Demansionamento, danno alla professionalità e danno esistenziale

 

T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 5 aprile 2007, n. 6397 - Pres. D’Alessandro - Rel. Pappalardo –  Ricorrente: A. – Controricorrente: Azienda ospedaliera Universitaria della SUN di Napoli.

 

Demansionamento – Sussistenza di danno professionale ed esistenziale – Risarcibilità.

 

Il danno da dequalificazione professionale attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 Cost., avente ad oggetto il diritto fondamentale del  lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel  luogo di lavoro, secondo le mansioni e con la qualifica spettantegli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente   ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di  relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro e in quello socio- familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello.

Tali principi si attagliano con peculiare corrispondenza alla fattispecie in esame, in cui la professionalità in rilievo è quella di medico oncologo e docente universitario, la cui esperienza si arricchisce di giorno in giorno attraverso la somministrazione di protocolli terapeutici ai pazienti, degenti e non, della Unità di afferenza: ivi il diritto all’esplicazione delle proprie mansioni è particolarmente pregnante, in quanto si sostanzia nella possibilità- attraverso il costante esercizio- di mantenere e sviluppare non solo capacità professionali, ma le concrete capacità di aggiornamento  e di individuazione di protocolli terapeutici sempre più avanzati. In particolare per il lavoro di oncologo medico , titolare di insegnamento universitario e di attività di ricerca in campo oncologico, le componenti di danno professionale rilevanti sono il mancato contatto la quotidianità della pratica professionale, l’impoverimento derivante dal mancato esercizio della aggiornamento professionale, la obsolescibilità dei protocolli terapeutici praticati, la perdita di chances.

Per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni - mezzo peraltro non relegato dall' ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la formazione del suo convincimento - purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 cod. civ. venga offerta una serie concatenata di fatti noti ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto.

Nello specifico, la durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, comprovati anche dalle reazioni dei pazienti in cura, la frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di sviluppo professionale, partecipazioni a convegni, pubblicazioni scientifiche, sono elementi  che comprovano per presunzioni il verificarsi di un danno cd. esistenziale (cfr. in tal senso Corte di Cassazione, sentenza n. 2546 del 6 febbraio 2007).

Quanto alla componente patrimoniale del danno così individuata, il parametro di riferimento per la liquidazione equitativa viene individuato comunemente nella entità della retribuzione percepita (in una percentuale variabile dal 25 al 100%): ciò in quanto la retribuzione costituisce espressione (ex art 36 Cost.) anche del contenuto professionale della prestazione.

Nella specie, ritiene il Tribunale che in via equitativa il pregiudizio sofferto, tenuto conto della durata del demansionamento, della delicatezza e complessità delle mansioni del ricorrente, possa determinarsi in una somma mensile pari al 50% della retribuzione.

Il totale delle retribuzioni per tale periodo ammonta ad Euro 312.986,40 lordi sicché il danno alla professionalità, secondo il criterio indicato, va determinato nella somma di 156.493,20  lordi.

L’entità del danno esistenziale si stima nella misura di 10.000,00 (diecimila/00).

 

F A T T O - Con il ricorso specificato in epigrafe, il dott. A.  premette:

di essere ricercatore confermato a tempo pieno dipendente della S.U.N. equiparato al profilo di dirigente medico di II livello, di svolgere le mansioni di oncologo medico quale responsabile della terapia citostatica presso l’istituto di chirurgia toracica della AOU della Seconda Università degli studi di Napoli;

che nel locale ubicato al piano terra di detto Istituto sino al 27.9.2005 aveva svolto attività didattica (preparazione studenti per vari corsi di laurea, esami e assistenza alla preparazione di tesi di laurea); attività di ricerca (delineazione dei risultati medico scientifici derivanti dalla analisi della attività assistenziale), ed attività di assistenza in senso lato (consultazione con i pazienti redazione e custodia delle cartelle cliniche, definizione dei programmi di cura);

che inoltre sino al settembre 2004 nel locale attiguo adibito ad ambulatorio, aveva svolto anche attività di preparazione e somministrazione della chemioterapia ai pazienti.

Che con sentenza di questo Tribunale n. 3836/2001 otteneva il riconoscimento della qualifica di dirigente di II livello, ai fini della equiparazione al personale ospedaliero, ma che a seguito del giudicato la SUN non gli assegnava la direzione di struttura complessa con propri locali, strutture e personale, lasciandolo responsabile della terapia citostatica negli stessi locali

Che l’amministrazione poneva in essere in suo danno una serie di comportamenti dequalificatori e discriminatori, consistenti nella : sospensione delle chemioterapia per i pazienti in cura presso l’Istituto di chirurgia toracica, (giusta disposizione del settembre 2004), a seguito della quale veniva privato anche dell’infermiere Fiorillo, trasferito presso il servizio di ematologia;

Che ad ottobre 2004 il commissario straordinario della AOU comunicava  per iscritto la sospensione del servizio chemioterapico, consentendo esclusivamente il completamento dei trattamenti in corso (ma non provvedeva ad assegnargli idoneo locale per cui essendo quello  esistente ritenuto non adeguato, avendone disposto anche la asportazione della cappa aspirante, non poteva di fatto svolgere detti trattamenti);

Che con lettera del gennaio 2005 manifestava la propria preoccupazione per il pregiudizio alla salute dei pazienti derivante dalla sospensione del trattamento chemioterapico;

Che a nulla valevano le sue richieste di ottenere locali idonei allo svolgimento delle proprie attività professionali, e che in mancanza vedeva pregiudicato l’esercizio delle sue mansioni in senso più qualificante, venendo meno anche il presupposto della ricerca con la privazione della possibilità di applicare terapie ai pazienti;

Che solo il 14.2.2005 dopo ripetuti solleciti, il direttore generale AOU in via provvisoria gli assegnava un locale per la somministrazione di farmaci antiblastici, esclusivamente per i pazienti in corso di trattamento , ai fini della continuità terapeutica, sicché gli era consentito di svolgere l’ attività assistenziale con un numero assai esiguo di pazienti, venendo a calare notevolmente le sue funzioni assistenziali, e venendo a mancare i fondamentali presupposti per lo svolgimento della ricerca, sino da ultimo ad avere in cura soli due pazienti;circostanza che non gli consentiva di mantenere un adeguato supporto per la propria attività di ricerca, che ne veniva fortemente penalizzata anche attraverso la mancata partecipazione a convegni e studi;

Che con lettera del 9 maggio 2005 il Direttore generale della AOU lo invitava a lasciare liberi i locali al piano terra dell’istituto di chirurgia toracica, locale da destinare al centro unico di prenotazione (peraltro mai attuato in seguito);

Che richiedeva altra sede per svolgere la propria attività didattica e di ricerca, ma il 22.9.2005 veniva effettuato lo sgombero del suo locale,senza attribuirgli altra allocazione;

Che solo a seguito di incontro con il rettore il 27.9.2005 gli veniva concesso di occupare temporaneamente un locale dell’ex Istituto di biologia;

Che quanto alla prova del comportamento persecutorio posto in essere nei propri confronti venivano in rilievo: la scarsezza delle dotazioni strumentali e del personale infermieristico, la circostanza che l’attività assistenziale di oncologia era stata conferita a medici che non rivestono la qualifica di oncologo, laddove egli è l’unico oncologo medico presso l’AOU struttura centro storico; che l’affidamento di interi reparti era stato effettuato in favore di dirigenti di I livello;

Che tanto gli aveva causato un ingiusto danno professionale, morale ed esistenziale, integrando una attività persecutoria riconducibile al mobbing;

Che l’impoverimento delle mansioni, la dequalificazione professionale, integrano la violazione dell’art. 2087 c.c., perdurando il comportamento datoriale che non aveva provveduto a reintegrarlo nella pienezza ed effettività delle sue funzioni;

Che l’elemento psicologico si ravvisa nella lunga serie di comportamenti omissivi volti in direzione discriminatoria, anche in rapporto al comportamento tenuto verso altri medici di qualifica inferiore;

