EFFETTI DELLA SUCCESSIONE TRA CONTRATTI COLLETTIVI (ANCHE
DI DIVERSO LIVELLO) PER PENSIONATI E LAVORATORI IN SERVIZIO
1. Si pone spesso, in pratica, il problema se
pattuizioni e condizioni (di regola più favorevoli al lavoratore in servizio o
in quiescenza) poste in essere da contratti
nazionali di lavoro - sia in tema di inquadramenti sia in tema di benefici retributivi diretti
o indiretti, quali quelli discendenti da un trattamento pensionistico,
assistenziale o sanitario previsto da fondi di previdenza integrativa o
assistenziali nazionali e simili) - possano essere poste nel nulla o caducate ovvero peggiorate da successive
intese sindacali raggiunte tra le contrapposte Associazioni datoriali e
sindacali a livello nazionale ovvero derogate
nel tenore più favorevole (fissato a livello nazionale) da accordi
raggiunti in sede sindacale aziendale, tramite lo strumento della
contrattazione articolata o decentrata.
Mentre le problematiche indotte dalla
successione di normative contenute in contratti collettivi di pari livello
(entrambe nei ccnl o entrambe nei contratti aziendali) sono risolte, secondo la
dottrina e la giurisprudenza consolidate,
all’insegna del principio dell’identica o pari derogabilità, anche in peius, da parte della fonte
successiva nei confronti dell’antecedente venuta a scadere - senza implicare
pregiudizio alcuno, tuttavia, nei confronti dei diritti oramai acquisiti al
patrimonio dei lavoratori (c.d. “diritti quesiti”) - più complessa è la
problematica della derogabilità (o meno) della fonte di livello superiore (es.
nazionale) ad opera della fonte di livello inferiore (es. contratto aziendale).
2. Prima di esaminare quest’ultima
problematica, un cenno va fatto all’apparente deroga che il principio
soprariferito (in ordine agli effetti della successione di normative
peggiorative contenute in contratti di pari livello, successivamente stipulati)
subisce per i lavoratori nel frattempo andati in quiescenza, cioè nei confronti
dei pensionati.
Una recente sentenza della Cassazione (n. 2361
del 20 marzo 1996, Rel. Picone) si è
occupata della specifica problematica della “teorica” successione, per i
pensionati, di normative deteriori rispetto
a quelle contenute nel ccnl che
ne regolava il rapporto di lavoro al momento della cessazione dal
servizio, successione che, invero, per essi non rileva costituendo quel ccnl la
sola “ultima” fonte disciplinare del loro trattamento normativo. Conformemente
a quanto sopra, la Cassazione - nella citata decisione - ha asserito: “ Il fenomeno della successione dei contratti collettivi nel tempo non è
assimilabile a quello della successione tra norme giuridiche, per cui il
contratto collettivo posteriore non modifica l’assetto precedente ma sostituisce
una nuova regolamentazione a quella divenuta inefficace per scadenza del
termine o per volontà degli stessi stipulanti.
Ne
consegue che per i rapporti di lavoro
cessati nel vigore di una determinata fonte collettiva, i diritti attribuiti
dal contratto (ancorché si concretino in una rendita erogata periodicamente
mediante ratei) non possono essere influenzati dalla stipulazione di successivi
contratti (il cui oggetto è limitato ai rapporti di lavoro in atto), salvo che
i lavoratori cessati dal servizio non
abbiano conferito specifico mandato alle Organizzazioni sindacali stipulanti, o
ratificato la relativa attività negoziale, oppure abbiano prestato acquiescenza
alla nuova normativa.
Né può
configurarsi un’adesione del lavoratore al nuovo contratto stipulato dopo la
sua cessazione dal servizio nel fatto che questi abbia riscosso, per lungo
tempo e senza contestazioni, la rendita erogatagli sulla base delle modifiche
peggiorative intervenute, atteso che non è possibile attribuire contenuto
negoziale di rinunzia ad un comportamento consistente nell’accettazione di un
adempimento parziale, la quale rappresenta una facoltà del creditore (art. 1181
c.c.), salvo che non sia accompagnato da altri elementi che univocamente
dimostrino la volontà di dimissione del diritto”.
Appare importante sottolineare che
all’enunciazione del principio a favore dei pensionati la Corte è pervenuta
mediante la precisazione secondo cui la normativa di un contratto successivo
non “modifica”, ma “sostituisce integralmente ed ex novo” quella preesistente venuta a scadenza, cosicché
giustamente si dice che un contratto è “rinnovato” - cioè divenuto operativo
per intervenuta novazione con altra pattuizione - e non “ripristinato” con
modifiche successivamente apportate.
Infine va detto che alle stesse risultanze la
Corte poteva pervenire sulla base della teoria dell’intangibilità dei “diritti
quesiti”- intesi come già legittimamente entrati nella disponibilità
patrimoniale dei pensionati - quantunque rinunziabili direttamente, seppure nei
limiti di cui all’art. 2113 c.c. che dispone
l’invalidità, a condizione di impugnativa entro 6 mesi dall’avvenuto negozio
abdicativo, delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto “diritti del prestatore di lavoro derivanti
da disposizioni inderogabili di legge o dei contratti o accordi collettivi”
ovvero rinunziabili da parte delle mandatarie OO.SS., come precisa la Corte,
solo dietro conferimento ad esse di “specifico mandato” ad negotia del pensionato
(che è cosa ben diversa da quello generico di assistenza e tutela derivante dal
permanere del vincolo associativo al Sindacato da parte del lavoratore in
quiescenza).
