LA  SOSPENSIONE  CAUTELARE

(nelle more del procedimento disciplinare)

 

Sommario:

  1. Natura e retribuibilità (o meno) della sospensione cautelare

  2. Presupposti per l’adozione; vizi di procedura e vizi invalidanti

  3. Il calcolo, in caso di riammissione in servizio, della retribuzione non corrisposta

  4.  Conclusioni.

 

1. Natura e retribuibilità (o meno) della sospensione cautelare

La funzione di tale forma di sospensione non è quella di porre il rapporto in fase di prolungata quiescenza, bensì solo di allontanare dall'azienda - per il tempo strettamente necessario - il lavoratore durante il procedimento disciplinare, nel caso in cui i fatti addebitati, ed ancora da accertare, siano di gravità tale da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto, ovvero nel caso in cui la presenza in azienda del lavoratore possa costituire fondato pericolo di possibili ulteriori turbamenti.

L'origine dell'istituto è di natura contrattuale e trova le sue prime applicazioni in quei contratti collettivi che avevano introdotto ancor prima dello Statuto dei lavoratori un procedimento disciplinare, per cui - ove tale procedimento fosse stato applicabile anche ai licenziamenti per mancanze - si era venuta delineando la necessità di contemperare i tempi della procedura con l'esigenza di porre immediatamente termine all'esecuzione del rapporto nei casi di infrazioni di particolare gravità. Nel settore del credito l’istituto in questione è previsto, con formulazione identica, nel ccnl 22.6.1995 (art. 63) per il personale direttivo e nel ccnl 19.12.1994 (art. 123) per il restante personale.

In primo luogo va precisato che la sospensione cautelare di cui trattasi, è ritenuta, dalla prevalente dottrina(1) ammissibile indipendentemente dal fatto che sia espressamente prevista dal contratto, per cui deve ritenersi sussistente il potere unilaterale dell'imprenditore di disporla, pur in assenza di una specifica norma contrattuale.

Naturalmente la facoltà di adozione unilaterale della sospensione cautelare – a prescindere da legittimazione contrattuale – comporta l’obbligo del mantenimento della retribuzione per il lavoratore sospeso, stante l’unilateralità della rinunzia alla prestazione lavorativa (2).

Non siamo affatto d’accordo con quella parte della dottrina che asserendo che la sospensione cautelare rientra tra le prerogative manageriali ed è pertanto espressione del potere direttivo, consentirebbe un esonero non retribuito dalla prestazione, non versando – a detta di tale dottrina – il datore di lavoro in “mora accipiendi”, ex art. 1206 c.c.(3), stante la legittimità dei motivi giustificativi del rifiuto datoriale di ricevere la prestazione del lavoratore.

Invero il creditore della prestazione lavorativa (datore di lavoro) non può dispensare il lavoratore/debitore dalla prestazione stessa – che è il presupposto acquisitivo della retribuzione – per sue mere convenienze o valutazioni di opportunità, quantunque non necessariamente voluttuarie ma ragionevoli (riposanti notoriamente sulla necessità di una “libertà” di movimento per accertamenti ovvero sull’esigenza di allontanamento del lavoratore per svolgere indagini senza l’intralcio o il disturbo della di lui presenza in servizio e negli stessi locali di lavoro e simili) – atteso che la ragionevolezza del motivo non esclude né l’unilateralità dell’iniziativa né, a nostro avviso, la “mora accipiendi”. Convenienze ed opportunità di parte non possono, secondo noi, essere riconducibili ai “motivi legittimi” – da intendersi in senso oggettivo -  di cui si occupa l’art. 1206 c.c., attribuendogli idoneità ad escludere la “mora credendi” del datore di lavoro, a differenza di quanto da altri ritenuto.

