Trib. Torino, sez. lav. 1° grado,  30 dicembre 1999, in tema di mobbing

 

Trib. Torino, sez. lav. 1° grado,  30 dicembre 1999 (ud. 11 novembre 1999)  - Est. Ciocchetti – Stomeo (avv. Moi) c. Ziliani S.p.A. (avv. De Pasquale, De Bernardi di Valserra)

 

Rapporto di lavoro – Invito a rassegnare le dimissioni da parte del titolare dell’azienda – Induzione di malattia a sfondo depressivo reattivo, assunzione di altra lavoratrice a tempo indeterminato in sua sostituzione, assegnazione al rientro dalla malattia mansioni dequalificate, seguita dalle conseguenti dimissioni –  Fattispecie di mobbing – Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. – Risarcimento di danno biologico e professionale – Spettanza e liquidazione equitativa.

 

Il “mobbing” (dal verbo inglese “to mob”, attaccare, assalire), designante in etologia il comportamento di alcune specie di animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo, è riscontrabile nelle aziende quando si versa in presenza di ripetuti soprusi da parte dei superiori ed, in particolare, di pratiche dirette ad isolare il dipendente dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è quello di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio.

Attualizza il fenomeno del “mobbing” l’invito del titolare dell’azienda ad una lavoratrice  di rassegnare le dimissioni – per ritorsione al fatto che il convivente, anch’esso in precedenza dipendente dell’azienda,  si è impiegato in azienda concorrente – invito produttivo e  scatenante nella lavoratrice prolungata sindrome depressiva reattiva, accompagnata, durante la malattia, dall’assunzione di sostituta a tempo indeterminanto nelle di lei mansioni nonché dall’assegnazione (al rientro dalla malattia) ad incombenze diverse e dequalificate, con il conseguente effetto di indurne  le richieste dimissioni .

L’art. 32 della Costituzione  e la legge ordinaria, nell’art. 2087 c.c., tutelano tutti indistintamente i cittadini/lavoratori, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni o siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere. Sul datore di lavoro, riconosciuto responsabile di un comportamento afflittivo a carico della lavoratrice, grava pertanto  l’obbligo del risarcimento  sia del danno biologico sia di quello  da dequalificazione professionale da essa sofferto, liquidabili congiuntamente ed  equitativamente in 10 milioni, più interessi legali e trasmissione degli atti di causa alla Procura della Repubblica per le valutazioni e le eventuali iniziative del caso in relazione a quanto accertato in corso di giudizio (1).

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

    Con ricorso depositato in cancelleria il 1° giugno 1999 la sig.ra Stomeo Maria Rosi – già dipendente della S.p.A. Ziliani dal 25.2.1991 al 30.9.1998, con inquadramento in V categoria, livello C1, e mansioni impiegatizie – chiede al giudice del lavoro di condannare il datore al pagamento in proprio favore della somma di L. 30.000.000= o di quella da determinare in corso di causa, se del caso anche in via equitativa, a titolo di risarcimento del danno alla professionalità e di danno biologico patiti, oltre accessori di legge.

    A fondamento di tale domanda osserva quanto segue :

1.  verso metà luglio 1997 viene convocata dal presidente della soc. Ziliani per un colloquio, nel corso del quale è invitata a rassegnare le proprie dimissioni,

2.  la ragione di tale illegittima richiesta è rappresentata dal passaggio ad una società concorrente della Ziliani del proprio convivente, sig. Luvielmo Gianni, già dipendente di tale ultima società e dimessosi dalla stessa nel gennaio 1997,

3.  tale colloquio la turba così profondamente da cagionarle un grave stato di crisi psicologica, accompagnato da significativi disturbi fisici, da rendere in pari tempo necessario il ricorso ad un neurologo e infine da comportare un’assenza per malattia, protrattasi sino all’1.12.1997,

4.  nel settembre 1997 e cioè nel periodo della propria assenza dal lavoro, il datore intraprende la ricerca e selezione di una lavoratrice, poi individuata nella sig.ra Bianciotti Cristina, da utilizzare come assistente commercio estero e nelle stesse mansioni da lei in antecedenza svolte : contatti e gestione clienti stranieri, corrispondenza con l’estero, traduzione di normative e cataloghi tecnici, redazione in lingua straniera di documenti tecnici e non, interprete,

