Insussistenza del mobbing e riscontro invece di preconcetta ostilità verso il datore di lavoro

 

T.A.R. Campania – Napoli - Sezione VI, 29 giugno 2009, n. 3585

 

Mobbing – Insussistenza.

 

Nel caso di specie non sussiste mobbing in quanto i comportamenti asseritamente mobbizzanti non si inseriscono in un disegno persecutorio da parte della Guardia di Finanza nei confronti del mar. D.C., ma, anzi, trovano una "ragionevole spiegazione alternativa nei comportamenti del ricorrente stesso che, ritenendo, a torto, di avere subito delle ingiustizie nell'ambito delle procedure di trasferimento a cui ha inteso partecipare nel corso degli anni, ha assunto atteggiamenti improntati a crescente sfiducia e diffidenza nei confronti dell'Amministrazione di appartenenza.

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso ritualmente notificato, D.C.D., in virtù di numerose argomentazioni in fatto e in diritto, chiedeva accertarsi la ricorrenza di una fattispecie di mobbing ai suoi danni concretatasi in diverse condotte poste in essere ai suoi danni da parte dell'Amministrazione presso cui presta servizio e, conseguentemente, condannarsi l'Amministrazione a corrispondergli il relativo risarcimento del danno patrimoniale e non; chiedeva, inoltre, in via incidentale, la sospensione delle condotte mobbizzanti descritte nel ricorso.

A mezzo dell'Avvocatura di Stato, si costituivano il Ministero dell'Economia e il Comando Generale della Guardia di Finanza che chiedevano il rigetto del ricorso.

Con ordinanza del 24.10.2007, il Tribunale respingeva l'istanza di sospensione.

All'esito dell'udienza di trattazione del 13.05.2009, il Collegio tratteneva la causa in decisione.

 

Motivi della decisione

 

Con il presente ricorso, D.C.D., Mar. Aiutante della Guardia di Finanza in servizio presso il Comando Nucleo provinciale di Polizia Tributaria di Caserta, ha inteso lamentare la ricorrenza di numerose condotte mobbizzanti ai suoi danni.

In particolare, il ricorrente, dopo aver rilevato il proprio impeccabile stato di servizio antecedente al patito "mobbing", esponeva che da diversi anni coltivava l'aspirazione a esser trasferito presso una sede di servizio più vicina alla residenza del proprio nucleo familiare (Frosinone), avendo proposto più volte domanda di trasferimento anche in virtù di alcune patologie da cui è affetto.

Non avendo ottenuto il trasferimento e vedendosi superato da colleghi con minore anzianità di servizio, il ricorrente si determinava a richiedere l'accesso agli atti delle procedure di trasferimento "de quo"; al diniego dell'Amministrazione il ricorrente reagiva con la proposizione di ricorso giurisdizionale che era, poi, accolto da questo T.A.R. con Sentenza n. 2779/2004 confermata anche in sede di appello.

All'esperimento del ricorso, conseguiva, nella prospettazione fornita dal ricorrente, un atteggiamento ostile da parte dei suoi pari grado e superiori che si concretizzava in isolamento, in demansionamento e, persino, nell'irrogazione di sanzioni disciplinari. In particolare, una prima sanzione disciplinare era annullata a seguito di proposizione di ricorso gerarchico, mentre una seconda sanzione, irrogata in data 05.07.2006 e impugnata separatamente in sede giudiziaria, era tenuta ferma dall'Amministrazione.

Il ricorrente, dopo aver presentato denuncia-querela contro ignoti in merito alla propria vicenda, rientrava in servizio dopo un periodo di riposo e assegnato a un lavoro esterno definito "degradante". Il D.C., infatti, era inviato presso la Prefettura di Caserta, Ufficio stranieri, come addetto alla sezione tutela economica del nucleo di polizia tributaria istituito presso la medesima Prefettura.

Inoltre, subiva un terzo rimprovero per condotte verificatesi nel periodo dall'11 al 15 dicembre 2006, anch'esso impugnato con ricorso straordinario al Capo dello Stato. L'avvenuto sostanziale demansionamento era, poi, reso ancor più evidente dall'atteggiamento "provocatorio e sarcastico" dei colleghi pari grado nei suoi confronti. Infine, il Maresciallo D.C. era giudicato in modo assai negativo nella "scheda valutativa" del 28.06.2007 relativa al periodo in cui aveva svolto l'incarico presso il nucleo di Pol. Tributaria attivato presso la Prefettura.

