EFFETTI DELLA SUCCESSIONE TRA CONTRATTI COLLETTIVI (ANCHE DI DIVERSO LIVELLO) PER PENSIONATI E LAVORATORI IN SERVIZIO

 

1. Si pone spesso, in pratica, il problema se pattuizioni e condizioni (di regola più favorevoli al lavoratore in servizio o in quiescenza) poste in essere da contratti  nazionali di lavoro - sia in tema di inquadramenti  sia in tema di benefici retributivi diretti o indiretti, quali quelli discendenti da un trattamento pensionistico, assistenziale o sanitario previsto da fondi di previdenza integrativa o assistenziali nazionali e simili) - possano essere poste nel nulla  o caducate ovvero peggiorate da successive intese sindacali raggiunte tra le contrapposte Associazioni datoriali e sindacali a livello nazionale ovvero derogate  nel tenore più favorevole (fissato a livello nazionale) da accordi raggiunti in sede sindacale aziendale, tramite lo strumento della contrattazione articolata o decentrata.

Mentre le problematiche indotte dalla successione di normative contenute in contratti collettivi di pari livello (entrambe nei ccnl o entrambe nei contratti aziendali) sono risolte, secondo la dottrina e la giurisprudenza consolidate,  all’insegna del principio dell’identica o pari derogabilità, anche in peius, da parte della fonte successiva nei confronti dell’antecedente venuta a scadere - senza implicare pregiudizio alcuno, tuttavia, nei confronti dei diritti oramai acquisiti al patrimonio dei lavoratori (c.d. “diritti quesiti”) - più complessa è la problematica della derogabilità (o meno) della fonte di livello superiore (es. nazionale) ad opera della fonte di livello inferiore (es. contratto aziendale).

 

2. Prima di esaminare quest’ultima problematica, un cenno va fatto all’apparente deroga che il principio soprariferito (in ordine agli effetti della successione di normative peggiorative contenute in contratti di pari livello, successivamente stipulati) subisce per i lavoratori nel frattempo andati in quiescenza, cioè nei confronti dei pensionati.

Una recente sentenza della Cassazione (n. 2361 del 20 marzo 1996, Rel. Picone)  si è occupata della specifica problematica della “teorica” successione, per i pensionati, di normative deteriori rispetto  a quelle contenute nel ccnl che  ne regolava il rapporto di lavoro al momento della cessazione dal servizio, successione che, invero, per essi non rileva costituendo quel ccnl la sola “ultima” fonte disciplinare del loro trattamento normativo. Conformemente a quanto sopra, la Cassazione - nella citata decisione - ha asserito: “ Il fenomeno della successione  dei contratti collettivi nel tempo non è assimilabile a quello della successione tra norme giuridiche, per cui il contratto collettivo posteriore non modifica l’assetto precedente ma sostituisce una nuova regolamentazione a quella divenuta inefficace per scadenza del termine o per volontà degli stessi stipulanti.

Ne consegue che per i rapporti  di lavoro cessati nel vigore di una determinata fonte collettiva, i diritti attribuiti dal contratto (ancorché si concretino in una rendita erogata periodicamente mediante ratei) non possono essere influenzati dalla stipulazione di successivi contratti (il cui oggetto è limitato ai rapporti di lavoro in atto), salvo che i lavoratori  cessati dal servizio non abbiano conferito specifico mandato alle Organizzazioni sindacali stipulanti, o ratificato la relativa attività negoziale, oppure abbiano prestato acquiescenza alla nuova normativa.

Né può configurarsi un’adesione del lavoratore al nuovo contratto stipulato dopo la sua cessazione dal servizio nel fatto che questi abbia riscosso, per lungo tempo e senza contestazioni, la rendita erogatagli sulla base delle modifiche peggiorative intervenute, atteso che non è possibile attribuire contenuto negoziale di rinunzia ad un comportamento consistente nell’accettazione di un adempimento parziale, la quale rappresenta una facoltà del creditore (art. 1181 c.c.), salvo che non sia accompagnato da altri elementi che univocamente dimostrino la volontà di dimissione del diritto”.

Appare importante sottolineare che all’enunciazione del principio a favore dei pensionati la Corte è pervenuta mediante la precisazione secondo cui la normativa di un contratto successivo non “modifica”, ma “sostituisce integralmente ed ex novo” quella preesistente venuta a scadenza, cosicché giustamente si dice che un contratto è “rinnovato” - cioè divenuto operativo per intervenuta novazione con altra pattuizione - e non “ripristinato” con modifiche successivamente apportate.

Infine va detto che alle stesse risultanze la Corte poteva pervenire sulla base della teoria dell’intangibilità dei “diritti quesiti”- intesi come già legittimamente entrati nella disponibilità patrimoniale dei pensionati - quantunque rinunziabili direttamente, seppure nei limiti di cui  all’art. 2113 c.c. che dispone l’invalidità, a condizione di impugnativa entro 6 mesi dall’avvenuto negozio abdicativo, delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto “diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dei contratti o accordi collettivi” ovvero rinunziabili da parte delle mandatarie OO.SS., come precisa la Corte, solo dietro conferimento ad esse di “specifico mandato” ad  negotia del pensionato (che è cosa ben diversa da quello generico di assistenza e tutela derivante dal permanere del vincolo associativo al Sindacato da parte del lavoratore in quiescenza).