5.  alla ripresa del lavoro (1.12.1997) viene trasferita dagli uffici amministrativi al magazzino e qui adibita a compiti di assistente, decisamente dequalificanti rispetto al livello di professionalità acquisita e tali da comportare un degrado della propria immagine di fronte ai colleghi di lavoro,

6.  in tale nuova veste cessa infatti di fare uso delle lingue straniere conosciute, di intrattenere relazioni professionali con terzi estraneo all’azienda, di operare con autonomia,

7.  il 31.9.1998 decide allora di rassegnare le proprie dimissioni e di intraprendere una nuova attività lavorativa, al fine di evitare il definitivo ed irreversibile depauperamento della propria professionalità,

8.  solo a distanza di 11 mesi riesce però a reperire una nuova occupazione, non adeguata alla professionalità conseguita e con un contratto in prova, risoltosi dopo 2 mesi di lavoro,

9.  attualmente è ancora alla ricerca di una nuova occupazione, confacente alle proprie capacità professionali.

    Parte convenuta si costituisce in giudizio e contesta la pretesa azionata in causa, ritenendola del tutto destituita di fondamento.

         Osserva in proposito quanto segue :

1.  la ricorrente ha operato in azienda in compiti privi di autonomia e, in particolare, quale segretaria addetta alla corrispondenza, pur effettuando talora la traduzio-ne di alcuni testi e fungendo saltuariamente da interprete,

2.  l’assunzione della sig.ra Cristina Bianciotti è stata determinata dall’esigenza di reclutare un responsabile delle vendite con l’estero, disposto a frequenti viaggi in paesi stranieri ed in possesso di elevata qualificazione, oltre che del diploma di laurea,

3.  il presidente della soc. Ziliani non ha mai preteso che la ricorrente rassegnasse le dimissioni né ha mai avuto ragione di pretenderlo, svolgendo il sig. Luvielmo, convivente della ricorrente e già dipendente della convenuta, compiti di addetto alla sicurezza presso alcuni locali notturni, dopo le dimissoni dall’azienda,

4.  il trasferimento della ricorrente al nuovo incarico è avvenuto nel rispetto delle pregresse mansioni nonché dell’inquadramento contrattuale di appartenenza (gruppo 1, livello C).

    Fallita la conciliazione, il giudice dà corso all’istruttoria, interrogando le parti ed escutendo i testi, ivi compreso il sig. Luvielmo, non ravvisando il profilo di inammissibilità indicato dalla convenuta (non essere questi più in azienda dal 28.1.1997) né comunque situazioni di incapacità ex art. 246 c.p.c. (1).

    All’esito dell’istruttoria, la causa viene discussa dai patroni delle parti.

    In tale sede i difensori della parti ribadiscono l’istanza, già formulata in corso di causa (2), di consulenza medico-legale, al fine di chiarire eziologia, natura e gravità della patologia lamentata dalla ricorrente (3).

    Dopo la discussione orale, la vertenza viene infine decisa, come da dispositivo trascritto in calce alla presente sentenza, di cui il giudice dà pronta lettura alle parti.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.              Sul mobbing in azienda.

    Prima di addentrarci nell’esame delle questioni specifiche di causa, occorre dare conto – ai sensi del 2° comma dell’art. 115 cpc e, quindi, nel quadro delle circostanze appartenenti al “fatto notorio”, “acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in giudizio”(4) – di alcuni profili direttamente evocati dalla vicenda prospettata in ricorso.

    Da alcuni anni gli psicologi, gli psichiatri, i medici del lavoro, i sociologi e più in generale coloro che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici ed i suoi riflessi sulla vita del lavoratore, ne hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni, capaci di incidere pesantemente sulla salute individuale.

    Si tratta di un fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing.

    Il termine, proveniente dalla lingua inglese e dal verbo to mob [attaccare, assalire] e mediato dall’etologia, si riferisce al comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo.

    Spesso nelle aziende accade qualcosa di simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio(5).

