Trib. Torino, sez. lav. 1° grado, 30 dicembre 1999, in tema di mobbing
Trib. Torino, sez. lav. 1° grado, 30 dicembre 1999 (ud. 11 novembre 1999) - Est. Ciocchetti – Stomeo (avv. Moi) c. Ziliani S.p.A. (avv. De Pasquale, De Bernardi di Valserra)
Rapporto di lavoro – Invito a rassegnare le
dimissioni da parte del titolare dell’azienda – Induzione di malattia a sfondo
depressivo reattivo, assunzione di altra lavoratrice a tempo indeterminato in
sua sostituzione, assegnazione al rientro dalla malattia mansioni
dequalificate, seguita dalle conseguenti dimissioni – Fattispecie di mobbing – Responsabilità del datore di lavoro ex
art. 2087 c.c. – Risarcimento di danno biologico e professionale – Spettanza e
liquidazione equitativa.
Il
“mobbing” (dal verbo inglese “to mob”, attaccare, assalire), designante in
etologia il comportamento di alcune specie di animali, solite circondare
minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo, è riscontrabile nelle
aziende quando si versa in presenza di ripetuti soprusi da parte dei superiori
ed, in particolare, di pratiche dirette ad isolare il dipendente dall’ambiente
di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è
quello di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore,
menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando
catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio.
Attualizza
il fenomeno del “mobbing” l’invito del titolare dell’azienda ad una
lavoratrice di rassegnare le dimissioni
– per ritorsione al fatto che il convivente, anch’esso in precedenza dipendente
dell’azienda, si è impiegato in azienda
concorrente – invito produttivo e
scatenante nella lavoratrice prolungata sindrome depressiva reattiva,
accompagnata, durante la malattia, dall’assunzione di sostituta a tempo
indeterminanto nelle di lei mansioni nonché dall’assegnazione (al rientro dalla
malattia) ad incombenze diverse e dequalificate, con il conseguente effetto di
indurne le richieste dimissioni .
L’art.
32 della Costituzione e la legge
ordinaria, nell’art. 2087 c.c., tutelano tutti indistintamente i
cittadini/lavoratori, siano essi forti e capaci di resistere alle
prevaricazioni o siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a
soccombere. Sul datore di lavoro, riconosciuto responsabile di un comportamento
afflittivo a carico della lavoratrice, grava pertanto l’obbligo del risarcimento
sia del danno biologico sia di quello
da dequalificazione professionale da essa sofferto, liquidabili
congiuntamente ed equitativamente in 10
milioni, più interessi legali e trasmissione degli atti di causa alla Procura
della Repubblica per le valutazioni e le eventuali iniziative del caso in
relazione a quanto accertato in corso di giudizio (1).
Con ricorso depositato in cancelleria il 1°
giugno 1999 la sig.ra Stomeo Maria Rosi – già dipendente della S.p.A. Ziliani
dal 25.2.1991 al 30.9.1998, con inquadramento in V categoria, livello C1, e
mansioni impiegatizie – chiede al giudice del lavoro di condannare il datore al
pagamento in proprio favore della somma di L. 30.000.000= o di quella da
determinare in corso di causa, se del caso anche in via equitativa, a titolo di
risarcimento del danno alla professionalità e di danno biologico patiti, oltre
accessori di legge.
A fondamento di tale domanda osserva quanto
segue :
1.
verso metà luglio 1997 viene convocata dal presidente della
soc. Ziliani per un colloquio, nel corso del quale è invitata a rassegnare le
proprie dimissioni,
2.
la ragione di tale illegittima richiesta è rappresentata dal
passaggio ad una società concorrente della Ziliani del proprio convivente, sig.
Luvielmo Gianni, già dipendente di tale ultima società e dimessosi dalla stessa
nel gennaio 1997,
3.
tale colloquio la turba così profondamente da cagionarle un
grave stato di crisi psicologica, accompagnato da significativi disturbi
fisici, da rendere in pari tempo necessario il ricorso ad un neurologo e infine
da comportare un’assenza per malattia, protrattasi sino all’1.12.1997,
4.
nel settembre 1997 e cioè nel periodo della propria assenza
dal lavoro, il datore intraprende la ricerca e selezione di una lavoratrice,
poi individuata nella sig.ra Bianciotti Cristina, da utilizzare come assistente
commercio estero e nelle stesse mansioni da lei in antecedenza svolte :
contatti e gestione clienti stranieri, corrispondenza con l’estero, traduzione
di normative e cataloghi tecnici, redazione in lingua straniera di documenti
tecnici e non, interprete,
5.