 

3. Evidenziato questo aspetto essenziale per i pensionati e sciogliendo la riserva, per i lavoratori in servizio, di cui al punto 1), va detto che le risultanze dell’elaborazione giurisprudenziale dei rapporti tra contrattazione collettiva periferica (a livello regionale, provinciale, aziendale) e contrattazione nazionale (a livello interconfederale e di categoria) può, in sintesi, suddividersi fondamentalmente in due fasi. La prima, che si protrae per oltre un trentennio, rispecchia prevalentemente una visione gerarchica del sistema delle fonti negoziali, temperata solo dal principio del favor; la seconda, che copre all'incirca gli ultimi venti anni, si contraddistingue per la graduale ammissione dell'identica natura collettiva e perciò della pari dignità funzionale dei contratti di lavoro di diverso livello, con il conseguente corollario della loro reciproca derogabilità, sia pure non sempre in senso peggiorativo.

Sinteticamente possiamo raggruppare i principali indirizzi nel seguente modo:

a) parte della giurisprudenza  ha ritenuto che, in caso di norme provenienti da fonti diverse ed in contrasto tra loro, debba applicarsi il principio del favor e quindi la normativa più favorevole ai lavoratori;

b) la stessa Corte di Cassazione ha proposto in altre occasioni un'impostazione basata sulla c.d. teoria del "mandato discendente", secondo cui i contratti aziendali non possono modificare in peius la normativa dettata dai contratti di categoria, in quanto le strutture sindacali a livello aziendale sono da considerarsi gerarchicamente subordinate a quelle nazionali  ed altrettanto deve dirsi dei contratti da esse stipulati (così Cass. n. 233/1978, in Orient. giur. lav. 1978, 342); teoria temperata dalla contrapposta fondata sul c.d. “mandato ascendente”, secondo cui il contratto aziendale ben potrebbe derogare in peius al nazionale, sul presupposto che la stipulazione del primo importa la revoca implicita del mandato conferito all’associazione nazionale firmataria del contratto di livello superiore;

c) più recentemente sono andati consolidandosi tre ulteriori orientamenti, tutti quanti accomunati dalla legittimazione della deroga introdotta dalla fonte ad ambito spaziale inferiore rispetto al contratto nazionale:

c1) il primo di questi tende ad attribuire  la prevalenza al contratto collettivo stipulato in data posteriore (e ciò indipendentemente dal livello o dal maggiore o minor favore per il lavoratore); si è affermato che non esiste nell'ambito della normativa collettiva il principio della supremazia gerarchica del contratto collettivo di ambito maggiore rispetto a quello aziendale, essendo entrambi espressione di autonomia privata  (collettiva) e quindi posti per l'ordinamento giuridico in una posizione paritaria per quanto attiene all'intensità giuridica di dette fonti.

Pertanto - ed in base al principio secondo il quale il contratto collettivo successivo può modificare (anche in peggio) il contratto collettivo precedente - un accordo collettivo aziendale può modificare in senso deteriore la regolamentazione contenuta nel contratto nazionale precedente;

c2) il secondo invece è volto a dare prevalenza alla fonte più vicina a coloro che hanno disciplinato gli interessi in questione ( cosiddetto criterio della "competenza e della specialità"), indipendentemente, in questo caso, dalla data di stipulazione. In tal senso, Pret. Torino 19.3.1992, in Giur. piem. 1993, 44 e Cass. n. 4517/1986 (in dottrina, conf., Ferraro, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Cedam, 1981,397; cfr. anche  Pera, Diritto del lavoro, Cedam 1996, 154 e ss.). Secondo questo orientamento, quindi, il concorso fra contrattazione collettiva nazionale e contrattazione collettiva di livello inferiore (regionale, provinciale o aziendale), superati gli obsoleti principi di "gerarchia, di favore e di sopravvenienza", va individuato nel principio di competenza e di specialità, alla stregua del quale la fonte collettiva più prossima agli interessi oggetto di normazione è - in linea di massima e sempre nei limiti della disciplina inderogabile di legge - prevalente sulle altre consimili, anche se di livello superiore ;

c3) il terzo orientamento, scartando anch'esso il criterio della prevalenza della disciplina più favorevole ai lavoratori o quello della specialità, risolve il problema della coesistenza di diverse discipline (conseguenti anche a successione temporale di contratti di diverso ambito applicativo) secondo il criterio della "autonomia negoziale" tra le fonti, nel senso che  entrambe possono operare laddove non vi siano espresse preclusioni o riserve negoziali, individuando la reale volontà delle parti manifestata in accordi nazionali o locali, di pari dignità (e non gerarchicamente sottordinati), ed accertando, in caso di modifiche in peius, che non vengano lesi diritti quesiti dei lavoratori (conf. Cass. n. 3047/'85; Cass. n. 813/'89; Cass. 4713/'89/; Cass. 2155/'90).