    Il fenomeno ha ormai assunto, a seguito delle denunce di numerosi esperti di settore (medici, sociologi ecc.) e delle stesse vittime, proporzioni senza dubbio rilevanti, così da coinvolgere, secondo la stima di un autorevole settimanale francese, in ogni paese europeo, percentuali non indifferenti di lavoratori (v. oltre, tavola I,  - omessa, n.d.r. -). 

    In base a tale stima, oltre il 4% dell’intera forza lavoro occupata in Italia è attualmente oggetto di pratiche di mobbing.

    Inoltre, secondo il Centro di disadattamento della prestigiosa Clinica del lavoro “Luigi Devoto” di Milano, che al tema del mobbing a fine febbraio 1999 ha dedicato un seminario nazionale, ogni dipendente ha il 25% di possibilità di trovarsi, nel corso della propria esperienza professionale, in tali condizioni, mentre il 10% dei casi di suicidio presenta come concausa una situazione di terrorismo psicologico sul posto di lavoro (6).

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2. Sulla richiesta di Ctu medico-legale.

    Fatta questa doverosa premessa, assolutamente indispensabile al fine di inquadrare correttamente le problematiche di causa nel contesto lavorativo e nel sistema di relazioni endo-aziendali attualmente esistenti, i quale conoscono e registrano con una certa frequenza pratiche di violenza morale e di terrorismo nei posti di lavoro, passiamo ad esaminare il caso oggetto di causa.

    In sede di discussione finale della vertenza i difensori delle parti ribadiscono l’istanza,  già  formulata  in  corso  di  causa, di consulenza medico-legale, al fine di chiarire eziologia, natura e gravità della patologia lamentata dalla ricorrente (7).

    Ad avviso del giudice non vi è ragione di dare corso all’adempimento richiesto, essendo l’accertamento peritale, nel caso in esame, del tutto superfluo.

    Gli elementi raccolti in sede istruttoria, come si vedrà nel prosieguo, risultano infatti di portata tale da consentire la definizione di ogni profilo della vertenza, sia per quanto concerne la sussistenza o meno del fatto lamentato dalla lavoratrice sia per ciò che attiene alla determinazione dell’entità del danno eventualmente patito, che esige ristoro.

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3. Sui fatti di causa.

    L’istruttoria esperita in corso di causa ha consentito di accertare quanto segue.

    Nel gennaio 1997 il sig. Luvielmo Gianni, convivente della ricorrente e dal 1989 dipendente della società convenuta, si dimette volontariamente dal servizio e in pari tempo rende noto in azienda che di lì a poco sarà assunto da altro datore, ma in compiti totalmente diversi da quelli in antecedenza esplicati presso la soc. Ziliani e cioè attinenti la sicurezza (8).

    La circostanza riferita in azienda dal diretto interessato non è però rispondente al vero, in quanto egli è in trattative con la soc. Aries, concorrente della società convenuta, per un’assunzione con compiti di un certo rilievo, come in effetti avviene poi in concreto (9). Il sig. Luvielmo è spinto a tale singolare contegno, e cioè a tenere celato in Ziliani il vero nome del nuovo datore, dall’esigenza di salvaguardare il lavoro della ricorrente e in particolare il posto fino a quel momento ricoperto dalla stessa, essendo egli visibilmente preoccupato di possibili ritorsioni datoriali nei confronti della convivente, correlate alla propria nuova collocazione lavorativa, come del resto avvenuto in circostanze similari ai danni di altri dipendenti, stando almeno ad alcune voci raccolte in azienda (10).

    Successivamente, nel luglio 1997, la ricorrente viene convocata per un colloquio dal presidente della soc. Ziliani, il quale la sollecita a rassegnare le dimissioni e le preannuncia che, in difetto, non potendo più essere mantenuta nell’incarico in antecedenza occupato presso l’amministrativo centrale, sarebbe stata spostata in altro comparto aziendale (11).

    La ragione di tale invito e annuncio è costituita dall’avere il presidente della Ziliani appreso, in circostanze verosimilmente fortuite (12), che il sig. Luvielmo si è dimesso dal servizio non per operare nell’ambito della sicurezza, come lasciato intendere, ma per divenire dipendente della soc. Aries e cioè di una  concorrente della convenuta.