alla ripresa del lavoro (1.12.1997) viene trasferita dagli
uffici amministrativi al magazzino e qui adibita a compiti di assistente,
decisamente dequalificanti rispetto al livello di professionalità acquisita e
tali da comportare un degrado della propria immagine di fronte ai colleghi di
lavoro,
6.
in tale nuova veste cessa infatti di fare uso delle lingue
straniere conosciute, di intrattenere relazioni professionali con terzi
estraneo all’azienda, di operare con autonomia,
7.
il 31.9.1998 decide allora di rassegnare le proprie
dimissioni e di intraprendere una nuova attività lavorativa, al fine di evitare
il definitivo ed irreversibile depauperamento della propria professionalità,
8.
solo a distanza di 11 mesi riesce però a reperire una nuova
occupazione, non adeguata alla professionalità conseguita e con un contratto in
prova, risoltosi dopo 2 mesi di lavoro,
9.
attualmente è ancora alla ricerca di una nuova occupazione,
confacente alle proprie capacità professionali.
Parte convenuta si costituisce in giudizio e
contesta la pretesa azionata in causa, ritenendola del tutto destituita di
fondamento.
Osserva
in proposito quanto segue :
1.
la ricorrente ha operato in azienda in compiti privi di
autonomia e, in particolare, quale segretaria addetta alla corrispondenza, pur
effettuando talora la traduzio-ne di alcuni testi e fungendo saltuariamente da
interprete,
2.
l’assunzione della sig.ra Cristina Bianciotti è stata
determinata dall’esigenza di reclutare un responsabile delle vendite con
l’estero, disposto a frequenti viaggi in paesi stranieri ed in possesso di
elevata qualificazione, oltre che del diploma di laurea,
3.
il presidente della soc. Ziliani non ha mai preteso che la
ricorrente rassegnasse le dimissioni né ha mai avuto ragione di pretenderlo,
svolgendo il sig. Luvielmo, convivente della ricorrente e già dipendente della
convenuta, compiti di addetto alla sicurezza presso alcuni locali notturni,
dopo le dimissoni dall’azienda,
4.
il trasferimento della ricorrente al nuovo incarico è
avvenuto nel rispetto delle pregresse mansioni nonché dell’inquadramento
contrattuale di appartenenza (gruppo 1, livello C).
Fallita la conciliazione, il giudice dà
corso all’istruttoria, interrogando le parti ed escutendo i testi, ivi compreso
il sig. Luvielmo, non ravvisando il profilo di inammissibilità indicato dalla
convenuta (non essere questi più in azienda dal 28.1.1997) né comunque
situazioni di incapacità ex art. 246 c.p.c. (1).
All’esito dell’istruttoria, la causa viene
discussa dai patroni delle parti.
In tale sede i difensori della parti
ribadiscono l’istanza, già formulata in corso di causa (2), di consulenza
medico-legale, al fine di chiarire eziologia, natura e gravità della patologia
lamentata dalla ricorrente (3).
Dopo la discussione orale, la vertenza viene
infine decisa, come da dispositivo trascritto in calce alla presente sentenza,
di cui il giudice dà pronta lettura alle parti.
MOTIVI DELLA
DECISIONE
1.
Sul mobbing in
azienda.
Prima di addentrarci nell’esame delle
questioni specifiche di causa, occorre dare conto – ai sensi del 2° comma
dell’art. 115 cpc e, quindi, nel quadro delle circostanze appartenenti al “fatto notorio”, “acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere
dimostrazione alcuna in giudizio”(4) – di alcuni profili direttamente
evocati dalla vicenda prospettata in ricorso.
Da alcuni anni gli psicologi, gli
psichiatri, i medici del lavoro, i sociologi e più in generale coloro che si
occupano di studiare il sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici
ed i suoi riflessi sulla vita del lavoratore, ne hanno individuato alcune gravi
e reiterate distorsioni, capaci di incidere pesantemente sulla salute
individuale.
Si tratta di un fenomeno ormai internazionalmente
noto come mobbing.
Il termine, proveniente dalla lingua inglese
e dal verbo to mob [attaccare, assalire] e mediato dall’etologia, si riferisce al comportamento di
alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo
per allontanarlo.
