia dubbi sulla legittimità dei controlli esercitati dai superiori gerarchici, poiché è nella logica dell’organizzazione  del lavoro che il potere direttivo si accompagni al potere di controllare le modalità e le forme di esecuzione delle disposizioni impartite per conto del titolare dell’impresa.

Sul tema  - pacifico in dottrina -  la Cassazione è dovuta intervenire per lo meno 4 volte, prima indirettamente e poi direttamente. Del problema ebbe ad occuparsi per la prima volta in occasione della delimitazione dei compiti delle guardie giurate ex art. 2 L. n. 300/’70, operata mediante la decisione n. 3190 del 26.11.1973.

In quell’occasione, nel riconfermare l’esclusiva competenza delle guardie giurate in ordine alla tutela del patrimonio aziendale e l’illegittimità pre e post-Statutaria dei controlli da esse dispiegati sull’attività e sul comportamento dei lavoratori, la Corte asserì testualmente che “la disciplina delle disposizioni relative all’esecuzione e allo svolgimento del lavoro è fondata sul potere direttivo e gerarchico, quindi anche di controllo e vigilanza, che l’art. 2104 c.c. affida soltanto all’imprenditore o ai suoi più diretti collaboratori. Perciò siffatto potere non può essere esplicato se non dal datore di lavoro o da personale inserito nell’organizzazione dell’impresa preposto alla vigilanza nell’esecuzione dell’attività lavorativa…”. La Corte asserì, pertanto, che il potere di impartire disposizioni, di vigilarne sull’osservanza e di rilevarne gli eventuali scostamenti sia sotto il profilo tecnico che ai fini disciplinari, era immanente, ex art. 2104 c.c., nel datore di lavoro e nei collaboratori ai quali, per ragioni organizzative, quest’ultimo delega il potere gerarchico.

Con la seconda decisione n. 3960 del 1981(4)e con la terza n.5599 del 1990 (5) – seguita da Cass. n. 829/1992 (6), occupatasi specificamente del problema del ricorso a dipendenti di private agenzie investigative - la Corte completa il discorso iniziato nel 1973 e, affrontando la problematica introdotta dall’art. 3 dello Statuto dei lavoratori, puntualizza con esatto procedimento di ricostruzione interpretativa, come il potere di sorveglianza (per effetto di tale disposto) oltreché intrinsecamente risiedere nel coacervo dei poteri dei preposti dell’imprenditore, può essere conferito dal datore di lavoro congiuntamente anche a personale non gerarchicamente sovraordinato al lavoratore, cioè a dire, per ragioni organizzative, a personale che opera “in parallelo” con i lavoratori in produzione (a completamento dell’opera dei capi gerarchici) ed è dedicato al ed investito, esclusivamente o quasi, del controllo dell’intensità  lavorativa dei primi, della loro assiduità collaborativa, della competenza tecnica con la quale gli stessi effettuano le lavorazioni. La Corte con la precitata decisione del 1981, evidenzia la perfetta compatibilità giuridica tra le disposizioni dell’art. 3 L. n. 300 del 1970 – impositive di oneri di pubblicità datoriale circa i nominativi e le mansioni del personale specificamente inserito nell’organizzazione aziendale per lo svolgimento dei suddetti compiti di sorveglianza - e quelle dell’art. 2104 c.c., afferenti al personale gerarchicamente preposto le cui incombenze intrinsecamente comprendono il potere di vigilanza o di sorveglianza, senza che, in conseguenza di questa connaturale attribuzione, tale personale debba essere assoggettato alle condizioni di pubblicità prescritte dall’art. 3 per una specifica categoria di prestatori di lavoro. Nel respingere la tesi difensiva del lavoratore – che avrebbe preteso che i capi turno operatori al Centro elettronico, a lui gerarchicamente sovraordinati, fossero sottoposti alla normativa di cui all’art. 3 (con la conseguenza che l’inosservanza delle prescrizioni pubblicitarie avrebbe comportato l’inutilizzabilità giuridica dei loro rilievi e delle loro segnalazioni a fini disciplinari) – la Corte recepì quell’orientamento dottrinale che, sin dall’emanazione dello Statuto, lucidamente attribuì all’art. 3 un ambito di applicazione circoscritto allo specifico personale investito dalle direzioni aziendali, per assorbente attribuzione mansionistica, della funzione di sorveglianza sull’attività lavorativa (7). D’altra parte, come si osservò in dottrina, non vi sarebbe stata ragione alcuna di sottoporre  a forme di “pubblicità” le mansioni ed i nominativi dei preposti diretti del lavoratore, allo stesso ben nota risultando la persona fisica del “capo” ed il suo ruolo di supremazia gerarchica, implicante una serie di poteri, dalla direzione ed orientamento tecnico del lavoro, al controllo delle risultanze dello stesso nonché del comportamento collaborativo (impegno, assiduità, ecc.) del prestatore di lavoro nell’assolvimento del suo dovere di prestazione.

I sopradelinati concetti sono stati riassuntivamente ribaditi nella decisione n. 829 del 1992 della Cassazione che, così, ha asserito: “la disposizione di cui all’art. 3 della l. n. 300 del 1970 – secondo cui i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati – non ha fatto venir meno il potere dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante l’organizzazione gerarchica che a lui fa capo e che è conosciuta dai dipendenti, l’adempimento delle prestazioni cui costoro sono tenuti e, quindi, di accertare eventuali mancanze specifiche dei dipendenti medesimi, già commesse o in corso di esecuzione: e ciò indipendentemente dalle modalità con le quali sia stato compiuto il controllo, il quale, attesa la suddetta posizione particolare di colui che lo effettua, può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti – soprattutto quando siffatta modalità trovi giustificazione nella pregressa condotta non palesemente adempiente dei dipendenti – né il divieto di cui all’art. 4 della stessa l. n. 300 del 1970, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza e non applicabile analogicamente, sicome penalmente sanzionato…”.

