La proposta
di una “scrematura” graduale per fruire dell’art. 18. No, grazie!
Mi è
stata recapitata nella posta elettronica la segnalazione che sul portale giuridico “www.diritto.it” era stato
pubblicato, nell’ultima decade di luglio, un articolo dal titolo “E’
possibile salvare l’art. 18 dello statuto dei lavoratori?” redatto da un “cultore” di diritto del
lavoro presso l’Univ. di Bari, pubblicato dopo la firma del Patto per l’Italia
tra governo e organizzazioni (meno) rappresentative del mondo del lavoro.
Giacché sono curioso, me lo sono letto e mi permetto
di sintetizzarlo per il lettore per fargli meglio comprendere il mio dissenso e
l’opportunità – sempre a mio avviso - che il “cultore” maturi un maggior senso
politico, per ripresentarsi in altra “sessione” con proposte valutabili a fini
di promozione. L’attuale merita, per noi, una sonora “bocciatura”.
L’autore già parte male, affermando che gran parte…degli studiosi
di diritto del lavoro si sono mantenuti – sul tema dell’art. 18 – defilati,
mentre «per le menti più indipendenti e aperte, l’imperativo è quello di non
tacere e di non essere prudenti e, anzi, di impegnarsi ad elaborare e proporre
pubblicamente ipotesi di soluzioni scevre da ogni pregiudizio ideologico e in
grado di bilanciare gli interessi coinvolti». E così si autoinserisce, per
la verità poco umilmente, in questa ristretta schiera.
Prosegue ancor più sbilanciato quando, per accreditare le proposte
che sinteticamente riferiremo, trae supporto da un episodio “eccezionalissimo”
– accaduto ad un’azienda “gioiello” del Sud, dallo stesso difesa in giudizio –
ove un ingegnere, per lucrare i benefici connessi al licenziamento (le 15
mensilità ex art. 18), avrebbe inscenato un litigio con il titolare o superiore
gerarchico per farsi licenziare in luogo di dimettersi (avendo già trovato un
posto di lavoro migliore). Giacché la prova del licenziamento “giustificato”
sarebbe ardua ed il rischio per
l’impresa di subire la reintegrazione “sostituita” dall’opzione per le 15 mensilità
piuttosto “alto”, questa “esperienza professionale” induce l’autore – che ha consigliato l’azienda ad una transazione
eticamente “ingiusta” ma economicamente meno dispendiosa - a porsi il problema della «drammatica
contrapposizione fra l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di
lavoro e quello dell’azienda alla propria stessa sopravvivenza». I processi
che seguono all’impugnativa, con le lungaggini che ad essi si accompagnano –
dice l’autore - «si trasformano quasi sempre in vere e proprie lotte
all’ultimo sangue nelle quali i rischi più alti, spesso letali, li corre
l’azienda».
Prima obiezione: la figura del lavoratore “spregiudicato” è tutt’altro che ipotesi di normalità, giacché è raro che un operaio o un impiegato abbiano frequentato in precedenza corsi di “attore” per inscenare contrasti simulati e beneficiare di un licenziamento da contrastare e validare poi in sede giudiziaria.
Seconda obiezione: le lungaggini processuali, nella mia
esperienza, sono spesso a tutto vantaggio delle aziende che realizzano transazioni al ribasso, per
stanchezza del lavoratore o pressione sul legale del ricorrente da parte del
magistrato (specie nel Sud) che non intende impegnarsi nella stesura di una
sentenza (seguo in Bari un giudizio contro il Banco di Napoli che è in primo
grado sin dal 1991 e ora il lavoratore ricorrente stremato, cui spetterebbe
quasi un miliardo, sta per accettare 300 milioni di vecchie lire che il
dissestato Banco
ancora non si decide a corrispondere per ritorsione a chi gli ha fatto causa per
l'invalidazione di un licenziamento da superamento del periodo di comporto
per malattia indotta dalle condizioni ambientali di lavoro ma che dispensa a
piene mani a coloro che vanno in pensione anticipata). Altro che "rischi letali" per le
aziende, nella maggior parte dei casi,
invero, lucrosi risparmi!