3. Evidenziato questo aspetto essenziale per i
pensionati e sciogliendo la riserva, per i lavoratori in servizio, di cui al
punto 1), va detto che le risultanze dell’elaborazione giurisprudenziale dei
rapporti tra contrattazione collettiva periferica (a livello regionale,
provinciale, aziendale) e contrattazione nazionale (a livello interconfederale
e di categoria) può, in sintesi, suddividersi fondamentalmente in due fasi. La
prima, che si protrae per oltre un trentennio, rispecchia prevalentemente una
visione gerarchica del sistema delle fonti negoziali, temperata solo dal
principio del favor; la seconda, che
copre all'incirca gli ultimi venti anni, si contraddistingue per la graduale
ammissione dell'identica natura collettiva e perciò della pari dignità
funzionale dei contratti di lavoro di diverso livello, con il conseguente
corollario della loro reciproca derogabilità, sia pure non sempre in senso
peggiorativo.
Sinteticamente possiamo raggruppare i
principali indirizzi nel seguente modo:
a) parte della
giurisprudenza ha ritenuto che, in caso
di norme provenienti da fonti diverse ed in contrasto tra loro, debba
applicarsi il principio del favor e
quindi la normativa più favorevole ai lavoratori;
b) la stessa Corte
di Cassazione ha proposto in altre occasioni un'impostazione basata sulla c.d.
teoria del "mandato discendente",
secondo cui i contratti aziendali non possono modificare in peius la normativa dettata dai contratti di categoria, in quanto
le strutture sindacali a livello aziendale sono da considerarsi gerarchicamente
subordinate a quelle nazionali ed
altrettanto deve dirsi dei contratti da esse stipulati (così Cass. n. 233/1978,
in Orient. giur. lav. 1978, 342);
teoria temperata dalla contrapposta fondata sul c.d. “mandato ascendente”, secondo cui il contratto aziendale ben
potrebbe derogare in peius al
nazionale, sul presupposto che la stipulazione del primo importa la revoca
implicita del mandato conferito all’associazione nazionale firmataria del
contratto di livello superiore;
c) più
recentemente sono andati consolidandosi tre ulteriori orientamenti, tutti
quanti accomunati dalla legittimazione della deroga introdotta dalla fonte ad
ambito spaziale inferiore rispetto al contratto nazionale:
c1) il primo di
questi tende ad attribuire la
prevalenza al contratto collettivo stipulato in data posteriore (e ciò
indipendentemente dal livello o dal maggiore o minor favore per il lavoratore);
si è affermato che non esiste nell'ambito della normativa collettiva il
principio della supremazia gerarchica del contratto collettivo di ambito
maggiore rispetto a quello aziendale, essendo entrambi espressione di autonomia
privata (collettiva) e quindi posti per
l'ordinamento giuridico in una posizione paritaria per quanto attiene
all'intensità giuridica di dette fonti.
Pertanto - ed in
base al principio secondo il quale il contratto collettivo successivo può
modificare (anche in peggio) il contratto collettivo precedente - un accordo collettivo
aziendale può modificare in senso deteriore la regolamentazione contenuta nel
contratto nazionale precedente;
c2) il secondo
invece è volto a dare prevalenza alla fonte più vicina a coloro che hanno
disciplinato gli interessi in questione ( cosiddetto criterio della "competenza e della specialità"),
indipendentemente, in questo caso, dalla data di stipulazione. In tal senso,
Pret. Torino 19.3.1992, in Giur. piem.
1993, 44 e Cass. n. 4517/1986 (in dottrina, conf., Ferraro, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica
contrattuale di tutela, Cedam, 1981,397; cfr. anche Pera, Diritto
del lavoro, Cedam 1996, 154 e ss.). Secondo questo orientamento, quindi, il
concorso fra contrattazione collettiva nazionale e contrattazione collettiva di
livello inferiore (regionale, provinciale o aziendale), superati gli obsoleti
principi di "gerarchia, di favore e
di sopravvenienza", va individuato nel principio di competenza e di
specialità, alla stregua del quale la fonte collettiva più prossima agli
interessi oggetto di normazione è - in linea di massima e sempre nei limiti
della disciplina inderogabile di legge - prevalente sulle altre consimili,
anche se di livello superiore ;
c3) il terzo
orientamento, scartando anch'esso il criterio della prevalenza della disciplina
più favorevole ai lavoratori o quello della specialità, risolve il problema
della coesistenza di diverse discipline (conseguenti anche a successione
temporale di contratti di diverso ambito applicativo) secondo il criterio della
"autonomia negoziale" tra
le fonti, nel senso che entrambe
possono operare laddove non vi siano espresse preclusioni o riserve negoziali,
individuando la reale volontà delle parti manifestata in accordi nazionali o
locali, di pari dignità (e non gerarchicamente sottordinati), ed accertando, in
caso di modifiche in peius, che non
vengano lesi diritti quesiti dei lavoratori (conf. Cass. n. 3047/'85; Cass. n. 813/'89; Cass. 4713/'89/;
Cass. 2155/'90).