Si deve sottolineare che quasi tutta la dottrina, con rarissime eccezioni, è rimasta estranea all’equivoco di accomunare, sotto i vincoli dell’art. 3, personale con specifiche mansioni di vigilanza e capi diretti del lavoratore (o il restante personale direttivo) traenti la legittimazione del potere di sorveglianza nell’art. 2104 c.c. Anche coloro (8)che si sono lamentati in dottrina che la disposizione statutaria, contraddicendo il progressismo di cui era improntato l’art. 2 relativo alle guardie giurate, era foriera di ripristinare gli abusi passati delle stesse guardie giurate (non ritenendo sufficientemente garantista l’onere pubblicitario), hanno esattamente riferito le disposizioni dell’art. 3 alla figura del “sorvegliante di fabbrica”. “Sorvegliante” che, se da un lato viene istituzionalizzato (9) contro le opposte aspettative dei lavoratori, per altro verso viene a cessare  di svolgere quel ruolo occulto e subdolo e perciò incivile, per ottenere  una legittimazione organizzativa solo a condizione che sia risaputo dai lavoratori il suo incarico, sia notoria la sua presenza  ed inoltre costituisca esso stesso un’articolazione  dell’organizzazione aziendale, in veste di lavoratore dipendente, piuttosto che appartenere ad un’organizzazione estranea ed avulsa dal tessuto aziendale (membro del corpo delle guardie giurate o di similare agenzia di vigilanza).

Sviluppando alcuni indicatori legislativi contenuti nella lettera dell’art. 3 (ma in particolare cogliendo la ratio della norma medesima), la giurisprudenza della Suprema Corte insiste, nella decisione n.3960/1981, sul fatto che i lavoratori investiti dell’incarico di sorveglianza siano un tassello del mosaico organizzativo aziendale; non tanto e non solo, a nostro avviso, perché il controllo del dipendente su altro dipendente si caratterizza di una maggiore carica di civismo e risultano inconsistenti o ridotti gli aspetti oppressivi della dignità del lavoro rispetto al controllo effettuabile, in ipotesi, da incaricati di agenzie ad hoc, quanto perché la  condizione di “dipendenza” o “organicità” aziendale è maggiormente  garante che l’attività di sorveglianza emerga quale esigenza dettata dall’organizzazione del lavoro, dal fatto tecnico del tipo di lavorazione e simili. L’assenza di questa condizione inerente lo status di dipendente del personale di vigilanza –  status costituente condizione  datorialmente onerosa sotto il profilo del costo del lavoro in quanto si traduce in un incremento di organico e  per questo garante di un ricorso all’assunzione ed all’utilizzo di tale personale, nei limiti dello stretto necessario – avrebbe favorito uno sganciamento di questa attività di sorveglianza, aggiuntiva e distinta da quella svolta ordinariamente dal personale direttivo, dalle reali necessità organizzative e, quindi, occasionato il sorgere di sovrastrutture esterne all’impresa per l’incarico specifico, con una generalizzazione della funzione ispettiva e di sorveglianza sul lavoro ben al di là di quanto necessitato dal processo produttivo e dalla tipicità dell’organizzazione aziendale. Va, d’altra parte, notato come – una volta tolto tale potere di vigilanza sull’operato dei dipendenti a personale esterno all’impresa, ma qualificato e responsabile giuridicamente, quali le guardie giurate (comunemente considerate, se non pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio) – risultava nei fatti via obbligata il conferimento della funzione di vigilanza, a particolari condizioni di pubblicità garantista per i lavoratori, al solo personale interno all’impresa  medesima.

Va infine osservato che alle condizioni di pubblicità di cui all’art. 3 soggiacciono anche coloro che, sprovvisti di ruolo gerarchico, sono investiti di compiti di sorveglianza non solo in modo assorbente, continuativo ed istituzionale, ma anche in via saltuaria (10). Ciò premesso, ed in tal modo chiarita dalla Suprema Corte la persistenza, dopo l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, della funzione direttiva comprensiva ex art. 2104 c.c. “del controllo tecnico del svolto  e dalla sorveglianza del personale dipendente sotto l’aspetto più ampio dell’assiduità, della fedeltà e, più in generale, dell’intensità della collaborazione” nonché la sua compatibilità con il progetto organizzativo disciplinato dall’art. 3 dello Statuto, in un contesto di autonomia, complementarietà e non interferenza tra preposti gerarchici ed investiti della specifica funzione di vigilanza, inconsistente  ed infondato si è rivelato l’assunto difensivo del  lavoratore ricorrente (nella vertenza decisa dalla sentenza n. 3960/1981) secondo il quale, del tutto erroneamente, avrebbe dovuto essergli comunicato, ex art. 3 cit., che i propri superiori ne controllavano la puntualità ed il rispetto dell’orario di lavoro, con il conseguente legittimo potere di segnalare alla direzione, per il provvedimento del licenziamento adottato, i reiterati ritardi, costituenti - anche per la modalità del lavoro di gruppo - notevole intralcio allo svolgimento del lavoro, e, sotto il profilo giuridico, idonei a concretizzare gli estremi del notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ex art. 3 L. n. 604/’66. Estraneo all’art. 3 è stato altresì giudicato, dalla decisione n. 5599 del 1990 della Cassazione, anche il controllo effettuato (di notte e clandestinamente) da un amministratore sociale,  considerato legittimo – nonostante la modalità occulta - anche in riferimento alla normativa dell’art. 3 L. n. 300/’70.

 

4.      Il controllo sull’attività illecità dei dipendenti, affidato a private agenzie investigative

Infine va menzionato che problematiche vertenti in tema di art. 3 cit., sono sorte e sono state dibattute, dalla giurisprudenza, a proposito dell’incarico di vigilanza sull’operato di cassieri di grandi magazzini, attribuito dalle Direzioni  aziendali a dipendenti di private agenzie specializzate.