O, come altri hanno correttamente ritenuto, “il riferimento al ‘motivo legittimo’ del rifiuto della cooperazione creditoria consente solo la valutazione di tale comportamento alla stregua dei principi generali di correttezza e buona fede...ma non opera come criterio di giudizio della legittimità dell’atto unilaterale con cui si interrompe l’attuazione del rapporto, incidendo su una complessa situazione attiva del dipendente”(4).Talché “il dovere del datore di lavoro di pagare la retribuzione relativa al periodo di sospensione cautelare non deriva da una sua pretesa responsabilità, aquiliana o contrattuale, trattandosi puramente e semplicemente del rischio insito nell’esercizio (pur legittimo) di un potere di autotutela”(5).

Esattamente, pertanto, altra dottrina e la consolidata giurisprudenza della Cassazione pretende che – al fine di escludere che alla sospensione cautelare si accompagni la retribuzione per il lavoratore esonerato dalla prestazione – sia necessaria l’espressa previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva.

Così, infatti si è espressa la Suprema Corte (6), secondo cui: "la sospensione cautelare del lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare o penale, se non prevista dalla legge o dalla contrattazione collettiva, può essere applicata  dal datore di lavoro nell'esercizio del suo potere direttivo, solo nel senso che egli può rinunciare ad avvalersi delle prestazioni del lavoratore stesso, ferma peraltro la sua obbligazione di corrispondere la retribuzione in relazione al perdurante rapporto di lavoro, laddove, invece, se normativamente o convenzionalmente prevista, può legittimare - oltre alla sospensione dell'attività lavorativa - anche quella della controprestazione retributiva, se espressamente contemplata. La relativa durata è limitata al tempo occorrente per lo svolgimento della procedura cui la sospensione accede e la sua efficacia è destinata ad esaurirsi non appena tale procedura sia ultimata, con l'ulteriore conseguenza che, se interviene il licenziamento del lavoratore, il rapporto deve considerarsi risolto retroattivamente  ossia alla data di sospensione cautelare del dipendente, mentre se non interviene alcun licenziamento, il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui le relative obbligazioni sono rimaste sospese, salvo il risarcimento del danno, ove sia ravvisabile altresì violazione degli obblighi di correttezza e lealtà, ovvero per lesione del diritto del lavoratore a svolgere la sua attività lavorativa con i conseguenti riflessi professionali"(così Cass. sez. un. n. 3319/1986).

Ed infatti la sospensione in oggetto non conferisce affatto al datore di lavoro il potere di disporre degli effetti del contratto, sia in considerazione del brevissimo lasso di tempo in cui opera, sia soprattutto in relazione al fatto che nella specie non l'intero rapporto viene ad essere sospeso, ma solo l'obbligo della prestazione del dipendente, maturando costui - nel relativo arco di tempo - sia la retribuzione sia ogni altro effetto connesso all'anzianità di servizio.

Sostiene invece, in giurisprudenza, che non è dovuta la retribuzione, ove la clausola contrattuale la neghi, - oltre a Cass. n. 3319/1986 precedentemente riportata in massima - Cass. n. 7350/1986 (7), contrastata da Cass. n. 7303/1990 (8), che, pur legittimando la privazione economica, ha sostenuto che essa non può essere superiore ai 10 giorni di carenza retributiva previsti per la sospensione disciplinare dall'art. 7, 4° comma, dello Statuto, "non essendo rinvenibile nel vigente sistema normativo alcuna disposizione che consenta di attribuire alla sospensione cautelare effetti più ampi di quelli propri della sospensione disciplinare, la quale a sua volta non può debordare dai limiti di legge".