L'esposizione si concludeva lamentando l'incertezza costante a cui era sottoposto il ricorrente tale da determinare l'insorgenza di un persistente, marcato disturbo dell'adattamento con ansia.

Ritenendo, come detto, le descritte condotte frutto di vero e proprio mobbing ai suoi danni, il D.C. chiedeva che fosse ordinato all'Amministrazione di cessare le condotte mobbizzanti e di risarcirgli i danni subiti.

Passando al merito, va detto che in diverse occasioni la Giurisprudenza amministrativa si è dovuta occupare di fenomeni asseritamente "mobbizzanti", intendendosi per "mobbing" "l'insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato" (Consiglio Stato, sez. VI, 06 maggio 2008, n. 2015).

E' stato chiarito che affinchè sia accertata l'illegittimità complessiva delle condotte integranti il fenomeno mobbizzante, il lavoratore debba provare l'intento persecutorio dell'Amministrazione; inoltre, non devono risultare spiegazioni ragionevoli e alternative al comportamento asseritamente mobbizzante (cfr., C.d.S. n. 2015/2008, cit.).

In disparte la questione della pregiudizialità amministrativa su cui persistono note ragioni di contrasto tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione (cfr. ex multis, C.d.S. Ad. Plen. n. 12/2007, Cass. SS.UU. n. 30254/2008, nonché, in tema di pregiudizialità e mobbing, Consiglio Stato, sez. V, 27 maggio 2008, n. 2515), il ricorso appare infondato nel merito e, perciò, deve essere rigettato.

Alla luce dei principi esposti poc'anzi, infatti, l'evoluzione, anche giudiziaria, degli eventi descritti in ricorso consente di escludere la sussistenza disegno persecutorio del Comando della Guardia di Finanza nei confronti del ricorrente, i cui atteggiamenti, piuttosto, rivelano un'ostilità spesso immotivata nei confronti dell'Amministrazione di appartenenza.

In primo luogo deve darsi conto della questione relativa al mancato trasferimento del ricorrente nella sede richiesta, risolta con Sentenza n. 2620/2007 resa da questa stessa sezione del T.A.R. Campania (cfr. prod. P.A. del 08.05.2009), nonché del relativo accesso agli atti.

Ebbene, la Sentenza n. 2620/2007 relativa ai mancati trasferimenti del ricorrente (erano riuniti ben quattro ricorsi relativi ad altrettante procedure di trasferimento) dava atto della legittimità del comportamento dell'Amministrazione. Tanto in virtù di diverse circostanze di fatto, puntualmente esposte nella citata pronunzia: "nella Regione Lazio sussiste un esubero dei personale del ruolo ispettore (cui appartiene il ricorrente), talché non è stata accolta alcuna istanza ordinaria di trasferimento in tale Regione"; "nonostante i trasferimenti avvenuti dal Comando Regionale Lazio, l'organico di detto Comando è rimasto ancora in esubero" per cui "il diniego opposto a due militari che avevano chiesto il trasferimento dal Comando predetto a quello della Campania, a prescindere da ogni altra specifica considerazione, non avrebbe immutato la situazione (di esubero) sopra descritta"; i trasferimenti di altri militari presso le sedi ambite dal ricorrente "hanno riguardato movimenti (...) in ambito regionale ed in accoglimento di istanze relative ad altre tipologie di trasferimenti".

Va anche rilevato come una delle domande proposte dal ricorrente è stata accolta ma il relativo trasferimento (alla volta di Frascati) è stato rifiutato dallo stesso ricorrente (cfr. memoria della P.A. datata 20.10.2007).

Quanto all'accesso agli atti relativi alle indicate procedure di trasferimento, l'illegittimo diniego dell'Amministrazione era effettivamente vinto solo a seguito di vittorioso esperimento di ricorso giurisdizionale e, tuttavia, il ricorrente non si riteneva soddisfatto tanto da proporre, questa volta infruttuosamente, ricorso per ottemperanza.