Che l’atto stragiudiziale di diffida e messa in mora del 10.2.2006 era diretto a reclamare il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente ai comportamenti, atti ed omissioni dell’amministrazione, diffida alla quale la AOU aveva risposto con gli atti impugnati, limitandosi a trasmettere la relazione del direttore sanitario del Presidio ospedaliero centro storico;

tanto premesso, lamentava:

- violazione dell’art. 2103 c.c. ,dell’art. 52 D. Lgs 165/2001 artt. 1,2,4 e 35 Costituzione,   per illegittimo demansionamento, lesione del diritto alle mansioni  ed alla qualificazione professionale,

- violazione arrt. 2087 c.c..art. 28 Costituzione, art. 2049 c.c., art. 32 Cost. ed eccesso di potere sotto vari profili, per mancata tutela della integrità fisica e psicologica del prestatore di lavoro, mancata adozione delle misure idonee a ripristinare l’esercizio delle mansioni proprie del profilo di appartenenza, il tutto riconducibile all’amministrazione datore di lavoro;

- violazione art. 3 D.Lgs. 517/1999 art. 4 DPCM 24.5.2001 ed eccesso di potere sotto vari profili: dalle citate disposizioni si ricaverebbe il principio per cui tra le attribuzioni dei dirigenti rientra , oltre a quella derivante dalle specifiche competenze professionali, anche quella di direzione ed organizzazione della struttura, come esplicitato dall’art. 15 comma VI D. lgs 502/1992. 

Instauratosi ritualmente il contraddittorio, si costituiva in giudizio l’Azienda ospedaliera Universitaria e  contestava con varie argomentazioni la fondatezza della domanda nel merito.

Si costituiva altresì la Seconda Università degli studi di Napoli, rilevando il proprio difetto di legittimazione passiva, in relazione a  doglianze tutte riconducibili ad attività poste in essere direttamente dalla Azienda ospedaliera.

A seguito di ordinanza collegiale istruttoria venivano depositati relazione del direttore generale della Azienda ed allegati documenti  in data 18 gennaio 2007.

Alla udienza del 5 aprile 2007 il ricorso è stato ritenuto in decisione.

 

DIRITTO. - Va premesso che la eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa della Azienda resistente con riferimento alla mancata impugnativa nei termini degli atti  lesivi della posizione lavorativa del ricorrente (dell’ottobre 2004 con cui era stata disposta la sospensione del servizio chemioterapico, della nota del febbraio 2005) , è infondata, atteso che il consolidamento del provvedimento amministrativo lesivo del diritto del prestatore alle mansioni non impedisce al G.A. di indagare se vi sia stata una violazione in concreto di tale diritto ai fini del risarcimento del danno lamentato dal prestatore di lavoro.

Invero, la posizione soggettiva del dipendente che agisce a tutela delle proprie mansioni ha consistenza di vero e proprio diritto soggettivo,  sicché l’azione per il risarcimento del danno conseguente alla violazione di tali  diritti non è soggetta al termine decadenziale, ma all’ordinario termine di prescrizione.

In altri termini, il Collegio ritiene di prescindere dalla impugnativa degli atti di organizzazione delle unità operative dell’Azienda, atteso che – in disparte i contestati profili di tardività- la discrezionalità che connota tale attività non può essere comunque esercitata in modo tale da violare fondamentali diritti della persona, tra cui il diritto al lavoro ed alla esplicazione della personalità anche nei luoghi di lavoro, come è accaduto nella fattispecie in esame.

Pertanto rimane fermo il potere del giudice amministrativo adito di  verificare se le modalità in cui si è concretizzata tale organizzazione siano state tali da arrecare danno ad un singolo prestatore , per effetto dell’uso distorto o improprio delle stesse.

A tal fine non occorre il previo annullamento dell’atto di organizzazione che ha determinato la violazione lamentata del diritto, atteso che nel caso di atti amministrativi che abbiano prodotto eventi dannosi in violazione di diritti soggettivi, ciò che il giudice è chiamato a fare non è decidere la controversia “come se l’atto amministrativo non esistesse” . Al contrario, la situazione significativa per il diritto che il privato chiede all’autorità giudiziaria di accertare è proprio la sussistenza del fatto storico costituito dall’adozione del provvedimento che si assume aver provocato l’evento dannoso, nonché il riconoscimento della sua illiceità e della riconducibilità ad esso della lesione lamentata. In altre parole, in sede di azione risarcitoria non si tratta di disapplicare l’atto, poiché ciò che l’attore chiede è che proprio quell’atto venga riconosciuto illegittimo e produttivo di conseguenze negative ingiuste sulla propria sfera patrimoniale.

La irrilevanza della cd. pregiudiziale amministrativa al riguardo trova conferma nel recente orientamento delle SS.UU. della Corte di Cassazione (ord. 10180/2004) , proprio in tema di rapporti di impiego di professori e ricercatori universitari, in cui è stato affermato in punto di giurisdizione che in  tali fattispecie debba trovare applicazione il disposto dell'art. 68, comma 4, del d.lgs. n. 29 del 1993 (ora art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001), con esclusione dalla privatizzazione del rapporto di lavoro dei professori universitari,disponendo che lo stesso resti devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Ha poi osservato la Corte regolatrice della giurisdizione che l’art. 35, comma 4, del d.lgs. n. 80/1998, novellato dall'art. 7, comma 1, della legge 21 luglio 2000 n. 205, sostituendo il primo periodo dell'art. 7, comma 3, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, statuisce ora che "Il Tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione specifica e agli altri diritti patrimoniali consequenziali». 

Osserva la S.C. che non può porsi in discussione come “ il potere del Tribunale amministrativo di condannare l'amministrazione al risarcimento del danno riguarda non solo le controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva ma anche quelle rientranti nel giudizio generale di legittimità, come si evince dal disposto secondo il quale il giudice amministrativo conosce delle questioni relative al risarcimento del danno «nell'ambito della sua giurisdizione» (espressione quest'ultima non seguita da alcuna specificazione). Come si è affermato in dottrina, il potere di assicurare il risarcimento da parte del giudice amministrativo riguarda tutto l'universo della giurisdizione di quest'ultimo e non solo le materie attratte alla giurisdizione esclusiva, come si sarebbe invece potuto opinare se fosse rimasto fermo il riferimento - operato dal precedente testo dell'art. 35, comma 4, del d.lgs. n. 80/1989 - alle «materie», termine tradizionalmente evocativo dei blocchi di giurisdizione esclusiva.”

In sintesi, è desumibile proprio dalla ampia formulazione dell’art. 7 della legge n. 205 del 2000 la volontà legislativa di devolvere, al giudice amministrativo, «nell'ambito della sua giurisdizione», la cognizione dei danni, che scaturiscono da provvedimenti e da condotte non conformi a diritto (ossia illecite nella prospettiva dell'art. 2043 c.c.), senza che all'uopo sia necessaria in via pregiudiziale una illegittimità provvedimentale consacrata dalla pronunzia di annullamento. (cfr. Cassazione, SS.UU. Civili, ordinanza 26.05.2004 n.10180).

Ad un approfondito esame, tali considerazioni non sono contraddette neppure dalla pronuncia della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che costituisce la matrice della teoria della cd. pregiudiziale amministrativa (Ad. Plen. N. 4/2003).

In tale occasione invero l’Adunanza plenaria ha affermato (con riferimento alla diversa materia della occupazione appropriativa)  che la tutela risarcitoria conseguente alla occupazione acquisitiva non ricade nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, essendo erroneo  il presupposto, che in tale ambito ogni situazione giuridica soggettiva possa e debba essere tutelata come un diritto soggettivo pieno senza bisogno di impugnare il provvedimento amministrativo degradatorio o, altrimenti nullo, come se, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, non fosse comunque configurabile alcun atto autoritativo

Al riguardo è stato richiamato il precedente del Consiglio (Sez. VI 27 gennaio 2003 n. 426) in cui si afferma che la circostanza che in una materia vi sia giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non significa che tutte le controversie in argomento vertano su diritti soggettivi. 
Vero è, infatti, che la giurisdizione esclusiva implica l’attribuzione di un’intera materia al giudice amministrativo, a prescindere dal tipo di situazione giuridica soggettiva fatta valere, e dunque senza necessità di individuare il tipo di situazione soggettiva, ma questo al solo fine della determinazione della giurisdizione. Però- continua la pronuncia citata-  una volta stabilito che la giurisdizione è del giudice amministrativo, occorre anche nell’ambito della giurisdizione esclusiva, individuare il tipo di situazione soggettiva lesa (interesse legittimo o diritto soggettivo) al fine di delimitare i poteri del giudice.