Quest’ultimo orientamento è stato sottoposto ad alcune critiche dottrinali (9), secondo cui tale impostazione giurisprudenziale “finisce col costruire la sospensione cautelare in termini di perfetta analogia strutturale con la sanzione tipica, mentre come rilevato, diversi sono i profili strutturali caratterizzanti, da un lato, uno strumento di autotutela, e dall’altro, una sanzione conservativa: vi è da rilevare come la sospensione cautelare istituzionalmente non sia soggetta a limiti di durata predeterminati, atteso che la sua durata coinciderà con il tempo necessario ad acquisire la certezza della sussistenza del fatto addebitato, sia nel corso del concorrente giudizio penale, sia nell’ambito degli eventuali accertamenti esperiti in sede aziendale”. Aggiungendo poi tale critico che “la prospettata estensione alla sospensione cautelare, dei requisiti applicativi propri della sospensione-sanzione finisce col comportare l’inammisibile risultato che, in definitiva, nella situazione descritta, si verificherebbe un’ipotetica duplicazione di sanzioni, con il risultato, certamente scorretto, che il lavoratore verrebbe a subire in sequenza due sospensioni, complessivamente comunque eccedenti il limite massimo fissato ex lege”. 

Tale dottrina(10) ha, pertanto, salutato con enfasi una recentissima decisione della Cassazione(11) dalla quale è stata desunta la seguente massima: “La sospensione cautelare dal servizio del lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare (o, prima ancora, penale) legittima anche, ove ciò sia espressamente previsto dalla disciplina collettiva, la sospensione della controprestazione retributiva, la cui definitiva debenza è condizionata all’esito del procedimento disciplinare, secondo che si concluda, o meno, con l’irrogazione di una sanzione espulsiva, fermo restando che, nel caso invece di irrogazione di sanzione conservativa, la sospensione cautelare non può avere effetti più ampi di quelli previsti dal comma quarto dell’art. 7 dello statuto dei lavoratori”.

In buona sostanza la Cassazione ha effettuato talune precisazioni in ordine al pensiero espresso in precedenza da Cass. n. 7303/1990, asserendo che la sospensione cautelare dal servizio è caratterizzata dall’assenza della retribuzione solo se ciò sia previsto dalla contrattazione collettiva (implicitamente statuendo, per contro, la persistenza della stessa in caso di iniziativa unilaterale non sorretta da previsione di carenza retributiva da parte di clausola pattizia).

Addizionalmente sembra desumersi dalla massima  soprariferita che la durata della carenza retributiva connessa  alla sospensione cautelare è correlata al tempo necessario all’accertamento dei fatti addebitati, nel caso in cui l’esito del procedimento disciplinare si concluda con l’irrogazione di una sanzione espulsiva (licenziamento); mentre nel caso in cui il procedimento si concluda con una sanzione conservativa, il limite massimo di carenza retributiva da sospensione cautelare coincide con quello (10 giorni) previsto dall’art. 7, 4 co., della L. n. 300/’70.

La sentenza, ad un’attenta lettura, lascia invece intendere qualcosa di diverso dalla massima, laddove precisa che la fattispecie presa in considerazione da Cass. n. 7303/’90 era del tutto particolare (caratterizzata dalla conclusione del procedimento disciplinare con la sanzione della sospensione per 10 giorni) ed avrebbe  portato la S. corte ad evitare che la “sospensione cautelare” finisse per essere più gravosa della stessa sospensione disciplinare, mentre invece il principio di diritto condiviso dalla Cassazione in plurime decisioni (Cass. n. 3319/’86; Cass. n. 7350/’86; Cass. n. 2517/’96) è quello sintetizzabile nella dizione per cui “dall’esito del procedimento penale o disciplinare, in senso favorevole o meno al prestatore, dipende la sorte dell’obbligazione”.

Con ciò esprimendo l’inequivoca propensione nella direzione della “piena retribuibilità” della sospensione cautelare nel caso di procedimento conclusosi con sanzione conservativa e della carenza totale (e a tempo indeterminato) della retribuzione medesima, nel caso in cui l’esito del procedimento disciplinare o penale si concluda con la sanzione espulsiva del licenziamento. Confinando, conseguentemente, nell’irrilevanza o tra gli obiter dicta l’affermazione del limite dei 10 giorni di massima carenza retributiva della sospensione cautelare, affermata – per un caso e dietro un’esigenza del tutto particolare – da Cass. n. 7303/1990.