Spesso nelle aziende accade qualcosa di
simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei
superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti
pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad
espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio
psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se
stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio(5).
Il fenomeno ha ormai assunto, a seguito
delle denunce di numerosi esperti di settore (medici, sociologi ecc.) e delle
stesse vittime, proporzioni senza dubbio rilevanti, così da coinvolgere,
secondo la stima di un autorevole settimanale francese, in ogni paese europeo,
percentuali non indifferenti di lavoratori (v. oltre, tavola I, - omessa, n.d.r. -).
In base a tale stima, oltre il 4%
dell’intera forza lavoro occupata in Italia è attualmente oggetto di pratiche
di mobbing.
Inoltre, secondo il Centro di disadattamento della prestigiosa Clinica del lavoro
“Luigi Devoto” di Milano, che al tema del mobbing
a fine febbraio 1999 ha dedicato un seminario nazionale, ogni dipendente ha il
25% di possibilità di trovarsi, nel corso della propria esperienza
professionale, in tali condizioni, mentre il 10% dei casi di suicidio presenta
come concausa una situazione di terrorismo psicologico sul posto di lavoro (6).
* *
* * *
2. Sulla
richiesta di Ctu medico-legale.
Fatta questa doverosa premessa,
assolutamente indispensabile al fine di inquadrare correttamente le
problematiche di causa nel contesto lavorativo e nel sistema di relazioni
endo-aziendali attualmente esistenti, i quale conoscono e registrano con una
certa frequenza pratiche di violenza morale e di terrorismo nei posti di
lavoro, passiamo ad esaminare il caso oggetto di causa.
In sede di discussione finale della vertenza
i difensori delle parti ribadiscono l’istanza,
già formulata in
corso di causa, di consulenza medico-legale, al fine
di chiarire eziologia, natura e gravità della patologia lamentata dalla
ricorrente (7).
Ad avviso del giudice non vi è ragione di
dare corso all’adempimento richiesto, essendo l’accertamento peritale, nel caso
in esame, del tutto superfluo.
Gli elementi raccolti in sede istruttoria,
come si vedrà nel prosieguo, risultano infatti di portata tale da consentire la
definizione di ogni profilo della vertenza, sia per quanto concerne la
sussistenza o meno del fatto lamentato dalla lavoratrice sia per ciò che
attiene alla determinazione dell’entità del danno eventualmente patito, che
esige ristoro.
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* * *
3. Sui
fatti di causa.
L’istruttoria esperita in corso di causa ha
consentito di accertare quanto segue.
Nel gennaio 1997 il sig. Luvielmo Gianni,
convivente della ricorrente e dal 1989 dipendente della società convenuta, si
dimette volontariamente dal servizio e in pari tempo rende noto in azienda che
di lì a poco sarà assunto da altro datore, ma in compiti totalmente diversi da
quelli in antecedenza esplicati presso la soc. Ziliani e cioè attinenti la
sicurezza (8).
La circostanza riferita in azienda dal
diretto interessato non è però rispondente al vero, in quanto egli è in
trattative con la soc. Aries, concorrente della società convenuta, per
un’assunzione con compiti di un certo rilievo, come in effetti avviene poi in
concreto (9). Il sig. Luvielmo è spinto a tale singolare contegno, e cioè a
tenere celato in Ziliani il vero nome del nuovo datore, dall’esigenza di
salvaguardare il lavoro della ricorrente e in particolare il posto fino a quel
momento ricoperto dalla stessa, essendo egli visibilmente preoccupato di
possibili ritorsioni datoriali nei confronti della convivente, correlate alla
propria nuova collocazione lavorativa, come del resto avvenuto in circostanze
similari ai danni di altri dipendenti, stando almeno ad alcune voci raccolte in
azienda (10).
Successivamente, nel luglio 1997, la
ricorrente viene convocata per un colloquio dal presidente della soc. Ziliani,
il quale la sollecita a rassegnare le dimissioni e le preannuncia che, in
difetto, non potendo più essere mantenuta nell’incarico in antecedenza occupato
presso l’amministrativo centrale, sarebbe stata spostata in altro comparto
aziendale (11).