4. In dottrina è stato sostenuto, in linea con
quest'ultimi orientamenti, che "la
derogabilità-inderogabilità tra contratti collettivi a campo di applicazione
diverso non ha nel nostro ordinamento uno specifico fondamento e perciò una
giustificazione normativa" (così, G. Santoro-Passarelli, Derogabilità del contratto collettivo e livelli
di contrattazione, in Giorn. dir.
lav. e rel. ind. 1980, 617 e ss.). Anche se, nel nostro sistema, è
possibile desumere dagli statuti dei sindacati una relazione di gerarchia tra
associazioni di diverso livello, ciò non escluderebbe che le clausole del
contratto aziendale possano derogare (anche in
peius) a quelle del contratto nazionale. La strutturazione gerarchica
implica solo che le eventuali deroghe, in
melius o in peius, apportate dal sindacato periferico o dall'organismo
sindacale aziendale, non devono risultare in contrasto con le direttive
dell'associazione di grado superiore; conseguentemente l'inclusione, in sede di
contratto aziendale, di deroghe al contratto nazionale è subordinata al
"consenso" - quanto meno "tacito" - dell'associazione superiore.
Ma - secondo tale autore - anche se si
determinasse un "dissenso" dell'associazione superiore ciò non
porterebbe all'invalidità del contratto aziendale stipulato in contrasto con le
direttive sopraordinate. "Il mancato
consenso o il dissenso rileva in questo caso (solo) all'interno
dell'organizzazione sindacale e determina l'inadempimento dell'associazione
stipulante (o meglio di coloro che hanno agito in nome e per conto) nei
confronti dell'associazione cui la prima aderisce" (così, G.
Santoro-Passarelli, op.cit. 628). Le sanzioni in tal caso saranno quelle
previste dagli statuti, sempre che vi sia una specifica previsione statutaria,
in mancanza della quale "non sussiste evidentemente alcun ostacolo e
non potrà essere neppure irrogata alcuna sanzione nei confronti dei soggetti
che stipulano un contratto aziendale in deroga a quello nazionale"
(così, G. Santoro-Passarelli, cit., 628).
Non sono mancate, negli ultimi tempi, voci
tese a conferire una prevalenza (verso la quale noi stessi propendiamo) al
contratto nazionale sul contratto aziendale derogativo - in ragione della struttura piramidale dell’organizzazione
sindacale e dello spazio e peso degli statuti delle Confederazioni e delle
associazioni sindacali nazionali -, posizione ben vista dagli imprenditori per
i quali una centralizzazione della contrattazione significa “ridotta
conflittualità” nonché, sul versante degli interessi dei lavoratori,
soddisfacente per le stesse OO.SS., per le quali “ una compressione della capacità derogatoria dei contratti aziendali
si manifesta conveniente attesa la minor forza contrattuale che il sindacato
mostra all’interno delle aziende, in periodi di recessione economica”
(così, Vidiri, Contratto collettivo,
diritti individuali e poteri del sindacato, in Giur. it. 1987, IV, 452).
Comunque si deve convenire con Pera (op.cit., 155) che “la rassegna problematica delle posizioni compiuta (al punto 3, n.d.r.) attesta come oggi, in materia di contrattazione collettiva, ci siano
ben pochi punti fermi, molto essendo affidato ad un’ondeggiante giurisprudenza
ed agli orientamenti, tutti controvertibili, della dottrina”.
Mario
Meucci
- (pubblicato in "Confronti e Intese", rivista del Sinfub, n.
8-9/1996)
Successione di
contratti e modifica in peius anche per i lavoratori dissenzienti o non
iscritti alle OO.SS. stipulanti
-
Cassazione
– Sez. lav. – 5 giugno 2007, n. 13092- Pres. Mercurio – Rel. Battimiello –
P.M. Fuzio (concl. conf.) - Ricorrente Sicurtransport Spa – Controricorrente
Cutuli ed altri
-
-
Successione
di contratti – Modifiche peggiorative introdotte ed accettate da taluni
sindacati per revocare licenziamenti – Estensibilità a tutti i beneficiari,
anche non iscritti alle OO.SS. firmatarie, del contratto preesistente
modificato in alcuni istituti in peius.
-
-
Ove un
contratto collettivo aziendale, stipulato dal sindacato per la tutela degli
interessi collettivi dei lavoratori dell'azienda, venga successivamente
modificato o integrato da un nuovo accordo aziendale stipulato dallo stesso
sindacato, tutti i lavoratori che abbiano fatto adesione all'originario
accordo, ancorché non iscritti al sindacato, sono vincolati dall'accordo
successivo e non possono invocare l'applicazione soltanto del primo (Cass.
11 novembre 1987 n. 8325; 5 luglio 2002 n. 9764).
-
In
fattispecie dovendosi ritenere sussistente l'adesione dei non iscritti al
contratto del 1991, per esserne stati anch'essi beneficiari, ne discende
l'irrilevanza della mancata partecipazione all'accordo del 1997 della
diversa organizzazione sindacale cui gli stessi erano iscritti.