Poiché da parte  dei gestori di tali strutture commerciali era stata notata la fuoriuscita dai magazzini di merce alla quale non faceva riscontro un pagamento, non per furto del cliente ma per mancata registrazione di cassa ad opera dei cassieri (c.d. “non battuta di cassa”) del prezzo della merce acquistata e regolarmente pagata dal cliente (al quale, presumibilmente, i cassieri omettevano di consegnare lo scontrino fidando nella di lui fretta o disattenzione o gliene consegnavano uno sottoprezzato per poi appropriarsi dell’importo del pagamento non registrato), taluni grandi magazzini e supermercati incaricarono agenzie specializzate di verificare, a tutela del patrimonio aziendale, la correttezza dell’operato dei cassieri, alcuni dei quali, colti sul fatto, vennero licenziati.

Ne è disceso un contenzioso con alterne risultanze giudiziarie. Da parte dei primi giudici investiti della questione, vennero considerati nulli i licenziamenti (e disposta la reintegrazione nel rapporto) poiché adottati sulla base di controlli e rilievi, sull’attività degli addetti di cassa, contrastanti con l’art. 3 dello Statuto, cioè a dire perché effettuati da soggetti esterni all’organizzazione aziendale e, tra l’altro, all’insaputa del personale per disapplicazione delle prescritte forme di pubblicità richieste dall’art. 3 cit. Più di recente si sono registrate – anche in sede di merito – decisioni che hanno, invece, legittimato tali controlli (11), in quanto finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale (prevenzione del furto), spostandosi così dall’art. 3 all’art. 2 Stat. lav. Per quanto riguarda l’affidamento dell’incarico ad agenzie private, tale giurisprudenza ha sostenuto che le stesse sono sottoposte ad una disciplina equipollente a quella delle guardie giurate. Poiché, in ogni caso e nonostante la finalizzazione a salvaguardia dei beni aziendali, il controllo verte necessariamente sull’operato dei lavoratori, per rispetto dello  spirito dello Statuto, la legittimità dei controlli è stata subordinata alla condizione che gli stessi non avvenissero in forme capziose, subdole e sleali, condizione che la predetta giurisprudenza ha ritenuto sussistente nell’ipotesi in cui i controlli in questione  riproducevano fedelmente il modello di sorveglianza sul cassiere posto in essere dal cliente attento, ciò da colui che si limitava a verificare se sullo scontrino era stata effettuata la registrazione dell’acquisto (con il relativo prezzo), astenendosi  dal controllare, com’è invece compito dei “sorveglianti” aziendali, se il cassiere  si tratteneva (o meno) personalmente la somma, comportamento quest’ultimo concretizzante (oltre alla vulnerazione fiduciaria) il reato di furto, giustificativo del provvedimento di licenziamento. Sussistendo queste condizioni la S. Corte ha, anche recentemente, nelle decisioni n. 829/1992 e n. 7776/1996 e n. 10761/1997, asserito “La L. 20 maggio n. 300 e specificamente i suoi artt. 2, 3 e 4, lungi dall’eliminare il potere di controllo attribuito al datore di lavoro dal codice civile, ne ha disciplinato le modalità di esercizio, privando la funzione di vigilanza degli aspetti più “polizieschi”. In particolare non può contestarsi la legittimità dei controlli posti in essere da dipendenti di un’agenzia investigativa i quali, operando come normali clienti di un esercizio commerciale e limitandosi a presentare alla cassa la merce acquistata e a pagare il relativo prezzo, verifichino la mancata registrazione della vendita e l’appropriazione della somma incassata da parte dell’addetto alla cassa”(12).

Va ancora detto, per necessaria completezza d’informazione, che accanto a questo più convincente orientamento  se n’è andato consolidando un altro – svincolante il personale di private agenzie investigative non solo (e condivisibilmente) da ogni forma di pubblicità ma, peraltro (e stavolta non condivisibilmente), anche dal vincolo comportamentale dell’atteggiarsi non difformemente dal normale quanto attento cliente –  orientamento che ha trovato accoglimento da parte di una consistente giurisprudenza della  stessa Cassazione.

Questa seconda (e forse, allo stato, prevalente)  posizione della Cassazione si sintetizza nelle seguenti due massime-tipo, che vanno alternandosi complementariamente: nella prima si dispone che: “L’art. 3 della L. 20 maggio 1970, n. 300, vieta ogni forma di controllo occulto inteso ad accertare la trasgressione, nello svolgimento della prestazione  lavorativa, delle prescrizioni dettate dall’art. 2104 c.c. e, pertanto, non trova applicazione nelle ipotesi di eventuale realizzazione, da parte dei lavoratori, di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa, pur se commessi nel corso di essa. Né, per l’accertamento di tali comportamenti, il datore di lavoro è tenuto ad utilizzare esclusivamente l’opera delle guardie particolari giurate (di cui all’art. 133 e ss. del T.U. approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773), in quanto la circostanza che dell’impiego di queste sia fatta menzione nell’art. 2 della citata L. n. 300 del 1970 per fini di tutela del patrimonio aziendale, non implica l’impossibilità di ricorrere alla collaborazione di soggetti diversi (nella specie dipendenti di un’agenzia investigativa), in difetto di espliciti divieti al riguardo ed in considerazione della libertà di difesa privata” (13). La seconda massima-tipo cisì recita: ”La norma dell’art. 3 della l. n.300 del 1970, che impone al datore di lavoro di comunicare i nominativi e le mansioni del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa, vieta ogni forma di controllo occulto intesa ad accertare la trasgressione, nello svolgimento dell’attività lavorativa, delle prescrizioni dettate dall’art. 2104 c.c. e non trova quindi applicazione nelle ipotesi di eventuale realizzazione da parte dei lavoratori di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa pur se commessi nel corso della stessa, i quali vanno individuati, peraltro, in funzione della loro connessione tipica e non solo ipotetica con la suddetta attività, con la conseguenza che deve considerarsi legittimo il controllo occulto su quelle prestazioni il cui inadempimento costituisca anche violazione di obblighi extracontrattuali penalmente rilevanti”(14).