    La pregiudizialità è stata affermata partendo proprio dalla individuazione della posizione soggettiva tutelata come posizione di interesse legittimo, con la conseguenza ricadente sulla necessità di esperire un’azione di annullamento e della dichiarazione di inammissibilità dell’azione risarcitoria esclusivamente ed autonomamente intrapresa.

Nella diversa ipotesi in cui la situazione sia ab origine di diritto soggettivo, può trarsi il principio, implicitamente affermato nella citata pronuncia, che non possa discutersi di pregiudiziale amministrativa, essendo ammissibile che la parte introduca direttamente una azione di danni , sia dinanzi al giudice ordinario che a quello amministrativo.

Giova al riguardo richiamare anche le più recenti pronunce delle SS.UU. della Corte di Cassazione (ordinanza n. 15660 del 27.7.2005; 5078/2005 e 6745/2005), ove si afferma che il risarcimento del danno può essere disposto dal giudice amministrativo (purché ricorra la giurisdizione esclusiva o anche quella di sola legittimità) anche nel caso in cui la parte interessata si limiti ad invocare la sola tutela risarcitoria.

Tanto deve ritenersi configurabile anche  nella fattispecie in esame, in cui il ricorrente fa valere la lesione del proprio diritto alla esplicazione delle mansioni di cui è titolare in virtù di legge ,sì che è agevole pervenire alla conclusione della autonoma proponibilità dell’azione risarcitoria.

Di qui la necessità di istruttoria per accertare se le modalità in cui è stato organizzato il personale, strutture, locali, siano articolate in modo tale da avere penalizzato la attività assistenziale,connessa a quella didattica e di ricerca, del ricorrente e mediatamente la sua professionalità.

La controversa in esame coinvolge , al di là dei profili organizzativi interni dell’ Azienda Universitaria ospedaliera della SUN, la violazione del diritto del ricorrente alla esplicazione delle proprie mansioni; e tale pretesa trova fondamento nell’avere il divieto di dequalificazione professionale, nel nostro ordinamento, una puntuale previsione e una specifica tutela che trovano nell’art. 2103 del cod.civ  e nell’art. 52 D.lgs 30 marzo 2001 n. 165 la loro diretta fonte.

Stabilisce l’art. 52 d.lgs 165/2001: il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale di procedure concorsuali o selettive.

Trattandosi di dequalificazione professionale non solo viene in rilievo l’omologo dell’art. 2103 c.c. nel rapporto di impiego pubblico,ma soprattutto soccorre la giurisprudenza maturata per la sua interpretazione e applicazione.

Aderendo ad una consolidata giurisprudenza della S.C.,  va affermato che l’illecito non è escluso né dalla identità del livello di inquadramento del dipendente, né dal mantenimento del trattamento economico corrispondente alla qualifica rivestita formalmente, stante il diritto tutelato del lavoratore alla realizzazione delle proprie aspettative nell’ambito dell’attività lavorativa (cfr. Cassazione 13.8.1991 n. 8835; 14.11.2001 n. 14199): si ha dequalificazione in sostanza anche quando il datore di lavoro paga il dipendente, ma non lo fa lavorare.

Punto normativo diretto di  riferimento è l'art. 2103 c.c., che sancisce il diritto del lavoratore allo svolgimento delle mansioni per cui è stato assunto, con divieto di adibizione a mansioni inferiori.  Da tale norma discende il principio per cui il diritto del datore di lavoro ad attuare modifiche organizzative deve essere esercitato in modo da non ledere il corrispondente diritto del prestatore all'equivalenza delle mansioni svolte di cui all'art. 2103 c.c.: diversamente ravvisandosi un comportamento illecito nella inoperosità, depauperamento di mansioni,  ed emarginazione accompagnate al conseguente svilimento della personalità.

La peculiarità dell’interesse allo svolgimento concreto di tutte le mansioni inerenti la qualifica rivestita è espressione per la Corte di Cassazione di un diritto fondamentale alla esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, coinvolgendo un valore superiore, sintetizzato nel diritto alla professionalità.

Di qui l’affermazione (Cass. Sez. lavoro 2.11.2001 n. 13580; 12.11.2002 n. 15868) che , oltre ad integrare violazione dell’art. 2103 c.c., la dequalificazione ridonda in lesione di tale diritto fondamentale. Ed ancora va sottolineato come tale giurisprudenza enfatizza la rilevanza dell’obbligo datoriale sancito dall’art. 2103 c.c., cui corrisponde un diritto del lavoratore, dedotto non solo dal tenore letterale della norma, ma dalla stessa funzione del lavoro, che costituisce un mezzo prima ancora che di sostentamento e guadagno, di estrinsecazione della personalità del lavoratore ai sensi degli artt. 2 comma 1, 4 comma 1 e 35 comma 1 Costituzione (Cass. sez, lavoro 1.6.2002 n. 7967). Siffatta posizione da interesse si trasforma in diritto soggettivo con la stipula del contratto di lavoro che prevede una determinata prestazione; pertanto la lesione della posizione dedotta in contratto costituisce inadempimento contrattuale del datore, fonte di danno risarcibile.

Il fondamento giuridico di tale ricostruzione è individuato da un lato nel carattere del rapporto di lavoro subordinato, che non è puramente di scambio, ma coinvolge la persona del lavoratore; dall’altro nella natura di contratto di organizzazione (art. 2094 c.c.), per cui la disciplina degli aspetti patrimoniali deve coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della dignità della persona del lavoratore. A ciò deve aggiungersi il principio di esecuzione secondo buona fede del contratto di assunzione (art 1375 c.c.) ed il fenomeno di evoluzione del mercato del lavoro, che enfatizza la formazione continua del prestatore, valorizzando la funzione della prestazione lavorativa in tal senso.

La dequalificazione professionale comporta lesione di un bene immateriale per eccellenza, ossia la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo : e ciò viene in evidenza specialmente quando il lavoratore sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazioni di compiti costituendo il lavoro  un mezzo oltre che di guadagno ,anche di estrinsecazione della personalità del soggetto (Cass. Sez. lavoro 6.11.2000 n. 14443).  

I principi suesposti, attualmente estesi a tutta la gamma del lavoro subordinato, sono stati sviluppati dalla S.C. proprio prendendo come punto di partenza peculiari fattispecie, in cui la forzata inattività incide in maniera particolarmente pregiudizievole, determinando un danno derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita, e dalla mancata acquisizione di ulteriori capacità.

Le professioni in cui risalta tale meccanismo lesivo sono quelle soggette a continua evoluzione e bisognose di costanti aggiornamenti (per un precedente di rilievo in materia di pilotaggio aerei cfr. Cass. Sez. lavoro 14.11.2001 n. 14199 ove è affermato che il danno può consistere semplicemente nel mancato aggiornamento e nella mancata pratica della professione, pur a parità di retribuzione).

La Suprema Corte, da oltre un decennio, ha individuato come campo di “vulnus” alle mansioni particolarmente significativo quello delle professioni ad alto contenuto di qualificazione e specializzazione (a partire da Cass. Sez. lavoro 16.12.1992 n. 13299): in tale occasione la Cassazione ha ripreso il precetto dell’art. 2103 c.c., coniugandolo con la lesione di un superiore diritto fondamentale del lavoratore , in quanto cittadino (diritto desumibile dai valori democratici e lavoristici proclamati dall’art. 1 Costituzione).