 

4. In dottrina è stato sostenuto, in linea con quest'ultimi orientamenti, che "la derogabilità-inderogabilità tra contratti collettivi a campo di applicazione diverso non ha nel nostro ordinamento uno specifico fondamento e perciò una giustificazione normativa" (così, G. Santoro-Passarelli, Derogabilità del contratto collettivo e livelli di contrattazione, in Giorn. dir. lav. e rel. ind. 1980, 617 e ss.). Anche se, nel nostro sistema, è possibile desumere dagli statuti dei sindacati una relazione di gerarchia tra associazioni di diverso livello, ciò non escluderebbe che le clausole del contratto aziendale possano derogare (anche in peius) a quelle del contratto nazionale. La strutturazione gerarchica implica solo che le eventuali deroghe, in melius o in peius, apportate dal sindacato periferico o dall'organismo sindacale aziendale, non devono risultare in contrasto con le direttive dell'associazione di grado superiore; conseguentemente l'inclusione, in sede di contratto aziendale, di deroghe al contratto nazionale è subordinata al "consenso" - quanto meno "tacito" - dell'associazione superiore.

Ma - secondo tale autore - anche se si determinasse un "dissenso" dell'associazione superiore ciò non porterebbe all'invalidità del contratto aziendale stipulato in contrasto con le direttive sopraordinate. "Il mancato consenso o il dissenso rileva in questo caso (solo) all'interno dell'organizzazione sindacale e determina l'inadempimento dell'associazione stipulante (o meglio di coloro che hanno agito in nome e per conto) nei confronti dell'associazione cui la prima aderisce" (così, G. Santoro-Passarelli, op.cit. 628). Le sanzioni in tal caso saranno quelle previste dagli statuti, sempre che vi sia una specifica previsione statutaria, in mancanza della quale  "non sussiste evidentemente alcun ostacolo e non potrà essere neppure irrogata alcuna sanzione nei confronti dei soggetti che stipulano un contratto aziendale in deroga a quello nazionale" (così, G. Santoro-Passarelli, cit., 628).

Non sono mancate, negli ultimi tempi, voci tese a conferire una prevalenza (verso la quale noi stessi propendiamo) al contratto nazionale sul contratto aziendale derogativo - in ragione della struttura piramidale dell’organizzazione sindacale e dello spazio e peso degli statuti delle Confederazioni e delle associazioni sindacali nazionali -, posizione ben vista dagli imprenditori per i quali una centralizzazione della contrattazione significa “ridotta conflittualità” nonché, sul versante degli interessi dei lavoratori, soddisfacente per le stesse OO.SS., per le quali “ una compressione della capacità derogatoria dei contratti aziendali si manifesta conveniente attesa la minor forza contrattuale che il sindacato mostra all’interno delle aziende, in periodi di recessione economica” (così, Vidiri, Contratto collettivo, diritti individuali e poteri del sindacato, in Giur. it. 1987, IV, 452).

Comunque si deve convenire con Pera (op.cit., 155) che “la rassegna problematica delle posizioni  compiuta (al punto 3, n.d.r.) attesta come oggi, in materia di contrattazione collettiva, ci siano ben pochi punti fermi, molto essendo affidato ad un’ondeggiante giurisprudenza ed agli orientamenti, tutti controvertibili, della dottrina”.

 

Mario  Meucci

(pubblicato in "Confronti e Intese", rivista del Sinfub, n. 8-9/1996)
Successione di contratti e modifica in peius anche per i lavoratori dissenzienti o non iscritti alle OO.SS. stipulanti
Cassazione – Sez. lav. – 5 giugno 2007, n. 13092- Pres. Mercurio – Rel. Battimiello – P.M. Fuzio (concl. conf.) - Ricorrente Sicurtransport Spa – Controricorrente Cutuli ed altri
 
Successione di contratti – Modifiche peggiorative introdotte ed accettate da taluni sindacati per revocare licenziamenti – Estensibilità a tutti i beneficiari, anche non iscritti alle OO.SS. firmatarie, del contratto  preesistente  modificato in alcuni istituti in peius.
 