Ancora per completezza va fatto cenno al fatto che una recentissima, ed allo stato isolata sentenza della Cassazione (n. 1455 del 1997 (15), è giunta ad asserire – sul sopra riferito presupposto che l’illiceità della condotta del dipendente giustifica anche il controllo occulto, senza alcuna pubblicità in ordine ai nominativi dei controllori ex art. 3 L. n. 300/’70, pubblicità necessaria, invece, qualora  il controllo afferisca alla normale e corretta attività lavorativa – che tale controllo occulto può essere affidato (com’era, di fatto, in fattispecie) anche a colleghi del vigilato (a sua insaputa). Naturalmente, in sede di difesa del lavoratore, non  si è potuto fare a meno, di sottolineare – peraltro inutilmente per la S. C. -  che, atteso che i colleghi investiti occultamente dell’incarico non rivestivano né la veste gerarchica del superiore né quella notoria del “sorvegliante”, l’azienda aveva così istituzionalizzato la figura dello ”agente segreto” controllore dell’attività dei dipendenti in violazione dell’art. 3  Stat.lav.

Va detto, a conclusione, che sia l’orientamento della Cassazione nella versione legittimante il controllo da parte di privati investigatori - senza alcuna remora, come la limitazione o condizione dell’atteggiarsi alla maniera del “cliente normale ed attento” -  sia l’orientamento ( allo stato isolato e sconcertante) in particolare di Cass. n. 1455/1997 che legittima il controllo occulto, anche ad opera di colleghi ignorati dal lavoratore, quando si tratti di comportamenti illeciti extracontrattuali, si rivelano abbastanza fragili dal lato giuridico.

Se l’ultima decisione  sopracitata (Cass. n. 1455/’97) è pacificamente liberale ed  estensiva in ordine ai “privati poteri datoriali”, anche il parallelo orientamento - che non ripropone l’esigenza del comportamento dei privati agenti  investigativi assimilabile a quello del cliente attento -  è sostanzialmente inappagante in quanto ragiona sul presupposto formalistico che i controlli dei privati investigatori esterni, in quanto riguardano il dipendente “che ruba ed in quanto tale non lavora”, non concretizzerebbero atti di vigilanza sull’attività lavorativa (sottoposti ai vincoli Statutari) ma azioni libere e svincolate dagli artt. 2 e 3 L. n. 300 del 1970 per la legittima difesa da aggressioni patrimoniali. In effetti questa opinione si basa su “distinguo” troppo ricercati (più corretto sarebbe dire su di un “gioco di parole”, quantunque sottile) che non reggono all’obiezione di sostanza secondo cui per individuare il furto è necessario controllare il lavoratore sia nell’espletamento corretto sia nell’espletamento negligente o trasgressivo della prestazione, non essendo possibile separare le due fasi, se non in astratto, ai fini dell’inclusione dell’una sotto l’art. 3 e, rispettivamente, dell’esclusione dell’altra dalle garanzie statutarie afferenti la vigilanza sull’attività lavorativa.

Entrambe quest’ultime due posizioni  giurisprudenziali della Cassazione sono comunque sintomatiche dello sforzo degli operatori giudiziari di colmare le insufficienze della normativa statutaria nell’attagliarsi a situazioni della realtà aziendale quotidiana che, se “ragionata” esclusivamente secondo lo schema dei principi generali posti a tutela della dignità dei lavoratori, conferiscono  insufficienti garanzie per la parte datoriale  nei confronti dello “spazio” aperto all’adozione  di comportamenti delittuosi da parte  di quella marginale fascia di prestatori d’opera malintenzionati cui  non era affatto negli intenti  del legislatore statutario accordare una immeritata protezione o meglio licenza d’illecito.

 

5.      La legittimazione al controllo all’insaputa da parte di investigatori privati, conferita da Cass. n. 5269/200, nei confronti dei dipendenti operanti all’esterno. Critica.

In questo contesto appare doveroso informare come talune aziende – eminentemente del settore del credito e del settore farmaceutico – stiano reagendo a quella che esse considerano come "mancanza di flessibilità" in uscita (cioè a dire come vincoli legislativi al licenziamento discrezionale) tentando di reperire le prove per procedere a licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo, anche attraverso strumenti – a nostro avviso contrastanti con lo spirito dello Statuto dei lavoratori – quali il ricorso a forme di controllo “poliziesco” e all’insaputa nei confronti di dipendenti con mansioni esterne (promotori d’affari, incaricati di vendite di prodotti aziendali e simili), incontrando peraltro il consenso di taluni Pretori o Tribunali. E, recentissimamente, quest’orientamento ha trovato la condivisione della stessa Corte di Cassazione – per ora in una isolata quanto pericolosissima sentenza – la quale,  tramite la decisione n. 5629 del 2 maggio 2000, ha così stabilito:“Dall’esame dell’art. 2, 2 co., L. n. 300/’70, secondo cui al datore di lavoro è vietato di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza dell’attività lavorativa e a quest’ultime di accedere ai locali ove la stessa si svolge, si desume che il divieto di controllo (da parte di personale avente compiti di mera vigilanza) sul modo della prestazione d’opera attiene a quella resa all’interno dell’azienda. Non essendo disposto alcunché per la verifica dell’attività svolta, al di fuori dei locali aziendali, da parte di lavoratori non inseriti nel normale ciclo produttivo - la cui prestazione non può essere verificata con l’esercizio dei poteri di direzione, controllo tecnico e sorveglianza – ne discende che il controllo, ad opera di investigatori privati, sul comportamento tenuto dai lavoratori che svolgano la loro attività  fuori dei locali aziendali non contrasta con l’art. 2 statuto dei lavoratori ed è legittimo tanto più quando  non è finalizzato a verificare la diligenza nell’adempimento della prestazione ma comportamenti che possono integrare gli estremi di reato (nel caso, di truffa, lucrando il ricorrente la retribuzione oziando, in luogo di lavorare).”