In questo senso sembra intendere il pensiero della Cassazione – o quanto meno auspicarne l’affermazione anche successiva - lo stesso annotatore  di Cass. n 2633/’97 (12), laddove afferma che: “A ben intendere…un’opportuna integrazione tra le varie indicazioni proposte dalla giurisprudenza potrebbe consentire di annodare i fili lasciati in parte scoperti, considerando cioè che nel caso di ricorso alla sospensione cautelare, seguita da un provvedimento conservativo, tutto il trattamento economico intermedio dovrebbe essere riconosciuto ex post al lavoratore, con soluzione opposta nel caso inverso di esito espulsivo. Ed in questi termini, la limitazione di durata dei dieci giorni propugnata dalla sentenza n. 7303/1990 sembrerebbe destinata a perdere definitivamente ogni rilievo”.

A nostro avviso la sentenza non ha altro significato che quello di rivolgere un auspicio, dettando un principio programmatico la cui applicazione spetta alla contrattazione collettiva.

Ribadito e risolto il problema della  “carenza retributiva” solo in presenza di espressa clausola  collettiva in tal senso disponente, le addizionali difficoltà o contraddizioni  che la contrattazione collettiva crea all’interprete giudiziario non possono essere che risolte dalle stesse parti sociali. Non si può attendere dalla magistratura – senza rischi di indebito debordamento nel campo dell’autonomia collettiva – l’introduzione di “ulteriori precisazioni” esaltandosi sulla loro maggiore o minore opportunità o attendere che essa apporti addizionali tasselli per delineare un mosaico di inequivoca lettura e senso compiuto. Le conclusioni non saranno mai soddisfacenti nonostante le “torsioni” cui si sottoporranno parole e concetti pattizi, se gli agenti contrattuali non raccoglieranno l’invito e l’auspicio giurisprudenziale sancendo nei ccnl – nel contemperamento dei reciproci interessi – che:

a) in caso di procedimento disciplinare che si concluda con una valida sanzione espulsiva, il periodo di sospensione cautelare non è retribuito. Il che, peraltro, consegue di regola dalla riserva aziendale di dotare il provvedimento di licenziamento di efficacia retroattiva, facendolo decorrere ex tunc dall’epoca di contestazione degli addebiti e di contestuale decorrenza della sospensione cautelare;

b) in caso, invece, di procedimento disciplinare che si concluda con una sanzione conservativa (o nel caso in cui la sanzione espulsiva venga successivamente annullata per invalidità, inefficacia o ridimensionata per esorbitanza rispetto al criterio di proporzionalità sancito nell’art. 2106 c.c.), il periodo dell’eventuale sospensione cautelare dovrà essere integralmente retribuito quanto meno  ex post.

 

2. Presupposti per l’adozione; vizi di procedura e  vizi  invalidanti

Mentre è sicuramente da escludersi che ogni ipotesi di licenziamento in tronco possa legittimare la preventiva adozione della sospensione cautelare, va tuttavia riconosciuta una tutela all'interesse datoriale ad un immediato allontanamento del lavoratore in ipotesi determinate, ove effettivamente  sia ipotizzabile una situazione di pericolo o di turbamento nel caso in cui il lavoratore rimanesse in azienda.

Si pensi ad es. al cassiere accusato di furto ovvero al lavoratore passato a vie di fatto nei confronti dei colleghi di lavoro, con pericolo, quindi di ritorsioni o di una riattivazione degli episodi criminosi.

Va precisato, tuttavia, che l'istituto deve essere usato con particolare moderazione, onde vanno sicuramente stigmatizzate certe prassi aziendali di far sempre coincidere la sospensione cautelare con la contestazione di addebiti suscettibili di sfociare nel licenziamento.