Ove un contratto collettivo aziendale, stipulato dal sindacato per la tutela degli interessi collettivi dei lavoratori dell'azienda, venga successivamente modificato o integrato da un nuovo accordo aziendale stipulato dallo stesso sindacato, tutti i lavoratori che abbiano fatto adesione all'originario accordo, ancorché non iscritti al sindacato, sono vincolati dall'accordo successivo e non possono invocare l'applicazione soltanto del primo (Cass. 11 novembre 1987 n. 8325; 5 luglio 2002 n. 9764).
In fattispecie dovendosi ritenere sussistente l'adesione dei non iscritti al contratto del 1991, per esserne stati anch'essi beneficiari, ne discende l'irrilevanza della mancata partecipazione all'accordo del 1997 della diversa organizzazione sindacale cui gli stessi erano iscritti.
Svolgimento del processo
Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Catania, rigettando l'appello della s.p.a. Sicurtransport, ha ritenuto non vincolante per i lavoratori odierni intimati, tutti dipendenti della filiale di Catania della società, il contratto integrativo aziendale 27.11.1997 stipulato tra la società e le organizzazioni sindacali di CGIL, CISL, e UIL e con l'intervento delle rappresentanze sindacali aziendali di Catania, Agrigento e Palermo (ad esse aderenti), con il quale ‑ in esito ad una complessa vicenda iniziata con l'avvio il 16.4.1997 della procedura di mobilità per 42 dipendenti e conclusasi con la comunicazione dei licenziamenti ‑ si prevedeva l'impegno dell'azienda di revocare i licenziamenti e nel contempo si conveniva la soppressione o il ridimensionamento di alcuni benefici economici e normativi (premio di produttività, indennità vestiario, indennità di rischio, festività di Pasqua, ferie). La inopponibilità era dovuta al fatto che il suddetto accordo ‑ che aveva sostanzialmente recepito l'ipotesi di accordo del 5.11.1997 e che implicava una riduzione della retribuzione, con carattere peggiorativo rispetto al contratto integrativo aziendale del 31.1.1991, che quei benefici aveva introdotto ‑ non era stato sottoscritto validamente dalla RSA dell'UGL di Catania, sindacato al quale i lavoratori appellati erano iscritti, essendo «pacifico che i componenti della RSA‑UGL di Catania (Castelli, Monforte e Granata) che [avevano] sottoscritto l'accordo 27.11.1997 non erano dotati di potere rappresentativo, essendo intervenuti alla riunione in assenza di qualsivoglia delega da parte dei dipendenti iscritti a tale associazione sindacale, né tanto meno l'accordo in questione risulta[va] sottoscritto dalla segreteria regionale della UGL». Infatti, nel corso delle trattative che avevano preceduto il contratto integrativo del 27.11.1997 nessun accordo era stato raggiunto tra la società e la RSA di Catania aderente alla UGL, essendo stata adottata nel corso della riunione tenutasi il 17.10.1997 soltanto un'ipotesi di accordo per la rivisitazione del contratto integrativo (del 1991), avente carattere preparatorio e programmatico e quindi privo di contenuto negoziale. «In definitiva, [andava] esclusa la vincolatività per gli appellati dell'accordo sancito dal verbale del 27.11.1997, atteso il carattere peggiorativo dello stesso ed essendo i medesimi dissenzienti ed iscritti ad un'organizzazione sindacale che non [aveva] partecipato alla stipulazione dello stesso.»
Avverso questa decisione la s.p.a Sicurtransport ricorre per cassazione con un motivo. Resistono e propongono ricorso incidentale con due motivi Cutuli Giuseppe, Lo Voi Filippo, Cutuli Mariano, Spinella Pietro, Longo Antonio, Petralia Giuseppe, Scardilli Santo, Speciale Antonino, Neri Nicola, Intemullo Mario, Parrottino Antonio, Arrabbito Giuseppe, Rapisarda Rosario, Di Stefano Filippo, Contino Luigi, Vizzini Rosario e Leanza Francesco.
Arena Salvatore, Leanza Carmelo, Sardo Mario, Trovato Arcangelo, Calabrese Antonio e Lombardi Giovanni, ai quali è stata rinnovata la notifica del ricorso, non si sono costituiti.
Sicurtransport s.p.a. ha depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente, la Corte riunisce i ricorsi, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza.
2. Con l'unico motivo del ricorso principale, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. c.c., in relazione all'accordo del 27 novembre 1997, degli artt. 2077 e 2113 c.c., nonché vizio di motivazione, la società ricorrente sostiene che il Tribunale ha violato gli artt. 1362 e segg. c.c. allorché ha affermato che l'integrativo del 1997 aveva inciso su diritti già entrati nel patrimonio dei lavoratori e che non era perciò opponibile ai dipendenti non aderenti ai sindacati firmatari. Andava invece considerato che i sindacati e la società datrice di lavoro, indipendentemente dall'accordo sulla revoca dei licenziamenti, ben potevano modificare il precedente contratto integrativo del 1991 e ridefinire per il futuro il contenuto e l'entità del trattamento economico complessivo, fatti salvi soltanto i ratei di retribuzione, già maturati. Essendo stata modificata la fonte di conformazione esterna del contenuto del rapporto di lavoro (l'accordo aziendale), i lavoratori non conservavano alcun diritto al mantenimento per il futuro della disciplina negoziale di cui godevano prima della modifica intervenuta con l'accordo del 27.11.1997. Ciò in base al principio secondo il quale