Da questa sua opinabilissima ed eccezionale esperienza, parte la
prima proposta: ridimensionare (o eliminare?) la misura dell’indennità
sostitutiva della reintegrazione ex art. 18 S.d.l. che – dice l’autore - «in
teoria sarà pure una bella cosa, giustificata da mille ragioni; in pratica è un
potente incentivo al contenzioso perché induce il lavoratore a tentare comunque
l’impugnazione del licenziamento anche quando ha tutti i torti o ha già trovato
un lavoro migliore». Ad essa si affianca la critica all’orientamento tanto
consolidato quanto correttissimo della Corte costituzionale e della Cassazione
che non esentano dalla sanzione della penale delle 5 mensilità i casi di
licenziamento ingiustificato, seguiti da “ravvedimento operoso” datoriale (come
altri lo qualificano), mediante il richiamo in servizio. Anche questa penale
sarebbe fuori luogo, nel caso specifico, ed andrebbe eliminata, in quanto
rientrerebbe, assieme ad altri aspetti oggetto di rilievo critico, tra le
condizioni non «compatibili con le esigenze produttive e di mercato, oltre a
rappresentare un eccesso di tutela rispetto agli interessi in gioco»:come
se il provvedimento di licenziamento irrogato fosse stata “acqua fresca” per il
lavoratore ed il datore di lavoro
potesse comunque e sempre “peccare”
fidando nell’assoluzione cattolica. Non si manca neppure di porre sotto critica
il c.d. “vezzo” di “favor operari” da parte dei magistrati di lasciare
indenni dalle spese legali – mediante compensazione – i lavoratori soccombenti;
anche questo incentiverebbe i lavoratori al contenzioso“facile”.
L’autore saltella poi tra considerazioni pseudo-progessiste (affermando che le aziende se si vogliono riproporre di licenziare non possono pretendere la fidelizzazione del lavoratore né la partecipazione a piani di azionariato e simili) e considerazioni regressive miste ad altre di senso comune [ora che il divieto di licenziamento ingiustificato è inserito nella Carta di Nizza, all’art. 30, l’autore si chiede se si possa tranquillamente dire che sia legittimo eliminare la tutela reale. Ma sul punto lo potrebbe, formalisticamente, tranquillizzare Tiraboschi - cfr. “la Repubblica” del 1 luglio 2002, p.8 – "supporter" delle tesi del libro bianco, spiegandogli (come ha fatto all'opinione pubblica) che Corte cost. n.46/2000 ha ritenuto che la garanzia contro il licenziamento ingiustificato sussiste egualmente anche con la soppressione dell’art. 18, ferma la permanente vigenza della l. n. 604/66, giacché una cosa sarebbero le garanzie contro il licenziamento ingiustificato comunque garantite dalla legge n. 604, un’altra quella delle conseguenze (risarcimento e/o reintegrazione ex art 18) che rientrerebbero, secondo Tiraboschi e la Corte, nella piena discrezionalità del legislatore ordinario].
Sai quanto gliene frega ai
lavoratori dei “distinguo formalistici” della Corte costituzionale,
nell'interpretazione conferitagli da Tiraboschi: come possono
ritenere equivalenti, dal lato sostanziale della tutela giuridica, la monetizzazione del licenziamento
e la reintegrazione nel posto di lavoro? Per la verità la Corte non ha
detto neppure questo: ha comunque, invero infelicemente, detto -
nell'ammettere il referendum abrogativo radicale dell'art. 18 - che la tutela
reale "non è l'unico possibile paradigma attuativo del principio
...del diritto al lavoro", realizzabile mediante il "temperamento al
potere di recesso del datore di lavoro" e che "tutela reale ex
art. 18 e tutela obbligatoria ex lege n. 108/1990...sono entrambe riconducibili
al presupposto della necessaria giustificazione del licenziamento".
"L'eventuale abrogazione della c.d. tutela reale avrebbe il solo effetto di
espungere uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al
lavoro...ma una volta rimosso l'art. 18 non verrebbe meno ogni tutela in materia
di licenziamenti illegittimi, in quanto resterebbe, comunque
nell'ordinamento...la tutela obbligatoria prevista dalla legge n. 604/'66, come
modificata dalla legge n. 108/'90, la cui tendenziale generalità deve essere
qui sottolineata". Essa legittima, dal lato della non collisione con i
principi costituzionali, sostanzialmente anche una "tutela
attenuata",- la cui unica permanenza sarebbe idonea a salvaguardare (in
modo evidentemente attenuato e deteriore) i lavoratori dal licenziamento
illegittimo o ingiustificato -, cioè una tutela di livello più basso cui
le OO.SS. ed i lavoratori non intendono essere in alternativa ricondotti tramite
la sottrazione della garanzia sostanzialisticamente più forte della
reintegrazione nel posto di lavoro in caso di accertato licenziamento
illegittimo (tutela di livello più alto).
Ma anche il nostro “cultore” ragiona per astrattezze e senza
senso della realtà,
giacché asserisce, con tono ipercritico che «intere generazioni di studiosi
di diritto del lavoro sono stati educati al culto dell’art. 18, visto come il
presupposto della effettività di ogni altro diritto riconosciuto al lavoratore.