La ragione di tale invito e annuncio è
costituita dall’avere il presidente della Ziliani appreso, in circostanze
verosimilmente fortuite (12), che il sig. Luvielmo si è dimesso dal servizio
non per operare nell’ambito della sicurezza, come lasciato intendere, ma per
divenire dipendente della soc. Aries e cioè di una concorrente della convenuta.
Il colloquio con il presidente della soc.
Ziliani turba e preoccupa così profondamente la ricorrente, da mutare nel
successivo torno di tempo il corso regolare della sua esistenza.
Dopo tale episodio, infatti, la lavoratrice
Ø deve fare ricorso prima al medico di famiglia e poi, su
indicazione e sollecitazione di questo, ad un neurologo,
Ø presenta uno stato patologico acuto, diagnosticato dal
medico di famiglia e dal neurologo come “sindrome
ansioso-depressiva reattiva”, stato accompagnato da labilità emotiva,
nervosismo, insonnia, inappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di
pianto,
Ø deve fare ricorso ad una terapia farmacologica costituita da
ansiolitici, antidepressivi e disintossicanti,
Ø deve assentarsi per malattia, in concomitanza con lo
sviluppo della fase acuta di tale patologia, malattia protrattasi sino agli
inizi di dicembre 1997.
Di ciò fanno fede, in modo assolutamente
convergente, la deposizione del sig. Luvielmo (13) nonché le dichiarazioni e
certificazioni in atti del medico di base (14) e del neurologo
(15) che
all’epoca l’hanno visitata; dalle quali emerge anche che la lavoratrice non ha
mai sofferto in antecedenza di tali disturbi e stati patologici e che fino
all’inizio dell’estate 1997 la sua vita sia in ambito lavorativo che in ambito
familiare è stata serena e si è svolta in modo del tutto normale e regolare (16).
La situazione patologia sopra descritta si
protrae anche nel corso del 1998 e, dopo un primo significativo miglioramento
registratosi nell’ottobre 1998, in concomitanza con la cessazione della
collaborazione lavorativa (17), si risolve definitivamente nel gennaio 1999 o
in data anteriore e prossima a tale data (18).
L’istruttoria esperita in corso di causa ha,
in pari tempo, fornito anche due ulteriori risultanze, di indubbio significato
e rilievo ai fini della decisione della causa.
Prima. In data 10.11.1997 (19),
mentre la ricorrente si trova in malattia, la convenuta assume altra
dipendente, con contratto a tempo indeterminato ed inquadramento iniziale
identico a quello della ricorrente (livello C, gruppo 1) (20), utilizzata in
compiti di assistente al commercio estero e quindi in mansioni per buona parte
già svolte dalla ricorrente medesima, tra cui la gestione dei clienti
stranieri, la corrispondenza con l’estero in lingua francese, inglese, tedesco,
spagnolo, la traduzione di capitolati dal tedesco in italiano, il lavoro di
interprete (21).
Seconda. In data 1.12.1997, alla
ripresa del lavoro, la ricorrente viene trasferita dagli uffici amministrativi
al magazzino e qui adibita a mansioni meramente esecutive di assistente,
consistenti nell’emissione delle bolle di accompagnamento in uscita, nel
controllo degli inventari e nel caricamento a terminale delle bolle in entrata
(22). Cessa in tal modo di fare uso delle lingue straniere conosciute e di
intrattenere relazioni professionali con clienti esteri (23).
Orbene, in base agli accertamenti e alle
risultanze di cui si è in antecedenza dato conto, può ritenersi fornita la
prova – innanzi tutto – del nesso di causalità tra la patologia insorta
improvvisamente nella lavoratrice e l’ambiente di lavoro. Del che deve
indubbiamente essere chiamata a rispondere la società datrice di lavoro, ai
sensi dell’art. 2087 c.c., essendo la medesima tenuta a garantire l’integrità
fisio-psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire contegni aggressivi
e vessatori dei responsabili nei confronti di quelli.
Né quanto accaduto alla ricorrente potrebbe
ritenersi frutto, nel caso di specie,
di un tratto peculiare del suo carattere e cioè di una particolare
emotività della stessa; così da spiegare in base a tale solo dato quanto
accadutole sul piano personale.
Stando infatti alle deposizioni, concordi in
punto, del convivente della lavoratrice (24) e di un collega di lavoro dell’epoca
(25), la ricorrente non ha mai manifestato, prima dei fatti di causa, alcuna
debolezza o cedevolezza sul piano emotivo e comportamentale.