il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che più non esiste perché caducata o sostituita da altra successiva. Nell'ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo e individuale, restando la conservazione di quel trattamento affidata all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia, sicché la nuova regolamentazione, ancorché avente carattere peggiorativo per i lavoratori, sostituisce quella anteriore, senza trovare alcun limite in situazioni soggettive aventi carattere di mera aspettativa, tra cui rientrano i trattamenti economici non ancora maturati perché relativi a prestazioni non rese. Nessuno dei lavoratori ricorrenti aderiva all'epoca ad una delle organizzazioni firmatarie dell'accordo aziendale del 31.1.1991, sicché essi non erano legittimati a dolersi delle modifiche ad esso apportate. E, non avendo l’UGL sottoscritto l'accordo del 1991, era del tutto irrilevante il mancato consenso di questo sindacato alle modifiche del 1997. Errata è l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui i lavoratori, in assenza di un loro specifico consenso, avrebbero acquisito il diritto alla conservazione dei trattamenti previsti nel contratto aziendale del 1991 anche per il tempo successivo alla sua modifica ad opera dell'accordo del 1997, perché il contratto collettivo non si incorpora nel contratto individuale, ma opera dall'esterno, sicché, mutando la fonte, muta corrispondentemente il contenuto del secondo. Anche il contratto aziendale è affidato all'autonomia collettiva, e pertanto i rappresentanti dei lavoratori hanno il potere di apportare modifiche, anche peggiorative, sia al contratto nazionale che a quello aziendale, senza che occorra uno specifico mandato o la ratifica del loro operato.
3. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia l'errore del Tribunale che non ha dichiarato la contumacia di cinque lavoratori appellati che non si erano costituiti. Viene anche rilevato che la società non aveva interesse ad appellare nei confronti dei lavoratori Arena Salvatore e Lombardo Giovanni perché la loro domanda era stata rigettata ed essi non avevano proposto appello alla sentenza di primo grado che li aveva visti soccombenti.
Con il secondo motivo si lamenta la compensazione delle spese.
4. Con riferimento al ricorso principale nei confronti di Arena Salvatore e Lombardo Giovanni e al primo motivo del ricorso incidentale, che ha ad oggetto tale aspetto della controversia, va pronunciata la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al rigetto dell'appello nei confronti dei due predetti lavoratori. Poiché la loro domanda era stata rigettata dal primo giudice (senza che interponessero appello), il Tribunale, pronunciando in grado di appello, avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilità dell'appello della società nei confronti dei due predetti lavoratori, per difetto di interesse (Cass. n. 6776 del 1995; n. 5272 del 1996).
5. L'unico motivo dei ricorso principale è fondato. La Corte più volte ha avuto modo di precisare che le funzioni specifiche riconosciute dall'ordinamento alle associazioni sindacali consistono (come emerge dalle varie norme che, pur senza dare attuazione all'art. 39 Cost., fanno ad esse riferimento) nella stipula di contratti collettivi aventi efficacia obbligatoria per tutti gli iscritti e nello svolgimento, in favore degli stessi, di opera di promozione civile, sostegno nelle rivendicazioni e assistenza nelle controversie, senza che possa però configurarsi una legittimazione delle associazioni medesime a rinunciare, transigere o conciliare diritti soggettivi (ancorché acquisiti dai singoli lavoratori in forza di pattuizioni collettive), in difetto di espressa previsione normativa in tal senso o di uno specifico mandato da parte degli associati (Cass. n. 1140 del 1983; n. 1577 del 1985).
Ma non vi è contrasto tra questo principio e quello, del pari fermamente enunciato dalla Corte nella sua giurisprudenza consolidata, secondo il quale, in tema di successione di contratti collettivi, il lavoratore non può invocare un diritto acquisito in forza della precedente contrattazione. Infatti, una cosa è l'indisponibilità, da parte del sindacato, dei diritti soggettivi perfetti attribuiti da un determinato contratto collettivo, ed altra è la pretesa, da parte del lavoratore, di mantenere definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto nato da una norma collettiva che ormai non esiste più perché caducata o sostituita da una successiva contrattazione collettiva (ex plurimis, Cass. n. 4947 del 199l; n. 2155 del 1990; n. 1147 del 1988; n. 9175 del 1987; n. 5592 del 1986). Ciò perché le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano invece dall'esterno sui singoli rapporti di lavoro, come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione fra contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (che attiene esclusivamente, ai sensi dell'art. 2077 cod. civ., al rapporto tra contratto collettivo ed individuale), restando la conservazione di quel trattamento affidato all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia.