    Il colloquio con il presidente della soc. Ziliani turba e preoccupa così profondamente la ricorrente, da mutare nel successivo torno di tempo il corso regolare della sua esistenza.

    Dopo tale episodio, infatti, la lavoratrice

Ø deve fare ricorso prima al medico di famiglia e poi, su indicazione e sollecitazione di questo, ad un neurologo,

Ø presenta uno stato patologico acuto, diagnosticato dal medico di famiglia e dal neurologo come “sindrome ansioso-depressiva reattiva”, stato accompagnato da labilità emotiva, nervosismo, insonnia, inappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di pianto,

Ø deve fare ricorso ad una terapia farmacologica costituita da ansiolitici, antidepressivi e disintossicanti,

Ø deve assentarsi per malattia, in concomitanza con lo sviluppo della fase acuta di tale patologia, malattia protrattasi sino agli inizi di dicembre 1997.

    Di ciò fanno fede, in modo assolutamente convergente, la deposizione del sig. Luvielmo (13) nonché le dichiarazioni e certificazioni in atti del medico di base (14) e del neurologo (15) che all’epoca l’hanno visitata; dalle quali emerge anche che la lavoratrice non ha mai sofferto in antecedenza di tali disturbi e stati patologici e che fino all’inizio dell’estate 1997 la sua vita sia in ambito lavorativo che in ambito familiare è stata serena e si è svolta in modo del tutto normale e regolare (16).

    La situazione patologia sopra descritta si protrae anche nel corso del 1998 e, dopo un primo significativo miglioramento registratosi nell’ottobre 1998, in concomitanza con la cessazione della collaborazione lavorativa (17), si risolve definitivamente nel gennaio 1999 o in data anteriore e prossima a tale data (18).

    L’istruttoria esperita in corso di causa ha, in pari tempo, fornito anche due ulteriori risultanze, di indubbio significato e rilievo ai fini della decisione della causa.

    Prima. In data 10.11.1997 (19), mentre la ricorrente si trova in malattia, la convenuta assume altra dipendente, con contratto a tempo indeterminato ed inquadramento iniziale identico a quello della ricorrente (livello C, gruppo 1) (20), utilizzata in compiti di assistente al commercio estero e quindi in mansioni per buona parte già svolte dalla ricorrente medesima, tra cui la gestione dei clienti stranieri, la corrispondenza con l’estero in lingua francese, inglese, tedesco, spagnolo, la traduzione di capitolati dal tedesco in italiano, il lavoro di interprete (21).

    Seconda. In data 1.12.1997, alla ripresa del lavoro, la ricorrente viene trasferita dagli uffici amministrativi al magazzino e qui adibita a mansioni meramente esecutive di assistente, consistenti nell’emissione delle bolle di accompagnamento in uscita, nel controllo degli inventari e nel caricamento a terminale delle bolle in entrata (22). Cessa in tal modo di fare uso delle lingue straniere conosciute e di intrattenere relazioni professionali con clienti esteri (23).

    Orbene, in base agli accertamenti e alle risultanze di cui si è in antecedenza dato conto, può ritenersi fornita la prova – innanzi tutto – del nesso di causalità tra la patologia insorta improvvisamente nella lavoratrice e l’ambiente di lavoro. Del che deve indubbiamente essere chiamata a rispondere la società datrice di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., essendo la medesima tenuta a garantire l’integrità fisio-psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire contegni aggressivi e vessatori dei responsabili nei confronti di quelli.

    Né quanto accaduto alla ricorrente potrebbe ritenersi frutto, nel caso di specie,  di un tratto peculiare del suo carattere e cioè di una particolare emotività della stessa; così da spiegare in base a tale solo dato quanto accadutole sul piano personale.

    Stando infatti alle deposizioni, concordi in punto, del convivente della lavoratrice (24) e di un collega di lavoro dell’epoca (25), la ricorrente non ha mai manifestato, prima dei fatti di causa, alcuna debolezza o cedevolezza sul piano emotivo e comportamentale.

     Nel caso in esame non potrebbe conseguentemente prospettarsi – in riferimento alla previsione di cui ai commi 2° e 3°, dell’art. 41 c.p. e argomentando da essa – un’ipotesi di esclusione del nesso di causalità, per la preesistenza di causa efficiente autonoma, capace da sola di generare l’evento lesivo.