Svolgimento
del processo
-
Con la
sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Catania, rigettando l'appello
della s.p.a. Sicurtransport, ha ritenuto non vincolante per i lavoratori
odierni intimati, tutti dipendenti della filiale di Catania della società,
il contratto integrativo aziendale 27.11.1997 stipulato tra la società e le
organizzazioni sindacali di CGIL, CISL, e UIL e con l'intervento delle
rappresentanze sindacali aziendali di Catania, Agrigento e Palermo (ad esse
aderenti), con il quale ‑ in esito ad una complessa vicenda iniziata con
l'avvio il 16.4.1997 della procedura di mobilità per 42 dipendenti e
conclusasi con la comunicazione dei licenziamenti ‑ si prevedeva l'impegno
dell'azienda di revocare i licenziamenti e nel contempo si conveniva la
soppressione o il ridimensionamento di alcuni benefici economici e normativi
(premio di produttività, indennità vestiario, indennità di rischio,
festività di Pasqua, ferie). La inopponibilità era dovuta al fatto che il
suddetto accordo ‑ che aveva sostanzialmente recepito l'ipotesi di accordo
del 5.11.1997 e che implicava una riduzione della retribuzione, con
carattere peggiorativo rispetto al contratto integrativo aziendale del
31.1.1991, che quei benefici aveva introdotto ‑ non era stato sottoscritto
validamente dalla RSA dell'UGL di Catania, sindacato al quale i lavoratori
appellati erano iscritti, essendo «pacifico che i componenti della RSA‑UGL
di Catania (Castelli, Monforte e Granata) che [avevano] sottoscritto
l'accordo 27.11.1997 non erano dotati di potere rappresentativo, essendo
intervenuti alla riunione in assenza di qualsivoglia delega da parte dei
dipendenti iscritti a tale associazione sindacale, né tanto meno l'accordo
in questione risulta[va] sottoscritto dalla segreteria regionale della UGL».
Infatti, nel corso delle trattative che avevano preceduto il contratto
integrativo del 27.11.1997 nessun accordo era stato raggiunto tra la società
e la RSA di Catania aderente alla UGL, essendo stata adottata nel corso
della riunione tenutasi il 17.10.1997 soltanto un'ipotesi di accordo per la
rivisitazione del contratto integrativo (del 1991), avente carattere
preparatorio e programmatico e quindi privo di contenuto negoziale. «In
definitiva, [andava] esclusa la vincolatività per gli appellati dell'accordo
sancito dal verbale del 27.11.1997, atteso il carattere peggiorativo dello
stesso ed essendo i medesimi dissenzienti ed iscritti ad un'organizzazione
sindacale che non [aveva] partecipato alla stipulazione dello stesso.»
-
Avverso
questa decisione la s.p.a Sicurtransport ricorre per cassazione con un
motivo. Resistono e propongono ricorso incidentale con due motivi Cutuli
Giuseppe, Lo Voi Filippo, Cutuli Mariano, Spinella Pietro, Longo Antonio,
Petralia Giuseppe, Scardilli Santo, Speciale Antonino, Neri Nicola,
Intemullo Mario, Parrottino Antonio, Arrabbito Giuseppe, Rapisarda Rosario,
Di Stefano Filippo, Contino Luigi, Vizzini Rosario e Leanza Francesco.
-
Arena
Salvatore, Leanza Carmelo, Sardo Mario, Trovato Arcangelo, Calabrese Antonio
e Lombardi Giovanni, ai quali è stata rinnovata la notifica del ricorso, non
si sono costituiti.
-
Sicurtransport s.p.a. ha depositato memorie.
Motivi
della decisione
-
1.
Preliminarmente, la Corte riunisce i ricorsi, trattandosi di impugnazioni
avverso la medesima sentenza.
-
2.
Con l'unico motivo del ricorso principale, denunciando violazione e falsa
applicazione degli artt. 1362 e segg. c.c., in relazione all'accordo del 27
novembre 1997, degli artt. 2077 e 2113 c.c., nonché vizio di motivazione, la
società ricorrente sostiene che il Tribunale ha violato gli artt. 1362 e
segg. c.c. allorché ha affermato che l'integrativo del 1997 aveva inciso su
diritti già entrati nel patrimonio dei lavoratori e che non era perciò
opponibile ai dipendenti non aderenti ai sindacati firmatari. Andava invece
considerato che i sindacati e la società datrice di lavoro,
indipendentemente dall'accordo sulla revoca dei licenziamenti, ben potevano
modificare il precedente contratto integrativo del 1991 e ridefinire per il
futuro il contenuto e l'entità del trattamento economico complessivo, fatti
salvi soltanto i ratei di retribuzione, già maturati. Essendo stata
modificata la fonte di conformazione esterna del contenuto del rapporto di
lavoro (l'accordo aziendale), i lavoratori non conservavano alcun diritto al
mantenimento per il futuro della disciplina negoziale di cui godevano prima
della modifica intervenuta con l'accordo del 27.11.1997. Ciò in base al
principio secondo il quale il lavoratore non può pretendere di mantenere
come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una
norma collettiva che più non esiste perché caducata o sostituita da altra
successiva. Nell'ipotesi di successione di contratti collettivi, le
precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo
il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il
rapporto fra contratto collettivo e individuale, restando la conservazione
di quel trattamento affidata all'autonomia contrattuale delle parti
collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di
salvaguardia, sicché la nuova regolamentazione, ancorché avente carattere
peggiorativo per i lavoratori, sostituisce quella anteriore, senza trovare
alcun limite in situazioni soggettive aventi carattere di mera aspettativa,
tra cui rientrano i trattamenti economici non ancora maturati perché
relativi a prestazioni non rese. Nessuno dei lavoratori ricorrenti aderiva
all'epoca ad una delle organizzazioni firmatarie dell'accordo aziendale del
31.1.1991, sicché essi non erano legittimati a dolersi delle modifiche ad
esso apportate. E, non avendo l’UGL sottoscritto l'accordo del 1991, era del
tutto irrilevante il mancato consenso di questo sindacato alle modifiche del
1997. Errata è l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui
i lavoratori, in assenza di un loro specifico consenso, avrebbero acquisito
il diritto alla conservazione dei trattamenti previsti nel contratto
aziendale del 1991 anche per il tempo successivo alla sua modifica ad opera
dell'accordo del 1997, perché il contratto collettivo non si incorpora nel
contratto individuale, ma opera dall'esterno, sicché, mutando la fonte, muta
corrispondentemente il contenuto del secondo. Anche il contratto aziendale è
affidato all'autonomia collettiva, e pertanto i rappresentanti dei
lavoratori hanno il potere di apportare modifiche, anche peggiorative, sia
al contratto nazionale che a quello aziendale, senza che occorra uno
specifico mandato o la ratifica del loro operato.