La stessa durata di un contratto collettivo rientra tra gli elementi disponibili da parte dei sindacato, atteso che a questo soggetto è rimessa la valutazione "collettiva" della persistente corrispondenza della norma contrattuale agli interessi dei lavoratori associati, e, mutata la situazione contingente, esso ben può decidere di non conservarne ulteriormente l'efficacia. Del resto, il nuovo contratto può risultare "peggiorativo" in alcuni aspetti, ma evidentemente rispetto ad una situazione preesistente, mentre la nuova disciplina deve ritenersi corrispondente agli interessi degli associati rispetto alle situazioni sopravvenute. Unico limite del potere dispositivo del sindacato è costituito dal precetto dell'art. 36 Cost. ‑ ma è evenienza rara che tale norma sia violata dalla contrattazione collettiva ‑, dovendosi anche osservare che quasi sempre una valutazione in termini di trattamento peggiorativo è fatta sotto profili esclusivamente monetari ed individuali, mentre la pratica della contrattazione è sempre diretta a realizzare complessivi miglioramenti, ove la valutazione sia effettuata nella corretta prospettiva “collettiva”.
In applicazione di questi principi, non può essere messo in discussione il potere del sindacato di sostituire la precedente disciplina collettiva, anche con esito peggiorativo per il trattamento economico e normativo di tutti o alcuni lavoratori.
Nella specie si tratta proprio, ed esclusivamente, della successione nel tempo di contratti collettivi, e non di disposizione di diritti patrimoniali già insorti nel patrimonio dei singoli lavoratori. La questione controversa concerne infatti trattamenti integrativi del contratto nazionale introdotti con decorrenza dal 1991, secondo le regole dettate dal contratto integrativo di durata stipulato in quell'anno.
Ne discende che il nuovo contratto del 1997 ‑ che aveva tratto origine da una situazione di crisi della società datrice di lavoro, resasi tuttavia disponibile ad una revoca dei licenziamenti ‑ poteva legittimamente determinare il contenuto degli obblighi, anche retributivi, del datore di lavoro a partire dalla sua entrata in vigore, non avendo operato alcuna disposizione di diritti già maturati a favore dei lavoratori.
È pertanto errata l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale nella specie non si configurerebbe un'ipotesi di successione di contratti collettivi perché il nuovo contratto è solo parzialmente modificativo del precedente. E parimenti errata è l'ulteriore affermazione secondo la quale l'accordo del 1997 non sarebbe opponibile ai lavoratori dai quali le 00. SS. stipulanti non avevano ricevuto specifico mandato.
6. Premesso non essere contestato quanto espressamente presupposto nel ricorso della società, e cioè che i sindacati che hanno stipulato il contratto (peggiorativo) del 1997 sono gli stessi che sottoscrissero il contratto del 1991, priva di rilievo è la circostanza che i lavoratori odierni intimati fossero iscritti ad un'organizzazione sindacale che non ha partecipato alla stipulazione del contratto del 1997; circostanza dalla quale la sentenza impugnata fa derivare la (errata) conseguenza che per essi questo contratto non sarebbe vincolante.
Al riguardo va ricordato il principio di diritto secondo il quale ove un contratto collettivo aziendale, stipulato dal sindacato per la tutela degli interessi collettivi dei lavoratori dell'azienda, venga successivamente modificato o integrato da un nuovo accordo aziendale stipulato dallo stesso sindacato, tutti i lavoratori che abbiano fatto adesione all'originario accordo, ancorché non iscritti al sindacato, sono vincolati dall'accordo successivo e non possono invocare l'applicazione soltanto del primo (Cass. 11 novembre 1987 n. 8325; 5 luglio 2002 n. 9764).
Dovendosi ritenere sussistente l'adesione dei non iscritti al contratto del 1991, per esserne stati anch'essi beneficiari, ne discende l'irrilevanza della mancata partecipazione all'accordo del 1997 della diversa organizzazione sindacale cui gli stessi erano iscritti.
7. Il primo motivo del ricorso incidentale, con il quale si censura la sentenza impugnata (anche) per non aver dichiarato la contumacia di alcuni appellati, è inammissibile per difetto di interesse; innanzitutto perché la mancanza di una formale dichiarazione di contumacia non incide sulla regolarità del contraddittorio, e, in secondo luogo, perché tale omissione non spiega alcun effetto sugli atti del processo se non vengano denunciati pregiudizi dalla parte che abbia interesse alla detta dichiarazione, come è nella specie.
8. All'accoglimento del ricorso principale consegue la cassazione della sentenza impugnata. Non rendendosi necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto dell'originaria domanda dei lavoratori. Stimasi di giustizia compensare le spese dell'intero processo, restando così assorbito il secondo motivo dell'appello incidentale.
PQM
La Corte riunisce i ricorsi. Pronunciando sul ricorso principale contro Arena Salvatore e Lombardo Giovanni e sulla seconda censura del primo motivo del ricorso incidentale, cassa senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai predetti. Nulla per le spese. Accoglie lo stesso ricorso principale nei confronti degli altri lavoratori. Dichiara inammissibile la prima censura del primo motivo del ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso (principale) accolto, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Dichiara assorbito il secondo motivo del ricorso incidentale. Compensa le spese dell’intero processo.
 