Tali principi si attagliano con peculiare corrispondenza alla fattispecie in esame, in cui la professionalità in rilievo è quella di medico oncologo e docente universitario, la cui esperienza si arricchisce di giorno in giorno attraverso la somministrazione di protocolli terapeutici ai pazienti, degenti e non, della Unità di afferenza: ivi il diritto all’esplicazione delle proprie mansioni è particolarmente pregnante, in quanto si sostanzia nella possibilità- attraverso il costante esercizio- di mantenere e sviluppare non solo capacità professionali, ma le concrete capacità di aggiornamento  e di individuazione di protocolli terapeutici sempre più avanzati.

Sicché il danno da demansionamento professionale – in tutte le ipotesi di professioni a notevole specializzazione ovvero in genere qualora si tratti di dequalificazione di marcato spessore- non comporta un pregiudizio unico ed immediato, ma “ si risolve in un effettivo, concreto ed inevitabile ridimensionamento dei vari aspetti della vita professionale, che costituisce a sua volta un bagaglio peggiorativo diretto ad interferire negativamente nelle infinite future espressioni dell’attività lavorativa” (Cass. Sez, lavoro 18.10.1999 n. 11727).

La giurisprudenza ha posto in rilievo come la professionalità si autoalimenti nell’esercizio costante del lavoro e nell’aggiornamento insito nello stesso (Cass. Sez. lavoro 7.7.2001 n. 9228); osserva in proposito il Collegio che il medico che opera nel campo di una branca in continua evoluzione come quella della terapia oncologica, ha un interesse sicuramente apprezzabile all’esecuzione della prestazione, perché la sua capacità operativa viene seriamente pregiudicata quando non può esercitare la professione,o può farlo in maniera estremamente ridotta. In tal modo si produce una atrofizzazione della pratica, con decadimento inevitabile della professionalità, e della attività di ricerca che è strettamente integrata nel profilo di un docente universitario con funzioni assistenziali.

Il dato rilevante nel caso in esame è stabilire se si è in presenza di un demansionamento significativo; nella sostanza ritiene il Collegio di ravvisare gli elementi tipici del demansionamento consistenti nella :

pluralità delle condotte, unificate dalla loro sistematicità;

prolungato  lasso temporale nel quale sono  poste in essere;

conseguenze sulla posizione professionale del soggetto passivo, consistenti un depauperamento del valore professionale;

unilateralità dell’inadempimento, sottolineandosi la continua messa a disposizione delle proprie energie lavorative da parte del ricorrente.

Va pertanto accertato se , per effetto di una determinata organizzazione del lavoro, che – non rileva se legittima o meno - presenta caratteri di cd. costrittività organizzativa, si sia verificata una dequalificazione della professionalità del ricorrente, con riscontri sia in senso assoluto della attività affidata al ricorrente nell’arco di tempo in cui è lamentata la condotta illecita, sia in senso relativo, prendendo in esame i dati afferenti ad altri colleghi.

Al riguardo ,dalla espletata istruttoria, alla quale peraltro è stato dato riscontro solo parziale, è emersa la sostanziale conferma delle situazioni lamentate dal ricorrente.

In particolare, la relazione pervenuta ha posto in evidenza:

i dati statistici dei ricoveri presso l’Unità operativa di chirurgia toracica, che non appaiono significativi, riguardando l’attività complessiva della unità, e non quella specifica di terapia delle neoplasie, affidata alla professionalità del ricorrente; peraltro i dati evidenziano solo gli interventi chirurgici, ed i ricoveri medici, senza specificazione delle terapie somministrate , della tipologia dei trattamenti, dei medici che hanno operato gli stessi.

La relazione con allegati depositata in data 18 gennaio 2007 ha dato atto che con nota del 13.7.2004 la direzione sanitaria aveva accentrato la preparazione dei farmaci antiblastici, ma non la loro somministrazione,mentre dalla documentazione allegata all’atto di costituzione in giudizio della AOU e nota allegata del 13.10.2004 emerge un dato differente,ossia che a seguito di tale iniziativa, fu ordinato dopo pochi mesi anche l’accentramento della somministrazione degli antiblastici per motivi di sicurezza degli operatori sanitari, non svolgendo gli stessi l’attività relativa in locali idonei. Asserisce la difesa della azienda resistente che, mancando i requisiti di aerazione, di igiene del lavoro in senso ampio, si doveva creare una Unità farmaci antitumorali centralizzata, chiusa, protetta e segnalata; peraltro tale ammissione circostanziata non appare idonea ad attribuire una diversa qualificazione del comportamento della Azienda stessa, atteso che come è emerso nel corso della istruttoria, la unità di afferenza del ricorrente è nei fatti rimasta l’unica ad essere privata della somministrazione dei chemioterapici;

Alla stregua di tali disposizioni, la tesi del ricorrente di un quasi totale blocco delle sue mansioni assistenziali nel settore della somministrazione della chemioterapia, è accreditata dalla diverse note del direttore della Unità operativa prof. Pastore, tra cui prot. 71/05 del 27.9.2005, il quale attesta che da settembre 2004 a febbraio 2005 il ricorrente ha svolto prevalentemente diagnostica, preparazione preoperatoria ed assistenza post operatoria di degenti affetti da malattie neoplastiche. Aggiunge con nota n.-  70 del 4.1.2007 che il commissario straordinario della azienda con disposizione del 13.10.2004 sospese tutti i trattamenti chemioterapici presso le unità operative, consentendo in via eccezionale solo il trattamento di pazienti già “arruolati” a tale data, e quindi ad esaurimento, disposizioni alle quali si è attenuto il ricorrente, limitandosi solo alla consulenza clinica dei pazienti,senza effettuare alcun trattamento terapeutico dei tumori.

Peraltro, come confermato dalla relazione del 18.1.2007, il ricorrente era l’unico oncologo medico in organico presso la unità operativa di chirurgia toracica, sì che la sua professionalità è risultata fortemente penalizzata, a fronte di quella degli altri colleghi chirurghi, che non hanno ricevuto significative ricadute dalla modifica organizzativa.

Allo stato, non è ancora chiarito nella relazione citata quali siano i reparti dedicati alla somministrazione dei farmaci antiblastici, presso la Azienda resistente ,non essendo stato precisato se sia stata effettivamente costituita quella unità  centralizzata farmaci antitumorali, che era nelle intenzioni della direzione sanitaria. Non risulta neppure peraltro se e quali lavori siano stati posti in essere in altri locali per renderli eventualmente idonei alla somministrazione dei farmaci chemioterapici, e quale personale di fatto abbia proceduto nelle more alla somministrazione dei farmaci chemioterapici, il che può essere interpretato da questo Collegio come argomento di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c., a sostegno di quanto allegato da parte ricorrente, nel senso del mancato ripristino della somministrazione solo presso la propria unità operativa.

Tutti i dati di fatto come sopra accertati, sono contraddetti apoditticamente dalla nota 15.1.2007 prot. 107/X del direttore generale, il quale asserisce –senza peraltro allegare alcun riscontro documentale- che  le attività di chirurgia, chemioterapia ed altri trattamenti devono essere tra loro integrati, ed in tal senso fa riferimento unicamente alla nota del 13.7.2004, evidenziando come la stessa abbia centralizzato solo la preparazione e non la somministrazione dei farmaci antiblastici, e conclude che nessuna limitazione operativa deve ritenersi prevista o imposta alle unità operative ed ai singoli sanitari; considerazioni tutte in aperta contraddizione con quanto attestato dallo stesso direttore della unità operativa cui fa capo il ricorrente dott. Pastore, che ha dato conto della esistenza di una ulteriore nota dell’ottobre 2004 con cui  risulta disposta la sospensione anche della somministrazione degli antiblastici presso le singole unità, e la riduzione della attività in tal senso assegnata al dott. A.