Nella relativa Sentenza del Consiglio di Stato (n. 5766/2006, reperibile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa), infatti, si dà atto del "rifiuto opposto dal ricorrente di prendere visione della documentazione messa a sua disposizione da parte dell'Amministrazione, definendo tale comportamento "non collaborativo", improntato al "rifiuto pregiudiziale dell'accesso" e sintomatico "della mancanza di un vero interesse all'accesso stesso".

Parimenti, il preteso demansionamento non appare sussistente allorchè il Mar. D.C. è stato assegnato a compiti pienamente rientranti in quelli d'istituto, derivanti dalla momentanea collaborazione tra la Guardia di Finanza e le Prefetture in tema di immigrazione clandestina. Di rilievo è pure la circostanza che il ricorrente sia stato sostituito da un militare di grado superiore, il che conferma l'assenza di una volontà tesa a mortificare le professionalità del Mar. D.C.. Sul punto deve dirsi, conclusivamente, che nei rapporti di servizio prodotti in atti il ricorrente lamenta l'eccessiva "tranquillità" dell'incarico che, invece, ben potrebbe essere spiegata dalle patologie dal medesimo lamentate nel ricorso e addotte per suffragare le proprie istanze di trasferimento.

In merito alle sanzioni disciplinari, poi, va osservato che anche in questo ambito non sono ravvisabili intenti persecutori dell'Amministrazione. Nel primo caso il contegno poco collaborativo del ricorrente in sede di accesso (confermato dalla Sentenza del Consiglio di Stato poc'anzi citata) ha indotto l'amministrazione a irrogare al dipendente la sanzione di giorni 3 di consegna, salvo poi annullare la sanzione in sede di ricorso gerarchico con ciò testimoniandosi ulteriormente l'assenza di un pervicace disegno persecutorio da parte di un'Amministrazione che, pur in sede giustiziale, ha ritenuto di annullare la precedente decisione.

Nel secondo caso, ancora una volta in sede di accesso a documenti, relativi in questo caso a una procedura di avanzamento di grado, il ricorrente pretendeva oltre che di visionare i documenti, di conoscere l'entità e i riflessi della sanzione disciplinare successivamente annullata appena descritta sull'avanzamento. La lettura della nota da cui è scaturita l'irrogazione della sanzione evidenzia che il ricorrente pretendeva, altresì, di inserire dichiarazioni nel verbale di accesso riguardanti la presumibile efficacia della prima sanzione disciplinare sull'avanzamento, alterandosi sino al punto di manifestare sospetti su presunte interferenze esterne e facendosi comunicare il numero del Pubblico Ministero di turno (cfr. all. 5 prod. P.A., il Mar. D.C., come da lui stesso dichiarato nei propri scritti difensivi giungeva a telefonare al numero telefonico 117 per farsi comunicare il nominativo del Magistrato di turno a cui denunciare, con urgenza evidentemente spropositata, i presunti torti subiti). La succinta descrizione dei fatti appena fornita consente di verificare come, anche in questo caso, il comportamento del ricorrente abbia oggettivamente dato adito a discussioni con i colleghi addetti all'effettuazione dell'accesso e ciò principalmente per l'irritualità delle richieste svolte in quella sede, richieste che, peraltro, erano accolte nella misura in cui si consentiva al ricorrente di verbalizzare la propria dichiarazione sul punto. Giova altresì rilevare che, all'esito della procedura in relazione a cui era chiesto l'accesso, al ricorrente era riconosciuto l'avanzamento di grado.

Pertanto, con riferimento alla seconda sanzione disciplinare, prescindendo da qualunque valutazione nel merito della motivazione del provvedimento sanzionatorio, può escludersi, in punto di fatto, la sussistenza di un intento meramente persecutorio da parte dell'Amministrazione nell'irrogare la sanzione in questione.

Quanto alla terza sanzione disciplinare, va detto che essa è scaturita da una segnalazione esterna all'Amministrazione di appartenenza in quanto è stato il referente per la Prefettura presso lo Sportello dell'Immigrazione ove lavorava il ricorrente a segnalare a carico del medesimo e di altro militare "la mancata produzione delle mansioni assegnate", il mancato riconoscimento del funzionario che in assenza del referente disponeva l'organizzazione giornaliera del lavoro e, infine, l'insorgenza di contrasti personali con l'app. VELOTTO, unico degli appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza assegnati a tale ufficio a svolgere le mansioni affidategli in "modo diligente e ottimale". La circostanza che la segnalazione sia provenuta da altra Amministrazione, oltre a confermare il comportamento ostile del ricorrente nei confronti dell'Amministrazione di appartenenza, da cui riteneva di avere subito ingiustizie, dimostrano ulteriormente l'insussistenza di un disegno persecutorio da parte della Guardia di Finanza e tanto a prescindere dall'esito del ricorso sporto dal ricorrente nei confronti di tale sanzione (cfr. nota Prefettura del 15.12.2006 allegata alla produzione ricorrente del 04.10.2007).