    A ciò aggiungasi che se anche si volesse ammettere per ipotesi che, come vittima dell’altrui condotta ingiusta, la lavoratrice ha reagito in modo del tutto singolare ed estremo, e cioè con profondo turbamento, così profondo da generare in lei l’insorgenza di una sindrome depressiva reattiva, ciò però è cosa che non modifica né la realtà della prevaricazione né la posizione nella ricorrente di persona offesa da essa.

    La Carta Costituzionale, nel suo art. 32, e la legge ordinaria, nell’art. 2087 c.c.,  tutelano infatti tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni o siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere.

    Gli accertamenti e le risultanze di cui si è detto in antecedenza comprovano inoltre che quanto preannunciato dal presidente della soc. Ziliani, nel corso del colloquio avvenuto nel luglio 1997, come alternativa punitiva rispetto alle dimissioni sollecitate dalla lavoratrice, si è puntualmente avverato.

    A far tempo dall’1.12.1997, data del rientro della ricorrente in azienda dopo la malattia, e sino al 30.9.1998, data di cessazione della medesima dal servizio, la lavoratrice viene infatti sollevata dall’incarico precedente esplicato, nel frattempo attribuito ad una neo-assunta, di iniziale pari livello contrattuale.

    La ricorrente viene in pari tempo collocata in un diverso comparto aziendale, senza l’esistenza di alcuna apprezzabile ragione, del resto neppur dedotta in memoria e provata in causa.

    Le vengono infine attribuiti compiti che, benché rientranti astrattamente nell’inquadramento di appartenenza, come del resto correttamente riconosciuto dalla stessa ricorrente in corso di causa (26), assumono nella specie valenza del tutto dequalificante, avuto riguardo alla sua storia lavorativa, alla professionalità acquisita nel corso del tempo e, infine, all’indubbio livello di autonomia conseguito.

    Si tratta di una deminutio assai grave di per se, in quanto costituisce violazione dell’art. 2103 c.c., e destinata ad assumere un connotato ulteriore di gravità se raccordata (come accennato sopra) all’episodio e colloquio del luglio 1997.

*     *     *     *     *

4. Sul ristoro del danno patito.

    Accertata in base a quanto precede la sussistenza di condotte antigiuridiche imputabili a fatto e colpa della società datrice di lavoro, condotte produttive di danni, nella forma sia del danno biologico sia di quello da dequalificazione, si tratta a questo punto di determinare il quantum debeatur.

    In proposito va osservato, quanto al danno biologico, che non si versa in ipotesi di invalidità permanente, essendosi la patologia insorta nella lavoratrice risolta quantomeno nel gennaio 1999 (27), dopo un primo significativo miglioramento già registratosi nell’ottobre 1998, in concomitanza con la cessazione della collaborazione lavorativa (28). A ciò aggiungasi, quanto al danno da dequalificazione, che esso risulta temporalmente circoscritto al periodo 1.12.1997-30.9.1998.

    Tenuto conto di tali dati, alla ricorrente viene equitativamente liquidato l’importo netto di L. 10.000.000=.

    A ciò vanno aggiunti gli interessi legali dall’ottobre 1998 al saldo, essendo gli accessori del credito in antecedenza maturati, nel periodo compreso dall’insorgenza della patologia accertata in causa sino alla risoluzione del rapporto, già conteggiati e cumulati nel capitale sopra liquidato.

    Le spese di lite, menzionate nel loro esatto ammontare in dispositivo, vengono poste a carico della parte soccombente.

    Si ritiene doveroso informare di quanto in antecedenza accertato il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, per le valutazioni che al medesimo competono. A tal fine la Cancelleria dovrà trasmettere copia della presente sentenza a tale organo.

     P.  Q.  M.

     Visto l’art. 429 c.p.c.;

     - respinta la richiesta di CTU medico-legale;

1.   CONDANNA parte convenuta a corrispondere a parte ricorrente l’importo netto di L. 10.000.000=, oltre interessi legali dall’ottobre 1998 al saldo;

2.   CONDANNA parte convenuta a rifondere a parte ricorrente le spese di lite, che liquida in L. 6.000.000=, oltre IVA e CPA;

3.   DICHIARA esecutiva la presente sentenza.

 

Torino, 11 dicembre 1999.