Asserisce la difesa della azienda resistente di avere adottato tutte le possibili soluzioni per salvaguardare la posizione professionale del ricorrente:-- quanto alla attività didattica e di ricerca, gli è stato messo a disposizione un locale alternativo sito al piano terra dell’ex istituto di biologia;--quanto alla attività di assistenza, il 14.2.2005 è stato autorizzato in via eccezionale alla prosecuzione dei trattamenti per i pazienti già “arruolati”. Sennonché in tal modo la difesa conferma proprio la dequalificazione  professionale posta in essere in danno del ricorrente, essendo di tutta evidenza che il trattamento ad esaurimento di un numero limitatissimo di pazienti ne mortifica la professionalità, non solo sotto il profilo strettamente assistenziale (essendo di tutta evidenza che lo stesso può espletarsi anche attraverso la mera diagnosi, ed attività di tipo diverso), ma anche e soprattutto sotto il profilo della ricerca, risultando privato il ricorrente di un bagaglio di esperienze e casi clinici in   materia di protocolli terapeutici in un settore che si è evidenziato, si alimenta proprio dalla continua evoluzione nella sperimentazione di nuove terapie antitumorali.

La difesa della azienda si diffonde anche a giustificare la impossibilità della stessa di trasferirlo presso altro reparto, perché l’attività assistenziale è ancillare rispetto a quella  di ricerca, e pertanto doveva essere rispettata la dichiarazione di afferenza compiuta dalla Università, cui spetta la individuazione della Unità operativa in cui incardinare il ricorrente; dichiarazione compiuta proprio con riferimento al Dipartimento scienze chirurgiche di cui fa parte l’Istituto di chirurgia toracica. Aggiunge peraltro che il ricorrente non risulta neppure avere proposto una domanda di trasferimento presso altri reparti. Tuttavia, va osservato che ,se l’Università ha compiuto siffatta valutazione di afferenza, ciò è indice della necessità e peculiare interesse per la ricerca della attività di un oncologo medico presso la unità operativa di chirurgia, nella specie toracica, per cui anche la attività di ricerca e didattica risulta fortemente penalizzata da un diverso assetto organizzativo della Azienda in cui non sia stato salvaguardato lo specifico valore aggiunto della professionalità del ricorrente. Il dato della mancanza o estrema scarsità di trattamenti chemioterapici posti in essere dal ricorrente è quantomeno anomalo, in un contesto in cui ripetutamente il dott. A ha posto a disposizione della Azienda le proprie energie lavorative- caratterizzate da un contenuto indiscusso di professionalità.

Onde valutare le argomentazioni difensive della azienda resistente relative alla congruità delle funzioni assistenziali affidate al ricorrente, deve  ricorrersi alla individuazione della figura e del ruolo dell’ Oncologo medico in una struttura ospedaliera a carattere universitario. L’oncologia medica è una disciplina che derivata dalla Medicina Interna e dalla Oncologia Clinica, studia l'epidemiologia, i fattori di rischio, la patogenesi e la terapia dei tumori; ed è una delle specializzazioni più recenti, nata negli Stati Uniti a metà degli anni '70 e  poi diffusa in tutto il mondo.

L’oncologo medico è un medico specialista nella diagnosi e nel trattamento dei tumori, con l’impiego di chemioterapia, terapia ormonale. L’oncologo medico è colui che coordina il trattamento fornito da altri specialisti. Dunque lo stesso ,nel trattamento pre e post operatorio, interviene con i trattamenti specifici (chemioterapia ormonoterapia, bioterapie, ecc).

Nel bagaglio professionale di tale specialista è compresa anche la attività di chemioterapia, radioterapia, con il compito di trattare al meglio un paziente oncologico.

Tanto premesso, va rilevato che la difesa della Azienda resistente fa perno sulla finalità perseguita in termini di rispetto della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, nel senso di pervenire ad una centralizzazione delle strutture ,secondo il disposto delle linee guida della conferenza unificata Stato regioni,che dispongono, al fine di garantire un adeguato sistema di protezione per i soggetti che impiegano professionalmente queste sostanze negli ambienti sanitari, di prevedere la istituzione di una specifica "Unità Farmaci Antitumorali" ai cui componenti affidare l'intero ciclo lavorativo: preparazione, trasporto, somministrazione, smaltimento, eliminazione degli escreti contaminati, manutenzione degli impianti.

Osserva in proposito il Collegio che il perseguimento di tale finalità  non deve avvenire in pregiudizio della professionalità dei lavoratori, dovendo l’azienda farsi carico di salvaguardare proprio le capacità operative del personale con specifica qualifica nella diagnosi e cura dei tumori, e quindi prioritariamente idoneo alla somministrazione dei farmaci antiblastici. Le modalità con cui ciò deve avvenire appartengono alla discrezionalità dell’amministrazione, e la loro cattiva resa appartiene alla sfera delle disfunzioni organizzative che possono generare danni  al personale, come quella da dequalificazione.

Conclusivamente, dall’esame complessivo ed unitario di tutti gli elementi acquisiti attraverso il sia pure parziale riscontro dato alla ordinanza istruttoria, emerge un quadro di marginalizzazione dell’attività lavorativa del ricorrente, in assenza di ogni elemento negativo di connotazione qualitativa della stessa, e soprattutto in assenza di ogni misura organizzativa del datore di lavoro atta a fare uso della professionalità specifica del ricorrente, finalità che dovrebbe essere coincidente con l’interesse pubblico al migliore espletamento della attività di assistenza e ricerca.

Alla luce di tali elementi, può affermarsi evidente la violazione del diritto soggettivo del ricorrente all’espletamento delle proprie mansioni.

Il sindacato del Collegio non riguarda sotto tale aspetto le modalità organizzative in sé (controllo cd. forte sulla discrezionalità tecnica), ma il modo in cui l’organizzazione prescelta ha funzionato(cd. sindacato debole), attraverso il riscontro degli indici estrinseci rivelatori di disfunzioni organizzative.

Ai fini della affermazione della responsabilità dell’amministrazione,  il Collegio ritiene necessarie alcune considerazioni in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito.

Sul tipo di responsabilità che deriva da situazioni come quella in esame è possibile la concorrenza tra  responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.  Quest’ultima sussiste, a condizione che ci sia dolo o colpa in chi la commette, ed un conseguente danno.  È peraltro possibile che l'azione  ingiusta sia realizzata in un contesto  contrattuale, cioè un rapporto tra parti legate da vincolo contrattuale :l'inadempimento contrattuale  determina , infatti,  il diritto al risarcimento del danno (art. 1453 c.c. ed art. 1218 c.c.). 

Nel caso di illecito aquiliano  (art. 2043 c.c.) i potenziali danni sono sia patrimoniali che non  patrimoniali, alla luce del disposto dell'art. 2059 c.c. recentemente rivitalizzato dalle sentenze della Corte di Cassazione e della Corte  Costituzionale del 2003 sul tema: si tratta di una responsabilità immanente ad ogni rapporto tra soggetti  indipendentemente dall'esistenza di un contratto   tra le parti, e si distingue per alcuni aspetti caratteristici (prevedibilità del    danno, onere della prova, prescrizione) .

Per altro la coesistenza tra il profilo di  responsabilità extracontrattuale e contrattuale costituisce un vantaggio per il danneggiato in quanto il mancato rispetto della regola   contrattuale (come l'art. 2087 c.c. per il rapporto di lavoro) potrà costituire il profilo di colpa   richiesto per la realizzazione della fattispecie   ex art. 2043 c.c. e, conseguentemente, esonerare  dalla ricerca dell'elemento psicologico.

Tanto premesso, deve confutarsi una eccezione di difetto di giurisdizione del TAR adito, qualora voglia attribuirsi a quella proposta la natura di azione extracontrattuale. Invero, è principio consolidato in giurisprudenza che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario solo qualora il dipendente faccia valere  il comportamento vessatorio di colleghi o superiori quale titolo giustificativo della pretesa; mentre va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso in cui la lesione sia derivante da una violazione del rapporto contrattuale, fondandosi l’azione proposta su uno specifico inadempimento da parte dell’amministrazione .

Nel caso di cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo. (T.A.R. ABRUZZO - PESCARA - Sentenza 23 marzo 2007 n. 339 ,Cass.civ.., SS.UU., 27.2.2002, n.2882; 29.1.2002, n.1147; TAR Liguria, Genova, sez.I, 12.3.2003 TAR Lazio, sez. III bis, 25.6.2004, n.6254).