-
3.
Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia l'errore del
Tribunale che non ha dichiarato la contumacia di cinque lavoratori appellati
che non si erano costituiti. Viene anche rilevato che la società non aveva
interesse ad appellare nei confronti dei lavoratori Arena Salvatore e
Lombardo Giovanni perché la loro domanda era stata rigettata ed essi non
avevano proposto appello alla sentenza di primo grado che li aveva visti
soccombenti.
-
Con il
secondo motivo si lamenta la compensazione delle spese.
-
4.
Con riferimento al ricorso principale nei confronti di Arena Salvatore e
Lombardo Giovanni e al primo motivo del ricorso incidentale, che ha ad
oggetto tale aspetto della controversia, va pronunciata la cassazione senza
rinvio della sentenza impugnata limitatamente al rigetto dell'appello nei
confronti dei due predetti lavoratori. Poiché la loro domanda era stata
rigettata dal primo giudice (senza che interponessero appello), il
Tribunale, pronunciando in grado di appello, avrebbe dovuto dichiarare
l'inammissibilità dell'appello della società nei confronti dei due predetti
lavoratori, per difetto di interesse (Cass. n. 6776 del 1995; n. 5272 del
1996).
-
5.
L'unico motivo dei ricorso principale è fondato. La Corte più volte ha avuto
modo di precisare che le funzioni specifiche riconosciute dall'ordinamento
alle associazioni sindacali consistono (come emerge dalle varie norme che,
pur senza dare attuazione all'art. 39 Cost., fanno ad esse riferimento)
nella stipula di contratti collettivi aventi efficacia obbligatoria per
tutti gli iscritti e nello svolgimento, in favore degli stessi, di opera di
promozione civile, sostegno nelle rivendicazioni e assistenza nelle
controversie, senza che possa però configurarsi una legittimazione delle
associazioni medesime a rinunciare, transigere o conciliare diritti
soggettivi (ancorché acquisiti dai singoli lavoratori in forza di
pattuizioni collettive), in difetto di espressa previsione normativa in tal
senso o di uno specifico mandato da parte degli associati (Cass. n. 1140 del
1983; n. 1577 del 1985).
-
Ma non vi è
contrasto tra questo principio e quello, del pari fermamente enunciato dalla
Corte nella sua giurisprudenza consolidata, secondo il quale, in tema di
successione di contratti collettivi, il lavoratore non può invocare un
diritto acquisito in forza della precedente contrattazione. Infatti, una
cosa è l'indisponibilità, da parte del sindacato, dei diritti soggettivi
perfetti attribuiti da un determinato contratto collettivo, ed altra è la
pretesa, da parte del lavoratore, di mantenere definitivamente acquisito al
suo patrimonio un diritto nato da una norma collettiva che ormai non esiste
più perché caducata o sostituita da una successiva contrattazione collettiva
(ex plurimis, Cass. n. 4947 del 199l; n. 2155 del 1990; n. 1147 del
1988; n. 9175 del 1987; n. 5592 del 1986). Ciò perché le disposizioni dei
contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti
individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo
delle organizzazioni sindacali, ma operano invece dall'esterno sui singoli
rapporti di lavoro, come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la
fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione fra contratti
collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere
conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (che attiene
esclusivamente, ai sensi dell'art. 2077 cod. civ., al rapporto tra contratto
collettivo ed individuale), restando la conservazione di quel trattamento
affidato all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che
possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia.
-
La stessa
durata di un contratto collettivo rientra tra gli elementi disponibili da
parte dei sindacato, atteso che a questo soggetto è rimessa la valutazione
"collettiva" della persistente corrispondenza della norma contrattuale agli
interessi dei lavoratori associati, e, mutata la situazione contingente,
esso ben può decidere di non conservarne ulteriormente l'efficacia. Del
resto, il nuovo contratto può risultare "peggiorativo" in alcuni aspetti, ma
evidentemente rispetto ad una situazione preesistente, mentre la nuova
disciplina deve ritenersi corrispondente agli interessi degli associati
rispetto alle situazioni sopravvenute. Unico limite del potere dispositivo
del sindacato è costituito dal precetto dell'art. 36 Cost. ‑ ma è evenienza
rara che tale norma sia violata dalla contrattazione collettiva ‑, dovendosi
anche osservare che quasi sempre una valutazione in termini di trattamento
peggiorativo è fatta sotto profili esclusivamente monetari ed individuali,
mentre la pratica della contrattazione è sempre diretta a realizzare
complessivi miglioramenti, ove la valutazione sia effettuata nella corretta
prospettiva “collettiva”.