                                                       

 

Note del Giudice estensore

1.            Cfr. proc. verb. p. 1.

2.                  2.      Cfr. proc. verb. p. 17.

3.      Cfr. proc. verb. p. 26.

4              E’ questa la definizione del “fatto notorio” che ricorre in numerose decisioni del Supremo Collegio. Vedi, da ultimo, Cass., 28.3.1997, n. 2808.

5              Cfr. Il mobbing in Italia, Bologna, Pitagora Editrice, 1997, p. 31 e ss.; La violenza sul lavoro, in “Rassegna sindacale”, 20.10.1998, Supplemento; Molestie morali e La fabbrica dei mostri, in “Il venerdì di Repubblica”, 19.2.1999, p. 11; Come soffre! E’ un caso di ordinario mobbing, in “L’Espresso”, 25.2.1999; Terrore nel posto di lavoro, in “Rassegna sindacale”, n. 9 23.3.1999.

6.      Cfr. Come soffre! E’ un caso di ordinario mobbing, cit., p. 167.

7.            Cfr. proc. verb. pp. 17 e 26.

8.            Cfr. dep. Luvielmo, p. 12; dep. Dutto, p. 9; memoria, p. 4.

9.            Cfr. dep. Luvielmo, p. 12.

10.        Cfr. dep. Luvielmo, pp. 12-13.

11.        Cfr. dep. Luvielmo, pp. 13-14. Ma v. anche interr. rappr. soc. convenuta, p. 7, ove si riconosce che il colloquio del luglio 1997 tra la ricorrente ed il presidente della soc. Ziliani ha avuto ad oggetto il preannuncio di una diversa collocazione della lavoratrice in seno all’azienda e che in tale occasione il sig. Ziliani  ha effettivamente parlato del convivente della lavoratrice : dati, questi, di indubbio rilievo e che confermano indirettamente la veridicità in punto della deposizione resa in giudizio dal sig. Luvielmo.

12.        Cfr. dep. Luvielmo, p. 13; dep. Dutto, p. 9.

13.        Cfr. proc. verb., p. 14.

14.        Cfr. dep. dott.ssa Mondazzi, p.19 e ss., nonché cartella clinica redatta della medesima e acquisita al fascicolo d’ufficio all’udienza del 2.10.1999 (v. proc. verb., p. 19), in cui viene attestata l’esistenza di una “sindrome ansioso depressiva” a partire dal 19.8.1997.

15.        Cfr. dep. dott. Amarù, p. 22 e ss., nonché certificato redatto dal medesimo in data 26.9.1997 (v. doc. n. 5 prod. parte ricorrente), in cui si attesta l’esistenza di una “sindrome depressiva reattiva”.

16.        Cfr. in particolare dep. Luvielmo, p. 14; dep. Dutto, p. 10/11.

17.        Cfr. dep. Luvielmo p. 14.

18.        Cfr. dep. dott.ssa  Mondazzi, p. 19, e annotazioni sulla cartella clinica dalla medesima redatta sub 19.12.1997 (ove si evidenzia il perdurare di una “sindrome depressiva reattiva con insonnia” e si formula prognosi di malattia sino al 5.1.1998) e sub. 18.1.1999 (ove non si fa alcun cenno alla pregressa patologia).

19.        Cfr. copia libro matricola, acquisita all’udienza dell’11.10.1999 (v. proc. verb., p. 24/25).

20.        Così dep. Gay, p. 17.

21.        Cfr. dep. Dutto, p. 9; interr. rappr. soc. convenuta, p. 7; dep. Gay, pp. 15 e 16.

22.        Cfr. interr. ricorrente, p. 3, incontestato in punto; dep. Luvielmo, p. 12.

23.        Cfr. dep. Gay, p. 16, da cui si evidenzia che, dopo il suo trasferimento in magazzino, la ricorrente ha fatto un uso del tutto episodico della lingua straniera e cioè nei brevi colloqui con gli autisti stranieri, colloqui del resto che già svolgeva in antecedenza, allorché operava nel settore amministrativo.  