Va invece riconosciuto il potere imprenditoriale, quale espressione - questa volta si - del più ampio potere organizzativo, di rifiutare la prestazione del dipendente, nel caso in cui gli addebiti contestati siano di particolare rilevanza e gravità.

Anche in questa ipotesi è da escludersi che la sospensione abbia natura di sanzione disciplinare, onde l'applicazione della sospensione non deve essere preceduta dalla procedura di cui all'art. 7 dello Statuto, il che - del resto - è abbastanza ovvio, posto che la sospensione ha la specifica funzione di evitare la presenza del lavoratore in azienda per il tempo necessario all'esaurimento della procedura, onde del tutto illogico sarebbe pretendere l'adozione di una procedura disciplinare per la stessa applicazione della sospensione. Anche per questo tipo di sospensione - come per la sospensione protratta in attesa della definizione del giudizio per fatti penalmente rilevanti - l'applicazione va genere sempre inserita nell'ambito di una procedura disciplinare, per cui nessun provvedimento del genere può essere adottato nei confronti del lavoratore, se questi non sia stato sottoposto ad un procedimento disciplinare.

Il provvedimento in oggetto non potrà pertanto essere adottato se non successivamente, o - al più -, contestualmente alla contestazione degli addebiti.

Il discorso diventa certamente più complesso allorché si tratti di individuare un distorto uso del potere di adottare la sospensione da parte del datore di lavoro.

In proposito occorre innanzitutto distinguere i casi in cui l'illegittimità della sospensione si traduca in un vizio di procedura e, quindi, della sanzione finale, dai casi in cui l'illegittimità della sospensione rimanga fine a se stessa, per derivare esclusivamente da un uso avventato che il datore abbia fatto del suo potere.

In quest'ultimo caso - così come avviene per ogni altra ipotesi di sospensione illegittima del rapporto - il datore di lavoro sarà tenuto esclusivamente al risarcimento dei danni per aver alterato la normale esecuzione del rapporto stesso, ma l'illegittimità della sospensione in alcun modo si potrà tradurre in un'illegittimità della sanzione disciplinare.

Alle stesse conclusioni si dovrà pervenire anche da parte di coloro che ritengono inammissibile un potere unilaterale di sospendere il rapporto in assenza di una specifica clausola in tal senso da parte della contrattazione collettiva.

Anche in questo caso infatti l'aver illegittimamente sospeso il lavoratore potrà dar luogo ad un eventuale risarcimento dei danni, ma non potrà certamente riflettersi sulla legittimità del provvedimento disciplinare disposto al termine della procedura.

Sotto questo profilo non sembra in alcun modo condivisibile quell'orientamento che - assimilando la sospensione cautelativa all'anticipata esecuzione della sanzione - ritiene di travolgere per tale solo fatto la successiva sanzione.

Già in precedenza si è sottolineato come l'anticipata esecuzione della sanzione non può mai tradursi nell'illegittimità della sanzione ritualmente deliberata; a maggior ragione dovrà farsi applicazione di un tale principio nella specie, non trattandosi neanche di esecuzione della sanzione ma solo di sospensione cautelare del lavoratore, per il tempo necessario sia all'accertamento dei fatti, sia all'espletamento della procedura disciplinare.

A diverse conclusioni si deve invece pervenire ove la sospensione cautelare si traduca in una violazione della procedura, per cui il comportamento datoriale - voluto o meno che sia un tale effetto - determini una riduzione delle garanzie difensive del lavoratore.

La sospensione, infatti, non dovrà mai comportare un'attenuazione delle possibilità del lavoratore di rendere le giustificazioni, in tutti i possibili modi, esplicitamente o implicitamente previsti dall'art. 7 dello Statuto.

Così l'eventuale adozione della sospensione non potrà assolutamente impedire al lavoratore - che ne faccia richiesta - di consultarsi con i componenti della Rappresentanza sindacale aziendale o della Delegazione sindacale aziendale, come pure di rendere le giustificazioni  anche con l'assistenza di un membro delle R.S.A. o D.S.A. stesse.