-
In
applicazione di questi principi, non può essere messo in discussione il
potere del sindacato di sostituire la precedente disciplina collettiva,
anche con esito peggiorativo per il trattamento economico e normativo di
tutti o alcuni lavoratori.
-
Nella
specie si tratta proprio, ed esclusivamente, della successione nel tempo di
contratti collettivi, e non di disposizione di diritti patrimoniali già
insorti nel patrimonio dei singoli lavoratori. La questione controversa
concerne infatti trattamenti integrativi del contratto nazionale introdotti
con decorrenza dal 1991, secondo le regole dettate dal contratto integrativo
di durata stipulato in quell'anno.
-
Ne discende
che il nuovo contratto del 1997 ‑ che aveva tratto origine da una situazione
di crisi della società datrice di lavoro, resasi tuttavia disponibile ad una
revoca dei licenziamenti ‑ poteva legittimamente determinare il contenuto
degli obblighi, anche retributivi, del datore di lavoro a partire dalla sua
entrata in vigore, non avendo operato alcuna disposizione di diritti già
maturati a favore dei lavoratori.
-
È pertanto
errata l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale
nella specie non si configurerebbe un'ipotesi di successione di contratti
collettivi perché il nuovo contratto è solo parzialmente modificativo del
precedente. E parimenti errata è l'ulteriore affermazione secondo la quale
l'accordo del 1997 non sarebbe opponibile ai lavoratori dai quali le 00. SS.
stipulanti non avevano ricevuto specifico mandato.
-
6.
Premesso non essere contestato quanto espressamente presupposto nel ricorso
della società, e cioè che i sindacati che hanno stipulato il contratto
(peggiorativo) del 1997 sono gli stessi che sottoscrissero il contratto del
1991, priva di rilievo è la circostanza che i lavoratori odierni intimati
fossero iscritti ad un'organizzazione sindacale che non ha partecipato alla
stipulazione del contratto del 1997; circostanza dalla quale la sentenza
impugnata fa derivare la (errata) conseguenza che per essi questo contratto
non sarebbe vincolante.
-
Al riguardo
va ricordato il principio di diritto secondo il quale ove un contratto
collettivo aziendale, stipulato dal sindacato per la tutela degli interessi
collettivi dei lavoratori dell'azienda, venga successivamente modificato o
integrato da un nuovo accordo aziendale stipulato dallo stesso sindacato,
tutti i lavoratori che abbiano fatto adesione all'originario accordo,
ancorché non iscritti al sindacato, sono vincolati dall'accordo successivo e
non possono invocare l'applicazione soltanto del primo (Cass. 11 novembre
1987 n. 8325; 5 luglio 2002 n. 9764).
-
Dovendosi
ritenere sussistente l'adesione dei non iscritti al contratto del 1991, per
esserne stati anch'essi beneficiari, ne discende l'irrilevanza della mancata
partecipazione all'accordo del 1997 della diversa organizzazione sindacale
cui gli stessi erano iscritti.
-
7.
Il primo motivo del ricorso incidentale, con il quale si censura la sentenza
impugnata (anche) per non aver dichiarato la contumacia di alcuni appellati,
è inammissibile per difetto di interesse; innanzitutto perché la mancanza di
una formale dichiarazione di contumacia non incide sulla regolarità del
contraddittorio, e, in secondo luogo, perché tale omissione non spiega alcun
effetto sugli atti del processo se non vengano denunciati pregiudizi dalla
parte che abbia interesse alla detta dichiarazione, come è nella specie.
-
8.
All'accoglimento del ricorso principale consegue la cassazione della
sentenza impugnata. Non rendendosi necessari ulteriori accertamenti di
fatto, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto dell'originaria
domanda dei lavoratori. Stimasi di giustizia compensare le spese dell'intero
processo, restando così assorbito il secondo motivo dell'appello
incidentale.
PQM
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La Corte
riunisce i ricorsi. Pronunciando sul ricorso principale contro Arena
Salvatore e Lombardo Giovanni e sulla seconda censura del primo motivo del
ricorso incidentale, cassa senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente
ai predetti. Nulla per le spese. Accoglie lo stesso ricorso principale nei
confronti degli altri lavoratori. Dichiara inammissibile la prima censura
del primo motivo del ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in
relazione al ricorso (principale) accolto, e, decidendo nel merito, rigetta
la domanda. Dichiara assorbito il secondo motivo del ricorso incidentale.
Compensa le spese dell’intero processo.
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Roma
23.1.2007 (depositato il 5.6.2007)
Nota: Contratti collettivi di
lavoro, successione nel tempo e possibili clausole peggiorative
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Dalla complessa vicenda
in esame sono evidenziabili interessanti principi che i supremi giudici
hanno ritenuto di affermare, od anche solo ribadire, in tema di successione
di contratti collettivi integrativi di lavoro, con la pronuncia 13092/07,
depositata lo scorso 5 giugno e qui leggibile nei documenti correlati.