Nel
caso in esame non potrebbe conseguentemente prospettarsi – in riferimento alla
previsione di cui ai commi 2° e 3°, dell’art. 41 c.p. e argomentando da essa –
un’ipotesi di esclusione del nesso di causalità, per la preesistenza di causa
efficiente autonoma, capace da sola di generare l’evento lesivo.
A ciò aggiungasi che se anche si volesse
ammettere per ipotesi che, come vittima dell’altrui condotta ingiusta, la
lavoratrice ha reagito in modo del tutto singolare ed estremo, e cioè con
profondo turbamento, così profondo da generare in lei l’insorgenza di una
sindrome depressiva reattiva, ciò però è cosa che non modifica né la realtà
della prevaricazione né la posizione nella ricorrente di persona offesa da
essa.
La Carta Costituzionale, nel suo art. 32, e
la legge ordinaria, nell’art. 2087 c.c.,
tutelano infatti tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e
capaci di resistere alle prevaricazioni o siano viceversa più deboli e quindi
destinati anzitempo a soccombere.
Gli accertamenti e le risultanze di cui si è
detto in antecedenza comprovano inoltre che quanto preannunciato dal presidente
della soc. Ziliani, nel corso del colloquio avvenuto nel luglio 1997, come
alternativa punitiva rispetto alle dimissioni sollecitate dalla lavoratrice, si
è puntualmente avverato.
A far tempo dall’1.12.1997, data del rientro
della ricorrente in azienda dopo la malattia, e sino al 30.9.1998, data di
cessazione della medesima dal servizio, la lavoratrice viene infatti sollevata
dall’incarico precedente esplicato, nel frattempo attribuito ad una
neo-assunta, di iniziale pari livello contrattuale.
La ricorrente viene in pari tempo collocata
in un diverso comparto aziendale, senza l’esistenza di alcuna apprezzabile
ragione, del resto neppur dedotta in memoria e provata in causa.
Le vengono infine attribuiti compiti che,
benché rientranti astrattamente nell’inquadramento di appartenenza, come del
resto correttamente riconosciuto dalla stessa ricorrente in corso di causa (26),
assumono nella specie valenza del tutto dequalificante, avuto riguardo alla sua
storia lavorativa, alla professionalità acquisita nel corso del tempo e, infine,
all’indubbio livello di autonomia conseguito.
Si tratta di una deminutio assai grave di per se, in quanto costituisce violazione
dell’art. 2103 c.c., e destinata ad assumere un connotato ulteriore di gravità
se raccordata (come accennato sopra) all’episodio e colloquio del luglio 1997.
* *
* * *
4. Sul
ristoro del danno patito.
Accertata in base a quanto precede la
sussistenza di condotte antigiuridiche imputabili a fatto e colpa della società
datrice di lavoro, condotte produttive di danni, nella forma sia del danno
biologico sia di quello da dequalificazione, si tratta a questo punto di
determinare il quantum debeatur.
In proposito va osservato, quanto al danno
biologico, che non si versa in ipotesi di invalidità permanente, essendosi la
patologia insorta nella lavoratrice risolta quantomeno nel gennaio 1999 (27),
dopo un primo significativo miglioramento già registratosi nell’ottobre 1998,
in concomitanza con la cessazione della collaborazione lavorativa (28). A ciò
aggiungasi, quanto al danno da dequalificazione, che esso risulta temporalmente
circoscritto al periodo 1.12.1997-30.9.1998.
Tenuto conto di tali dati, alla ricorrente
viene equitativamente liquidato l’importo netto di L. 10.000.000=.
A ciò vanno aggiunti gli interessi legali
dall’ottobre 1998 al saldo, essendo gli accessori del credito in antecedenza
maturati, nel periodo compreso dall’insorgenza della patologia accertata in
causa sino alla risoluzione del rapporto, già conteggiati e cumulati nel
capitale sopra liquidato.
Le spese di lite, menzionate nel loro esatto
ammontare in dispositivo, vengono poste a carico della parte soccombente.
Si ritiene doveroso informare di quanto in
antecedenza accertato il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Torino, per le valutazioni che al medesimo competono. A tal fine la Cancelleria
dovrà trasmettere copia della presente sentenza a tale organo.
P.
Q. M.
Visto l’art. 429 c.p.c.;
- respinta la richiesta di CTU
medico-legale;
1.