Ciò è possibile quando la lesione lamentata, attinente all’integrità psico-fisica, derivi dalla situazione di disagio e dal comportamento di superiori e quando si chieda il risarcimento del danno biologico, che, secondo al Corte Costituzionale (sent. 14.7.1986, n.184) trova la sua disciplina nell’art. 2043 c.c., in relazione all’art.32 cost., sicchè la richiesta risarcitoria di tale tipo di danno qualifica la domanda come extracontrattuale.  

Ove peraltro si sostenga contestualmente la violazione di doveri legali che regolano il rapporto, deducendo l’inadempimento da parte dell’Amministrazione dei principi di buona fede e correttezza, nonché la violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione, posta in essere con il proprio comportamento omissivo o commissivo, venendo meno all’obbligo specifico, di cui all’art. 2087 c.c., che obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e morale del lavoratore, si è in presenza della responsabilità contrattuale.

Le due figure di responsabilità , pertanto, in tema di mobbing, possono, in situazioni peculiari, coesistere e concorrere, ove il rapporto di lavoro non ha costituito la mera occasione per la condotta vessatoria ed ostile di colleghi o superiori gerarchici, ma ha visto anche la configurazione di una culpa in vigilando da parte dell’amministrazione, che, consapevole di tale condotta, nulla ha posto in essere perché cessasse il lamentato atteggiamento di ostilità.

Nel caso in esame, comunque,l’elemento psicologico va ravvisato nella consapevole sottoutilizzazione della professionalità del ricorrente, nonostante le reiterate richieste dello stesso di poter svolgere le proprie mansioni, e nel comportamento negligente tenuto nella predisposizione della struttura organizzativa, in maniera tale da prescindere dall’apporto della professionalità del ricorrente stesso :  tale responsabilità  si radica nell'art. 2049 cod. civ.  e, trattandosi di pubblica amministrazione, anche dell’art. 28 Cost..

In sintesi,l’atteggiamento inattivo ed omissivo della Azienda universitaria (consistente nella  mancata adozione di provvedimenti rivolti ad impedire la lesione del diritto alla professionalità) comporta la responsabilità dell'ente, sia contrattuale ai sensi degli artt. 2087 e 1228 cod. civ. , che extracontrattuale ai sensi degli artt. 2043 e 2049 cod.civ. Nel caso di specie, alla luce di quanto sopra affermato, non  è dubbio che la condotta di parte convenuta, consistente nel  porre il ricorrente in una situazione di ridottissima attività sotto il profilo della somministrazione di terapie antitumorali e della ricerca conseguentemente, ha cagionato la lesione di diritti  costituzionalmente protetti, ovvero il diritto alla libera esplicazione della personalità sul luogo di lavoro e il  diritto alla dignità personale.

Accertata la illegittimità del comportamento di parte resistente, va quantificata l’entità del danno sofferto dal ricorrente per il periodo pregresso in termini patrimoniali.

Nel danno da demansionamento la giurisprudenza ravvisa infatti diverse componenti:

1) un danno al patrimonio professionale in senso stretto, che pur non consistendo nella lesione di un bene materiale, ha indubbi risvolti di carattere patrimoniale, inteso sia come mortificazione della professionalità già acquisita, sia come perdita di chances per il futuro; si tratta di effetto inevitabile ed in re ipsa di un significativo demansionamento,

2) un danno alla personalità e dignità del lavoratore (ove il demansionamento  sia posto in essere con modalità lesive anche di tali beni);

3)  un danno all’immagine ed alla vita di relazione;

4) un danno biologico in senso oggettivo, inteso come danno alla salute, cui può accompagnarsi il danno biologico in senso soggettivo, o danno cd. esistenziale. (cfr. Cass. 14.11.2001 n. 14199; 6.11.2000 n. 1443; 18.10.1999 n. 11727).

Le prime due componenti di danno sono apprezzabili  in funzione della delicatezza e complessità delle mansioni, della loro obsolescibilità (rilevante sia con riferimento a sfere tecnologiche in rapida evoluzione,sia con riguardo a specifici campi di elevata qualificazione professionale in cui la ricerca è obiettivo e ragion d’essere delle mansioni stesse), e pur ledendo beni immateriali, hanno una indubbia componente patrimoniale; in particolare il mancato incremento della professionalità,  determina un pregiudizio al bagaglio professionale del lavoratore, sia all’interno della azienda che all’esterno della stessa attraverso la cd. perdita di chances. L’entità del danno è variabile in ragione:

- del protrarsi nel tempo della dequalificazione, atteso che il danno cresce nel tempo secondo una linea esponenziale ;

- delle occasioni di lavoro future, che per il dipendente dequalificato risulteranno  minori quantitativamente e qualitativamente ;

- della natura della figura professionale, che richiede costante aggiornamento (C. Appello Milano 11.5.2001, Tribunale Roma 4.4.2000)

La giurisprudenza più recente della Corte di cassazione, in ordine alla prova del danno, ha superato la precedente  affermazione che la mortificazione della professionalità del  lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza del danno patrimoniale (Cass. n. 14443 del 2000, n. 15868 del 2002).     Tale ultimo orientamento, cui questo giudice ritiene di aderire, si iscrive in quello delineato dalle pronunce nn.  8827 e 8828 del 2003 in materia di risarcimento del danno non patrimoniale.

Va, infatti, condiviso l’orientamento recentemente espresso dalla Suprema Corte che ha individuato la fonte normativa del   risarcimento del danno non patrimoniale nell’art. 2059 c.c.,secondo una lettura costituzionalmente orientata della norma che tenga conto dei valori fondamentali della persona unitariamente considerata a prescindere, quindi, dalla commissione o meno di un reato.    La Cassazione ha avuto modo di precisare che è ormai acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della  lata estensione della nozione di danno non patrimoniale:il danno non patrimoniale deve intendersi  come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia  leso un valore inerente alla persona, che non si esaurisca nel  danno morale e che non sia correlato alla qualifica di reato del fatto illecito ex art. 185 c.p. All’interno del danno non patrimoniale viene, dunque, ricondotto il danno biologico, inteso come lesione dell’interesse costituzionalmente garantito all’integrità psicofisica della persona secondo i canoni fissati dalla scienza medica (art. 32 Cost.), il danno morale tradizionalmente inteso come sofferenza psichica e patema d’animo sopportati dal soggetto passivo dell’illecito ed infine il danno derivante dalla lesione di interessi  costituzionalmente protetti.

Il danno da dequalificazione professionale attiene alla  lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 Cost., avente ad oggetto il diritto fondamentale del  lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel  luogo di lavoro, secondo le mansioni e con la qualifica spettantegli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente   ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di  relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro e in quello socio- familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri  lavori di pari livello.

In ordine alla liquidazione del danno, la giurisprudenza fa costante riferimento al criterio equitativo ex art. 1226 c.c., che appare il più idoneo, stante la difficoltà evidente di giungere- in relazione alle peculiarità del fatto dannoso- ad una precisa determinazione del pregiudizio subito (così Cass. Sez. lav. N. 15868/2002; n. 7967/2002, n. 10/2002; n. 13580/2001). In tal modo la S.C. ha definitivamente superato quel risalente orientamento (Cass. 7905/98; 3686/1996) che addossava al lavoratore l’onere della prova della esistenza del danno, ex art 2697 c.c., affermando attualmente che la lesione è in re ipsa nella privazione della professionalità del dipendente. Sicché non si richiede l’ allegazione di uno specifico elemento di prova diretta da parte del lavoratore (Cass. 11727/1999; 14443/2000, 13580/2001), essendo sufficiente che l’accertamento del danno scaturisca da elementi presuntivi acquisiti al giudizio e da un esame della situazione processuale globalmente considerata (Cass 15.1.2000 n. 409).