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Nell’anno 2002, il
Tribunale di Catania, rigettando l’appello di una Spa, ha ritenuto non
vincolante per i lavoratori ricorrenti, dipendenti della filiale della
società, il contratto integrativo aziendale sottoscritto in data 27 novembre
1997, con cui si conveniva, tra l’altro, la soppressione o il
ridimensionamento di alcuni benefici economici e normativi (premio di
produttività, indennità vestiario, indennità di rischio, festività di
Pasqua, ferie). Per i giudici catanesi, la inopponibilità era dovuta al
fatto che il suddetto accordo che implicava una riduzione della
retribuzione, con carattere peggiorativo rispetto al precedente contratto
integrativo aziendale, che quei benefici aveva introdotto, non era stato
sottoscritto validamente dalla Rsa dell’Ugl di Catania, sindacato al quale i
lavoratori appellati erano iscritti, essendo «pacifico che i componenti
della Rsa-Ugl di Catania che [avevano] sottoscritto l’accordo 27 novembre
1997 non erano dotati di potere rappresentativo, essendo intervenuti alla
riunione in assenza di qualsivoglia delega da parte dei dipendenti iscritti
a tale associazione sindacale, né tanto meno l’accordo in questione
risulta[va] sottoscritto dalla segreteria regionale della Ugl». Infatti, nel
corso delle trattative che avevano preceduto il contratto integrativo del 27
novembre 1997 nessun accordo era stato raggiunto tra la società e la Rsa di
Catania aderente alla Ugl, essendo stata adottata nel corso della riunione
tenutasi il 17 ottobre 1997 soltanto un’ipotesi di accordo per la
rivisitazione del contratto integrativo (del 1991), avente carattere
preparatorio e programmatico e quindi privo di contenuto negoziale. In
definitiva - per i giudici siciliani - [andava] esclusa la vincolatività per
gli appellati dell’accordo sancito dal verbale del 27 novembre 1997, atteso
il carattere peggiorativo dello stesso ed essendo i medesimi dissenzienti ed
iscritti ad un’organizzazione sindacale che non [aveva] partecipato alla
stipulazione dello stesso.
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Avverso la decisione
ricorre per cassazione la Spa, denunciando principalmente la violazione e
falsa applicazione degli articoli 1362 e ss. Cc, in relazione all’accordo
del 27 novembre 1997, allorché il Tribunale etneo ha affermato che
l’integrativo del 1997 aveva inciso su diritti già entrati nel patrimonio
dei lavoratori e che non era perciò opponibile ai dipendenti non aderenti ai
sindacati firmatari. Per la società, invece, andava considerato che i
sindacati e la società datrice di lavoro ben potevano modificare il
precedente contratto integrativo del 1991 e ridefinire per il futuro il
contenuto e l’entità del trattamento economico complessivo, fatti salvi
soltanto i ratei di retribuzione già maturati. Essendo stata modificata la
fonte di conformazione esterna del contenuto del rapporto di lavoro
(l’accordo aziendale) - sostiene la ricorrente - i lavoratori non
conservavano alcun diritto al mantenimento per il futuro della disciplina
negoziale di cui godevano prima della modifica intervenuta con l’accordo del
27 novembre 1997. Ciò, in base al principio secondo il quale il lavoratore
non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo
patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che più non esiste
perché caducata o sostituita da altra successiva.
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La Spa ritiene che
nell’ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti
disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio
del trattamento più favorevole (articolo 2077 Cc), che riguarda il rapporto
fra contratto collettivo e individuale, restando la conservazione di quel
trattamento affidata all’autonomia contrattuale delle parti collettive
stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia,
sicché la nuova regolamentazione, ancorché avente carattere peggiorativo per
i lavoratori, sostituisce quella anteriore, senza trovare alcun limite in
situazioni soggettive aventi carattere di mera aspettativa, tra cui
rientrano i trattamenti economici non ancora maturati perché relativi a
prestazioni non rese. Nessuno dei lavoratori ricorrenti aderiva all’epoca ad
una delle organizzazioni firmatarie dell’accordo aziendale del 31 gennaio
1991, sicché essi non erano legittimati a dolersi delle modifiche ad esso
apportate. E, non avendo l’Ugl sottoscritto l’accordo del 1991, era del
tutto irrilevante il mancato consenso di questo sindacato alle modifiche del
1997. Errata è l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui
i lavoratori, in assenza di un loro specifico consenso, avrebbero acquisito
il diritto alla conservazione dei trattamenti previsti nel contratto
aziendale del 1991 anche per il tempo successivo alla sua modifica ad opera
dell’accordo del 1997, perché il contratto collettivo non si incorpora nel
contratto individuale, ma opera dall’esterno, sicché, mutando la fonte, muta
corrispondentemente il contenuto del secondo. Anche il contratto aziendale è
affidato all’autonomia collettiva, e pertanto i rappresentanti dei
lavoratori hanno il potere di apportare modifiche, anche peggiorative, sia
al contratto nazionale che a quello aziendale, senza che occorra uno
specifico mandato o la ratifica del loro operato.
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Per i supremi giudici le
argomentazione della ricorrente sono fondate.