CONDANNA parte
convenuta a corrispondere a parte ricorrente l’importo netto di L. 10.000.000=,
oltre interessi legali dall’ottobre 1998 al saldo;
2.
CONDANNA parte
convenuta a rifondere a parte ricorrente le spese di lite, che liquida in L. 6.000.000=,
oltre IVA e CPA;
3.
DICHIARA esecutiva
la presente sentenza.
Torino, 11
dicembre 1999.
1.
Cfr. proc. verb. p. 1.
2.
2. Cfr. proc. verb. p. 17.
3. Cfr. proc.
verb. p. 26.
4
E’ questa la
definizione del “fatto notorio” che
ricorre in numerose decisioni del Supremo Collegio. Vedi, da ultimo, Cass.,
28.3.1997, n. 2808.
5
Cfr. Il mobbing in Italia, Bologna, Pitagora
Editrice, 1997, p. 31 e ss.; La violenza
sul lavoro, in “Rassegna sindacale”,
20.10.1998, Supplemento; Molestie morali e
La fabbrica dei mostri, in “Il venerdì di Repubblica”, 19.2.1999,
p. 11; Come soffre! E’ un caso di
ordinario mobbing, in “L’Espresso”,
25.2.1999; Terrore nel posto di lavoro,
in “Rassegna sindacale”, n. 9
23.3.1999.
6. Cfr.
Come soffre! E’ un caso di ordinario
mobbing, cit., p. 167.
7.
Cfr. proc. verb.
pp. 17 e 26.
8.
Cfr. dep.
Luvielmo, p. 12; dep. Dutto, p. 9; memoria, p. 4.
9.
Cfr. dep. Luvielmo, p. 12.
10.
Cfr. dep. Luvielmo, pp. 12-13.
11.
Cfr. dep. Luvielmo, pp. 13-14. Ma v. anche interr. rappr. soc. convenuta, p. 7, ove si
riconosce che il colloquio del luglio 1997 tra la ricorrente ed il presidente
della soc. Ziliani ha avuto ad oggetto il preannuncio di una diversa
collocazione della lavoratrice in seno all’azienda e che in tale occasione il
sig. Ziliani ha effettivamente parlato
del convivente della lavoratrice : dati, questi, di indubbio rilievo e che
confermano indirettamente la veridicità in punto della deposizione resa in
giudizio dal sig. Luvielmo.
12.
Cfr. dep.
Luvielmo, p. 13; dep. Dutto, p. 9.
13.
Cfr. proc. verb., p. 14.
14.
Cfr. dep.
dott.ssa Mondazzi, p.19 e ss., nonché cartella clinica redatta della medesima e
acquisita al fascicolo d’ufficio all’udienza del 2.10.1999 (v. proc. verb., p.
19), in cui viene attestata l’esistenza di una “sindrome ansioso depressiva” a partire dal 19.8.1997.
15.
Cfr. dep. dott.
Amarù, p. 22 e ss., nonché certificato redatto dal medesimo in data 26.9.1997
(v. doc. n. 5 prod. parte ricorrente), in cui si attesta l’esistenza di una “sindrome depressiva reattiva”.
16.
Cfr. in
particolare dep. Luvielmo, p. 14; dep. Dutto, p. 10/11.
17.
Cfr. dep.
Luvielmo p. 14.
18.
Cfr. dep. dott.ssa Mondazzi, p. 19, e annotazioni sulla
cartella clinica dalla medesima redatta sub 19.12.1997 (ove si evidenzia il
perdurare di una “sindrome depressiva
reattiva con insonnia” e si formula prognosi di malattia sino al 5.1.1998)
e sub. 18.1.1999 (ove non si fa alcun cenno alla pregressa patologia).
19.
Cfr. copia libro
matricola, acquisita all’udienza dell’11.10.1999 (v. proc. verb., p. 24/25).
20.
Così dep. Gay, p.
17.
21.
Cfr. dep. Dutto,
p. 9; interr. rappr. soc. convenuta, p. 7; dep. Gay, pp. 15 e 16.
22.
Cfr. interr.
ricorrente, p. 3, incontestato in punto; dep. Luvielmo, p. 12.
23.
Cfr. dep. Gay, p.