Roma 23.1.2007 (depositato il 5.6.2007)
Nota: Contratti collettivi di lavoro, successione nel tempo e possibili clausole peggiorative
Dalla complessa vicenda in esame sono evidenziabili interessanti principi che i supremi giudici hanno ritenuto di affermare, od anche solo ribadire, in tema di successione di contratti collettivi integrativi di lavoro, con la pronuncia 13092/07, depositata lo scorso 5 giugno e qui leggibile nei documenti correlati.
Nell’anno 2002, il Tribunale di Catania, rigettando l’appello di una Spa, ha ritenuto non vincolante per i lavoratori ricorrenti, dipendenti della filiale della società, il contratto integrativo aziendale sottoscritto in data 27 novembre 1997, con cui si conveniva, tra l’altro, la soppressione o il ridimensionamento di alcuni benefici economici e normativi (premio di produttività, indennità vestiario, indennità di rischio, festività di Pasqua, ferie). Per i giudici catanesi, la inopponibilità era dovuta al fatto che il suddetto accordo che implicava una riduzione della retribuzione, con carattere peggiorativo rispetto al precedente contratto integrativo aziendale, che quei benefici aveva introdotto, non era stato sottoscritto validamente dalla Rsa dell’Ugl di Catania, sindacato al quale i lavoratori appellati erano iscritti, essendo «pacifico che i componenti della Rsa-Ugl di Catania che [avevano] sottoscritto l’accordo 27 novembre 1997 non erano dotati di potere rappresentativo, essendo intervenuti alla riunione in assenza di qualsivoglia delega da parte dei dipendenti iscritti a tale associazione sindacale, né tanto meno l’accordo in questione risulta[va] sottoscritto dalla segreteria regionale della Ugl». Infatti, nel corso delle trattative che avevano preceduto il contratto integrativo del 27 novembre 1997 nessun accordo era stato raggiunto tra la società e la Rsa di Catania aderente alla Ugl, essendo stata adottata nel corso della riunione tenutasi il 17 ottobre 1997 soltanto un’ipotesi di accordo per la rivisitazione del contratto integrativo (del 1991), avente carattere preparatorio e programmatico e quindi privo di contenuto negoziale. In definitiva - per i giudici siciliani - [andava] esclusa la vincolatività per gli appellati dell’accordo sancito dal verbale del 27 novembre 1997, atteso il carattere peggiorativo dello stesso ed essendo i medesimi dissenzienti ed iscritti ad un’organizzazione sindacale che non [aveva] partecipato alla stipulazione dello stesso.
Avverso la decisione ricorre per cassazione la Spa, denunciando principalmente la violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e ss. Cc, in relazione all’accordo del 27 novembre 1997, allorché il Tribunale etneo ha affermato che l’integrativo del 1997 aveva inciso su diritti già entrati nel patrimonio dei lavoratori e che non era perciò opponibile ai dipendenti non aderenti ai sindacati firmatari. Per la società, invece, andava considerato che i sindacati e la società datrice di lavoro ben potevano modificare il precedente contratto integrativo del 1991 e ridefinire per il futuro il contenuto e l’entità del trattamento economico complessivo, fatti salvi soltanto i ratei di retribuzione già maturati. Essendo stata modificata la fonte di conformazione esterna del contenuto del rapporto di lavoro (l’accordo aziendale) - sostiene la ricorrente - i lavoratori non conservavano alcun diritto al mantenimento per il futuro della disciplina negoziale di cui godevano prima della modifica intervenuta con l’accordo del 27 novembre 1997. Ciò, in base al principio secondo il quale il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che più non esiste perché caducata o sostituita da altra successiva.
La Spa ritiene che nell’ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (articolo 2077 Cc), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo e individuale, restando la conservazione di quel trattamento affidata all’autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia, sicché la nuova regolamentazione, ancorché avente carattere peggiorativo per i lavoratori, sostituisce quella anteriore, senza trovare alcun limite in situazioni soggettive aventi carattere di mera aspettativa, tra cui rientrano i trattamenti economici non ancora maturati perché relativi a prestazioni non rese. Nessuno dei lavoratori ricorrenti aderiva all’epoca ad una delle organizzazioni firmatarie dell’accordo aziendale del 31 gennaio 1991, sicché essi non erano legittimati a dolersi delle modifiche ad esso apportate. E, non avendo l’Ugl sottoscritto l’accordo del 1991, era del tutto irrilevante il mancato consenso di questo sindacato alle modifiche del 1997. Errata è l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui i lavoratori, in assenza di un loro specifico consenso, avrebbero acquisito il diritto alla conservazione dei trattamenti previsti nel contratto aziendale del 1991 anche per il tempo successivo alla sua modifica ad opera dell’accordo del 1997, perché il contratto collettivo non si incorpora nel contratto individuale, ma opera dall’esterno, sicché, mutando la fonte, muta corrispondentemente il contenuto del secondo. Anche il contratto aziendale è affidato all’autonomia collettiva, e pertanto i rappresentanti dei lavoratori hanno il potere di apportare modifiche, anche peggiorative, sia al contratto nazionale che a quello aziendale, senza che occorra uno specifico mandato o la ratifica del loro operato.
Per i supremi giudici le argomentazione della ricorrente sono fondate.