Per venire al concreto va detto  dire che talune aziende di credito e diverse aziende del settore farmaceutico – dubbiose sui risultati raggiunti dai propri addetti commerciali (o promotori d'affari, nel caso delle banche) e dei propri informatori scientifici del farmaco (nel caso delle aziende chimico/farmaceutiche) operanti all'esterno, cioè al di fuori della supervisione gerarchica interna all'azienda – hanno incaricato agenzie di investigazione di sorvegliare "occultamente" il modo in cui i propri dipendenti esterni passano le loro giornate e di verificare se effettuano le loro visite o i dichiarati  incontri promozionali d'affari. E' risaputo, infatti, che, di norma, questi dipendenti con mansioni esterne sono tenuti a redigere un rapportino giornaliero riepilogativo degli incarichi assolti, delle visite effettuate e dei compiti svolti, al fine di dar conto ai gestori aziendali del loro operato.

E' accaduto  in qualche caso che gli incaricati dell'agenzia di investigazione nel registrare minuziosamente il tempo speso dai dipendenti delle aziende committenti con mansioni esterne (sia  che fossero promotori o addetti commerciali di banca sia che fossero  informatori scientifici del farmaco) – documentando le pause  di inattività passate in macchina, il tempo  speso nel visionare negozi, passeggiare nelle attese tra un incontro ed un altro nei parchi cittadini ovvero facendo acquisti nei supermercati – mettessero in evidenza discrepanze tra i loro resoconti all'azienda e il contenuto asettico dei rapportini giornalieri dei dipendenti esterni, che di tali inattività, fruite per distensione o  svago,  non facevano ovviamente cenno alcuno. In un caso di un dipendente di una Banca laziale con mansioni di addetto commerciale, gli investigatori esterni hanno avuto l'accortezza (o meglio  la malizia) di chiamare, tramite telefono cellulare, colleghi o il superiore gerarchico dell'addetto commerciale perché prendessero direttamente visione (ma pur sempre all’insaputa) delle "mancanze" del dipendente controllato "occultamente", al fine di dotarsi di  testimoni aziendali utili per la futura contestazione disciplinare. Le contestazioni disciplinari che ne sono seguite hanno portato, nel migliore dei casi a provvedimenti disciplinari di  sospensione dal lavoro e nel caso di un  promotore bancario – di cui abbiamo seguito le vicissitudini giudiziarie – al licenziamento per asserita "vulnerazione fiduciaria", in ragione  eminentemente del carattere non veritiero dei rapportini redatti  e  dallo stesso sottoscritti, in congiunzione con l'inconsistenza dei risultati commerciali raggiunti, a causa del riscontrato lassismo nella gestione del tempo di lavoro

Il comportamento del dipendente rivelato all’azienda dal ricorso all’opera certificativa  degli investigatori privati è risultato certamente poco commendevole, ma basta un  sospetto di commissione di illeciti (nel caso quello di lavorare per conto terzi o in proprio, attesa la crentza di risultati a favore dell’azienda datrice di lavoro) per “mettere alle calcagna” dei lavoratori con mansioni esterne, a loro insaputa,  investigatori privati che ne spiano i movimenti e redigono relazioni analitiche per la banca o l’azienda cliente?

Secondo questa malfatta sentenza di  Cassazione, sembrerebbe di si.

Essa trascura, invero, di considerare che l’art. 3  della L. n. 300/’70 (rubricato “Personale di vigilanza”) – pur riferendosi a sorveglianti in organico all’azienda, operanti di norma nei reparti di produzione -  ha inteso vietare i controlli subdoli ed all’insaputa dei dipendenti, stabilendo che “i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa  debbono essere comunicati ai lavoratori interessati”.  Tale norma non viene da questa decisione della S. Corte neppure menzionata, quando invece è quella  contro cui  presuntivamente confligge il ricorso occulto agli investigatori privati. Essa argomenta invece sull’art. 2 L. n. 300/’70, afferente alle guardie particolari giurate utilizzate notoriamente ante Statuto dei lavoratori, per richiami e contestazioni disciplinari in ordine alle modalità di svolgimento della prestazione resa dai lavoratori, i cui compiti il legislatore – giustappunto con l’art. 2 citato -  circoscrisse agli esclusivi rilievi resi necessari dalla tutela del patrimonio aziendale, vietandogli in via di normalità l’accesso ai locali ove si svolge l’attività lavorativa medesima.

Utilizzando quest’ultimo disposto, la sentenza n. 5629/2000 della  Cassazione afferma  - singolarmente utilizzando a fini di interpretazione dell’art. 3  la diversa norma dell’art. 2 – che il divieto di controllo da parte di personale di mera vigilanza (rectius, guardie giurate)  attiene all’attività che si svolge all’interno dell’azienda, considerato che niente il legislatore dice per quanto riguarda il personale che opera all’esterno, al di fuori del controllo gerarchico.

Ma così ragionando, si potrebbe sostenere che tutto lo Statuto dei lavoratori – titolato “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro…” -  dovrebbe veder  applicati i principi generali ed assoluti affermati a favore dei lavoratori e delle loro OO.SS. solo se esercitati allo “interno dei luoghi di lavoro”, quando invece è pacifico che i principi asseriti prescindono, per ragioni di civiltà giuridica, dalla localizzazione geografica o topografica entro cui i lavoratori e le loro OO.SS. svolgono la loro attività.