24.        Cfr. dep. Luvielmo, p. 14.

25.        Cfr. dep. Dutto, p. 10/11.

26.        Cfr. proc. verb., p. 17.

27.        Cfr. dep. dott.ssa  Mondazzi, p. 19, e annotazioni della cartella clinica dalla medesima redatta sub 19.12.1997 (ove si evidenzia il perdurare di una “sindrome depressiva reattiva con insonnia” e si formula prognosi di malattia sino al 5.1.1998) e sub. 18.1.1999 (ove non si fa alcun cenno alla pregressa patologia).

28.        Cfr. dep. Luvielmo p. 14.

 

(1) Nota 

Si tratta della  seconda sentenza in tema di risarcimento del danno biologico da “mobbing”, argomento trattato dalla Rivista "Lavoro e Previdenza Oggi" negli articoli (ai quali si rinvia il lettore) di: L. Veneri, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, in Lavoro e Previdenza Oggi 1999, 1097 ed ivi 1115; M. Meucci, Considerazioni sul “mobbing” (ed analisi del disegno di legge n. 4265 del 13 ottobre 1999), ibidem 1999, 1953; P. Denari, La responsabilità diretta e personale nel danno da “mobbing”, ibidem 2000, fasc. 1, p.5. In giurisprudenza di merito, in senso perfettamente conforme e dello stesso estensore, cfr. Trib. Torino 16 novembre 1999, Erriquez c. Ergom Materie Plastiche in Lavoro e Previdenza Oggi, 2000, fasc. 1, p. 154.

Venendo al merito della decisione sopra riportata, va fatto rilevare come la somma a risarcimento del danno sia di tale esiguità da non costituire né adeguato risarcimento al danno (gravissimo) delle dimissioni "indirette" o "indotte" né possieda valenza dissuasiva della reiterazione del comportamento illecito (mobbing o bossing). A parte l'attenuante per il magistrato costituita dalla "misera" richiesta della difesa dell'interessata (30 milioni) per cui il giudice non sarebbe potuto andare "ultra petita", sembrerebbe che ci si sia accontentati (nel caso di specie come nel precedente deciso dallo stesso magistrato in data 16.11.199) di  statuire affermazioni di principio indubitabilmente nuove e progressiste nel piatto panorama giurisprudenziale italiano, ma che restano "per chi scrive e per chi subisce" deludenti, se non si "sanziona" significativamente il vessatore - con l'infliggere (rectius, addossare), nell'ambito dell'esercizio del potere equitativo giudiziale ex art. 1226 c.c., aggravi economici sostanziosi in forma di risarcimento danno,  necessariamente diversificati in ragione anche della capitalizzazione aziendale, tenendo presente in via analogica il principio penalistico (ex art. 26, 2 co.,  c.p. nel vecchio testo) della maggiorazione della "sanzione" per colui al quale la misura  massima edittale possa risultare  indifferente per le condizioni economiche del reo (cfr. art. 38 l. n. 300/70) -  e non si ristora, per tal via, correlativamente in maniera  adeguata e realistica il danneggiato (come fanno i colleghi negli ordinamenti anglo-americani). Tutti noi abbiamo sott'occhio aziende di credito, multinazionali, grandi compagnie di assicurazione e  potentissime industrie nazionali  - in cui il mobbing e la dequalificazione ha preso piede come strategia di sfrondamento  e riduzione del personale - alle quali i risarcimenti di danno ai mobbizzati (indirettamente sanzionatori civilisticamente dell'illecito comportamento datoriale) dell'entità economica riscontrata in sentenza, vengono assorbiti - pur di espellere lavoratori scomodi ed indesiderati  o in età avanzata - senza batter ciglio e senza, come si usa dire, che si faccia ad esse neppure  il "solletico" e vivaddio quasi "auspicati" in quanto possono sottrarsi, con le dimissioni indotte e grazie all'avarizia (tutta italiana) che caratterizza il  risarcimento equitativo dei nostri magistrati, ai rischi della tutela reale (e agli indennizzi  per la tutela obbligatoria) del licenziamento ingiustificato.

Mario Meucci

Roma, 10 dicembre 2001

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