Parimenti dovrà essere data al lavoratore l'opportunità - ove lo richieda - di prendere visione di documenti aziendali, sempre che ovviamente fossero già nella sua disponibilità, o di interrogare colleghi di lavoro e, comunque, di esperire tutte quelle indagini lecite, atte a rendere maggiormente  complete ed effettive le sue possibilità difensive.

Ove per effetto della sospensione - ed a cagione della stessa - il datore di lavoro dovesse negare al dipendente l'esercizio di tali strumenti difensivi, il provvedimento disciplinare successivo verrebbe ad essere insanabilmente viziato, per essere stata impedita al lavoratore una completezza difensiva, anche a causa della disposta sospensione, per cui la stessa verrebbe a porsi quale mezzo impeditivo del diritto di difesa e, come tale, renderebbe illegittimo l'intero procedimento disciplinare.

E' ancora da esaminare l'ipotesi in cui l'immediato allontanamento del dipendente possa essere finalizzato a motivi sindacali, al fine di espellere dall'azienda - in momenti particolarmente caldi - lavoratori più attivi sul piano sindacale.

In tali casi il problema non è certo quello di individuare le possibili sanzioni avverso tale comportamento, dato che il fine antisindacale sarà normalmente presente sia nell'espulsione temporanea ed anticipata sia in quella definitiva.

Piuttosto si tratterà di ipotizzare strumenti di reazione immediata al fine di impedire che il comportamento antisindacale possa realizzare gli intenti perseguiti.

In proposito potranno essere utilizzati gli ordinari rimedi processuali di urgenza, quali il ricorso all'azione di cui all'art. 28 dello Statuto ovvero alla procedura d'urgenza di cui all'art. 700 c.p.c.

 

3. Il calcolo, in caso di riammissione in servizio, della retribuzione non corrisposta

Una recente sentenza della Cassazione (13) - indirettamente riaffermando la legittimità, solo in caso di esplicita previsione contrattuale, della non decorrenza dell’intera retribuzione durante il periodo di sospensione cautelare - ha esaminato quale debba essere il criterio di calcolo, una volta esaurita la sospensione e riammesso il dipendente in servizio, della parte di retribuzione nelle more non percepita.

Riformando la decisione di merito che aveva attribuito il diritto al lavoratore non solo alla rivalutazione monetaria ma anche agli interessi legali (in funzione compensativa del ritardo con cui il lavoratore riceveva quanto dovutogli) sulla quota parte di retribuzione non percepita a motivo della sospensione cautelare disposta dal datore di lavoro, la Suprema corte ha stabilito che spetta il solo diritto alla rivalutazione monetaria, che ha la funzione di garantire l’adeguamento del valore nominale della retribuzione al valore reale. Ha negato invece che spettino gli interessi legali - che presuppongono l’esigibilità e perciò la scadenza del credito, prima della quale non è configurabile alcun ritardo da parte dell’obbligato - in quanto “modificato il contenuto del contratto di lavoro nel senso che il dipendente non è tenuto a rendere la prestazione e il datore di lavoro resta obbligato a pagare soltanto parte della retribuzione fino alla cessazione della sospensione, prima di tale momento non è configurabile esigibilità del credito all’integrazione retributiva ed oggettivo ritardo nell’adempimento”.

 

4. Conclusioni

E' da ribadire che la sospensione cautelare c.d. propedeutica  o funzionale all’esercizio del potere disciplinare non può che essere adottata in via strettamente strumentale ad un possibile futuro licenziamento, onde la sospensione cautelare non potrà mai essere applicata, non solo in assenza di contestazione degli addebiti, ma anche ove gli addebiti contestati non siano comunque suscettibili di condurre al licenziamento, atteso che può essere tutelata l'esigenza aziendale di allontanare il dipendente - teoricamente passibile di licenziamento - ma non può certo, tramite la sospensione cautelare, essere tutelata ogni e qualsiasi esigenza di sospendere immediatamente il rapporto.