Quanto precede trova ulteriore conferma nelle dichiarazioni allegate alla memoria della P.A. laddove i colleghi di D.C.D. escludono la sussistenza di qualsivoglia comportamento mobbizzante posto in essere dai colleghi a carico del ricorrente (cfr. all. 11, 12 e 13 prod. P.A.).

Le argomentazioni esposte dimostrano che i comportamenti asseritamente mobbizzanti non si inseriscono in un disegno persecutorio da parte della Guardia di Finanza nei confronti del mar. D.C., ma, anzi, trovano una "ragionevole spiegazione alternativa nei comportamenti del ricorrente stesso che, ritenendo, a torto (cfr. la citata Sentenza del T.A.R. Napoli n. 2620/2007), di avere subito delle ingiustizie nell'ambito delle procedure di trasferimento a cui ha inteso partecipare nel corso degli anni, ha assunto atteggiamenti improntati a crescente sfiducia e diffidenza nei confronti dell'Amministrazione di appartenenza.

La particolare natura della questione relativa a un disagio clinicamente accertato del ricorrente nei confronti del proprio ambiente lavorativo, il corretto contegno processuale delle parti, e il tenore delle difese integrano giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite.

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale Amministrativo regionale della Campania, sede di Napoli, sezione VI, pronunziando sul ricorso n. 5298/2007, proposto da D.C.D., lo respinge.

Compensate le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

 

NOTA

 

Il concetto giuridico di "mobbing", da cui può essere affetto un rapporto di lavoro subordinato, presuppone nell'accezione che va consolidandosi pur con varietà di accentuazioni in dottrina e giurisprudenza, una durevole serie di reiterati comportamenti vessatori e persecutori rivolti nei confronti del dipendente all'interno dell'ambiente di lavoro in cui egli opera, capaci di provocare in suo danno una situazione di reale, serio ed effettivo disagio, che si concreta dunque in un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore, ed in particolare sulla sua sfera mentale, relazionale e psicosomatica. L'illecito si può potenzialmente concretare con una pluralità di comportamenti materiali ovvero anche di provvedimenti, del tutto a prescindere dall'inadempimento di specifici obblighi previsti dalla normativa regolante il rapporto (Trib. Milano, sez. lav., 20 maggio 2000 e Trib. Milano, sez. lav., 11 febbraio 2002; Cass. civ., sez. lavoro, 6 marzo 2006 n. 4774).

La sussistenza di una simile situazione deve essere desunta attraverso una complessiva analisi del quadro in cui si esplica la prestazione del lavoratore: gli elementi identificativi sono stati di volta in volta individuati nella reiterazione di richiami e sanzioni disciplinari ingiustificati o nella sottrazione di vantaggi precedentemente attribuiti, che devono registrarsi con carattere di ripetitività, sulla base di un intento sistematicamente perseguito da parte del datore di lavoro al fine di creare una situazione di seria e non transeunte sofferenza nel dipendente (T.A.R. Lazio III, 25 giugno 2004, n. 6254).

Analogamente a quanto ricorre per i reati collegati fra di loro dalla continuazione il mobbing si deve dunque esprimere, oltre che nei singoli atti o comportamenti del datore di lavoro individuabili in concreto, nel nesso che li lega strettamente fra di loro: essi, infatti, non pervengono alla soglia del mobbing, pur restando se del caso atti illegittimi o comportamenti ingiusti, se non raggiungono la soglia della continuità e della loro particolare finalizzazione, requisiti che dimostrano la sussistenza di un disegno unitario volto a vessare il lavoratore ed a distruggerne la personalità e la figura professionale (cfr. Cassazione, Sez. lavoro 6.3.2006, n. 4774; TAR Lombardia Milano, Sez. I, 21 luglio 2006, n. 1844; idem, n. 1861/2006).