Conferma la sent. 2002/n. 15868 che "la liquidazione equitativa,  deve essere compiuta anche quando addirittura sia mancata la dimostrazione, in via diretta, dell'esistenza di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 2000/n. 14443), dato che la prova presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata del demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2001/n. 13580)"

Il Collegio non ignora il più recente orientamento della Cassazione sezioni Unite sentenza n. 6572/2006 , in tema di onere della prova del danno da demansionamento e dequalificazione del lavoratore.

Dando atto della esistenza sia dell’orientamento sopra citato, che di altro orientamento all’interno della Sezione lavoro, che addossava invece al prestatore l’onere della prova del danno da dequalificazione professionale (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno biologico), le SS.UU. affermano che qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale: nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all'art.2103 (divieto di dequalificazione), mentre nel secondo deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art.2087 (tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore). In entrambi i casi, giacché l'illecito consiste nella violazione dell'obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall'art.1218 c.c., con conseguente esonero dall'onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta connessione con l'art.1223 dello stesso codice". Inoltre l'ampia definizione dell'art. 2087 c.c. consentirebbe di superare ogni dilemma relativo alla risarcibilità dei danni non patrimoniali.

La Suprema Corte ha altresì precisato che "è indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore che deve in primo luogo precisare quali danni ritenga in concreto di avere subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione di fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno “. Non è quindi sufficiente prospettare l'esistenza della dequalificazione e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice  se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’art.421 c.p.c.  non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto.

Posta la questione in tali termini,deve rilevarsi che nella specie non si tratta di sancire una assoluta relevatio ab onere probandi causam; invero parte ricorrente non ha invocato un danno per effetto automatico del demansionamento, ma ha fornito la prova dell’esistenza del danno e del nesso causale, attraverso l’introduzione in giudizio di elementi comprovanti una lesione di natura patrimoniale non riparata dall'adempimento dell'obbligazione retributiva, ovvero una lesione di natura non patrimoniale.

Osservano in proposito le SS.UU. che il danno deriva da una responsabilità contrattuale (sia per violazione dell'obbligo di cui all'art. 2103 sia per violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087). In entrambi i casi, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall'art. 1218 cod. civ., con conseguente esonero dall'onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta connessione con l'art. 1223 dello stesso codice.

Dall' inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è , immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma.

Proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore, che deve fornire tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno.

Affermano testualmente le SS.UU: “Non è quindi sufficiente prospettare l'esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cass. sez. l. 3 febbraio 1998 n. 1099).” 

Raffrontando tali principi con le allegazioni contenute in ricorso, il Collegio rileva che parte ricorrente ha adempiuto all’onere di allegazione del pregiudizio subito; per quanto riguarda il danno professionale lamentato, ha specificamente indicato l’impoverimento delle capacità professionale acquisita e la mancata acquisizione di una maggiore capacità, che si traducono nel pregiudizio subito per perdita di chance.

Tanto proprio attraverso la allegazione in concreto dell’esercizio di una attività soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.

In presenza di tali elementi, l’interesse del lavoratore non si esaurisce, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell'impegno assunto di svolgere l'attività che gli viene richiesta dal datore. 

Quanto al danno non patrimoniale all'identità professionale sul luogo di lavoro, all'immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione (cd. danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l'orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto.

Per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cd danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso.

Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l'interessato sull'oggetto e sul modo di operare dell'asserito pregiudizio. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare , necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita.

Dal punto di vista probatorio, il relativo onere può essere assolto mediante la prova testimoniale , documentate o presuntiva, che dimostri nel processo "i concreti" cambiamenti che l'illecito ha apportato, in senso peggiorativo nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti - se è vero che la stessa categoria del danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale,all'onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l'ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni - mezzo peraltro non relegato dall' ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la formazione del suo convincimento - purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 cod. civ. venga offerta una serie concatenata di fatti noti ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ. a quelle nozioni generali derivanti dall' esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo .

Nello specifico, la durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, comprovati anche dalle reazioni dei pazienti in cura, la frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di sviluppo professionale, partecipazioni a convegni, pubblicazioni scientifiche, sono elementi  che comprovano per presunzioni il verificarsi di un danno cd. esistenziale (cfr. in tal senso Corte di Cassazione, sentenza n. 2546 del 6 febbraio 2007).

Dunque, esclusa la natura necessariamente patrimoniale del danno risarcibile per violazione della lex contractus – quanto meno con riguardo al danno biologico e al danno esistenziale - non vi è ragione di operare distinzioni, ai fini del giudizio sull’astratta risarcibilità, tra le tre diverse tipologie di pregiudizio, dovendosi peraltro osservare come, <<nell’ottica della concezione unitaria della persona, (che) la valutazione equitativa di tutti i danni non patrimoniali possa anche essere unica, senza una distinzione…tra quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo e quanto a titolo di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza psichica>> (così, Cass., sent. 8828/2003).

Resta infine da considerare il pregiudizio per danno biologico, che è strettamente legato ad una patologia psichica insorta per effetto della dequalificazione professionale,e  che parte ricorrente  deduce essersi tradotto in una diminuzione della capacità lavorativa del 50%, come da perizia di parte agli atti. In relazione a tale pregiudizio, osserva il Collegio che la perizia di parte non è sufficiente a radicare in termini di nesso causale la derivazione del danno psichico dal comportamento del datore di lavoro ; invero il danno biologico, non può .prescindere dall'accertamento medico legale, atteso che si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accettabile, secondo - la definizione legislativa di cui all'art. 5 terzo comma della legge n. 57 del 2001 sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dall'art. 13 del d. lvo n. 38 del 2000 in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003).

Oltre alla sussistenza di una lesione della integrità psico- fisica, occorre pertanto fornire la prova rigorosa della riferibilità causale della stessa al comportamento del danneggiante; nella specie ritiene il Collegio che la documentazione sanitaria in atti non consente di ritenere con certezza che la patologia psichica da cui è affetto il ricorrente denoti caratteristiche morfologiche tali da far desumere in sicuro nesso eziologico con il demansionamento verificatosi sul posto di lavoro. Non può quindi dirsi provato un nesso causale tra il demansionamento stesso e l’evento psichico, posto che non vi è motivo per ritenere  che il secondo sia stato causato dal primo con certezza o con  ragionevole probabilità prossima alla certezza.

Ai fini della quantificazione del danno, può concludersi:

a) per il danno da dequalificazione in senso stretto:

In particolare per il lavoro di oncologo medico , titolare di insegnamento universitario e di attività di ricerca in campo oncologico, le componenti di danno professionale rilevanti sono il mancato contatto la quotidianità della pratica professionale, l’impoverimento derivante dal mancato esercizio della aggiornamento professionale, la obsolescibilità dei protocolli terapeutici praticati, la perdita di chances.

Il criterio equitativo va calato nello specifico con la individuazione di parametri di riferimento generali, omogenei, desunti dalla durata della dequalificazione (ottobre 2004- sino alla data di proposizione del ricorso, per quanto rileva ai fini della quantificazione,secondo quanto risulta dalle relazioni della Azienda in atti) , dalla gravità della stessa (rapportata al ruolo rivestito dal ricorrente), dal reiterato rifiuto opposto dalla direzione del dipartimento alle sollecitazioni in ordine ad una migliore organizzazione , e dal livello elevato della retribuzione globale del prestatore.

Quanto alla componente patrimoniale del danno così individuata, il parametro di riferimento per la liquidazione equitativa viene individuato comunemente nella entità della retribuzione percepita (in una percentuale variabile dal 25 al 100%): ciò in quanto la retribuzione costituisce espressione (ex art 36 Cost.) anche del contenuto professionale della prestazione.

Nella specie, ritiene il Tribunale che in via equitativa il pregiudizio sofferto , tenuto conto della durata del demansionamento, della delicatezza e complessità delle mansioni del ricorrente, possa determinarsi in una somma mensile pari al 50% della retribuzione.

Ai fini della quantificazione della somma relativa, può farsi riferimento alle indicazioni contenute nel prospetto riepilogativo agli atti, non oggetto di contestazione specifica da parte resistente, e dal quale emerge la entità della retribuzione percepita dal ricorrente, dal settembre 2004 alla data di proposizione del ricorso.