 

 

Mario Meucci

(pubblicato in Lavoro e previdenza Oggi n.12/1997, p. 2225)

 

NOTE

 

(1) Vedi, fra i molti, Branca Gio., La sospensione nelle vicende del rapporto di lavoro, Padova, 1971, 114; Montuschi, in Statuto dei lavoratoriCommentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma 1979, 122; Spagnuolo Vigorita e Ferraro, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da Prosperetti, Milano 1975, 219; Assanti e Pera, Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, Padova 1972, 102; Miscione, Licenziamento come sanzione disciplinare, in Riv. trim.dir.proc.civ. 1974,703; ID., Della sospensione cautelativa, in Giur. it. 1981, I,1,1838; Saracini, Appunti sulla sospensione cautelare retribuita, in Mass. giur. lav. 1981, 562; Miani Canevari, La sospensione cautelare, in questa Rivista 1983,20; Papaleoni, Precisazioni opportune sulla sospensione cautelare, in Mass. giur. lav. 1997, 408.

(2) In dottrina si sono in tal senso espressi, Spagnuolo Vigorita-Ferraro, sub art. 7, in Lo statuto dei lavoratori, Commentario diretto da Prosperetti, cit., 222; Miani Canevari, op.cit., 23 e ss.; D’Avossa, in commento a Pret. Roma 12.1.1990, in Dir. prat.lav. 1990, 1508  nonché a Trib. Milano 4.3.1988 e a Pret. Casteggio 15.3.1988, ibidem 1988, 1661.

In giurisprudenza, per la persistenza dell’obbligazione retributiva, vedi Cass. 24.2.1990 n. 1410, in Dir. prat.lav. 1990, 1826; Cass. 24.3.1988 n 2563, in Riv. giur. lav. 1989,II,125; Cass. 19.5.1986 n. 3319, in Giust.civ. 1986, I, 2427 e in Giur. it. 1987, I, 1, 1092 con nota di Colicchia; Pret. Roma 7.4.1990, in Riv.it.dir.lav. 1990,II, 890; Pret. Roma 12.1.1990, in Dir. prat.lav. 1990, 1508, con nota di D’Avossa; Trib. Milano 30.9.1982, in Lav.’80 1983, 144;Pret. Milano 8.10.1981, ibidem 1982, 190.

(3) In tal senso Pera, in Assanti e Pera, op. cit., 102; Bortone, sub. art. 7, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da Giugni, Milano 1979, 122; Miscione, Il licenziamento…, cit, 705; Branca, La sospensione…, cit. 114; Saracini, Appunti sulla sospensione…, cit., 562.

(4) Così Miani Canevari, op.cit., 23.

(5) Così Cass. sez. un. 26.3.1982 n. 1885, in Mass.giur. lav. 1982, 376.

(6) Cass. 19.5.1986 n. 3319 e Cass. 21.3.1986 n. 2022, entrambe in Giur. it.  1987,I, 1, 1093 con nota di Colicchia, Nota minima sulla sospensione cautelativa nel rapporto di lavoro; Cass. 22.4.1986 n. 2848 in Orient. giur. lav. 1986, 509.

(7) In Giust. civ. 1987, I, 2025.

(8) In Mass. giur. lav. 1990, 414.

(9) Vedi, in tal senso, Papaleoni, Il procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, Napoli 1996, 259.

(10) Papaleoni, Precisazioni opportune sulla sospensione cautelare, in Mass. giur. lav. 1997, 408.

(11) Cass. 5.3.1997 n. 2633, in Mass. giur .lav. 1997,407.

(12) In Mass. giur. lav. 1997, 408 ed ivi 411.

(13) Cass. 11.4.1996, n. 3370, in Not. giurisp. lav 1996, 722.

 

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