Va poi osservato che è  sostanzialmente vero  proprio l’opposto di quanto sostenuto dall’odierna decisione della Cassazione: e cioè che, giustappunto perchè l’art. 3 (non l’art. 2, che poco rileva)  non effettua alcun “distinguo” in ordine alla tipologia di lavoratori -  interni o esterni  che siano -,  tale norma contiene l’affermazione di un principio di carattere generale che vieta i controlli odiosi, spionistici, a loro insaputa, tant’è che il legislatore si è  premurato di  stabilire a carico del datore di lavoro l’obbligo di pubblicizzare ai lavoratori nominativi e mansioni del personale di vigilanza (capi diretti esclusi in ragione dell’intrinseco potere al riguardo e notoria conoscibilità da parte dei  dipendenti). Né il fatto che i “controlli occulti” vengano dispiegati nei confronti di lavoratori con mansioni esterne – fuori dei locali aziendali – fa venir meno quel carattere spionistico, odioso e subdolo che il legislatore statutario ha voluto bandire in linea generale, in omaggio a principi di rispetto individuale e di civiltà giuridica.

Dobbiamo invece convenire  sul fatto che l’art. 3 sancisce il divieto dei controlli “occulti”, mediante la cognizione della loro dispiegabilità  e la pubblicizzazione dei nominativi di quel personale dipendente dall’azienda, investito di specifiche funzioni di vigilanza. Ma è pacifico che il legislatore statutario ha preso in considerazione l’ipotesi più normale, in ragione e sul modello della tradizionale realtà d’impresa.

Il principio dell’interdizione dei “controlli polizieschi” e “all’insaputa” sulla prestazione dei lavoratori deve intendersi sancito in assoluto, talchè sarebbe assurdo legittimare la stessa “tipologia” di controllo  vietato solo per il fatto che chi lo attua  non sono i vigilanti interni (dipendenti aziendali) ma personale esterno all’impresa e al di fuori dei locali aziendali, facenti parte di private agenzie investigative.

Può forse sostenersi fondatamente che i controlli occulti da parte di investigatori privati – tramite le odiose modalità dei “pedinamenti”, “appostamenti”, “riprese fotografiche o per telecamera” all’insaputa dei lavoratori, e tecniche similari – siano dotati di una minore carica di “offensività” verso la dignità dei lavoratori, sia operanti sia non operanti nei locali aziendali e temporaneamente al di fuori del controllo gerarchico (come peraltro lo sono i lavoratori interni svolgenti le loro mansioni in locali separati da quelli dei capi diretti e al di fuori della loro visuale di osservazione)?

Peraltro i lavoratori con mansioni esterne solo apparentemente e superficialmente possono essere considerati in posizione privilegiata e di sottrazione dal controllo gerarchico, poiché le moderne tecniche di gestione d’impresa hanno trovato il modo, anche per essi, di controllarne l’operato e la produttività, imponendo loro l’obbligo di redazione di rapportini  giornalieri e relazioni  sottoscritte (ben più responsabilizzanti e pregiudizievoli di quanto avviene per i dipendenti operanti all’interno dell’azienda) per la verifica e il  riscontro da parte dei  loro superiori gerarchici.

Invece la Cassazione (rectius, l’estensore di tale sentenza) non si è fatto carico della riflessione su queste considerazioni  -  anzi aderendo acriticamente ad una superficialissima tesi già delineata in sparute sentenze di merito – utilizza questa artificiosa bipartizione interna ai lavoratori (quelli operanti intra moenia e quelli operanti extra moenia, fuori dagli uffici e dai reparti di produzione) per legittimare nei confronti di quest’ultimi i controlli odiosi, a loro insaputa, ed irrispettosi della loro dignità di persone.

La Corte, a supporto, richiama tre delle sentenze più oscurantiste, addirittura  quella che isolatamente aveva accreditato e legittimato il ricorso “occulto” all’opera spionistica del collega del lavoratore, da esso sorvegliato all’insaputa, costituita da Cass. 18 febbraio 1997, n. 1455 (16). Cita inoltre  Cass. 9 giugno 1989, n. 2813 (17)– che aveva legittimato il ricorso ad investigatori privati “in difetto di espliciti divieti  al riguardo ed in considerazione della libertà di difesa privata” - quando il divieto risiede, pacificamente e come già accennato, nell’art. 3 dello Statuto dei lavoratori in ragione del suo carattere di norma di principio. Quanto poi al richiamo alla “libertà di difesa privata”, l’argomento è talmente inconferente e generalista che sarebbe stato più proprio invocarlo per legittimare l’uso del porto d’armi, il ricorso a cani pitbull  o  ad analoghi strumenti di difesa contro i malintenzionati piuttosto che nella fattispecie della “sorveglianza occulta sui lavoratori”. Infine viene richiamata  - del tutto impropriamente – Cass. 17 ottobre 1998, n. 10313 (18) la quale, senza prendere alcuna posizione sul punto, ma solo rinviando al Tribunale di Lodi, aveva avuto il solo merito “pilatesco” di passare in rassegna i vari orientamenti in tema di ricorso ai controlli su personale svolgente mansioni esterne, da parte di private agenzie investigative.

Ora è noto che nonostante le fondate obiezioni circa il fatto che quando si opera un controllo occulto sul lavoratore esso investe sia la fase della “corretta” esecuzione della prestazione sia quella “deviata”, ipoteticamente sconfinante nel reato – perché distinguere l’una dall’altra è una mera operazione astratta, con la conseguenza che, secondo noi, il controllo occulto è illegittimo di per se, per violazione dell’art. 3 L. n. 300/’70 – la Cassazione ha tuttavia legittimato, per ragioni di prevenzione dei delitti, il ricorso al controllo occulto di investigatori privati quando sia  finalizzato, non già alla verifica dell’osservanza da parte del lavoratore degli obblighi contrattuali e di diligenza nell’adempimento ex art. 2104 c.c., ma al riscontro di comportamenti extracontrattuali penalmente rilevanti (ad es., furti e sottrazioni di danaro alle casse dei supermercati), semprechè le modalità del loro controllo non risultino  “offensive” della dignità del lavoratore ma si limitino ad essere identiche a quelle che il “normale cliente” dell’esercizio pubblico poteva operare acquistando la merce e controllando lo scontrino.