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La Corte - è detto nella
motivazione della sentenza romana - più volte ha avuto modo di precisare che
le funzioni specifiche riconosciute dall’ordinamento alle associazioni
sindacali consistono principalmente nella stipula di contratti collettivi
aventi efficacia obbligatoria per tutti gli iscritti, senza che possa però
configurarsi una legittimazione delle associazioni medesime a rinunciare,
transigere o conciliare diritti soggettivi (ancorché acquisiti dai singoli
lavoratori in forza di pattuizioni collettive), in difetto di espressa
previsione normativa in tal senso o di uno specifico mandato da parte degli
associati. Per i giudici di piazza Cavour, però, non vi è contrasto tra
questo principio e quello, del pari fermamente enunciato dalla Corte nella
sua giurisprudenza consolidata, secondo il quale, in tema di successione di
contratti collettivi, il lavoratore non può invocare un diritto acquisito in
forza della precedente contrattazione. Infatti, una cosa è
l’indisponibilità, da parte del sindacato, dei diritti soggettivi perfetti
attribuiti da un determinato contralto collettivo, ed altra è la pretesa, da
parte del lavoratore, di mantenere definitivamente acquisito al suo
patrimonio un diritto nato da una norma collettiva che ormai non esiste più
perché caducata o sostituita da una successiva contrattazione collettiva.
Ciò perché le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel
contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti
al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano invece
dall’esterno sui singoli rapporti di lavoro, come fonte eteronoma di
regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell’ipotesi di
successione fra contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono
suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più
favorevole (che attiene esclusivamente, ai sensi dell’articolo 2077 Cc, al
rapporto tra contratto collettivo ed individuale), restando la conservazione
di quel trattamento affidata all’autonomia contrattuale delle parti
collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di
salvaguardia.
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La stessa durata di un
contratto collettivo – è detto ancora in motivazione – rientra tra gli
elementi disponibili da parte del sindacato, atteso che a questo soggetto è
rimessa la valutazione “collettiva” della persistente corrispondenza della
norma contrattuale agli interessi dei lavoratori associati, e, mutata la
situazione contingente, esso ben può decidere di non conservarne
ulteriormente l’efficacia. Del resto – continua il collegio romano -, il
nuovo contratto può risultare “peggiorativo” in alcuni aspetti, ma
evidentemente rispetto ad una situazione preesistente, mentre la nuova
disciplina deve ritenersi corrispondente agli interessi degli associati
rispetto alle situazioni sopravvenute. Unico limite del potere dispositivo
del sindacato è costituito dal precetto dell’articolo 36 Costituzione – ma è
evenienza rara che tale norma sia violata dalla contrattazione collettiva –
dovendosi anche osservare che quasi sempre una valutazione in termini di
trattamento peggiorativo è fatta sotto profili esclusivamente monetari ed
individuali, mentre la pratica della contrattazione è sempre diretta a
realizzare complessivi miglioramenti, ove la valutazione sia effettuata
nella corretta prospettiva “collettiva”.
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In applicazione di
questi principi, la Suprema corte ritiene che non può essere messo in
discussione il potere del sindacato di sostituire la precedente disciplina
collettiva, anche con esito peggiorativo per il trattamento economico e
normativo di tutti o alcuni lavoratori.
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Nella specie si tratta
proprio, ed esclusivamente, della successione nel tempo di contratti
collettivi, e non di disposizione di diritti patrimoniali già insorti nel
patrimonio dei singoli lavoratori. La questione controversa concerne,
infatti, trattamenti integrativi del contratto nazionale introdotti con
decorrenza dal 1991, secondo le regole dettate dal contratto integrativo di
durata stipulato in quell’anno.
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Ne discende che il nuovo
contratto del 1997 poteva legittimamente determinare il contenuto degli
obblighi, anche retributivi, del datore di lavoro a partire dalla sua
entrata in vigore, non avendo operato alcuna disposizione di diritti già
maturati a favore dei lavoratori.
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È pertanto errata
l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale nella
specie non si configurerebbe un’ipotesi di successione di contratti
collettivi perché il nuovo contratto è solo parzialmente modificativo del
precedente. È parimenti errata l’ulteriore affermazione secondo la quale
l’accordo del 1997 non sarebbe opponibile ai lavoratori dai quali le Os
stipulanti non avevano ricevuto specifico mandato. Priva di rilievo è la
circostanza che i lavoratori odierni intimati fossero iscritti ad
un’organizzazione sindacale che non ha partecipato alla stipulazione del
contratto del 1997; circostanza dalla quale la sentenza impugnata fa
derivare la (errata) conseguenza che per essi questo contratto non sarebbe
vincolante.
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Al riguardo – sottolinea
il collegio -, va ricordato il principio di diritto secondo il quale ove un
contratto collettivo aziendale, stipulato dal sindacato per la tutela degli
interessi collettivi dei lavoratori dell’azienda, venga successivamente
modificato o integrato da un nuovo accordo aziendale stipulato dallo stesso
sindacato, tutti i lavoratori che abbiano fatto adesione all’originario
accordo, ancorché non iscritti al sindacato, sono vincolati dall’accordo
successivo e non possono invocare l’applicazione soltanto del primo.
Dovendosi ritenere sussistente l’adesione dei non iscritti al contratto del
1991, per esserne stati anch’essi beneficiari, ne discende l’irrilevanza
della mancata partecipazione all’ accordo del 1997 della diversa
organizzazione sindacale cui gli stessi erano iscritti.
Teodoro Elisino
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(fonte: D&G, quotidiano del 27.6.2007)