La Corte - è detto nella motivazione della sentenza romana - più volte ha avuto modo di precisare che le funzioni specifiche riconosciute dall’ordinamento alle associazioni sindacali consistono principalmente nella stipula di contratti collettivi aventi efficacia obbligatoria per tutti gli iscritti, senza che possa però configurarsi una legittimazione delle associazioni medesime a rinunciare, transigere o conciliare diritti soggettivi (ancorché acquisiti dai singoli lavoratori in forza di pattuizioni collettive), in difetto di espressa previsione normativa in tal senso o di uno specifico mandato da parte degli associati. Per i giudici di piazza Cavour, però, non vi è contrasto tra questo principio e quello, del pari fermamente enunciato dalla Corte nella sua giurisprudenza consolidata, secondo il quale, in tema di successione di contratti collettivi, il lavoratore non può invocare un diritto acquisito in forza della precedente contrattazione. Infatti, una cosa è l’indisponibilità, da parte del sindacato, dei diritti soggettivi perfetti attribuiti da un determinato contralto collettivo, ed altra è la pretesa, da parte del lavoratore, di mantenere definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto nato da una norma collettiva che ormai non esiste più perché caducata o sostituita da una successiva contrattazione collettiva. Ciò perché le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano invece dall’esterno sui singoli rapporti di lavoro, come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell’ipotesi di successione fra contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (che attiene esclusivamente, ai sensi dell’articolo 2077 Cc, al rapporto tra contratto collettivo ed individuale), restando la conservazione di quel trattamento affidata all’autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia.
La stessa durata di un contratto collettivo – è detto ancora in motivazione – rientra tra gli elementi disponibili da parte del sindacato, atteso che a questo soggetto è rimessa la valutazione “collettiva” della persistente corrispondenza della norma contrattuale agli interessi dei lavoratori associati, e, mutata la situazione contingente, esso ben può decidere di non conservarne ulteriormente l’efficacia. Del resto – continua il collegio romano -, il nuovo contratto può risultare “peggiorativo” in alcuni aspetti, ma evidentemente rispetto ad una situazione preesistente, mentre la nuova disciplina deve ritenersi corrispondente agli interessi degli associati rispetto alle situazioni sopravvenute. Unico limite del potere dispositivo del sindacato è costituito dal precetto dell’articolo 36 Costituzione – ma è evenienza rara che tale norma sia violata dalla contrattazione collettiva – dovendosi anche osservare che quasi sempre una valutazione in termini di trattamento peggiorativo è fatta sotto profili esclusivamente monetari ed individuali, mentre la pratica della contrattazione è sempre diretta a realizzare complessivi miglioramenti, ove la valutazione sia effettuata nella corretta prospettiva “collettiva”.
In applicazione di questi principi, la Suprema corte ritiene che non può essere messo in discussione il potere del sindacato di sostituire la precedente disciplina collettiva, anche con esito peggiorativo per il trattamento economico e normativo di tutti o alcuni lavoratori.
Nella specie si tratta proprio, ed esclusivamente, della successione nel tempo di contratti collettivi, e non di disposizione di diritti patrimoniali già insorti nel patrimonio dei singoli lavoratori. La questione controversa concerne, infatti, trattamenti integrativi del contratto nazionale introdotti con decorrenza dal 1991, secondo le regole dettate dal contratto integrativo di durata stipulato in quell’anno.
Ne discende che il nuovo contratto del 1997 poteva legittimamente determinare il contenuto degli obblighi, anche retributivi, del datore di lavoro a partire dalla sua entrata in vigore, non avendo operato alcuna disposizione di diritti già maturati a favore dei lavoratori.
È pertanto errata l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale nella specie non si configurerebbe un’ipotesi di successione di contratti collettivi perché il nuovo contratto è solo parzialmente modificativo del precedente. È parimenti errata l’ulteriore affermazione secondo la quale l’accordo del 1997 non sarebbe opponibile ai lavoratori dai quali le Os stipulanti non avevano ricevuto specifico mandato. Priva di rilievo è la circostanza che i lavoratori odierni intimati fossero iscritti ad un’organizzazione sindacale che non ha partecipato alla stipulazione del contratto del 1997; circostanza dalla quale la sentenza impugnata fa derivare la (errata) conseguenza che per essi questo contratto non sarebbe vincolante.
Al riguardo – sottolinea il collegio -, va ricordato il principio di diritto secondo il quale ove un contratto collettivo aziendale, stipulato dal sindacato per la tutela degli interessi collettivi dei lavoratori dell’azienda, venga successivamente modificato o integrato da un nuovo accordo aziendale stipulato dallo stesso sindacato, tutti i lavoratori che abbiano fatto adesione all’originario accordo, ancorché non iscritti al sindacato, sono vincolati dall’accordo successivo e non possono invocare l’applicazione soltanto del primo. Dovendosi ritenere sussistente l’adesione dei non iscritti al contratto del 1991, per esserne stati anch’essi beneficiari, ne discende l’irrilevanza della mancata partecipazione all’ accordo del 1997 della diversa organizzazione sindacale cui gli stessi erano iscritti.
Teodoro Elisino
(fonte: D&G, quotidiano del 27.6.2007)

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