Questa  consolidata giurisprudenza della S. Corte (19) non è stata neppure menzionata e pertanto non è stata  tenuta in conto alcuno dalla decisione che si commenta. L’orientamento risultante era così espresso: “«La L. 20 maggio1970 n. 300 e specificamente i suoi artt. 2, 3 e 4, lungi dall’eliminare il potere di controllo attribuito al datore di lavoro dal codice civile, ne ha disciplinato le modalità di esercizio, privando la funzione di vigilanza degli aspetti più «polizieschi». In particolare non può contestarsi la legittimità dei controlli posti in essere da dipendenti di un’agenzia investigativa i quali, operando come “normali clienti” di un esercizio commerciale e limitandosi a presentare alla cassa la merce acquistata e a pagare il relativo prezzo, verifichino la mancata registrazione della vendita e l’appropriazione della somma incassata da parte dell’addetto alla cassa”.

In buona sostanza il soprariferito orientamento più convincente della Cassazione,  rendendosi conto della forzatura operata con la legittimazione al controllo occulto a fini di riscontro di reati, aveva  tuttavia introdotto, per rispetto dello spirito dello Statuto dei lavoratori, un temperamento alla deroga tramite la subordinazione della legittimità dei controlli su comportamenti extracontrattuali penalmente rilevanti (cioè a dire sfocianti nella fattispecie delittuosa) alla condizione che gli stessi non avvenissero in forme capziose, subdole e sleali, condizione che la predetta giurisprudenza ha ritenuto sussistente nell’ipotesi in cui i controlli in questione  riproducevano fedelmente il modello di sorveglianza sul cassiere posto in essere dal cliente attento, ciò da colui che si limitava a verificare se sullo scontrino era stata effettuata la registrazione dell’acquisto (con il relativo prezzo), astenendosi  dal controllare - com’è invece compito dei «sorveglianti» aziendali, i cui nominativi debbono essere comunicati ai lavoratori ex art. 3 stat.lav. -  se il cassiere  si tratteneva (o meno) personalmente la somma, comportamento quest’ultimo concretizzante (oltre alla vulnerazione fiduciaria) il reato di furto ex art. 624 c.p., giustificativo del provvedimento di licenziamento.

Ora è chiaro che questo temperamento o condizione di “rispetto” della dignità dei lavoratori non è riscontrabile (né forse praticabile) nel controllo occulto nella pubblica via o sugli spostamenti esterni ad opera di “appostamenti” di investigatori privati, i quali  - all’opposto della condizione  statuita dalla Cassazione per l’ipotesi del cassiere sorvegliato – non si comportano certamente come il normale cittadino o superiore del lavoratore. Anzi il loro operare è intrinsecamente caratterizzato dai “pedinamenti” sapientemente mimetizzati, dagli “appostamenti” spionistici all’insaputa e così via.  C’è nel comportamento degli investigatori privati  sui lavoratori operanti all’esterno (informatori scientifici del farmaco, venditori, procacciatori d’affari e simili) quel carattere “poliziesco” che il legislatore, con l’art. 3 – da intendersi, per esigenze di pari dignità della persona, indistintamente indirizzato a tutti i lavoratori (senza la riduttiva distinzione posteriore tra lavoratori intra moenia ed extra moenia) -  aveva inteso inibire e precludere all’iniziativa datoriale.

La logica conseguenza cui avrebbe dovuto pervenire la decisione in commento sarebbe, quindi, stata quella (opposta) della dichiarazione di illegittimità e di inutilizzabilità dei riscontri raggiunti con mezzi illeciti, come ha stabilito Cass. 17 giugno 2000, n. 8250 (20), la quale ha ritenuto inutilizzabili probatoriamente i fotogrammi (documentanti il furto ad opera di un commesso) ottenuti mediante telecamera a circuito chiuso installata (anche per il controllo dell’attività lavorativa) in violazione dell’art. 4 Statuto dei lavoratori, per non essere stata seguita la procedura ivi legislativamente prescritta. Pur non potendosi applicare alla “vigilanza all’insaputa” tramite investigatori privati la disposizione dell’art. 4 L. n. 300/’70 – in quanto attiene al divieto di controllo a distanza e all’insaputa da parte di impianti audio/visivi – non possono non sfuggire le notevoli analogie, dal lato pratico, tra il suddetto controllo (vietato senza l’osservanza delle cautele e procedure contemplate) e quello “asseritamente del tutto libero” effettuato da parte, non già di apparecchiature meccaniche, ma di persone, in veste di sorveglianti esterni, dotate,normalmente, di analoghe strumentazioni  per le riprese fotografiche e documentali, operanti subdolamente con appostamenti e pedinamenti all’insaputa dei lavoratori. E’ evidente che la ratio del divieto deve essere comune ad entrambe le similari, se non identiche, fattispecie.

Ma forse nel caso della decisione che si commenta ha prevalso – a fini di una (incondivisibile) legittimazione  a posteriori – il riscontro nel “vigilato” di un comportamento considerato dal Tribunale di Rieti (in secondo grado) reato di “truffa” per l’indebito lucrare di una retribuzione, mentre in sostanza  oziava seduto in macchina, anche se  nella decisione n. 8250/2000 (sopracitata) sono state raggiunte dalla Cassazione conclusioni opposte, pur in presenza del riscontro del reato di “furto”, pur di modica entità. O forse e più verosimilmente, tra i giudici della Cassazione c’è qualcuno che – reso meno osservante verso le norme codificate a seguito della sponsorizzazione della cultura del “liberismo selvaggio” e della “new economy” –ritiene che non sia più attuale (anzi tipico della  “old economy” in via di rapido superamento) vincolare i datori di lavoro a farsi “eccessivi” scrupoli o a riservare il necessario rispetto preteso trent’anni fa per la posizione e la dignità dei lavoratori ?