16, da cui si evidenzia che, dopo il suo trasferimento in magazzino, la
ricorrente ha fatto un uso del tutto episodico della lingua straniera e cioè
nei brevi colloqui con gli autisti stranieri, colloqui del resto che già
svolgeva in antecedenza, allorché operava nel settore amministrativo.
24.
Cfr. dep. Luvielmo, p. 14.
25.
Cfr. dep. Dutto, p. 10/11.
26.
Cfr. proc. verb., p. 17.
27.
Cfr. dep.
dott.ssa Mondazzi, p. 19, e annotazioni
della cartella clinica dalla medesima redatta sub 19.12.1997 (ove si evidenzia
il perdurare di una “sindrome depressiva
reattiva con insonnia” e si formula prognosi di malattia sino al 5.1.1998)
e sub. 18.1.1999 (ove non si fa alcun cenno alla pregressa patologia).
28.
Cfr. dep.
Luvielmo p. 14.
Si tratta della seconda sentenza in tema di risarcimento del danno biologico da “mobbing”, argomento trattato dalla Rivista "Lavoro e Previdenza Oggi" negli articoli (ai quali si rinvia il lettore) di: L. Veneri, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, in Lavoro e Previdenza Oggi 1999, 1097 ed ivi 1115; M. Meucci, Considerazioni sul “mobbing” (ed analisi del disegno di legge n. 4265 del 13 ottobre 1999), ibidem 1999, 1953; P. Denari, La responsabilità diretta e personale nel danno da “mobbing”, ibidem 2000, fasc. 1, p.5. In giurisprudenza di merito, in senso perfettamente conforme e dello stesso estensore, cfr. Trib. Torino 16 novembre 1999, Erriquez c. Ergom Materie Plastiche in Lavoro e Previdenza Oggi, 2000, fasc. 1, p. 154.
Venendo
al merito della decisione sopra riportata, va fatto rilevare come la somma a
risarcimento del danno sia di tale esiguità da non costituire né adeguato
risarcimento al danno (gravissimo) delle dimissioni "indirette" o
"indotte" né possieda valenza dissuasiva della reiterazione del
comportamento illecito (mobbing o bossing). A parte l'attenuante per il
magistrato costituita dalla "misera" richiesta della difesa
dell'interessata (30 milioni) per cui il giudice non sarebbe potuto andare
"ultra petita", sembrerebbe che ci si sia accontentati (nel
caso di specie come nel precedente deciso dallo stesso magistrato in data
16.11.199) di statuire affermazioni di principio indubitabilmente nuove e
progressiste nel piatto panorama giurisprudenziale italiano, ma che restano
"per chi scrive e per chi subisce" deludenti, se non si
"sanziona" significativamente il vessatore - con l'infliggere (rectius,
addossare), nell'ambito dell'esercizio del potere equitativo giudiziale ex art.
1226 c.c., aggravi economici sostanziosi in forma di risarcimento danno,
necessariamente diversificati in ragione anche della capitalizzazione aziendale, tenendo presente in
via analogica il principio penalistico (ex art. 26, 2 co., c.p. nel
vecchio testo) della maggiorazione della
"sanzione" per colui al quale la misura massima edittale possa risultare
indifferente per le condizioni economiche del reo (cfr. art. 38 l. n. 300/70)
- e non si ristora, per tal via, correlativamente in maniera adeguata e realistica
il danneggiato (come fanno i colleghi negli ordinamenti anglo-americani). Tutti
noi abbiamo sott'occhio aziende di credito, multinazionali, grandi compagnie di
assicurazione e potentissime industrie nazionali - in cui il mobbing
e la dequalificazione ha preso piede come strategia di sfrondamento e
riduzione del personale - alle quali i risarcimenti di danno ai mobbizzati
(indirettamente sanzionatori civilisticamente dell'illecito comportamento
datoriale) dell'entità economica riscontrata in sentenza, vengono assorbiti -
pur di espellere lavoratori scomodi ed indesiderati o in età avanzata -
senza batter ciglio e senza, come si usa dire, che si faccia ad esse
neppure il "solletico" e vivaddio quasi "auspicati" in
quanto possono sottrarsi, con le dimissioni indotte e grazie all'avarizia (tutta
italiana) che caratterizza il risarcimento equitativo dei nostri
magistrati, ai rischi della tutela reale (e agli indennizzi per la tutela
obbligatoria) del licenziamento ingiustificato.
Mario Meucci
Roma,
10 dicembre 2001
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Sezione Mobbing)