Il totale delle retribuzioni per tale periodo ammonta ad Euro 312.986,40 lordi sicché il danno secondo il criterio indicato va determinato nella somma di 156.493,20  LORDI;

b) quanto al danno cd. esistenziale:

si tratta di danno non patrimoniale in senso stretto (o soggettivo). Il danno esistenziale  consiste in un peggioramento definitivo della qualità di vita del danneggiato cui è legato un mutamento radicale delle sue abitudini , ed abbraccia quelle compromissioni dell’esistenza quotidiana che siano “naturalisticamente” accertabili e percepibili.

Ai fini della liquidazione, in assenza di altri parametri oggettivi – non apparendo opportuno fare riferimento ad un criterio di natura patrimoniale come quello della retribuzione per liquidare il danno alla persona (che colpisce i danneggiati in modo indipendente dalle loro capacità di reddito) – ritiene il Collegio che possa seguirsi un metodo equitativo, determinando l’entità del danno nella misura di 10.000,00 (diecimila/00).

Quanto al soggetto obbligato al risarcimento, osserva il Collegio quanto segue: in punto di legittimazione ,la giurisprudenza anche della Corte Cost. (vedi sent. n. 136/97) ha avuto modo di chiarire che l’attività assistenziale del medico docente universitario si compenetra con quella  con quella didattico scientifica; l’attività assistenziale non è cioè una prestazione aggiuntiva che sia possibile distinguere dall’attività scientifico didattica cui il docente è tenuto in forza dell’unico rapporto di impiego che lo lega all’Università.

Sul punto è sufficiente osservare che il rapporto di lavoro del docente universitario è unitario e non è scindibile nei suoi aspetti dell’insegnamento e (come nella specie) dell’assistenza, ma soprattutto che non si possono sovrapporre le questioni di legittimazione a quelle di legittimità cui l’Università non può considerarsi estranea per essere il datore di lavoro tenuto alla regolarità dello specifico rapporto di servizio con l’Azienda Universitaria Ospedaliera della II Università di Napoli .

Diverso è invece il problema in ordine alla sussistenza della responsabilità finanziaria e quindi dell’obbligo risarcitorio per effetto dell’illecito commesso in danno del dipendente, illecito che nella specie è riferibile unicamente alla attività degli  organi della Azienda ospedaliera Universitaria. Invero, mentre il soggetto passivo dell'obbligazione rimane in via esclusiva l'Amministrazione universitaria per i soli aspetti inerenti al rapporto di lavoro di natura retributiva ed indennitaria, per quelli di natura risarcitoria obbligato è unicamente l’autore dell’illecito.

L’Azienda Ospedaliera della SUN, in persona del  legale rapp.te p.t., va pertanto condannata al pagamento in favore del ricorrente, della somma di Euro 166.493,20  lordi ,di cui Euro 156.493,20  LORDI a titolo di danno da demansionamento e dequalificazione professionale, ed Euro 10.000,00 a titolo di danno esistenziale.

Quanto al regime degli accessori ex art. 429 c.p.c. , osserva il Collegio che nella specie non è applicabile il divieto di cumulo introdotto dall’articolo 22 della legge 724/1994: in virtù di tale disposizione  per i crediti di lavoro maturati successivamente al gennaio 1995 non è più possibile rivendicare la rivalutazione, se non per la parte eventualmente eccedente gli interessi legali . L’art. 22 richiama il divieto già introdotto per i crediti previdenziali, e lo estende anche ai crediti retributivi: «L'articolo 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, si applica anche agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza. I criteri e le modalità di applicazione del presente comma sono determinati con decreto del Ministro del tesoro, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge».

Nella specie peraltro occorre stabilire se il credito  de quo ha carattere retributivo, o risarcitorio. Al riguardo la S.C. in alcune pronunce (Cass. 6 luglio 1990 n. 7101 e Cass. 7 febbraio 1996 n. 976) ha affermato che l'articolo 429 C.p.c. sulla decorrenza degli interessi e della rivalutazione liquidati a favore del lavoratore si riferisce a tutti i crediti connessi ad un rapporto di lavoro, senza alcuna esclusione per quelli aventi titolo risarcitorio (cfr. anche Cassazione Civile, Sezione Lavoro - Sentenza 8 aprile 2002, n. 5024).

Tuttavia il Collegio ritiene preferibile il più recente orientamento espresso dalle SS.UU.  (SS.UU. n. 1712/1995) e dalla Sezione lavoro della Corte di Cassazione (n. 5908/1998), per cui i crediti derivanti da fatto illecito lesivo hanno un regime giuridico peculiare relativamente agli accessori. Con riguardo al regime degli accessori per i crediti derivanti da fatto illecito, le Sez un. della Cassazione (Cass. sez. un., 17.2.1995, n. 1712), hanno stabilito che su tali debiti bisogna applicare indici di rivalutazione monetaria del valore posseduto dal bene al momento della violazione sino alla quantificazione giudiziale; è inoltre necessario procedere alla corresponsione del danno da ritardo, cioè il lucro cessante cagionato dal mancato godimento dell'equivalente pecuniario del bene leso nel periodo compreso tra il fatto e la liquidazione.

Pertanto il credito in oggetto, derivante da risarcimento del danno , è soggetto alle regole disciplinanti le obbligazioni che, originariamente di valore, si trasformano in obbligazioni di valuta per effetto del passaggio in giudicato della sentenza che decide sulla loro liquidazione; sicché le stesse sono sottratte al principio nominalistico, ed opera automaticamente il   meccanismo della rivalutazione monetaria , al quale è assegnata la funzione di ripristinare il patrimonio del danneggiato nella situazione in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato il fatto che ha dato origine alla  lesione. Una volta intervenuta la conversione in obbligazione di valuta, la stessa va assoggettata alla disciplina dell’art. 1224 c.c.

Ne deriva il diritto del ricorrente alla corresponsione della rivalutazione monetaria sull’importo liquidato, dalla data di maturazione dei singoli crediti che nella specie si è verificata mese per mese in ragione della subita dequalificazione professionale, e sino al momento della presente pronuncia giurisdizionale; quanto al danno da ritardo, consistente negli interessi per la mancata disponibilità immediata della somma in oggetto, va rilevato che lo stesso pur astrattamente configurabile , non è stato provato dal creditore, per cui non può essere riconosciuto il cumulo in tale periodo tra rivalutazione ed interessi; invece dalla data della pronuncia e sino al saldo sulla somma rivalutata come liquidata in sentenza spettano gli interessi legali.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

 

P. Q. M. - Il Tribunale amministrativo regionale della Campania- Napoli sezione Seconda, definitivamente pronunciando sulla domanda in epigrafe, così provvede:

Accerta l’inadempimento dell’azienda ospedaliera Universitaria della SUN di Napoli all’obbligo adibire il ricorrente all’attività lavorativa di oncologo medico con funzioni assistenziali di somministrazione protocolli terapeutici ; dichiara che il ricorrente ha il diritto di essere adibito all’attività lavorativa corrispondente alle sue mansioni e per l’effetto condanna l’amministrazione suddetta al risarcimento del danno da demansionamento in favore del ricorrente liquidato nella misura complessiva di Euro 156.493,20  lordi , oltre  rivalutazione monetaria dalla data di maturazione dei singoli crediti alla presente pronuncia, ed interessi legali per il periodo successivo, come in motivazione; nonché al risarcimento del danno non patrimoniale in favore del  ricorrente per i titoli di cui in motivazione liquidato nella complessiva somma di Euro 10.000,00 (diecimila/00) oltre rivalutazione monetaria dalla data di maturazione dei singoli crediti alla presente pronuncia, ed interessi legali per il periodo successivo, come in motivazione;

nonché al pagamento,sempre in favore del ricorrente, delle spese di lite liquidate in complessivi Euro 3000,00 (tremila/00), dichiarando per il resto integralmente compensate le spese di lite tra le altre parti.

Respinge la domanda nei confronti della SUN di Napoli.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla autorità amministrativa.

 

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