Roma, 12 ottobre 2000

Mario Meucci

NOTE

(1)   Trovasi, per esteso, in Foro it. 1974, I, 351 ed in massima in Giust. civ. Mass. 1973, 1660.

(2)   Cass. 25 gennaio 1992, n. 829 trovasi  in Lav. Prev. Oggi, fasc. 29/1989, 2307 e in Not. giurisp. lav. 1992, 523.

(3)   Cfr. Pera, in Assanti e Pera, Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, op. cit., 21, secondo cui:”la norma fa riferimento al personale di vigilanza in senso specifico, assunto esclusivamente per tale compito; in questo ambito non può essere incluso chi, per altro verso, abbia funzioni direttive nell’unità di lavoro; con la conseguenza che l’onere di pubblicità imposto dalla legge per il personale di vigilanza non è richiesto, come si è osservato, per i capi diretti del lavoratore che debbono ritenersi come conosciuti da costui”.

In senso conforme tutti i commentatori dell’art. 3 Stat. Lav. (da Giugni a Mattarella a Romagnoli a Bortone nei rispettivi, notissimi, commentari redatti con il concorso di più autori).

(4) Cass. 17.6.1981, n. 3960 trovasi in Giust. civ. 1981, I, 2287, con nota. La massima così recita: ”L’art. 3 della l. 20 maggio 1970 n. 300 ha voluto abolire la pratica padronale della vigilanza disciplinare ad opera di personale adibito esclusivamente a tale compito, senza alcun inserimento nel processo produttivo e molto spesso addirittura non conosciuto come tale. Non ha inteso affatto abrogare né modificare l’art. 2104 c.c. e, pertanto, non ha fatto venir meno i poteri di direzione, di controllo tecnico del lavoro svolto e di sorveglianza del personale dipendente riconosciuto ai collaboratori dell’imprenditore, fra i quali rientrano i capi turno”.

(5)  Cass. 9 giugno 1990, n. 5599 trovasi in Dir. prat. lav. 1990, 30, 1946, con nota di De Sanctis e in Giust. civ. 1991, I, 685, con nota di Filidei.

(6) Cass. 25 gennaio 1992, n. 829 trovasi  in Lav. Prev. Oggi,, fasc. 29/1989, 2307 e in Not. giurisp. lav. 1992, 523.

(7)  Cfr. Pera, in Assanti e Pera, Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, op. cit., 21, secondo cui:”la norma fa riferimento al personale di vigilanza in senso specifico, assunto esclusivamente per tale compito; in questo ambito non può essere incluso chi, per altro verso, abbia funzioni direttive nell’unità di lavoro; con la conseguenza che l’onere di pubblicità imposto dalla legge per il personale di vigilanza non è richiesto, come si è osservato, per i capi diretti del lavoratore che debbono ritenersi come conosciuti da costui”.

(8)   Romagnoli, in  Aa.Vv., Statuto dei lavoratori, Bologna 1972, 14 e ss.

(9) Così Bortone, in Lo statuto dei lavoratori, cit., 14.

(10)In tal senso Pret. Roma 15.7.1975, in Riv. giur. lav. 1975,II,1121 e ss.

(11)Vedi, in dottrina, in senso conforme, Filadoro, Controlli occulti degli addetti alla vendita nei grandi magazzini, in Lav. prev. Oggi, 1978, 1756. Nella giurisprudenza di merito, v. per tutte, Pret. Milano 5.7.1979, in Or. giur. lav. 1979, 924-925.

(12) Così  Cass. 3.11.1997, n. 10761, in Not. giurisp. lav. 1997, 681, n. 35;  Cass. 23.8.1996, n. 7776, in Mass. giur. lav., Mass. Cass. , 80, n. 225; Cass. 25.1.1992, n. 829, in Not. giurisp. lav. 1992, 523; Cass. 19.7.1985, n. 4721, in Lav. prev. oggi, 1985, 2216; Cass. 24.3.1983, in Not. giurisp. lav. 1983, 239; Pret. Milano 30.7.1979 in Or. giur. lav. 1979, 1273  nonché Pret. Milano 21.9.1977 n. 863 (inedita). In dottrina, sulla problematica, vedi Siniscalchi, L’attività di controllo sul dipendente e i limiti di acquisizione delle prove, in Dir. lav. 1978, 269 nonché Mannacio, Guardie giurate e personale di vigilanza secondo gli artt. 2 e 3 della L. 20.5.1970 n. 300 (Statuto dei lavoratori): profili ontologici e funzionali, in Inf. Pirola 1978, 701.

(13) Così, da ultimo, Cass. 9.6.1989, n. 2813, in Lav. Prev. Oggi, fasc. 29/1989, 2307 e in  Not. giurisp. lav. 1989, 289; in precedenza, conf. Cass. 10.5.1985, n. 2993, ibidem 1985, 417; Cass. 19.7.1985, n. 4271, cit., ecc.

(14) Cass. 18.9.1995 n. 9836, in Foro it. 1996, I, 609 e in Mass. giur. lav. 1996, 216.

(15) Cass. 18 febbraio 1997 n. 1455 trovasi in Mass. giur. lav. 1997, 247, con nota redazionale.

(16) In Mass. giur. lav. 1997, 247.

(17) In Lav. Prev. Oggi 1989, 2307.

(18) In Lav.  Prev. Oggi 1999, 144.

(19) Cfr. ex plurimis, Cass. 3 novembre 1997, n. 10761, in Not. giurisp. lav. 1997, 681, n. 35; Cass. 23 agosto 1996, n. 7776, in Mass. giur. lav. 1996, 80, n. 225; Cass.  25 gennaio 1992, n. 829, in Not. giurisp. lav. 1992, 523.

(20) In Lav.  Prev. Oggi, n.8-9/2000.

 

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