A tutti noi è stato insegnato che,
nell’ambito di un rapporto precario, il lavoratore non è un uomo libero essendo
egli restio a rivendicare i suoi diritti per il comprensibile timore, appunto,
di perdere il lavoro. Lo stesso sistema della prescrizione dei crediti di
lavoro, com’è noto, è stato costruito su questo presupposto. Come
meravigliarsi, dunque, se oggi per gran parte del sindacato e della dottrina
giuslavoristica l’art. 18 sia un simbolo inattaccabile.
E contro i simboli e i miti, come si sa, non è facile combattere».
Quindi l’autore – data la difficoltà di abbattere
simboli e miti (che la sua prosa dimostra evidentemente non
condivisi) – si ripropone due obbiettivi minori:
a)
rendere possibile il licenziamento
giustificato, togliendo gli ostacoli (i c.d. “lacci e laccioli”) al
licenziamento obbiettivamente fondato, lasciando senza tutela «solo
l'interesse ad effettuare licenziamenti determinati non da esigenze oggettive dell’impresa, ma
da suoi capricci
personali del datore di lavoro; che è certamente un interesse legittimo e per
certi versi persino comprensibile (e perché mai?, semmai deprecabile,
n.d.r.) ma sicuramente
immeritevole di tutela pubblicistica…». L’autore continua sostenendo che
per attualizzare «la possibilità da parte dell’imprenditore di liberarsi
agevolmente di un lavoratore gravemente indisciplinato o superfluo ai fini
produttivi» - e a questo proposito
ci chiediamo
se
nel novero dei "superflui per la
produttività d'impresa" vada incluso anche il cagionevole di salute (e la puerpera)
come abbiamo letto anni addietro nella prosa di un altro autore! - i rimedi prospettati sarebbero tre: a1) ridefinizione tassativa
della nozione di giusta causa e giustificato motivo, viziate da genericità
nelle esemplificazioni contrattuali (forse l’autore ignora che la tassatività è
stata sempre traguardata dal sindacato e sempre osteggiata, per motivi di "mano
libera" per le aziende, dalle associazioni datoriali?); a2) accelerazione dei
processi (istituendo una "specie di art. 28" per l'esame d'urgenza anche per l’impugnativa del
licenziamento coperto dall’art. 18, il che ci trova consenzienti!) ed eliminazione immediata degli effetti
della pronuncia di primo grado; a3) eliminazione dei "«numerosi
incentivi al contenzioso offerti dalla legge o dalla giurisprudenza…» (tra
cui le sopracitate 5 mensilità di penale per il licenziamento irrogato e poi in breve termine ritirato per
“ravvedimento operoso”; nonché le 15 mensilità dell’opzione sostitutiva della
reintegra);
b)
«una volta adottati questi correttivi…più
che attenuare la stabilità, potrebbe essere utile dosarne l’intensità nel tempo intervenendo nella fase iniziale
del rapporto onde consentire una sorta di inserimento graduale del lavoratore
in azienda che diventerebbe definitivo solo dopo che il datore di lavoro abbia
potuto adeguatamente sperimentare il neo assunto sotto ogni profilo (anche
umano e morale). E’ questa del resto la soluzione che si è andata delineando
negli ultimi anni in virtù della generalizzazione dei contratti di formazione e
lavoro e, più di recente, dei contratti a termine». Ed a questo punto la
proposta “clou” di un’applicazione o individuazione – mediante iniziativa
discrezionale datoriale di “scrematura”
– dei lavoratori destinatari dell’art. 18.
Risulterebbero destinatari o beneficiari dell’art. 18 i dipendenti
(solo da aziende oltre gli attuali limiti dimensionali, non già tutti!) che
dopo essere stati neo-assunti abbiano superato indenni tre steps (una specie
di percorso ad ostacoli gestito, nella valutazione di merito, dalla piena discrezione datoriale):
b1) il periodo di prova (risolubile, come attualmente, senza preavviso o
indennità sostitutiva); b2) un secondo periodo in cui il datore di lavoro può
esercitare il recesso ad nutum ex art. 2118 (con pagamento del
preavviso); b3) un terzo periodo, in cui la risoluzione datoriale può avvenire
con monetizzazione (mera stabilità obbligatoria). Se riesce a superare questi
tre steps (gli ultimi due cumulativamente ipotizzati in un arco
temporale massimo di 2
anni, che con il periodo di prova fanno 2 anni e 3 mesi… di precariato e di
carenza di diritti!), il neo assunto
fruirà della stabilità reale garantita dall’art. 18, semprechè occupato
in quelle aziende che attualmente ne
sono ex art. 35 S.d.l. soggette. Invero non si capisce se a questi periodi si
possano o si debbano aggiungere gli eventuali 24 mesi dei CFL ed i mesi del
contratto a termine, o meglio non si capisce – una volta esclusane
ipoteticamente la compatibilità – che fine dovrebbero fare questi strumenti di
preesistente “flessibilità in entrata” dovuti alla sagacia dei più recenti e meno avveduti legislatori. E quindi il
proponente conclude: «Solo combinando in questo modo gli interventi…è forse
possibile pensare ancora di conservare nel nostro ordinamento il principio
della stabilità reale del rapporto di lavoro. Diversamente la trincea, se già
non lo è, diventerebbe in breve indifendibile» .