La giurisprudenza soprattutto del Giudice del Lavoro ha, poi, approfondito ulteriormente la questione, distinguendo il "mobbing" dal "bossing", intendendosi nella prima accezione un comportamento diffuso ed attuato da parte dei colleghi dell'interessato (mobbing orizzontale) o dei suoi superiori (mobbing verticale), che si prefiggono entrambi lo scopo di isolarlo ed a renderlo estraneo al proprio ambiente lavorativo; nella seconda in una precisa strategia aziendale finalizzata all'estromissione del lavoratore dallo stesso ambiente in cui opera a titolo subordinato (cfr. Tribunale di Pinerolo - Sez. lav., 2 aprile 2004).

Sulla base di quanto ora osservato deve concludersi che il mobbing rappresenta un vero e proprio concetto giuridico a contenuto indeterminato, essendo del tutto assente ogni indicazione sia da parte del Legislatore sia da parte della contrattazione collettiva in ordine ai parametri alla stregua dei quali accertarne o meno la concreta sussistenza e con essa l'illegittimità dei provvedimenti e degli atti ovvero anche l'ingiustizia dei comportamenti tramite i quali si manifesta.

Tale ricognizione si esercita dunque non già alla stregua del mero sindacato esterno di quegli indici formali, ma nella ricerca degli elementi capaci di farne emergere la sussistenza e con essa gli estremi del danno e della sua ingiustizia, avuto particolare riguardo a tutte quelle condotte incidenti sulla reputazione del lavoratore, sui suoi rapporti umani con l'ambiente di lavoro, sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.

In detta ricerca non potrà mancare una necessaria linea di demarcazione tra l'esigenza di tutelare i lavoratori che rimangano vittime di iniziative persecutorie e la necessità di evitare l'eccessiva e patologica valutazione di ogni screzio in ambito lavorativo, che non deve comportare alcuna sanzione giuridica per qualsivoglia scorrettezza o per qualunque evento negativo occorso nel luogo di lavoro (cfr. Tribunale Cassino, Sez. lavoro, 18 dicembre 2002, secondo cui il mobbing si differenzia dai normali conflitti interpersonali sorti nell'ambiente lavorativo, i quali non sono caratterizzati da alcuna volontà di emarginare ed espellere il collega o il subordinato dal contesto lavorativo, ma sono legati a fenomeni di antipatia personale o da rivalità o ambizione).

E" comunque incontroverso nella ricordata giurisprudenza che, per aversi mobbing, si debba accertare una serie prolungata di atti volti a soverchiare ovvero anche solo ad accerchiare o ad isolare la vittima, ponendola in una posizione di debolezza sulla base di un intento persecutorio sistematicamente perseguito; fenomeno questo non tipico dell'impiego privato, essendone stata riconosciuta la sussistenza anche con riferimento al lavoro nelle pubbliche Amministrazioni (Trib. Ravenna, 11 luglio 2002; Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003).

Concludendo l'analisi sul punto il mobbing presuppone dunque i seguenti elementi:

a) la pluralità dei comportamenti e delle azioni a carattere persecutorio (illecite o anche lecite, se isolatamente considerate), sistematicamente e durevolmente dirette contro il dipendente;

b) l'evento dannoso;

c) il nesso di causalità tra la condotta e il danno;

d) la prova dell'elemento soggettivo.

Al fine di accreditare un'ipotesi di mobbing non è dunque sufficiente che l'interessato sia stato oggetto di trasferimenti di sede, di mutamenti delle mansioni assegnate, di richiami, sanzioni disciplinari od altro fatto soggettivamente avvertito come ingiusto e dannoso, ma occorre che tali vicende, oltre che essersi ripetute per un apprezzabile lasso di tempo, siano anche legate da un preciso intento del datore di lavoro diretto a vessare e perseguitare il dipendente con lo scopo di demolirne la personalità e la professionalità, il che deve essere poi dimostrato in giudizio secondo l'ordinaria regola dell'onere della prova che governa la richiesta di accertamento dei diritti soggettivi, non essendo sufficiente la mera, soggettiva percezione da parte dell'interessato, che abbia su tale scorta maturato un proprio radicato convincimento personale quanto alla "congiura" ordita dal datore di lavoro ai suoi danni.

(fonte: Altalex, 15 ottobre 2009. Nota di Rocchina Staiano)

 

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