In un momento in cui neppure il governo di centro destra (con il massiccio appoggio della Confindustria e l’arrendevolezza di talune forze sindacali) ha “premuto” per un’abrogazione generalizzata dell’art.18, ma si è visto costretto a mascherare i limiti dell’acquisizione circoscritta, dietro la “sperimentabilità” triennale e la finalizzazione dichiarata all’incremento occupazionale ed all’emersione dal nero dei rapporti di lavoro – anche se si è conquistato subdolamente lo spazio di non applicabilità dell'art. 18 per le aziende di nuova costituzione o scorporate dalle Capogruppo, strutturate da neo (o pesudo-neo) assunti - la soprariferita proposta di una “gestione discrezionale aziendale”, per selezione o scrematura, dei destinatari dell’art. 18 è, secondo noi, fortemente reazionaria, regressiva e da respingere in toto.
Comunque
se non incontra, da un lato e per le ragioni sopra esposte, il nostro consenso,
neppure, dall'altro, la proposta avanzata incontrerebbe il favore di coloro che
reclamano l'abrogazione dell'art. 18, giacché non verrebbe tutelata la loro aspirazione a
disfarsi al momento più opportuno dei dipendenti divenuti consapevoli dei
propri diritti (trasformatisi, per l'azienda, in rivendicativi e
"riottosi"), in quanto la "deroga o franchigia"
dall'assoggettamento all'art. 18 per i primi 2-3 anni dall'assunzione (epoca in
cui si può, per varie ragioni, essere più miti e tolleranti verso abusi e
soprusi)
non costituisce alcuna garanzia di una invarianza comportamentale anche
per il periodo successivo, una volta stabilizzati. La mano libera - chi la vuole
- la vuole a tempo indeterminato, per tutta la vita lavorativa del
dipendente, non a termine!
E’ un articolo che non
vorremmo aver letto, né lo salvano le pochissime considerazioni condivisibili
che in esso si possono anche qua e là reperire.
Si dà per scontata la soppressione tendenziale dell’art. 18, quando
invece alcune forze sindacali (e politiche) si ripropongono il ricorso al
referendum “abrogativo” della legge che darà applicazione alle norme sul punto (all. 2) del Patto
per l’ Italia del 5 luglio
e a d.d.l. estensivi
dell’art. 18 (a chi attualmente non ne fruisce) e quando da altre parti si ventila addirittura il
referendum abrogativo indirettamente
“ampliativo”, volto ad eliminare l’art. 35 dello Statuto dei lavoratori che
contempla gli attuali vincoli dimensionali, in modo da estendere - per tal via -
a tutti i
lavoratori la tutela reale garantita dall’art. 18. Chi scrive ritiene che la prospettazione sopra criticata non vada
nella direzione del salvataggio di alcunché, semmai spiana la strada per la gestione "su misura" o quanto meno
incondivisibilmente discrezionalissima dell’art. 18 da parte dei titolari e i
gestori d’azienda (con ampi spazi per il clientelismo, il nepotismo e simili,
sempre deprecato a parole e mai combattuto in concreto) . Articolo 18 che, all'opposto, è nato per approntare un
diritto di effettività di tutela (auspicabilmente) per tutti, comunque
allo stato non generalizzato per esclusioni dimensionali oggettive,
ma certamente insuscettibile ed alieno dall' essere
oggetto di dispensa o conferimento soggettivo, discrezionale o selettivo “intuitu
personae” (come avviene in azienda per i superminimi e/o gli aumenti di merito ed,
ancor peggio, per le promozioni elargite ai sodali di cordata o a quelli che per
"disponibilità" e "buon comando" aspirino a farne
parte).
Roma, 29 luglio 2002
Mario Meucci
(Ritorna
all'elenco Articoli
nel sito)